Il Tai Chi è un'antica arte marziale cinese che mette chi la pratica
in condizione di percepire il principio primordiale che regola l'universo, di
prendere dalla natura l'energia che sta alla base della vita di ogni creatura.
Non c'è momento migliore per praticare il Tai Chi dei minuti che precedono
l'alba. In questi momenti la verde natura sembra prendere il sopravvento sulle
grigie opere dell'uomo anche in luoghi come questo, la piazza al centro del
paese dominata dalla statua del Cavaliere Errante , dove di giorno il cemento
asfissia quel misero praticello di una decina di metri quadrati con il suo vecchio
e malandato albero sempreverde, una specie di pino. Di notte però ecco
che la natura torna a prendere il sopravvento: non passano macchine, i cantieri
sono fermi, i bambini non urlano per strada tutto è fermo. Tutto tace,
tutto tranne l'erba che cresce, le foglie che fregano tra loro, l'aria fresca
che frizza nelle narici. Basta solo l'idea di essere in mezzo a un luogo solitamente
così rumoroso e adesso così idilliaco per sentirsi partecipe di
qualcosa di speciale, di universale. Giada questo lo sapeva bene e proprio di
notte, o meglio pochi minuti prima dell'alba, usciva di casa, attraversava la
strada che separava il suo portone dal piccolo praticello della piazza e iniziava
a praticare il Tai Chi. Prima effettuava qualche tecnica di riscaldamento, poi
alcune forme e movimenti più complessi e infine si metteva nella posizione
fondamentale del Tai Chi, quella nota col nome di posizione dell'albero. In
questa posizione è riassunta l'essenza stessa del Tai Chi: per spiegare
come effettuarla i grandi maestri dicono di aprire le gambe piegando le ginocchia
come se si stesse cavalcando un cavallo, di disporre le braccia come per abbracciare
un grosso albero e di tenere la testa, la schiena e il sedere in linea come
se si stesse seduti su una sedia con la testa appesa ad un filo. Perché
la posizione dia degli effetti sensibili e non si limiti a far venire il mal
di gambe occorre rimanere molto rilassati, perfettamente in silenzio, effettuare
una respirazione speciale e rimanere immobili per almeno mezz'ora. Chi come
Giada ha praticato questa forma di meditazione sa benissimo quali benefici se
ne possano trarre, ma per chi non ha mai sentito parlare di Tai Chi guardare
una persona rimanere immobile per tanto tempo in posizione da semi turca è
un'esperienza sconcertante. Ecco appunto perché ci andava la notte, non
tanto perché la gente non pensasse che era pazza, quanto per non turbarli.
Giada sapeva che l'ignoranza di quei paesanotti non si poteva sconfiggere neanche
con il Tai Chi, e comunque a quell'ora ci si concentra meglio. Sul prato a piedi
nudi, con addosso solo l'abito cinese di seta portatole dal padre da uno dei
suoi viaggi, anche questa notte comincia il rito della sua illuminazione personale.
I polsi, le anche, la colonna vertebrale, le caviglie, le mani. L'energia scorreva
liberamente seguendo il flusso dei millenari movimenti del Tai Chi, e nel suo
incedere lento e inarrestabile rimuoveva tensioni, preoccupazioni e sentimenti
per mettere a nudo l'essenza del tutto. "Come una continua eruzione lavica
il magma incenerisce tutto, ciò che rimane è l'universo, cioè
noi, cioè niente" sagge parole di un saggio maestro, frasi che Giada
ricordava quando si apprestava a disporsi nella posizione dell'albero, l'ultimo
pensiero prima di concentrarsi sull'idea di essere come un albero. Di essere
un albero. Di essere l'albero. La natura. L'universo. Di non essere affatto...
nulla. Solo i primi raggi del sole, colpendo la sua testa, l'avrebbero risvegliata
dal suo trans ascetico per riportarla nella triste, crudele realtà quotidiana.
11 aprile, ore
cinque. Giada indossa il vestito di seta, apre la porta, attraversa la strada,
si toglie le scarpe e posa i piedi nudi sull'erba fredda. Nel silenzio totale
della civiltà addormentata inizia i primi esercizi. Passa alle forme,
ripete le tecniche concentrandosi sul rallentamento del battito cardiaco e sulla
respirazione. Con gli occhi socchiusi, la lingua sul palato, le braccia che
circondano il tronco del vecchio albero, le ginocchia piegate come se cavalcasse
e...
È silenzio. È il nulla. La concentrazione è la più
totale. Sono come un albero... sono parte dell'albero... sono l'albero... sono
la natura... sono tutto. Sono il nulla. Quando Giada raggiungeva questo stadio
della sua meditazione non riusciva a percepire ne rumori, ne luci, niente. Ecco
perché proprio mentre il sole era lì per sbucare e i primi suoi
raggi stavano quasi per accarezzarle la fronte e ricondurla nel suo infelice
stato terreno non si accorge che una grande, pesantissima valigia di metallo
satinato le precipita accanto ai piedi e si apre emettendo una strana calda
luce. A mano a mano che i raggi del sole la riconducono nel suo corpo umano
Giada sente un calore sempre più intenso vicino ai suoi piedi. Invece
di riprendere lentamente coscienza come accadeva solitamente sente che il suo
corpo fa sempre più parte dell'albero, e che anche se non vuole più
essere parte dell'albero ormai non riesce più a staccarsene. La sua pelle
si indurisce, il suo volto si fonde con la corteccia del vecchio albero. I piedi
sprofondano nel terreno molle, si sciolgono sull'erba e diventano più
duri, sempre più duri e filamentosi, si snodano come radici. L'ultimo
pensiero prima di ricongiungersi col tutto dell'universo è: sono un albero.
Sono l'albero. Questa volta davvero. Per sempre.
Pochi secondi dopo
due uomini con dei pesanti vestiti inchiodano la vicino la loro motocicletta
nera che fino a pochi secondi prima sfrecciava a velocità inaudita. Uno
dei due uomini si infila dei voluminosi guanti neri, scende senza togliersi
il casco, afferra la valigetta di metallo nero e scompaiono in quella che fino
a pochi secondi prima poteva dirsi la nera e oscura notte.