Salta nella mia salsa di fagioli (Ettore e Le Primeur: Repriiz)

Ci sono due persone all’inizio di questa storia. Entrambe stanno per prendere il treno che condurrà loro a Bologna per una nuova settimana lavorativa. Entrambe hanno da poco valicato la trentina e, guarda caso, un’occupazione abbastanza simile: tutti e due hanno un ampio borsello di pelle nel quale custodiscono gelosamente un computer portatile identico, gioiellino nuovo nato confratello della sempre citata ultima generazione.
Il primo di questi due soggetti si chiama Samuele. Veste elegante, senza esagerare. Pantalone di un blu sobrio, scarpa firmata, camicia bianca leggermente profumata senza cravatta. Ogni tanto mette un gilet, anche se oggi ha preferito una giacca, naturalmente ben intonata con il resto del vestiario. E’ inverno, per cui ha anche un pesante giaccone di pelo, caldo e confortevole. Sul suo viso perfettamente rasato non stonano né la montatura degli occhiali, né il ciuffo vaporoso e quasi pulsante dopo ogni leggero movimento del capo.
Appena sale sull’eurostar che lo porterà in un attimo a destinazione avverte quel senso di tepore che la temperatura della carrozza gli trasmette. Si toglie il giaccone e si mette a proprio agio nel posto riservato. Non è facile descrivere quanto sollievo possa dare il semplice passaggio dal gelo appena pungente di una sera di dicembre al non-troppo-caldo-non-troppo-freddo che si trova in quel ambiente ovattato e asettico. Quasi come se per due volte a settimana si potesse di nuovo viaggiare nel ventre materno, mezzora in cui si viene cullati e protetti dal mondo che scorre distrattamente fuori dal vetro su cui soffia l’apposito spannatore. Forse più simile al marsupio di un canguro, dato che si può guardare anche il panorama. Ma quello che succede fuori, le migliaia di vite che si affollano, di cui Samuele potrebbe essere testimone per un semplice attimo sfuggevole, non interessano al nostro amico, dato che, pochi minuti dopo essersi seduto, mette mano al borsello di pelle, avido del suo prezioso e tecnologico contenuto. Se lo appoggia sulle ginocchia, apre le chiusure lampo con gesto esperto e simmetrico, estrae il computer portatile e, dopo aver riposto la custodia, inizia a battere sui tasti con la stessa grazia e maestria di un grande pianista, suscitando interesse e ammirazione negli altri compagni di viaggio. Già, perché naturalmente non è solo nello scompartimento, ma le persone con cui divide questa esperienza sono ben calate nel ruolo di neutralità e sembrano quasi dei manichini messi appositamente per completare l’immagine del ‘viaggio’. Come quando si va al museo di antropologia e ci sono quelle grandi vetrate in cui gli studiosi hanno ricostruito il focolare domestico di una famiglia di uomini primitivi, ognuno calato in qualche attività caratteristica del periodo e del proprio ruolo (di solito un uomo prepara il fuoco, altri due stanno tornando con le prede della caccia appena conclusa, mentre le donne accudiscono i bambini o raccolgono bacche e radici …quelli sì che erano tempi). Ecco, quando fra qualche migliaia di anni i nostri discendenti andranno al museo di antropologia, potrebbero trovare l’immagine degli ultimi anni del ventesimo secolo testimoniata da un Samuele, con il suo portatile, nella carrozza. Di fronte a lui un posto vuoto, a fianco una donna sulla quarantina, ancora piacente e ben vestita, mentre nel quarto seggiolino ci potrebbe essere un distinto signore brizzolato che legge La Repubblica, ognuno di essi calato nei propri pensieri, anche se la signora guarda, seppur distrattamente, un po’ troppo spesso il profilo di Samuele, ma alla fine non c’è poi niente di male.
