SEZIONE PROBLEMI DELLA CHIESA e CHIESA-STATO

 

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Indice:

Cattolici e questione morale: riflessioni su di un paradosso, 16/01/06

Un messaggio del Papa per la pace, luci ed ombre, 19/12/05

L'interferenza del religioso nel politico e la messa in mora del Concordato, 28/11/05

Il Sinodo dei vescovi delude le attese, 31/19/05

L'avanzata del  potere ecclesiastico, 26/09/05

Davvero i PACS lacerano la famiglia?, 15/09/05

 

 

 

Cattolici e questione morale: riflessioni su di un paradosso    
di Arrigo Colombo

            

      Si è tornati a discutere di questione morale al seguito delle malversazioni di finanzieri impegnati in scalate bancarie, dei loro facili e illeciti profitti; in cui era coinvolta in certa misura la Banca d’Italia che queste operazioni avrebbe dovuto controllare, e in essa il cattolicissimo Fazio; e vi erano coinvolti anche politici di Destra, che avevano ottenuto prestiti o donazioni. Ma nella questione morale aveva già aperto un varco, per non dire una voragine, la Destra con le sue leggi "ad personam". Le quali depenalizzavano il falso in bilancio, rendevano più difficili le rogatorie internazionali e quindi la scoperta dei crimini valutari, abbreviavano la prescrizione dei reati in modo che potessero estinguersi prima di essere condannati; e si potesse così impunemente dichiarare il falso, e truffare, ed evadere il fisco (cioè i contributi necessari alla vita della nazione). Oppure, come è accaduto nei giorni scorsi, un padre che aveva insidiato la figlia potesse andarsene impune perché i tempi di prescrizioni erano stati ridotti da 15 a 7 anni.

Dove l’immoralità s’insedia nella legge stessa, che invece dovrebbe tutelarla. La legge, supremo fattore di giustizia, si corrompe e diventa ingiusta, e semina ingiustizia. Il Parlamento, che dovrebbe con la legge tutelare la moralità della nazione, diventa invece principio d’immoralità. I partiti cattolici della Destra, l’Unione di Centro, e la stessa Alleanza Nazionale che si dichiara cattolica, come cattolica si dichiara Forza Italia, costruiscono quelle leggi, le approvano concordemente.

      Ma anche la Democrazia Cristiana della cosiddetta Prima Repubblica, il partito cattolico per eccellenza, con personaggi che provenivano dall’Azione Cattolica, dall’avanguardia del laicato cattolico, che godevano della fiducia dei vescovi e del Vaticano, sono finiti in un vortice d’immoralità talmente diffusa da annientare lo stesso partito.

 

      A questo punto si apre un discorso che si direbbe paradossale: in quanto gli studiosi hanno osservato che i paesi cattolici sono particolarmente corrotti; più corrotti dei paesi protestanti. Così l’Europa mediterranea rispetto all’Europa centro-settentrionale; e l’America Latina  rispetto al Nordamerica. I paesi che rivendicano per sé l’ortodossia, la purezza della dottrina e legge evangelica, del suo elevatissimo tenore morale, soggiacciono al male più dei paesi tacciati di "eresia" e di perversione religiosa. Se in Germania un parlamentare viene deferito alla giustizia per corruzione o per illecito finanziamento di partito, o per un qualunque altro reato anche piccolo, subito si dimette; e giustamente, perché il Parlamento, che è responsabile della legge, dev’essere immune da ogni pecca. E lo stesso in Gran Bretagna, e nei paesi nordici. Nel Parlamento italiano vi sono decine d’inquisiti, non solo, ma di definitivamente condannati (23 questi ultimi, per la precisione), che tranquillamente vi siedono; e spesso il Parlamento si oppone a che siano perseguiti, adducendo pretestuosi motivi di attività politica. Come tutti sappiamo dalla stampa.

      Gli studiosi hanno anche indagato questo curioso fenomeno. V’è, in parte, l’arretratezza economica e culturale, che coinvolge anche l’etica; ciò è evidente in America Latina. E pure Italia, Spagna e Portogallo, per un tratto anche recente della loro storia, hanno sofferto di quest’arretratezza. V’è però una ragione più pertinente che è l’avversione della Chiesa per lo Stato; in particolare per lo Stato moderno che da essa si è emancipato; mentre prima stava sotto la sua tutela. Avversione e anche misconoscimento, quasi che il potere dello Stato, non rifacendosi più ad essa e al potere divino e totale ch’essa si attribuisce, non fosse legittimo; e la sua etica, non discendendo da quella della Chiesa, fosse perversa; e così la sua legge; e tanto più l’imposizione fiscale, specie per il clero e le sue opere, anche quando sono lucrative (è il caso del recente abbuono dell’ICI, un favore ingiusto, che la Chiesa avrebbe dovuto rifiutare). Tutto ciò non risulta più dai documenti ecclesiastici più recenti, che hanno maturato una più equa visione dello Stato; ma permane nella mentalità e nel costume, nella prassi quotidiana del clero e del laicato e, possiamo dire, delle nazioni cattoliche.

