CONSIDERAZIONI SUL MONDO
TARDOANTICO
Premessa
Da tempo la storiografia identifica i secoli che vanno dal III d.c. al V-VI d.c. col nome di tardo antico, un periodo di radicali cambiamenti per il mondo occidentale.
Nella storiografia, che ha cominciato a occuparsi di questo periodo in maniera approfondita con l’opera dell’inglese Edward Gibbon, è andata affermandosi una visione apocalittica degli eventi che causarono il tracollo dell’impero romano, questa visione della “fine del mondo” antico però ha distorto l’attenzione da quella che è la realtà dei fatti di questa epoca.
Due destini per la
stessa civiltà
L’impero romano comincia il suo lungo declino nel corso della metà del III secolo d.C. , la spinta dei barbari sul limes e le loro penetrazioni nel territorio romano cominciano a trasformare la civiltà romana, essa sembra incapace di reagire alla sua decadenza se non passivamente. Vengono inasprite la centralizzazione e la burocratizzazione nel tentativo di mobilitare tutte le forze disponibili per resistere al declino.
Grazie all’opera di Diocleziano (284-305) e Costantino (306-337) l’impero parve trovare una soluzione ai suoi problemi, Costantino soprattutto fu l’ultimo imperatore che provò a innovare la struttura dell’impero, introducendo una connessione forte fra il potere politico e la religione cristiana, una scelta che influenzò profondamente tutta la storia occidentale.
Tuttavia l’opera di questi due statisti rimase vana e l’impero proseguì inarrestabile la sua decadenza; il disastro ormai era compiuto, le tappe furono la divisione dell’impero in due parti (395) e il sacco di Roma da parte dei visigoti (410); quest’ultimo evento fu vissuto come una vera e propria apocalisse dai contemporanei; infine il 476 anno della deposizione dell’ultimo imperatore d’occidente.
Il primo fatto che dobbiamo portare all’attenzione del lettore è che la crisi del mondo romano non fu una crisi assoluta di tutto il sistema di vita, di pensiero e economico che la civiltà classica aveva elaborato. Infatti se nel corso del V-VI secolo in Italia, Gallia e Spagna i caratteri generali della civiltà romana (unità politica, artigianato, circolazione monetaria) sembrano scomparire, mentre le città decadono e Roma stessa da capitale con un milione di abitanti si trasforma in un borgo di poche decine di migliaia, la civiltà romana mantiene la sua ossatura pressoché intatta in oriente.
Qui Costantinopoli assume il ruolo di “seconda Roma” e l’impero che governa, il futuro impero bizantino, si considera l’unico legittimo erede di quello romano. I suoi stili di vita, i suoi codici legislativi e la sua struttura politica sono romani, i cittadini stessi di questo “oriente” si definiscono romani, anche se la gran parte di essi parla il greco.
Da Edward Gibbon in poi gli storici non hanno smesso di cercare di capire quali siano state le cause del collasso di una struttura monarchica universale come quella dell’impero romano. Si cercò dapprima una giustifica nelle invasioni barbariche, che avrebbero stroncato un impero nel pieno della sua salute.
Continuità, decadenza
o collasso? Le cause della fine del mondo classico
L’analisi dei fatti portò poi gli storici a occuparsi a causa di quale motivazione sia decaduto, ma quali trasformazioni nel periodo tardo antico ne abbiano cambiato la struttura fino a causarne il collasso, questo portò storici come Pirenne ad ipotizzare un passaggio lento e indolore fra il mondo romano e l’alto medioevo prolungando l’agonia della classicità fino alla grande espansione araba.
Questa ipotesi tuttavia viene facilmente smentita dalle testimonianze dell’epoca, quella del pontefice Gregorio Magno (590-603) innanzitutto, che ci trasmettono il ritratto di un mondo estremamente diverso da quello dell’impero di Adriano o Antonino Pio.
Ciò portò due storici attraverso le loro opere, parliamo di M. Rostovcev e F.W. Walbank, a cercare una risposta alla seguente domanda: Perché la civiltà moderna dovette costruirsi come qualcosa di nuovo sulle rovine dell’antica, invece di essere la sua continuazione?