Proprio in questo momento un’altra persona sta per prendere il treno. Anzi l’avrebbe già preso se non si trattasse del locale con il solito ritardo di venti o trenta minuti. Naturalmente il ritardo suddetto è stato annunciato a rate, a intervalli di cinque, per cui Ettore, così si chiama l’oggetto della nostra attenzione, si sta congelando già da un po’ di fianco al binario, sul marciapiede, apparentemente incurante. Osservando Ettore è subito chiaro perché il freddo riesce a fare breccia molto agevolmente sulle sue carni: anfibi, jeans, maglietta, maglione di lana, giacca di pelle e sciarpa. Non si tratta certo dell’armatura più adeguata per corazzarsi contro il generale inverno emiliano romagnolo. Se aguzziamo la vista sulla divisa da viaggio capiremmo il significato della definizione: i jeans sono sgualciti e macchiati di vino rosso, il maglione è infeltrito e il tutto emette uno sgradevole odore di fumo assorbito nelle birrerie frequentate nelle ultime due settimane. La cornice di questo quadro quasi naif post-atomico è data dalla faccia del nostro eroe: barba di tre giorni (che per Ettore equivale a due settimane di una persona normale), occhiaie esponenziali e capello stile ‘Grand Canyon’ (nel senso che, sezionandolo, sarebbe possibile distinguere gli strati di gel intervallati dal naturale unto della cute, come appunto nel Grand Canyon si distinguono le diverse ere geologiche).
Mentre lo sguardo spazia nel vuoto attirato dalle forme che la nebbia, aiutata dalla luce diffusa dei lampioni, addolcisce e indefinisce, la sua attenzione viene allertata dall’annuncio che il treno in ritardo partirà dal binario cinque anziché due. Appena giunge alla carrozza, si accorge che ormai sono montati tutti e che non sarà semplice trovare un posto, e con rassegnata pazienza si appresta a salire.
Come previsto circa metà del tragitto viene impiegato per trovare un seggiolino, fino a che, finalmente, una voce seccata risponde affermativamente al quesito. Ettore cerca di sistemarsi come meglio può anche se la situazione non è certo invidiabile, dato che alla sua destra straborda il lardo di una donna di colore di centocinquanta chili impegnata a scrutare fuori dal finestrino appannato, mentre dall’altra parte si avverte subito l’odore poco invitante di uno studente fuori sede che probabilmente era assente alla lezione sull’uso appropriato del sapone. So cosa state pensando, anche Ettore puzza di fumo: non c’è confronto. L’ascella dello studente immediatamente domina l’odore di fumo amatoriale e lo schiaccia con imbarazzante semplicità, come quando nei cartoni animati giapponesi degli anni settanta il robot buono e quello cattivo si sparano a vicenda il raggio gamma e dopo pochi istanti il cattivo ha la meglio sul buono respingendo il laser avversario (anche se poi lì il buono alla fine vinceva...).
L’allegra compagnia si completa di un altro giovane con i capelli sparati e la camicia verde militare con la bandierina della Germania cucita sulla spalla e di una massaia segnata da anni di lavori domestici carica di sporte della Coop piene di verdura, formaggio e bottiglie di vino, evidente prodotto dell’orticello di casa. L’ultimo posto, chiaramente occupato, ma per ora deserto, viene poco dopo raggiunto dal legittimo proprietario, un anziano curato, probabilmente di campagna, che dopo aver rivolto un sguardo quasi sorridente al nuovo venuto, si occupa delle sacre letture, come un moderno Don Abbondio che invece di camminare calciando i ciotoli, ha scoperto che nel duemila non ci sono più i bravi, neanche sui mezzi delle Ferrovie dello Stato.
