SADUK

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LA SCALATA

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Il vento era forte sul fianco della montagna. La parete che il ragazzo stava scalando era impegnativa. Novecento metri di dislivello, e novecentocinquanta di sviluppo. La roccia composta di solido granito. Chi non è mai stato tra i monti, pensa che basti una grande forza per scalare, ma non è così. La forza è importante, certo, ma è solo una delle qualità che occorrono a chi vuole misurare, sfidare i propri limiti contro la montagna. L’equilibrio, bilanciare bene il corpo, avere una presa sicura: ecco che cosa è importante. Il vento sferza il corpo, i muscoli si contraggono, le dita cercano la presa, affondano negli appigli che la roccia offre. Non era la prima volta che affrontava quella parete. Quel giorno però, qualcosa era cambiato. Diversa era la meta, più dura la prova. Non si sarebbe fermato, non si sarebbe arreso. Conosceva le difficoltà dell’impresa.

Molte volte era stato costretto a rinunciare alla scalata del diedro. Oggi, ne era certo, l’avrebbe conquistato. Aveva scelto con cura il percorso: dall’attacco posto a quota mille metri, aveva seguito la via fino all’inizio della parete sud. Una volta superata la parete, si arrivava ad una cengia. Da lì si sarebbe cimentato con la scalata di un diedro, per poi raggiungere un terrazzino. Ora si preparava a superare una placca. Il passaggio era di grado VI+, gli appigli erano pochi e distanti. La roccia liscia e compatta non gli dava alternative.

"E’ la montagna a scegliere la via", pensò.

Esplorò la roccia con i polpastrelli, le dita si assicurarono la presa. Controllò gli appoggi per i piedi. Il ragazzo aderì alla roccia, si raccolse, scattò verso l’alto e afferrò un appiglio. Ora l’intero peso del corpo era retto dalle sole dita della mano. Con l’altra mano strinse la presa sull’appiglio. Decise di utilizzare il passaggio mano-piede. Si rannicchiò su se stesso, distese le braccia e portò le gambe alla stessa altezza. Si tirò su spostando il peso del corpo prima su di una gamba, e poi sull’altra. Esplorò la superficie della roccia alla ricerca di un appiglio. Eccolo, appena più in alto vi era una spaccatura della roccia. Non era facile arrivarci, si distese, stirò il proprio corpo fino al limite, lo sforzo gli fece male. Strinse con decisione la presa, alle sue forti dita appese la vita. Fidando in quell’unico appiglio si lanciò verso l’alto, portò su il corpo, i piedi aderirono alla nuda roccia e lo sostennero. La spaccatura era poco profonda, non doveva perdere tempo, era necessario trovare un altro appiglio in fretta. Notò una crepa alla sua destra. Era troppo lontana per poterla raggiungere da dove si trovava. Era di fronte ad una scelta. Passarono interminabili secondi, infine prese la sua decisione. Se qualcuno avesse potuto osservare in quel momento il volto del giovane, avrebbe notato la sua profonda concentrazione. Ma il ragazzo era solo e nessuno lo vide. I muscoli si tesero, si raccolse e spiccò un balzo, attraversando il vuoto per un brevissimo istante. Afferrò l’appiglio e lo strinse con forza, portò anche l’altra mano sulla presa e si tirò su. L’ostacolo era quasi superato, con un ultimo sforzo si distese ancora una volta, fino a raggiungere un piccolo ed insidioso foro nella roccia: non vi era posto che per due dita. Si appese alle dita, tirò a se il braccio e salì in alto. Strinse la presa sul bordo della placca e decise di sfruttarlo, agganciandolo con il tallone; compì un volteggio e grazie all’agile movimento superò la placca .Secondo i suoi calcoli non mancavano che venticinque metri alla cengia.

Una riflessione si presentò alla sua mente: "Così come la logica, anche il percorso in parete è obbligato". Lasciò il pensiero libero di vagare senza meta. Erano ormai passati due giorni da quando si era allontanato da casa. Sapeva che quando vi avrebbe fatto ritorno, suo padre avrebbe contestato la logica delle sue azioni. Sua madre avrebbe, nel silenzio, velato la comprensione che in lei mai mancava. Sempre era sorpreso dalla capacità della madre di capire, senza farglielo pesare. Forse era una qualità del popolo di lei. Costrinse la mente ad allontanarsi da questi pensieri: gli era stato insegnato che il pensiero non doveva mai vagare senza controllo. Si ricordò le parole del suo maestro: "Solo con la disciplina potrai guidare il pensiero nella logica". Allora la montagna con la sua realtà tornò di nuovo a manifestarsi.