Purtroppo entrambi questi storici non trovarono risposte soddisfacenti a questa domanda, il primo si lasciò pilotare da letture ideologiche sullo sfondo della rivoluzione russa e il secondo lasciò la questione in sospeso.
Tuttavia questa domanda nasceva dalla convinzione che
l’economia romana avesse raggiunto uno sviluppo tale da consentirle quel
decollo che poi si ebbe effettivamente solo nel corso del XVIII secolo con la
rivoluzione industriale.
In realtà vi erano una serie di sostanziali differenze fra l’economia tardo-romana e quella dell’Europa pre-industriale. Nonostante una serie di punti in comune indiscutibili (città, navigazione commerciale, divisione del lavoro) il mondo romano non ebbe mai alcuna struttura finanziaria o mercantile simile a quella del mondo moderno; ciò era dovuto in larga parte alla stessa struttura sociale dell’antichità, la quale basa la propria produttività sul lavoro schiavistico e non sulla capacità di innovare, quest’ultima caratteristica tipica del mondo moderno e della rivoluzione industriale era invece estranea ai romani. A fermare il mondo romano fu quindi la sua struttura del lavoro schiavistico.
Esiste il dubbio se questo circolo vizioso della schiavitù potesse essere rotto, certamente nel corso del I secolo a.c. vi erano energie tali (grazie alla municipalizzazione dell’Italia) da poter permetter un cambiamento in senso anti-schiavistico dell’economia romana.
Questa evoluzione verso una diversa idea del lavoro venne tuttavia interrotta dall’ascesa del principato; il principato soffocò il dinamismo economico del mondo romano orientando la società mediterranea verso un modello aristocratico, in cui la rendita della tenuta schiavistica occupava il ruolo preminente nell’economia.
Il modello sopradetto finì con l’estendersi all’intero bacino del Mediterraneo, si venne così creando una mondializzazione economica romana, una situazione che però anziché essere figlia dei processi di integrazione economica era frutto dell’unità politica, difatti quando la seconda venne a mancare la prima cessò di esistere.
Le guerre, da sempre investimento dello stato romano, cessarono di avere scopo offensivo e si limitarono a difendere quello spazio unitario e romanizzato che era l’impero. Per uscire da questo stallo ben presto l’impero inziò un processo di trasformazione che anziché arrestarne il processo di decadenza ne accelerò la fine.
L’idea di una società in decadenza era ben percepita dagli intellettuali del tempo e fra l’altro divenne evidente negli scritti dei grandi letterati del III e IV secolo d.c. , i testi di questo periodo ci trasmettono l’idea di una società malata, vecchia e in stasi; la letteratura del periodo è intrisa dall’idea di una imminente apocalisse sulla civiltà, una civiltà che in tutti i modi cerca di preservare se stessa non riuscendo a innovare e quindi precludendosi così ogni possibilità di salvezza.
Nel tentativo di arginare la situazione lo stato tentò un opera di rafforzamento senza precedenti, innanzitutto si ebbe una progressiva militarizzazione dell’apparato statale, l’esercito composto da professionisti della guerra divenne tipico del tardo impero. A questo fece seguito un progressivo ingrandimento dell’apparato burocratico; mentre la repubblica e il primo impero erano caratterizzati dalla presenza di un apparato statale pressoché inesistente, lo stato romano a partire dal III secolo d.c. divenne una entità statalista-burocratizzata, l’intervento del governo nella vita economica si manifestava in maniera sempre più netta tramite provvedimenti volti ad indirizzare la produttività, la circolazione monetaria e le spinte inflazionistiche. Si creò così una nuova classe di burocrati parassiti, avidi di potere che accelerarono, anziché rallentare, la caduta dell’organismo imperiale.
Attraverso l’opera dei giuristi del II e III secolo si venne quindi designando la nuova forma dello stato romano: una monarchia assolutistica e universalistica, i cui caratteri erano il dirigismo economico, statalismo, controllo sociale e potere dell’esercito.
