Memory Card

Davide stava guardando la televisione quando squillo il telefono. Dall’altra parte del cavo Raul voleva sapere a che ora sarebbe passato per andare alla festa della Gigia, a Forlì, così si misero d’accordo e Davide poté tornare a concentrarsi sulle ultime scene film con Cameron Diaz che trasmettevano sulla pay-TV. Era un po’ seccato del fatto che ormai tutti amassero Cameron Diaz, mentre lui la seguiva fin dai primi film, quando mostrava delle caviglie da esposizione e solo lui aveva il poster in camera. Era una specie di gelosia virtuale.
Andò in cucina a prendere un bicchiere di succo di mela e lo bevve tutto in una sola sorsata, si sentì completamente rinvigorito e decise di uscire per fare un giro in centro. Chiamò anche Valentina, per chiederle di accompagnarlo, ma (come accadeva da quasi una settimana) si trovò a discutere con la segreteria telefonica. Al diavolo, una bella cassetta dei Cure nel walkman era la cosa migliore per passare un pomeriggio solitario bighellonando tra il negozio di fumetti e il bar dell’Università, così salì sulla Vespa e in pochi minuti era a destinazione. Stava per ordinare un cappuccino quando entrò nel bar anche Paco insieme ad altri due compagni laureandi.
Allora, a che ora stasera? – chiese Paco
- Passo da Raul verso le sette, dopo siamo da te, cerca di essere pronto…
- Ok, a dopo.
I tre uscirono lasciando Davide solo con i propri pensieri. Erano ormai sei mesi che aveva finito l’Università, ma era da molto più tempo che non si trovava più a suo agio in quell’ambiente che per quasi sette anni era stato il suo unico habitat, terra di conquista dove aveva scalato tutti i gradini della piramide sociale. Era passato da essere una semplice matricola sperduta, ad uno dei ‘grandi vecchi’ dell’Università, quelli che professori e assistenti (forse inconsciamente un po’ invidiosi) chiamavano quelli del bar, che andavano in biblioteca solo per giocare a carte, o a lezione esclusivamente a caccia di nuove fanciulle.
La razza si stava estinguendo, fra meno di un mese anche Paco si sarebbe laureato e quelli dello zoccolo duro si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano. Scacciò questi pensieri amari e si diresse al negozio di fumetti, ma dopo quattro chiacchiere con Michele, il commesso, si rese conto che era quasi ora di tornare a casa, e così fece.
Alle sette e tre quarti erano in macchina diretti verso Ancona, con la musica a palla e una bottiglia di Jack Daniels (tanto per arrivare alla festa già riscaldati). Davide si accese una sigaretta e si inserì nella discussione. Stavano parlando di basket (come al solito), c’era da aspettarsi che sarebbero andati avanti fino all’uscita di Forlì.
Quando Davide si accorse del casello era probabilmente troppo tardi, stavano andando a non meno di 140 Km all’ora e lui non era certo uno spericolato al volante. L’unica cosa sensata da fare sarebbe stata superare Forlì ed uscire a Cesena, per poi tornare indietro. Avrebbero allungato la strada di una ventina di minuti e non ci sarebbe stato nessun problema. Quella volta però andò diversamente. Fu una specie di reazione istintiva, uno scatto adrenalinico sul volante, la macchina che bruscamente mutava in maniera improvvisa quello che poteva definirsi un moto uniforme, e che diveniva preda di nuove, incontrollabili, forze centrifughe e centripete. Il guidatore si rese immediatamente conto di quello che stava per succedere, e fu una frazione di secondo lunga un’eternità. Il whisky si rovesciò nell’abitacolo della Peugeot 205, mentre i passeggeri non ebbero tempo nemmeno di rendersi conto di quello che stava succedendo. Nessuno fece in tempo ad aprire bocca, e fu il rumore delle gomme sull’asfalto umido a prendere la parola, seguito subito dallo schianto con il camion che marciava nella corsia di destra.
Quanto tempo era passato? Pochi istanti, pochi minuti? Ore? Davide aprì gli occhi, anche se un grumo di sangue che doveva coprigli tutta la faccia (o quello che probabilmente ne era rimasto) gli impediva una visione nitida. Si trovava avvinghiato in mezzo alle lamiere, senza più alcun controllo sulle proprie gambe e sulle braccia. Riusciva a malapena a vedere una frazione del disastro, e anche quell’immagine così sfuocata stava per dissolversi. Che ne era dei suoi amici? Il sedile del passeggero era vuoto (almeno gli sembrava), Raul forse era stato sbalzato fuori, forse se l’era cavata, e Paco? Ma chi voleva prendere in giro, erano morti o stavano morendo proprio come lui, lo schermo stava mutando una serie di tonalità di grigio, fino al nero, e la scritta rossa finalmente apparve: GAME OVER. Seguita subito dopo dal menù del gioco.

Cazzo! Sono morto! – Simon cominciò ad imprecare.
- Cosa? – Rispose Shania – Beh, era ora, così finalmente possiamo andare a cena!
Ma chi se ne frega della cena! Non capisci che sono morto e non salvavo da almeno due ore! Adesso mi tocca ricominciare chissà da dove!
Shania entrò in camera, visibilmente divertita. – Così impari! Da quando hai comprato questo nuovo gioco di ruolo del XX secolo non esci più di casa… Quand’è che hai usato la memory card l’ultima volta?
- Ero al primo anno di Università, ma non credevo ci fosse la possibilità di morire…, mi erano rimasti pochi blocchi liberi e volevo tenerli per l’altro gioco. Adesso devo rifare tutto daccapo, tutti gli esami, la laurea, per non parlare dei personaggi, devo conoscere ancora Poppi, Paco, Valentina… …cazzo!
Simon spense la console ancora inviperito, adesso gli era passata anche la fame e, se avesse potuto, si sarebbe subito rimesso a giocare. Ma non era più un bambino e si rassegnò a rimandare, consolato dal fatto che poteva cercare in internet le soluzioni del primo disco del gioco e finire l’Università con il massimo punteggio. Si affrettò ad uscire, se fosse tornato a casa non troppo tardi, poteva riprendere la partita prima di andare a dormire.