Tese il braccio, afferrò l’appiglio. Udì un rumore secco, l’appiglio cedette e i piedi scivolarono dall’appoggio. La roccia si sgretolò, provocando una caduta di sassi. Il ragazzo si trovò appeso solo con il braccio destro. Le dita, sicure della presa, l’avevano salvato. L’abisso sotto di lui sembrò inghiottire i sassi franati.

Era solo di fronte al baratro. Sentì un oppressione crescente in petto, il respiro divenne affannoso. Ebbe come la sensazione che il peso del suo corpo aumentasse sempre più, come se volesse trascinarlo giù in fondo. Provò smarrimento, qualcosa gli impediva di muoversi, una parte di lui voleva convincerlo a mollare la presa, ad abbandonarsi all’inevitabile. Che gli succedeva? Non poteva rinunciare ora, doveva reagire. Prese un lungo respiro ed espirò lentamente, praticando la respirazione ventrale: memore dell’antica pratica di meditazione appresa fin da piccolo. Tornò ad essere di nuovo concentrato.

Tese i muscoli ben allenati del braccio, pose il piede in appoggio laterale, si tirò su. Metro per metro riprese ad avanzare sulla roccia. Sopra di lui vi era un tetto sporgente: l’ostacolo più difficile che doveva affrontare prima di raggiungere il diedro. Con la sola forza delle braccia per avanzare, affidando il peso del corpo alle mani, attaccò il tetto, insinuò le dita in una crepa e strinse la presa. Serrò la presa sull’appiglio e avanzò, lo sforzo necessario per proseguire era grande, ogni centimetro in più che lo avvicinava al superamento dell’ostacolo, era una conquista. Utilizzò un appiglio alla sua sinistra, vi si appese e si distese fino a raggiungere un profondo taglio nella roccia, vi affondò le dita e si portò al bordo del tetto. La parte più difficile è il momento del passaggio dal tetto alla parte verticale, l’appiglio in parete è lontano, doveva cercare di coprire la distanza con un salto. Si concentrò, sentì tendersi i muscoli del corpo, si rannicchiò e spiccò un balzo nel vuoto, per un brevissimo momento provò la sensazione di essere sospeso tra la vita e la morte. Afferrò la presa, era di nuovo sulla parete.

La roccia in quel punto era rotta da una larga fessura, ne approfittò per usare la tecnica di incastro mano-gomito. Con il braccio e la gamba liberi, cercò la presa all’esterno della parete. Proseguì velocemente l’arrampicata. Risalire con quella tecnica era molto faticoso. La rapidità era necessaria per evitare di stancarsi troppo, e la stanchezza è il nemico di ogni scalatore. Continuò la progressione per alcuni metri, finche la fessura non si restrinse, così uscì in opposizione sulla parete. Giunse dove si trovava la cengia, sfruttò un appiglio rovescio e vi salì su. Di fronte a lui l’ultima sfida che quel giorno l’attendeva. Osservò il diedro che tante volte aveva ammirato da lontano. Le due pareti erano lisce e levigate. Il ragazzo cominciò ad arrampicarsi: le dita si tuffarono nella fessura, vi si strinsero attorno, le gambe assunsero la posizione in spaccata. Usando la presa sul bordo della fessura, spinse con forza sul braccio sinistro, spostando il peso corporeo in modo da poter liberare la gamba e sollevarla. Il movimento doveva essere continuo e regolare. La concentrazione è importante, bisogna sentire la roccia. Il prezzo da pagare per un errore, è spesso il più alto. Nessuna sicurezza, se non la sua abilità, aveva voluto lo sorreggesse. T’Pau avrebbe considerato irragionevole ed illogico il rischio che correva. Qualche volta aveva provato a pensare insieme la montagna e la vecchia matriarca, entrambe irraggiungibili: non ci era mai riuscito. Così come due corpi non possono occupare contemporaneamente lo stesso spazio, nei suoi pensieri non c’era posto per entrambe.