 

      Il protestantesimo non soffre di questa eredità, di quest’avversione ereditaria, perché è nato proprio nella contestazione del potere ecclesiastico, e della stessa classe di potere, la gerarchia, il clero; affermando invece una chiesa di popolo fatta di comunità autonome che riconoscevano soltanto l’autorità della Bibbia. Inoltre la coscienza protestante è particolarmente austera perché recepisce la dottrina luterana del peccato come corruzione dell’umana natura; un peccato insuperabile che lo stesso amore di Dio non può cancellare ma solo occultare. Donde il ritrovarsi sempre l’uomo peccatore, di fronte al Dio che lo giudica; in una consapevolezza che lo fa attento al giudizio di Dio e al vincolo della sua legge. Anche la dottrina della predestinazione, particolarmente forte nel calvinismo, v’influisce: nel senso che l’uomo persegue un comportamento virtuoso in quanto questo può essere il segno della elezione divina, di contro alla perdizione.

 

      Che cosa concludere, dunque? A prescindere da questa teorizzazione, forse la Chiesa  cattolica potrebbe sviluppare una piena e serena lealtà verso lo Stato, escludendo anche ogni pressione e azione di lobby, ogni richiesta di privilegio, ogni appoggio ai politici; e tanto meno a quelli che ne cercano i favori, con concessioni magari ingiuste. E dovrebbe pure riconoscere le grandi conquiste etiche dello Stato laico moderno. Potrebbe, anziché concentrare tutti i suoi sforzi sulla morale sessuale e familiare, sviluppare la formazione di tutti i suoi membri, clero e laicato, alla moralità pubblica, alla moralità fiscale, all’onestà professionale. L’Azione Cattolica, ad esempio, ha dei rami dedicati ai vari ceti, tra cui gl’imprenditori.

                                                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 16 gennaio 2006)

 

 

 

Un messaggio del Papa per la pace, luci ed ombre

di Arrigo Colombo

 

      Il messaggio del Papa in occasione della giornata mondiale per la pace, contiene passaggi pregevoli, come quello in cui esprime fiducia nell’Onu –  sfiduciata da Bush e da Blair per scatenare la loro disastrosa guerra in Iraq –,  che "deve divenire uno strumento sempre più efficiente nel promuovere nel mondo i valori della giustizia, della solidarietà e della pace". O quello in cui richiama la necessità che sia rilanciato "in maniera convinta e congiunta" il processo di disarmo; processo che pare tutti abbiano dimenticato. O quello in cui richiama e condanna il commercio delle armi, tema su cui per lo più tace la comunità internazionale; mentre vi prosperano alcune grosse nazioni, e vi si tormentano popoli poveri e sofferenti.

      Convince meno l’impostazione del messaggio sulla verità; o il richiamo, abituale del  resto, alla definizione agostiniana della pace come "tranquillitas ordinis", piuttosto anodina in quanto priva di esplicita valenza etica. Certo la pace non è la semplice assenza di guerre; non può essere la "pax romana", di un impero in cui i popoli sono tranquilli perché schiacciati e duramente asserviti; né la "pax americana", di mondo controllato dal grande gendarme coi suoi enormi armamenti, le sue basi militari sparse ovunque, la minaccia del suo folle arsenale nucleare. Una definizione più matura della pace è la "convivenza dei popoli nella giustizia e nella concordia". Dove intervengono le due fondamentali categorie del progetto utopico dell’umanità, il progetto cioè di liberazione dai mali che da sempre l’affliggono: la giustizia e il rapporto fraterno. Categorie che ci provengono dal messianismo ebraico e dall’annunzio evangelico, e che entrano nella modernità attraverso la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, la "rivoluzione con la Bibbia in mano", come viene chiamata; e sono riprese dagli altri grandi movimenti che impostano la società moderna, l’Insurrezione americana, la Rivoluzione francese, il Movimento operaio. Certo le guerre continuano, ma sono impostati i fattori che porteranno nel tempo a debellare questo flagello: i diritti fondamentali, il modello democratico, il principio di solidarietà, l’istanza di giustizia sociale.