Così, dopo aver lottato con la calca della domenica sera, Ettore riesce ad estrarre il portatile, anche se una delle due cerniere si è inceppata e quindi deve usare tutta la sua abilità per liberarlo dalla custodia protettiva. Questo non ha certo attirato l’attenzione di nessuno, ma appena terminano le procedure di accensione parte improvvisamente il ritornello della sigla di Lupin III che Ettore aveva settato ad ogni avvio. Alzando lo sguardo leggermente imbarazzato ecco che dieci occhi lo stanno scrutando increduli e stupiti: la massaia dice qualcosa sottovoce al curato e ridacchiando entrambi distolgono subito l’attenzione, seguiti poco dopo anche dalla donna obesa e dalla camicia militare, mentre l’unico veramente interessato sembra lo studente fuori sede.
Il capoluogo emiliano è all’orizzonte, e la grassona, probabilmente in seguito alla propria scomoda mole, vuole prepararsi per tempo alla fermata. Il caso, che la nostra psiche è abituata a non considerare tale, ma preferisce etichettare come qualche legge strana, vuole che si trovi nel posto più lontano dall’uscita, perciò la nostra balena nera si fa largo ed Ettore deve quasi inglobare il portatile per salvarlo dalla mareggiata di lardo, quasi fosse una scialuppa in balia del negativo del tremendo e ben più noto cetaceo.
Ma ormai dalla breccia manuale fatta sull’appannatura del vetro sono riconoscibili le rassicuranti linee della stazione di Bologna così Ettore può riporre il macchinario ricollocandolo nella custodia preservativo e prepararsi alla seratona.
Sul deserto marciapiede della stazione una figura si staglia tra i carrelli dei facchini e i manifesti con gli orari degli arrivi. Un leggero venticello gelato sventola appena i lembi del cappotto grigio sbottonato lasciando intravedere i jeans sbiaditi e il maglione nero. Dello stesso colore gli anfibi e la sciarpa, anch’essa cullata dal vento si muove in sincrono, rivelando, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che Le Primeur era venuto a prenderlo in stazione.
“Mi hai portato il gioco di Yattaman?” – chiese subito.
“Certo, e tu mi hai stampato la copertina di Final Fantasy Tactics?” – rispose Ettore.
Nel buio del piazzale ovest ci fu lo scambio CD-Rom e busta ed entrambi si incamminarono raggianti verso l’uscita, diretti verso il mezzo di trasporto.
“Come è andato il week-end?” – proseguì.
“La Fortitudo ha vinto, però mi sa che perdo al fantabasket.”
“Contro chi?” – Ettore finse di interessarsi.
“Massirusso, però sono comunque primo in classifica”
“Ah, ...stasera?”
Le Primeur si portò la mano al petto per far capire che era tutto sotto controllo, poi aggiunse: “Adesso andiamo a bere fin che c’è l’happy hour, poi a mangiare da me, che Spuma vuole salutarti e chiamiamo gli altri.”
Detto questo arrivarono alla vespa che dopo circa quindici minuti di scoppiettii e fumi di ossido di carbonio partì mandando in tilt tutte le centraline che per una settimana avrebbero segnalato lo stesso livello di inquinamento di Seveso nell’area della stazione.
Ettore chiese ed ottenne di fermarsi prima a casa per lasciare il prezioso computer. Vennero accolti come sempre da Spuma che appena sentì la chiave nella toppa smise di fare coriandoli con l'accappatoio e miagolò ai suoi ospiti, sperando che Le Primeur questa volta gli avesse comprato i datteri. Ettore ripose il portatile lontano dalle unghie del felino, ora intento a divorarsi il frutto che il suo padrone gli aveva portato, quindi si diressero subito al pub di via Zamboni, a poche centinaia di metri dall’appartamento di via San Vitale 60.
Trovarono la solita calca fumosa, presero due birre e sistemarono in un angolo abbastanza libero. Mentre sorseggiava la schiuma Le Primeur si guardò intorno: per la maggior parte erano tutte facce più o meno note, già viste a qualche festa, o ai tempi della biblioteca, oppure semplicemente frequentatori del pub. Slalomeggiando tra i visi colse Giò e la sua compagnia di cacciatori di feste, anche quella sera in cerca di svago. Andò a salutarli, ma ben presto era tornato alla propria birra, si accese un paglia e chiacchierò con Ettore. Come al solito si misero a studiare gli avventori cercando di produrre nuove indagini socio-comportamentali sui soggetti più interessanti.