Il tatto gli rilevava la presenza della montagna, la superficie liscia e levigata della roccia era il segno, il disegno tracciato dal vento nei secoli.

T’Pau aveva già le rughe quando lui l’aveva vista per la prima volta. Non sapeva quanti anni avesse, allora l’età era un mistero per lui, ma vedeva nell’esperienza riflessa nel suo viso, la forza della sua presenza. Il tempo, che aveva segnato il volto della vecchia vulcaniana, aveva modellato la parete che ora scalava. Eppure sembrava che la montagna non avesse età. Ancora una volta gli accadeva di rincorrere i propri pensieri. Come se l’esperienza della montagna gli suggerisse un altro senso dei suoi ricordi, o ne aggiungesse uno nuovo. "Interessante associazione di idee", pensò e si chiese quale ne fosse la causa. Qualcosa gli stava sfuggendo? Forse non c’era risposta? No, la logica non ammette domande senza soluzione. Proseguì alla ricerca della sua solitaria meta.

Era sicuro delle sue possibilità. La fatica era sotto controllo, si era sempre tenuto sotto i suoi limiti, solo in qualche passaggio li aveva sfidati. Salendo, trovò un punto dove la fessura era ostruita da sassi. Le pareti del diedro, lisce e quasi del tutto prive di appigli e appoggi, gli offrivano la sfida che cercava. Aprì le braccia e bilanciando il proprio peso, si sollevò, abbandonò la fessura e opponendosi con le gambe si spinse in alto. Le gambe avevano il compito di portare il maggior carico. La spinta che esercitava sulle pareti gli permetteva di continuare l’ascensione in aderenza.

Aveva desiderato e preparato questo momento. Per ogni metro che conquistava, aumentava la consapevolezza che con le sole proprie forze sarebbe asceso fino alla meta, là dove avrebbe goduto della vista della vetta. La cima era ovviamente oltre le sue possibilità; forse non sarebbe stato così in futuro. Oggi non poteva perdere di vista i propri limiti, né mai gli era passato per la mente.

La vista del terrazzino sembrò alleggerirlo dalla fatica. Divenne più veloce. Non mancavano che pochi metri alla meta. Un rumore cupo e secco violò minaccioso l’aria silenziosa dei monti. Guardò in alto. Una frana! Il tempo fermò la sua corsa giusto un istante: l’istante in cui il giovane vulcaniano riconobbe il pericolo. Fu solo un momento. Tutto accadde in fretta. Era allo scoperto, non c’era riparo dai grossi sassi. Decise di cercare di scansarli. Si appiattì contro la parete sinistra del diedro. Alzò lo sguardo, un sasso gli sfrecciò accanto, mancandolo di poco. Un altro sfiorò la sua spalla, colpì la parete e rimbalzò perdendosi nel vuoto sotto di lui. Schivò un sasso piegando la testa di lato. Piovevano sassi da tutte le parti. Intorno a lui il suono assordante della frana crebbe, inghiottì il silenzio, per poi spegnersi. Era tutto finito. Sentì il proprio corpo contro la parete, sembrava non avesse riportato danni. Solo allora sentì un bruciore proprio alla tempia. Portò la mano alla testa, sentì al tatto un liquido caldo. Vide che era sangue: probabilmente era stato colpito da una scheggia. Distratto dal pericolo, non aveva sentito subito il dolore. Non si preoccupò, la ferita era superficiale, e dopotutto era vivo. Riprese a salire con un buon ritmo. In poco tempo coprì i pochi metri che gli mancavano per raggiungere la meta. Giunse al terrazzino, usò la tecnica mano-piede, e vi sali su. Era arrivato! Il corpo, percorso dalla stanchezza, cedette quasi con dolcezza alla fatica. Si sedette e osservò intorno. L’ampio panorama si rivelò ai suoi occhi: l’orizzonte, infiammato dalla luce di Eridani 40; il grande deserto di Vulcano, padre quasi quanto e più del mare dove i suoi antichi progenitori vennero alla vita; la montagna, solitaria come un isola nel mare del deserto. Per ultima osservò la cima. Si alzò, aprì le braccia e le protese verso la vetta. Stette così per lunghi secondi, finche non lasciò ricadere le braccia sui fianchi. Aveva conquistato il suo obiettivo, era scampato ad una frana, provato le sue capacità, vinto la sua sfida. Eppure ancora non riusciva a distogliere lo sguardo dalla cima, così vicina, ma sempre irraggiungibile. Un pensiero si fece largo nella sua mente: il desiderio della conquista l’aveva spinto fin lì, in quel luogo solitario. Come sembrava lontano l’esempio dei suoi maestri, lontana la casa paterna e la vecchia T’Pau! La ricerca di un luogo dove meditare, dove mettere alla prova la sua abilità, l’aveva portato qui. O forse no? Qualcosa ancora gli sfuggiva? Era la vetta che inseguiva, o forse desiderava la sfida più della conquista? La ragione avrebbe respinto quest’ultima possibilità, ma riconobbe che un senso profondo era nascosto in quella domanda. Sempre aveva cercato quel senso, almeno fin da quando scoprì e riconobbe la propria diversità. La scalata era per sé, non solo per provare i suoi limiti. Qui, ora, in questo luogo, si rese conto che la risposta a lungo cercata era in se stesso, nel desiderio che l’aveva accompagnato nella scalata. Riemerse dal passato un ricordo. Rammentò come prima di lui, suo fratello Sybok spesso cercasse la solitudine in montagna. Trovò il senso che il ricordo celava. Capì che forse desiderare era più importante che possedere. Rimase ad osservare ancora a lungo, quasi assorto, la vetta.