 

      C’è un punto tuttavia, in questa materia, in cui la dottrina cattolica non ha ancora raggiunto un’adeguata maturazione, ed è la cosiddetta "guerra giusta". Lo si vede nel "Catechismo" del 1992, e ancora nel "Compendio" a domanda e risposta uscito quest’anno, dove si parla di un "uso della forza militare moralmente giustificato". Mentre la coscienza storica ha maturato lungo il secolo, e attraverso l’esperienza delle guerre mondiali e totali, il principio dell’illiceità della guerra come tale. Il forte imperativo etico "non uccidere" diventa a fortiori "non fare la guerra"; in quanto la guerra è l’uccisione globale, è il macello umano, è un fatto assolutamente atroce che non può mai essere tollerato, e tanto meno giustificato. Perciò il Trattato dell’Onu,  stabilisce che i conflitti tra i popoli non devono mai esser risolti con la guerra, ma sempre e solo con la trattativa. Resta vero che non dev’essere tollerato l’aggressore né il regime ingiusto, né il dominio di un altro popolo, altrettanto ingiusto; ma non dev’essere affrontato con la guerra, con l’atroce misfatto; bensì con l’intervento di stati amici, della comunità dei popoli.

Il caso che, nella guerra di Bosnia, fu chiamato di "ingerenza umanitaria" è altra cosa; perché lì il massacro era già in atto, e si trattava d’intervenire a fermarlo; si trattava non di avviare ma di bloccare una guerra in atto.

 

       C’è un altro punto cui è maturato l’imperativo "non uccidere", ed è quello che dice "stato non uccidere il cittadino"; è l’illiceità della pena di morte. Anche qui la dottrina cattolica resta arretrata, o insufficiente. Ammette la pena di morte nel Catechismo del 1992; la ritiene in seguito trascurabile, in quanto i casi di assoluta necessità di pena di morte «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (Evangelium vitae). Non si direbbe, se si considera quanto avviene negli Stati Uniti, la grande nazione, che si presenta come guida dell’umanità; tanto più se si considerano le nazioni islamiche o la Cina. La dottrina cattolica non recepisce il principio che "lo stato non ha il diritto di uccidere il cittadino"; e non lo ha perché si genera da una cessione di diritto del cittadino stesso, il quale – come spiegava Beccarla più di due secoli fa – cede solo una piccola parte dei suoi diritti. Non cede certo se stesso, il suo essere, il suo esistere. A rigore neppure l’ergastolo è lecito; perché la pena non può avere uno scopo vendicativo, o solo segregativo (segregare il colpevole affinché non nuoccia); ma sempre uno scopo medicinale, ricostruire la dignità morale della persona e reintrodurla quindi nella società. La pena di morte è un residuo del dispotismo antico (e moderno); o del costume arcaico delle tribù d’Arabia, entrato poi nel Corano.                                                                                                                                                                 

                                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19 dicembre 2005)

 

 

 

L’interferenza del religioso nel politico e la messa in mora del Concordato

di Arrigo Colombo

 

        La discussione sull’interferenza del religioso nel politico è stata molto forte nella settimana testé trascorsa. Anche perché si è celebrata, dal 14 al 18, ad Assisi, l’Assemblea Generale della CEI, la Conferenza episcopale italiana, con interventi e pronunziamenti molteplici dell’episcopato.

        A cominciare dal discorso di apertura del presidente Card. Ruini, che ha passato in rassegna  l’attività in atto del Parlamento, con precise valutazioni e anche prescrizioni. Sul servizio sanitario, che dev’essere migliorato, specie nel Meridione; sulla nuova legge elettorale, che potrà generare profonde modifiche nell’assetto politico; sulla riforma della Costituzione, assai controversa; sulla riforma dell’università, che ha dato luogo ad  "eccessive" manifestazioni di protesta; sulla finanziaria, che "non deve" comportare una riduzione dei fondi per i più poveri e per la cooperazione, e che non aiuta adeguatamente la famiglia; sulla pillola abortiva che, secondo il cardinale, "tende a non far percepire la reale natura dell’aborto".

        È difficile sostenere che una rassegna così puntuale, con sottolineature prescrittive, non interferisca con l’attività del Parlamento; che, come dice il cardinale in quello stesso discorso (consapevole che si lamenta "una eccessiva presenza o anche ingerenza della Chiesa nella vita pubblica italiana") si tratti soltanto di "un impegno aperto e concreto a favore della persona umana".