Alla terza birra erano soddisfatti e affamati, così tornarono a casa per il secondo atto della serata: la cena. Le Primeur estrasse dal frigo due scatole di deliziosi mini-würstel ripieni di prosciutto crudo o mozzarella, scaduti solo da poche settimane e li mise subito in padella. Immediatamente l’aria divenne irrespirabile, permeata di diversi aromi, sui quali troneggiava dominante l’aglio, del quale i due erano golosi. Nel mentre Ettore aveva stappato la bottiglia di rosso, così ripresero a bere. La gatta schifata si era messo a guardare la TV nell’altra stanza.
Finita la preparazione dei würstel si dedicarono velocemente i fagioli, soffritti nello stesso petrolio rimasto nella padella, a cui aggiunsero solo un po’ di peperoncino. Maionese e piadina, e la cena dei loro sogni era finalmente pronta.
Era tutto ottimo, anche se i würstel avevano anche un tocco di mistero, dato che ogni volta era una scoperta se si trattasse di quello ripieno di prosciutto o quello con la mozzarella. Diciamo dei dolcetti della fortuna cinesi, anche se in versione binaria. Ad un certo punto Ettore ebbe una delle sue idee geniali: “Che cosa è la maggior parte delle salse? – E senza attendere risposta aggiunse: – Maionese mescolata con ciò che dà il nome alla salsa, tipo quella ai funghi.”
Dicendo questo iniziò a sminuzzare alcuni fagioli. “Ma nessuno fino ad oggi lo ha fatto con i fagioli!” – Le Primeur era senza parole, affascinato dall’abilità con cui operava sul povero legume, inconsapevole vittima di un progetto più grande, una specie di bruco che si sacrifica per dare alla luce una bellissima farfalla.
Dopo il primo assaggio ad entrambi era chiara la portata di quella scoperta e con occhio vitreo e gesti allucinati iniziarono a produrre salsa di fagioli in grande quantità.
Con la pancia piena del nuovo prodotto alimentare che avrebbe riempito i ripiani dei supermercati nel 2000, rendendoli straricchi, si diressero allo Psycho Circus, uno dei pochi locali di Bologna dove c’era sempre la musica dal vivo, questa volta in macchina, dato che la strada era troppo lunga e fredda per affrontarla su due ruote.
Era la loro serata fortunata, dato che, alla prima curva, dal sedile dietro giunse il tipico suono della birra Moretti dimenticata. Le Primeur porse il cavatappi d’emergenza a Ettore che l’aprì e ne bevve un lungo sorso, fagocitando circa un terzo del freddo liquido ambrato. “Guarda quanto poco dura una birra – disse porgendo la bottiglia all’amico che stava guidando – ormai è finita.”
Era vero, in tre isolati anche la Moretti era storia, fluita in quel caos primordiale che era ormai il loro apparato digerente, ma per fortuna erano quasi arrivati. Parcheggiarono sulla solita salitina nella strada a destra di via Toscana e si diressero all’entrata.
“Hey, stasera c’è Aida Cooper!” – disse Ettore entusiasta.
“E chi cavolo è?” – chiese Le Primeur.
“Ma come chi è… quando la vedi ti verrà sicuramente in mente, è una che fa blues... è stata anche la corista di Celentano.”
“Beh, se andava bene a Celentano, deve essere una che ne sa... entriamo.”
Anche lì c’erano alcuni volti conosciuti, con cui scambiarono qualche battuta in attesa che iniziasse il concerto.
Ad un certo punto gli altri componenti della band cominciarono un accordo vagamente famigliare, doveva essere un pezzo di Tina Turner, e dopo pochi secondi lei uscì dal bagno e salì sul palco.