Ideato e scritto dal guardiamarina Giuseppe Ruiu 4094-A

Appendice

Scala Welzenbach (Applicata nei passaggi)

I =Primo grado: è la forma di arrampicata più semplice, bisogna scegliere l’appoggio per i piedi e le mani utilizzando frequentemente gli appigli per mantenere l’equilibrio.
II = Secondo grado: si richiede lo spostamento di un arto per volta ed una corretta impostazione dei movimenti. Appigli e appoggi abbondanti.
III = Terzo grado: la struttura rocciosa, già più ripida o addirittura verticale, offre appigli e appoggi più rari è può già richiedere l’uso della forza.
IV = Quarto grado: appigli e appoggi diventano ancora più rari e/o esigui. Richiede una buna tecnica di arrampicata applicata alle varie strutture rocciose (camini, fessure, spigoli) e un allenamento specifico.
V = Quinto grado: appigli e appoggi sono decisamente rari ed esigui. L’arrampicata diviene delicata (placche, ecc) o faticosa (per l’opposizione o l’incastro in fessure e camini). Richiede l’esame preventivo del passaggio.
VI = Sesto grado: appigli e/o appoggi sono esigui e disposti in modo da richiedere una combinazione particolare di movimenti ben studiati. La struttura rocciosa può costringere ad una arrampicata delicatissima, oppure decisamente faticosa e strapiombante. E’ necessario un allenamento speciale e forza notevole nelle braccia e nelle mani.
VII = Settimo grado: sono presenti appigli e/o appoggi minimi molto distanziati. Richiede un allenamento sofisticato con particolare sviluppo della forza delle dita, delle doti di equilibrio e delle tecniche di aderenza.

Ogni grado può avere una ulteriore suddivisione in inferiore (-) o superiore (+)

Corrispondenza tra la scala francese e quella Welzenbach

4 = IV
4+ / 5 = V
5+ /6 a = VI
6 b + = VII
7 a + / 7 b = VIII
7 c + = IX
8 b = X

Diedro: Due pareti che si incontrano fra loro formando un angolo.
Via: Itinerario seguito per giungere in vetta
Cengia: stretta sporgenza della roccia che si sviluppa in senso orizzontale.
Terrazzino: Risalto di roccia, ideale punto di sosta.
Placca: Tratto levigato di roccia tipico del granito.
Tetto: Tratto levigato di roccia tipico del granito.
Tecnica di incastro: La tecnica di incastro consiste nell'inserire  dentro una fessura un braccio, una mano, un piede, il pugno o la punta delle dita. Si sfrutta così la presa ottenuta per proseguire l'ascesa.
Spaccata: Opposizione a gambe larghe sfruttata per risalire diedri e camini (Struttura rocciosa con pareti opposte e parallele). 

 
I LAVORI DEGLI ALTRI
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