        Si è detto invece, e non a torto, che il cardinale pretende dettare l’agenda politica italiana; pretende stabilire via via un indice di gradimento ecclesiastico dell’attività politica; esercitando così una forte pressione, anzi una vera "azione di lobby" su di una classe politica debole e che, particolarmente in questa fase preelettorale, teme l’azione avversa della gerarchia e fa di tutto per ingraziarsela. La Destra particolarmente; ma anche la Sinistra. Così, dopo che l’episcopato mostra insoddisfazione per la "devolution", anche Casini, presidente della Camera, si dichiara insoddisfatto.

 

        Così nei riguardi dell’aborto, nessuno nega che esso comporti il sacrificio di una vita, che sia un fatto di per sé immorale ed illecito; ma l’episcopato sembra non voler capire che lo stato non è tenuto a perseguire tutte le trasgressioni; e che questo caso, per molte ragioni a lungo ponderate,  ha deciso di lasciarlo alla responsabilità della donna; lo stato italiano, come gran parte degli stati anche di popolazione cristiana e cattolica. La pillola abortiva lo rende più facile, meno doloroso; ma non è certo in base al dolore fisico, oggi del resto per lo più alleviato dagli analgesici, che la donna decide o meno l’aborto.  

         Anche la proposta d’introdurre nei consultori membri del Movimento per la vita segue la stessa tendenza intromissiva. Si dice che v’è una parte della legge che non è mai stata adeguatamente attuata: quella che prevede che il consultorio aiuti la donna a superare le cause che la inducono a interrompere la gravidanza; e che aiuti pure la sua difficile maternità dopo il parto; anche attraverso la collaborazione di associazioni del volontariato. Si dice che il Movimento per la vita, in trent’anni di attività, ha aiutato 70.000 donne a non abortire. Un dato certo significativo. Ma questo movimento è apertamente antiaborista; ciò che i consultori non possono essere, la loro posizione prospettandosi su di un piano di equanimità, di un aiuto alla donna che la illumini e la sostenga in una decisione che dev’essere sua, sulla quale non devono esercitarsi indebite pressioni, non dev’essere usato il deterrente della colpa e del peccato – quando non dell’inferno – che appartiene alla tradizionale prassi ecclesiastica. La presenza di questo movimento porterebbe nei consultori la longa manus di quel potere, da cui il movimento promana; sarebbe ancora sempre una forma d’ingerenza nelle istituzioni dello stato.

 

        La discussione raggiunge il suo punto più acuto quando tocca il Concordato tra stato e chiesa. E non solo da parte radicale, o del nuovo partito radical-socialista, o di correnti anticlericali, no: è invece la perdurante interferenza della gerarchia nel politico che suscita apprensione e risentimento; suscita ripulsa. Si dice: il Concordato dev’essere riveduto; se le cose vanno così, se v’è questa continua ingerenza, ciò significa che il Concordato firmato nel 1984 non è più in grado di regolare  questo rapporto. Dev’essere garantita la laicità dello stato, la sua piena concreta libertà; dev’essere garantito il libero Stato accanto alla libera Chiesa, una condizione in cui nessuno dei due interviene nelle cose dell’altro.

Ma questo principio nel vigente Concordato è già presente. Persino nel Vaticano II è detto che "la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo". Si tratta dunque, semmai, di richiamare con forza quel dettato e quello spirito.

Un’azione è necessaria, un’azione forte sull’episcopato. La dovrebbe compiere il governo; ma probabilmente è troppo debole, e troppo intento ad ingraziarsi l’episcopato stesso. Lo possono fare i partiti del Centrosinistra; ma anch’essi sono su quella linea, timorosi di quella potenza; e però un intervento ben calibrato potrebbero farlo, dovrebbero averne il coraggio. O altrimenti dovrebbero intervenire i centri e movimenti della società civile, collegarsi, coalizzarsi, far sentire alta la loro voce, stimolare il laicato cattolico, aprire un tavolo di trattative con l’episcopato. Se lo stato e i politici si rivelano incapaci, deve mobilitarsi la società civile.