Come descrivere lo spettacolo del quale i nostri furono testimoni? Diciamo che una Giunone quasi botticelliana e sovrappeso aveva trovato in un mercatino dell’usato gli abiti di scena con cui il cantante degli Europe aveva girato il video di The Final Countdown, e in qualche modo era riuscita ad entrarci dentro. Neanche a dirlo il risultato era spettacolare e deprimente. Il primo sentimento fu di ilarità, nel vedere tutti i rotoli di grasso che mettevano a dura prova i pantaloni di pelle nera (con le frange d’argento) e straripavano sopra la diga-cintura dove avevano meno costrizioni, ma poi si fece largo l’immagine triste di una donna che vent’anni fa doveva essere bellissima e che oggi non si era ancora rassegnata ad accettare l’operato ingeneroso del tempo.
Questi pensieri, che sicuramente avevano attraversato la mente di molti, furono immediatamente spazzati via dall’onda sonora sprigionata dalle fauci di Aida. Okay, era ingrassata, ma le corde vocali non erano state intaccate dagli anni trascorsi.
Così cantò per poco più di un’ora, anche se invece del blues fece soprattutto canzoni più commerciali, attingendo anche da Aretha Franklin. Era proprio brava e gli spettatori le perdonarono il lancio del giubbotto e i gesti fallici fatti con il microfono, degni del miglior David Coverdale (e di un’altra epoca), con lunghi e fragorosi applausi dopo ogni pezzo.
Finita la serata Ettore si informo dalla stessa Aida sulla sua prossima apparizione a Bologna e si diedero appuntamento per marzo, e quella volta avrebbe fatto blues.
Tornarono alla macchina. Le Primeur mise una cassetta live di Gary Moore (gli era stato promesso il blues e non poteva andare a dormire senza ascoltarne almeno un po’).
“Cazzo – disse Ettore – potevamo tenerci la birra per il ritorno.”
Fu l’ultima frase prima di un prolungato silenzio di circa un quarto d’ora: Le Primeur stava cercando parcheggio in centro, quasi deserto per il freddo e l’ora, visto anche che era domenica, e i due erano quasi rapiti dallo spettacolo così semplice e affascinante.
Bologna di notte, certe piccole strade, certe vie poco illuminate, anche a causa della nebbia, erano bellissime. Ogni tanto si incontrava un piccolo gruppo che tornava a casa, mentre quando si passava a fianco di qualche locale ancora aperto si aveva la sensazione di trovarsi di fronte ad una specie di polo magnetico, che attirasse la luce e le persone che altrimenti avrebbero vagato senza meta nel freddo dei portici. Tutto questo era cullato dalle note un po’ tristi di Gary Moore e all’interno della macchina i due assistevano a questa specie di video-documentario come se fossero in un acquario al contrario, all’interno del quale gli osservatori avevano tutto un mondo a loro disposizione, senza poter (o voler) interagire con esso, divisi solo da un vetro.
Un parcheggio poco lontano da via Zamboni interruppe quel momento magico. Ma era ancora relativamente presto, così Ettore propose di bere l’ultima birra al pub.
C’erano pochi avventori superstiti e mentre sorseggiavano Le Primeur vide una ragazza carina che aveva conosciuto la settimana precedente a una festa di laurea. Ettore notò l’interesse dell’amico e chiese delucidazioni.
“Era alla festa di sabato scorso, ti secca se vado a salutarla?”
“Figurati, io finisco di bere, devo anche andare al cesso...”
Ettore guardava distrattamente la scena, non sembrava che Le Primeur avesse un gran successo. La vescica lo richiamò all’ordine e si diresse verso il bagno, che si trovava molto vicino a dove i due stavano parlando. Purtroppo era occupato, per cui Ettore si trovò ad aspettare proprio a fianco dell’amico, separato visivamente da un vetro oscurato, ma in grado di percepire la fine del suo approccio: “...ma se c’è stata una guerra mondiale e siamo gli unici sopravvissuti?”
“Gli animali sono tutti morti?”