Il ruolo del
cristianesimo
Sempre in quest’epoca il cristianesimo cominciò ad avere diffusione di massa, il successo della dottrina cristiana era dovuto al suo fondersi perfettamente con lo spirito del tempo, uno spirito che vedeva nella ricerca di dio il fulcro di ogni esperienza interiore. Fino al II secolo d.c. cristianesimo e paganesimo non erano stati in contrasto, questo perché nessuna delle due religioni si era dotata di un corpus di dottrine unitario, tuttavia nel corso del III secolo d.c. la situazione mutò rapidamente perché il cristianesimo assumeva sempre più il carattere di una realtà rivoluzionaria intollerante nei confronti di qualunque alternativa. Nonostante le classi elevate dell’impero evitassero di avvicinarsi ad essa poiché la ritenevano una fede senza saggezza, questa prese piede in tutti gli strati della società poiché rappresentava una novità assoluta, fornendo quindi l'illusione della possibile uscita dalla stasi in cui il mondo si trovava. Con Costantino, il cristianesimo riuscì addirittura fondersi nella struttura del morente impero e a creare l’unità fra religione e politica che caratterizzò tutta la successiva età medioevale.
Altra eredità del cristianesimo di questo periodo fu la creazione di quel dualismo anima e corpo che divenne una delle componenti fondamentali della civiltà occidentale, vincendo la spiritualità del classicismo e elaborando una dottrina polare in cui il corpo e visto come la “moglie” (S. Agostino) dalla quale l’anima al termine della vita si libera per accedere ad una nuova realtà priva di costrizioni corporee. Questo nuovo metodo di concepire la vita diede slancio rivoluzionario al cristianesimo, decretandone il successo.
Il mediterraneo
Il mediterraneo ha sempre occupato un posto speciale nella classicità, da sempre mare che univa il mediterraneo dell’età classica è stato spesso visto come un mare occidentalizzato, una affermazione che poco ha a che fare con la verità. Nel mondo antico il Mediterraneo aveva il ruolo di cerniera del mondo: congiungeva il nord col sud e l’est con l’ovest.
Il punto di partenza di questa integrazione secondo Polibio fu dopo la prima guerra punica, secondo lo storico greco è a partire da questo momento che comincia un processo di unificazione che porta gli eventi di ciascuna regione di questo mare a dipendere da quelli delle altre.
Il culmine di questo processo fu l’età imperiale romana, il termine Mediterraneo nasce infatti solo verso la fine del III secolo quando Giulio Solino coniò l’espressione Mediterranea Maria per identificare la coinè culturale dell’impero romano.
Una coinè che seppure creata su uno stampo romano aveva assunto col tempo carattere unitario ereditato dalle varie culture che si affacciavano su questo mare, emblema di questa situazione era il bilinguismo greco-latino che caratterizzava l’impero.
Nel corso del IV secolo l’interdipendenza economica delle varie regioni del Mediterraneo cessò, iniziò così un lungo processo di trasformazione di questo mare in una barriera, ben presto alla divisione economica si uni quella politica, i regni romano barbarici e poi l’irruzione dell’islam completarono questo quadro di disgregazione.
Quale ruolo per l'Italia?
L’Italia si pone come punto di congiunzione fra la realtà classica e quella nuova del medioevo, fu forse una coincidenza se la civiltà medioevale e le prime forme del capitalismo presero piede proprio nella penisola che era stato il cuore dell’impero romano? In realtà a questo interrogativo non vi è risposta, poiché risulta troppo difficile associare le due realtà, quella dell’età classica e quella del comune.
La cosa certa invece è che la romanità ha lasciato due grandi eredità alla storia del nostro paese, la prima quella della città, vista come fulcro del territorio e della sua funzione politica come centro della vita pubblica. L’altra idea di cui siamo eredi e quella di Italia, la penisola come sistema di connessioni unito indissolubilmente e quindi come soggetto unitario.