                                                                                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 novembre 2005)

 

 

Il Sinodo dei Vescovi delude le attese

di Arrigo Colombo

       Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa cattolica si è tenuto nelle prime tre settimane di ottobre. E’ un’assemblea rappresentativa della Chiesa universale, che si tiene all’incirca ogni tre anni, ma ha formule e frequenze diverse. Nasce dalla tensione collegiale del Vaticano II e viene istituito da Papa Montini nel 1965, ed entra poi nel diritto canonico. Sta rigorosamente sotto il potere papale e ha carattere consultivo, può solo fare proposte al papa. Anche questa volta si è mantenuto nella rigida forma codificata, con solo due innovazioni accessorie, anche se importanti: l’ora di libera discussione giornaliera e la pubblicazione delle proposte ufficiali (che prima restavano segrete). Il passaggio determinante, nel senso della collegialità, sarebbe quello di farne un organo non più solo consultivo, un organo che nella Chiesa decide; ma questo significherebbe scalzare l’assolutismo papale, quel potere assoluto che l’umanità ha superato ovunque – può dirsi – ma che ha la sua estrema e potentissima roccaforte proprio in quella che per eccellenza dovrebb’essere una "società fraterna"; dove "tutti sono fratelli", dove "nessuno è signore o maestro"; secondo il dettato evangelico.

 Si può dire subito che il Sinodo ha universalmente deluso; nel senso che non ha dato apporti significativi né, tanto meno, innovativi. Ciò risulta chiaro dalla stampa, che lo ha seguito con attenzione; come dalla lettura del messaggio finale. Tema era l’eucarestia, cioè anzitutto la cena eucaristica; che è poi la memoria della Cena e della Passione del Cristo; ed è insieme il principale e più intimo e vivo punto d’incontro della comunità cristiana. Che bisognerebbe sottrarre al rigido schematismo che vi perdura; anche dopo la riforma liturgica la quale, eliminando il latino, l’ha resa comprensibile a tutti; ha rivolto l’altare verso la gente, ha introdotto momenti di meditazione (sia pur brevissimi), e altre cose come la preghiera comune, il canto, l’offerta. Ma la partecipazione reale è ancora scarsa; non paragonabile con certe celebrazioni, ad esempio, delle comunità nere d’America. Si potrebbe dare la parola ai fedeli, sì che tutti riflettano insieme. Si potrebbe rendere la celebrazione più viva e festosa, con molta musica e canto, e anche danza (come David, che danzò davanti all’arca; la "danza sacra" ha una presenza forte nella storia religiosa, si veda il libro di Renato Torniai). Si potrebbe terminare con un sia pur piccolo banchetto fraterno (se è vero che l’eucarestia appartiene ad una vera cena), in cui rendere più profondi e caldi i rapporti. Su tutto questo il Sinodo non ha detto nulla; al contrario, ha insistito sulle rigide norme.

 Ha soprattutto ribadito le interdizioni. Per la comunione dei divorziati risposati; per l’intercomunione tra le diverse confessioni cristiane; per i preti sposati che, nell’attuale penuria di clero, sarebbero necessari per presiedere alla riunione eucaristica; e, fatto nuovo, per i politici che col loro voto varano leggi "inique", come divorzio, aborto, pacs. Posizione, quest’ultima, che accentua il solito vieto clericalismo; dimentica che, quando il parlamento vara una legge, la vara per tutta la nazione, dove ci può essere una maggioranza cattolica, ma c’è anche una minoranza acattolica (ebrea, protestante o altro), con milioni di persone; e per gli stessi cattolici vale il supremo principio della libertà di coscienza. Dimentica che il parlamento deve considerare la problematica d’insieme della nazione, e talvolta tollerare comportamenti trasgressivi, come l’aborto o la prostituzione, per tante ragioni (ma della prostituzione l’episcopato s’è sempre disinteressato; si diceva anzi che, nella Roma papale di un tempo, ci fossero le migliori prostitute d’Europa; si leggano, in proposito, i libri dei grandi viaggiatori romani). Il matrimonio indissolubile è norma solo per la chiesa cattolica; una norma che deve dirsi obsoleta, da quando s’è compreso che il matrimonio si fonda e persiste nell’amore (categoria ignota alla tradizione cattolica che teorizzava i tre fini: procreazione, aiuto reciproco, rimedio alla concupiscenza); venendo meno il quale, decade; salva l’attenzione dovuta ai figli. L’indissolubilità resta un obiettivo supremo, cui tendere; Kant la chiamerebbe un’ "idea regolativa"; ma non di più. Nel messaggio finale v’è anche un ampio passaggio dedicato alle "sofferenze del mondo": cioè guerra e terrorismo, calamità di natura, fame, dissesto ambientale. Che il Sinodo deplora, con partecipazione certo, ma in termini generici. Del resto non era quello il tema. Che dire? che questo Sinodo ha mancato le attese? Nella Germania cattolica, ad esempio, il problema dei divorziati è molto sentito, e molto forte la tendenza a risolverlo positivamente. La sanzione legale delle coppie di fatto c’è, in vario modo, in tutti i maggiori paesi d’Europa; i parlamenti e i governi la sentono come un preciso dovere verso i cittadini. Questo Sinodo ha dunque fallito? Attendiamo di leggere il testo ufficiale delle proposte avanzate.  

