Se non fosse per
le lievissime increspature della superficie che frusciando si infrangono sulla
sua sponda sassosa sul lago regnerebbe il più profondo silenzio. Verso
le quattro di una notte di luna nuova, come succede generalmente in questa stagione,
non soffia più un alito di vento, e il lago sembra incantato. In quella
atmosfera sepolcrale si può scorgere, ma soltanto guardando molto, molto
attentamente, il luccichio emesso da due minuscoli occhietti che dalla riva
fissano immobili il filo l'acqua.
Il pescatore sta immobile da almeno un'ora seduto sul suo sgabellino con la
schiena appoggiata al palo del cartello che segnala il divieto di pesca e ormai
ha rallentato la respirazione e il battito cardiaco a tal punto che sembra essersi
fossilizzato. Malgrado l'immobilità esteriore del corpo la sua mente
elabora freneticamente le miriadi di misurazioni ambientali effettuate con i
suoi "sensori" e le confronta immediatamente con i dati memorizzati
in quasi dieci anni di appostamenti notturni. Il pollice del piede sinistro
sfiora l'acqua sulla riva. Otto gradi. La pianta e il tallone dello stesso piede
tastano la sabbia del bagnasciuga in due punti di rilevamento vicini per ottenere
una elaborazione più accurata. Tra otto gradi e otto gradi e mezzo. La
pianta del destro poggia sull'erba per rilevarne l'umidità, mentre il
collo nudo di quel piede serve per quantificare la vitalità e l'umore
delle formiche che quella notte marciavano di lì. Dell'importanza di
quest'ultimo dato non si era ancora convinto del tutto, però rimaneva
il fatto nelle notti in cui le formiche sembravano meno attive del solito non
c'era speranza di avvistare la sua preda. In quelle notti sembrava come se qualche
influsso particolare turbasse l'equilibrio di quell'ecosistema. Adesso invece
i peli del petto scoperto non segnalano la presenza di venti rilevanti. Il moccolo
che pende dalla narice non occlusa è di lunghezza proporzionale alla
temperatura dell'aria: ogni millimetro più su o giù del labbro
superiore corrisponde a una tacca sopra o sotto i dodici gradi. Questa sera
sono quindici. Il dente che si era fatto incapsulare appositamente duole abbastanza
da fargli capire che la pressione atmosferica è alta, non troppo alta
però visto che altrimenti percepirebbe il solito lamento scricchiolante
del ginocchio artritico. In un attimo di rilassamento ricorda quanta fatica
gli sia costato beccarsi quell'artrite, ma pensare ad altro era un lusso che
in quel momento non doveva permettersi, ogni istante avrebbe potuto essere quello
buono. Non è mai stato tutto così perfetto. Pressione, umidità,
temperatura (acqua, sabbia, aria), vento, oscurità, assenza di odori
e vitalità delle formiche, tutto, tutto perfetto come mai prima d'ora.
Anche questa volta avrebbe abboccato al suo amo, ne è certo. Il 131 "ombrellino".
Il momento di agire sta per giungere. In un meno di un secondo avrebbe alzato
il braccio sinistro aprendo la mano in modo da lasciare cadere il 131 ombrellino
che avrebbe teso la lenza assicurata saldamente all'indice della mano sinistra.
L'indice della mano sinistra, il dito artificiale, quello che il maledetto pesce
gli aveva mozzato con un morso dieci anni prima, quello era il dito che avrebbe
dovuto dargli la morte. Questa volta era fissato bene però e quel diavolo
ittico non se lo sarebbe portato un'altra volta in fondo al lago con uno strattone
della lenza. Di lì a poco avrebbe fatto vorticare la lenza tesa in senso
orario e al termine della terza rotazione avrebbe scagliato l'ombrellino dritto
in bocca al pesce che, se le condizioni ambientali non fossero mutate improvvisamente,
sarebbe affiorato in superficie per divorare le mosche artificiali che il pescatore
teneva sospese a mezzo metro dall'acqua con dei fili di nylon legati a delle
lunghe canne. E l'ombrellino non lascia scampo. Questo non è solo uno
dei tanti ami che aveva realizzato appositamente per pescare quel maledetto,
è l'amo definitivo. Ecco perché gli aveva dato un nome proprio,
non è solo il 131 ma "l'ombrellino". Ombrellino perché
in effetti di questo si tratta, di una serie di piccoli ami affilati come rasoi
disposti appunto secondo la struttura di un ombrello. Una volta entrato in bocca
la più lieve reazione del pesce o trazione del pescatore sulla lenza
avrebbero disteso gli ami raccolti "aprendo" l'ombrellino, nome molto
carino per un oggetto così diabolico. Di fatto era impossibile che il
pesce riuscisse a divincolarsi o a rompere l'amo per la centotrentunesima volta.