                                                                                                        (Nuovo Quotidiano di Puglia, 31 ottobre 2005)

 

 

 

L’avanzata del potere ecclesiastico

di Arrigo Colombo

         Su questo punto, del rapporto tra potere politico e potere ecclesiastico, la situazione italiana, negli ultimi anni, e negli ultimi mesi in particolare, si è fatta sempre più anomala.. Perché la gerarchia non si esprime più soltanto nei termini che le sarebbero consoni, l’affermazione dei grandi principi etico-religiosi; lasciando poi al laicato cattolico la loro elaborazione sociale e politica. No, interviene direttamente sull’attività del Parlamento, sulle sue decisioni, in termini prescrittivi, impositivi. Interviene in termini prescrittivi sull’attività politica in genere. Così in gennaio il Comitato permanente della Conferenza Episcopale afferma, nel suo comunicato finale, che il parlamento non deve correggere la legge sulla procreazione assistita. In giugno il nuovo Papa, incontrando per la prima volta il Presidente della Repubblica, gli fa tre precise richieste legislative (parla di "preoccupazioni", ma non senza un preciso riferimento ai legislatori italiani): contro il "patto sociale" per le coppie di fatto e le coppie omosessuali; contro la "procreazione assistita", la cui legge si vuole che resti intatta; su di una legge che deve garantire ai genitori "la libera scelta educativa senza ulteriori gravami". Lunedì scorso, nell’ultima riunione del Comitato permanente, il cardinale Ruini, che lo presiede, afferma che le unioni di fatto non devono essere riconosciute; che la prossima Finanziaria deve prendere sul serio le fondamentali esigenze delle famiglie (qui usa la parola "auspicio"); che abbia fine l’abuso delle intercettazioni telefoniche (qui la parola "necessità"). Intervenendo comunque qui su punti di legislazione molto particolari.

         Questa anomala situazione matura da una serie di fattori. A cominciare dalla passività e inerzia e mera esecutività cui è abbandonato il laicato cattolico; contrariamente al dettato del Vaticano II. Il fatto che sia scomparso il vecchio grande partito, la DC, non dovrebbe aver rilevanza; perché il laicato è presente come prima, e organizzato in modo molteplice; con anche due consistenti partiti. Ma non gli è riconosciuta l’autonomia, la libertà di pensiero e d’iniziativa; e i due partiti, anziché rivendicarla, cercano di assecondare la gerarchia per ottenerne il sostegno elettorale. In contrasto con la loro dignità personale e cristiana.  Questo contrasto si nota anche nei partiti laici, nei quali è maturata una particolare deferenza per il potere ecclesiastico; perché lo sentono forte sul piano etico, mentre essi, la Sinistra anzitutto, attraversano una fase d’incertezza. E perché, anche qui purtroppo, ne temono la forza elettorale.  Un effetto deleterio hanno avuto i "laici devoti", che scrivono libri e articoli con cardinali e teologi di palazzo; esaltano la gerarchia per la "marcia in più" che possiede, e sarebbe poi sempre quella etica; dimenticando quanto spesso sia arretrata, e piegata a volontà di potenza. La più recente evoluzione della chiesa cattolica, e della sua struttura gerarchica, va nel senso di un più forte "assolutismo". E’ la spinta impressa da papa Wojtyla, il suo più grave errore; in contrasto con la linea aperta dal Vaticano II. Rafforzamento e accentramento del potere. Perciò elide l’autonomia del laicato. Ma elide l’autonomia dell’episcopato stesso. Specie di quello italiano, nel quale non si sente più nessuna pluralità di voci. Quando, alcuni mesi fa, fu stabilita l’astensione nel referendum sulla "procreazione assistita", nessun vescovo osò discorrerne, discuterne (nessun vescovo in carica; solo un vescovo fuori servizio, quello di Troia); al contrario di quanto era avvenuto nel referendum sul divorzio, dove c’era stata una varietà di voci, e alcuni vescovi avevano invocato la "libertà di coscienza".

 L’idea, poi, di una particolare superiorità etica della gerarchia cattolica, di un patrimonio etico che essa sola possiederebbe intatto, e ne farebbe un faro per tutti, per il mondo laico in particolare, è falsa. O, meglio, è vera per quel mondo intellettuale e filosofico, o filosofico-politico, che al seguito della crisi della ragione moderna, precipita nel nihilismo e nel cosiddetto "postmoderno"; dove i vincoli etici vanno distrutti, come va distrutto ogni autentico vincolo di ragione. Ed è vera per il capitalismo, che afferma come unico il valore economico, pronto a distruggere ogni altro valore umano e di natura; a cominciare dal lavoro, che abbandona alla precarietà; e dall’ambiente, che degrada senza scrupolo (si veda il petroliere Bush, e la lobby dei petrolieri americani che rifiutano i protocolli di Tokyo, il loro pur modesto tentativo di ridurre la crisi ambientale). Ed è in parte vera, come già dicevo, per la Sinistra dopo il crollo del modello sovietico, e con esso del marxismo, cui s’ispirava come a un dogma. Ma non è vera per il processo di liberazione che l’umanità ha intrapreso nella modernità, e che è contrassegnato dalle "carte dei popoli", e in esse dai grandi principi etici o diritti fondamentali. A cominciare dalla "dignità e diritto della persona umana"; che si precisa in seguito nella "pari dignità e diritto di uomo e donna" e nella "pari dignità e diritto di ogni popolo". Si precisa nella libertà di coscienza e nella "pari dignità e diritto di ogni religione". Cose che la cattolicità ha acquisito solo in seguito, e lentamente, resistendo; e in parte non ha ancora acquisito. Così la "pari dignità e diritto del popolo ebraico"; così quella dell’omosessuale.

 Ruini, e l’intero episcopato italiano con lui, rifiuta il riconoscimento giuridico delle "unioni di fatto" (solo un cardinale – fuori servizio, però – lo ha riconosciuto) e lo dice contrario alla Costituzione. Ma nella Costituzione non v’è nulla di simile. Si dice soltanto (art. 29) che "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Non si esclude che, lungo il processo storico, possano insorgere formazioni analoghe alla famiglia. Anzi all’art. 2 si dice che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". La coppia di fatto è una di queste formazioni: è indubbio che in essa si svolga la personalità umana, nell’amore, nello scambio, nella procreazione; per costituire un fondamentale nucleo sociale di tipo familiare. Che per la chiesa cattolica può costituirsi solo col matrimonio, e indissolubile; ma al di fuori di essa può costituirsi anche diversamente. Nella sua intolleranza la gerarchia ignora il principio di analogia, che pur dovrebbe conoscere assai bene; in ogni caso il matrimonio e l’indissolubilità può chiederli ai suoi fedeli, non può imporlo allo stato.                                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 settembre 2005)

 

 

Davvero i PACS lacerano la famiglia?

di Arrigo Colombo

        

            La polemica è nata da una dichiarazione di Prodi che, a nome dell’Unione, esprimeva l’intento di regolare giuridicamente le coppie di fatto; ne aveva già parlato a luglio. È’ nata soprattutto dall’attacco astioso dell’Osservatore Romano, il giornale vaticano: che lo accusava di "lacerare la famiglia", e di farlo per cinici motivi elettorali, per "procacciarsi voti", seguendo in questo una malvagia "deriva zapateriana".

            Il giornale vaticano dovrebbe forse recuperare la pacatezza e la sensatezza che lo ha contraddistinto in passato. Si sa che l’ira acceca. Le cose infatti non stanno proprio nei termini che l’astioso articolo pretende.

            Il PACS, patto civile di solidarietà, è il nome dell’ordinamento introdotto nel ’99 in Francia dal governo socialista per regolare le unioni di fatto. E’ un contratto, sancito dalla legge, celebrato davanti al magistrato (il sindaco), tra due persone conviventi, anche dello stesso sesso, che conferisce loro una serie di diritti-doveri concernenti la loro vita in comune.

Si obietterà che è un analogo del matrimonio, che tanto vale allora sposarsi. Obiezione che ha un suo senso. Ma il problema da affrontare è quello delle unioni di fatto; le quali costituiscono in tutta Europa una tendenza forte, che in alcuni paesi supera addirittura il 50% delle unioni (Islanda, Svezia, Norvegia, Estonia); in altri paesi gli si avvicina (il 45% in Francia, il 45 in Germania e in Inghilterra; e si tratta di grandi paesi). In Italia siamo sul 10%, il che coinvolge tuttavia alcuni milioni di persone.