Aveva studiato tutto alla perfezione, perché con questo sono dieci anni
di caccia e appostamenti, e perché comunque sarebbe andata, questo sarebbe
stato l'ultimo tentativo. L'aveva lasciato la moglie, aveva perso il posto di
lavoro. Tutto per quel pesce. Non sapeva neanche a che razza appartenesse, o
meglio aveva un'idea, ma era praticamente impossibile che si trattasse di un
esemplare di quella specie. Dagli studi che aveva effettuato, dagli schizzi
del pesce che aveva realizzato, era riuscito a risalire alla specie dei pesci
cipriniformi, appartenenti al genere dei caracidi, e più precisamente
pensava che quel demonio fosse un Hydrocinus Lineatus (conosciuto anche come
pesce tigre minore). La sua ipotesi in effetti era poco plausibile visto che
quel pesce vive soltanto in Africa e oltretutto non è neanche carnivoro,
e il suo dito mozzato invece provava il contrario. Forse era un esperimento
genetico. Una volta, oltre dieci anni prima, vennero dei misteriosi ricercatori
americani a studiare quel lago. Non dissero cosa stavano studiando ma probabilmente
dovevano trovare qualcosa di importante visto che scandagliarono per giorni
il fondale del lago con i loro strani mezzi subacquei. Poco tempo dopo che se
ne andarono il sindaco venne ad affiggere il cartello di divieto di pesca e
nell'infilarlo nel terreno scivolò nel lago ghiacciato morendo assiderato.
Forse era un esperimento genetico importante o qualcosa del genere, forse sapeva
troppo. Il pescatore però se n'era sempre fregato del divieto e continuava
a cibarsi dei pesci sgorbio, non c'è altro modo di definirli, che abboccavano
ai suoi ami anche dopo che si accorse che i suoi occhi riuscivano a vedere nel
buio più totale. Del fatto che brillassero di luce propria invece non
si era mai reso conto.
Ad un tratto la superficie del lago viene tagliata in due da una pinna dorsale
di tre o quattro centimetri. Eccolo, l'odore è inconfondibile. Pochi
secondi e sarebbe saltato fuori dall'acqua spalancando le fauci per sbranare
le mosche della trappola. Quello sarebbe stato l'istante giusto. Si crea una
depressione sulla superficie dell'acqua, stava per saltare. Le pulsazioni del
pescatore passano immediatamente da venti a duecentosessanta al minuto facendogli
esplodere un capillare nel naso. Scatta in piedi. Il pesce si accorge che il
suo nemico è pronto per attaccarlo ma ormai è troppo tardi, si
trova a mezz'aria con le fauci spalancate. Il pescatore uno, due, tre e fionda
l'ombrellino diritto sparato nella bocca del pesce. Il pesce chiude la bocca,
l'ombrellino si apre, è fatta. Ricaduto in acqua quel demonio inizia
a tirare la lenza, ma il dito questa volta regge. Anche il pescatore tira, ma
senza fretta. Nel frattempo si lecca con sadica lentezza il sangue che gli cola
dal naso come per preparare il palato ad un ben più cruento boccone.
Un banchetto agognato per anni. L'aveva catturato e non aveva più scampo.
Con uno strattone lo tira fuori dall'acqua. Si agita come un demonio, perché
dopo tutto era un demonio. Prima che smetta di dimenarsi passano parecchi minuti
durante i quali il pescatore prefigura la scena del banchetto che lo aspetta.
Lo avrebbe squartato e cucinato in mille modi diversi. All'improvviso però
si ricorda che quel pesce gli aveva portato via un dito, che si era nutrito
della sua carne, e si sente come impazzire. Vede, anzi rivive la scena della
mano insanguinata, risente il dolore, percepisce le pompate del cuore che fanno
schizzare il sangue dallo squarcio. Il pesce adesso è lì, impotente,
ma lo fissa, con disprezzo, perché gli ha portato via un dito, e la moglie,
il lavoro, la vita. Il pescatore strappa l'amo dalla bocca del pesce e pronuncia
le sue prime parole dopo dieci anni di patologico silenzio: "Mi vorresti
vedere morto vero? Bastardo, ridammi il mio dito...". Con inesorabile ritualità
si avventa sul suo nemico e assapora il crudo gusto della vendetta. Lì,
subito, senza aspettare nient'altro.
Il sole sta tramontando proprio in questo momento. La luce all'orizzonte illumina
l'alta statua del Cavaliere Errante che si vede in lontananza. Mentre si indirizza
verso casa il pescatore sente che gli sta venendo una forte nausea, comincia
anche a girargli la testa e ad annebbiarglisi la vista. Si sentono degli strani
rumori, forti, fortissimi, vengono da vicino, ma il pescatore non capisce nulla
di quello che sta succedendo lì intorno. Ad un tratto inciampa su qualcosa.
Guarda per terra e vede che si tratta di un uomo a pancia in giù con
una strana divisa arancione. Quell'uomo si sta lamentando sommessamente, e per
terra intorno alla sua testa c'è una pozza di sangue. Il pescatore gira
il ragazzo e vede che qualcosa come una lunga bacchetta di vetro gli ha trapassato
l'occhio. A questa scena il pescatore non riesce più a trattenere i conati
di vomito. Dopo le prime sboccate comincia a sputare sangue e si accascia sulle
ginocchia. Dalla sua bocca, immerse in una zuppa di sangue, vengono espulse
convulsivamente le pinne, le squame, le interiora molliccie e infine la testa
intera di un grosso pesce. C'è poi qualcosa... ossa di un dito.