Una parte di queste unioni ha carattere di prova, e sbocca poi nel matrimonio. Ma v’è in molti proprio il rifiuto del matrimonio e della sua perentorietà, dei conflitti che quel forte legame provoca, delle complicazioni che comporta poi il divorzio; v’è la preferenza per un rapporto più fluido, meno imperioso e meno drammatico. I moralisti tendono a spiegarlo con l’individualismo, l’egoismo, l’edonismo che vizierebbero la società del nostro tempo. Il che è vero, ma solo in parte, se si pensa che in questa società è enormemente cresciuta, oltre alla libertà (della donna, in particolare, che prima era asservita), la tolleranza, la solidarietà, la volontà di pace.  

 

Ma la dinamica storica è più complessa. La chiesa cattolica afferma il matrimonio come indissolubile per sua natura, e come quello che meglio rinsalda l’unione e garantisce il "nido d’amore" pei figli. Per i conflitti e le rotture invoca la sopportazione e il sacrificio. Ma la dottrina del matrimonio indissolubile s’è fatta insostenibile da quando si è capito che fondamento del matrimonio è l’amore (il che è avvenuto lungo l’800, a seguito del Romanticismo; ma per la chiesa solo più recentemente, col Vaticano II). Se l’amore vien meno (e non solo la passione, quanto la  decisione e l’impegno amoroso), vien meno il fondamento e il matrimonio può sciogliersi; anche se potrà durare per altre ragioni, prima tra tutte i figli. Il matrimonio perenne consegue all’amore perenne, ed è certo il supremo ideale. Ma la dinamica normale prevede il possibile conflitto, quindi la separazione e il divorzio; con tutte le complicazioni interiori ed esterne, tutta la drammaticità che possono assumere. Negli USA il 50% delle unioni si scioglie. Il dramma è forte, e i media lo trasferiscono nella quotidianità di tutti. Ne consegue la cautela, o anche il rifiuto, la coppia di fatto.

Il cui status di amore, convivenza, procreazione, quindi di nucleo associativo stretto, nella società e nello Stato – nucleo nuovo, non previsto dalla Costituzione e dalla legge – ha bisogno di una norma giuridica che ne assecondi la coesione e ne faciliti i compiti; per il bene della società intera. Una norma giuridica analoga a quella della famiglia, di cui essa è un analogo. Così per i beni posseduti in comune; per la mutua assistenza (permessi di lavoro ecc.), l‘estensione al partner dell’assistenza sanitaria, il diritto di visita in ospedale e in carcere, le decisioni in caso di malattia, la successione nel contratto di affitto, la pensione di reversibilità; così in materia ereditaria. Perciò gli stati hanno sentito il dovere d’intervenire; l’Italia è tra le ultime in Europa, ma lo sta facendo, nove proposte di legge sono in discussione alla Commissione Giustizia della Camera. Prodi non fa che riaffermare una volontà che già è operativa, e che l’Osservatore Romano sembra ignorare.

 

Veniamo all’obiezione di fondo che il Vaticano oppone al PACS, e cioè che "lacera la famiglia", "ne mina la solidità e ne mette in discussione la stessa esistenza" (le parole del Papa nella sua visita al Presidente Ciampi). Il Vaticano sembra ignorare la dinamica storica in atto e il dovere dello stato d’intervenire. Vorrebbe che tutti si sposassero, che si sposassero religiosamente, e che tutti i matrimoni fossero indissolubili; ma la realtà è diversa, e lo stato ha il dovere d’intervenire su questa realtà. E intervenendo compie un’opera di cui il Vaticano dovrebbe riconoscere la bontà: in quanto contribuisce alla saldezza della coppia, quindi dell’unione amorosa e sessuale, e dello spazio amoroso dei figli; e in quanto offre un aiuto a questi fratelli, aiuto che il Vaticano dovrebbe qualificare di carità cristiana.

Semmai dovrebbe impegnarsi a cambiare la dinamica storica, almeno per i suoi fedeli, riconducendoli tutti al matrimonio religioso e indissolubile, di diritto e di fatto. Opera colossale, da lasciare forse alla Divina Provvidenza. Senza dimenticare, poi, che questi fedeli sono molti, certo, oltre un miliardo; ma molti di più, circa cinque miliardi, sono gli altri, che non cadono sotto la sua giurisdizione. La dinamica storica è troppo più vasta.

                                                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 15 settembre 2005)