I film del 2014

 

 

 

 

 

Indice:     ● i migliori

gennaio

David O. Russell – American hustle

Luca Miniero – Un boss in salotto

Lee Daniels – The butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca 

Paolo Virzì – Il capitale umano

Ridley Scott - The counselor – Il  procuratore

Alexander Payne – Nebraska

Martin Scorsese –The Wolf of Wall Street   

febbraio

John Wells – I segreti di Osage County

Joel e Ethan Coen – A proposito di Davis    

Carlo Verdone – Sotto una buona stella  

marzo

Steve McQueen – 12 anni schiavo     

Giovanni Veronesi – Una donna per amica

Spike Jonze – Lei – Her   

Brian Percival – Storia di una ladra di libri

Edoardo Winspeare – In grazia di Dio

aprile

Ferzan Ozpetek – Allacciate le cinture   

Alice Rohrwacher – Le meraviglie

maggio

Wes Anderson – The Grand Budapest Hotel                                  

Atom Egoyan – Devil’s knot-Fino a prova contraria   

Marco e Antonio Manetti – Song ‘e Napule  

giugno

Alexandre  Coffre – Tutta colpa del vulcano

Roger Michel  - Le week-end  

Louise Archambault – Gabrielle-Un amore fuori dal coro

Philippe Garrel – La gelosia

luglio        

Nick Cassavetes – Tutti contro lui-The other Woman

Clint Eastwood – Jersey boys

settembre

Michele Alhaique – Sena nessuna pietà

Jonathan Teplitzky – Le due vie del destino   

ottobre  

Pupi Avati – Un ragazzo d’oro      

Abel Ferrara – Pasolini

Edoardo De Angelis – Perez

Sabina Guzzanti – La trattativa

novembre

Anton Corbijn – La spia

Christopher Nolan – Interstellar

Wim Wenders e Juliano Salgano – Il sale della terra

Jean-Pierre et Luc Dardenne – Due giorni, una notte   

Steven Daldry – Trash

dicembre

Woody Allen – Magic in the moonlight

 

                                    

 

 

                        dicembre

Woody Allen – Magic in the moonlight

Al Massimo di Lecce il 12 dicembre 2014

Non c’è nessuna magica luce di luna in questo 44° film del supremamente prolifico e presuntuoso autore che fa un film all'anno.

C’è sì un certo intreccio di temi: da un lato una fanciulla che sarebbe sensitiva e spiritica; dall’altro il bell’uomo, illusionista di mestiere, che fa sparire elefanti (Colin Firth), e insieme brutale negatore di tutto ciò che trascende il reale, di tutto il mondo dello spirito. Troppo brutale, troppo reciso, troppo facile. D’altronde nessuno lo impegna in questo campo. C’è solo un ambiente di anziane signore rapite dalle doti della fanciulla; e un loro figlio, un cantante un po’ rude, un ricco piuttosto rude che la fanciulla la vorrebbe per sé. In un ambiente di ricchi americani creduli, insediati in Provenza negli anni venti. Ciò che poi sorprende è che il bell’uomo materialista, venuto espressamente per sbugiardare la fanciulla, finisca per innamorarsene; ma è un amore che manca di passione, di vitalità.

C’è anche un uso abusivo di musiche classiche accanto a certe canzonette insulse. E il film si rivela mediocre e banale, senz’anima. Ma certi critici lo hanno esaltato come mirabile creazione.

 

 

                       novembre

Steven Daldry – Trash

Al Cinema d’essai il 30 novembre 2014.

Daldry, regista cinquantenne che ha fatto solo cinque film, regista dal tocco fine che ci ha magari incantato coi quattro film precedenti: e cioè Billy Elliott, il delicato The Hours, The Reader, Molto forte incredibilmente vicino (da Safran Foer),. qui si cimenta in un film duro, un film di bambini, ma di quelli delle favelas di Rio, che ricercano i loro tesori nella discarica della spazzatura, Trash. Su quella discarica si apre il film, sui disgraziati che vi passano la giornata ricercando, l’estremo della miseria, della desolazione. Certo i bambini sono svegli, sono anche ladruncoli, ma sono soprattutto abilissimi nel correre tra le viuzze della favela, scalare muri, percorrere tetti, sfuggire alla polizia che li insegue. Sono forti, sono anche in fondo onesti. Qui, coinvolti nella vicenda di un funzionario che si è appropriato del denaro per la campagna elettorale del capo e ha nascosto il tesoro (tre grossi sacchi neri di plastica, di quelli per la spazzatura, ancora il Trash) nella sua presunta tomba; e avendolo alla fine scoperto, i tre grossi sacchi, non trovano di meglio che gettarlo in aria a grandi manciate in quella stessa discarica da loro frequentata; forse per offrirlo così a tutti quei poveri e disgraziati che la frequentano. Un atto grandioso.

Un film che lascia tuttavia qualche perplessità: se per Daldry, visto il suo percorso, era proprio questo il film da fare.

 

 

Jean-Pierre et Luc Dardenne – Due giorni, una notte   

Al Cinema d’essai di Lecce il 23 novembre 2014.

I fratelli Dardenne tornano con uno dei loro film, sempre un po’ secco, un po’ minimale, uno due attori. Anche se hanno vinto molti premi.

Una storia di questa nostra fase di crisi, quando si viene facilmente licenziati. Qui una giovane donna, un’assenza per depressione, per la cura. Il padrone ne approfitta per licenziarla. Non potrebbe, ma trova uno stratagemma, un referendum tra gli altri quattordici operai (è una piccola fabbrica di pannelli solari), e ad ognuno un bonus di mille euro. Lei chiede di ripetere la votazione: i due giorni e una notte sono quelli che le restano per incontrare i suoi colleghi e domandare il voto. Su questo pellegrinaggio si svolge il film, con esito vario, il bonus per molti è un’occasione, o anche una necessità, indispensabile. Alla fine ha raccolto sette voti, la metà. Il padrone rinuncia ora alla votazione e assicura comunque il bonus. Probabilmente è l’unica soluzione decente che gli resta.

Una vicenda dolorosa, un pellegrinaggio doloroso; ma i Dardenne non sprecano le emozioni..:  

 

 

Wim Wenders e Juliano R. Salgado – Il sale della terra

Al Cinema d’essai di Lecce il 16 novembre 2014.

Un documentario sul grande fotografo brasiliano Sbastiao Salgado e sulla sua opera.. In cui egli racconta la sua straordinaria avventura in giro per il mondo, e insieme la illustra col patrimonio fotografico ogni volta realizzato. Colpisce soprattutto la sua sensibilità per le sofferenze dei popoli, a cui egli presta particolare attenzione, e che si rinnovano dinnanzi a noi ferendoci profondamente, ferendo la nostra ignavia di occidentali. Le folle d’Africa in fuga dai massacri  e che muoiono di stenti e di fame, a centinaia di migliaia. Un film in cui il dolore umano è forte, invincibile. Così come la nostra sofferenza.

Egli poi conclude la sua avventura con un tratto positivo, Genesis, alla ricerca delle straordinarie bellezze della natura, del suo Brasile in particolare.

 

 

Christopher Nolan – Interstellar

Al Massimo di Lecce il 9 novembre 2014.

Ci si attendeva qualcosa di meglio da un autore di una certa tempra. Che si è invece imbarcato in un filmone di due ore e mezzo in cui si è perso. L’idea conduttrice è quella di una Terra che s’inaridisce e costringe i suoi abitanti a trasferirsi su di un altro pianeta. A questo si sta lavorando in una base NASA sperduta nella foresta; che sembra essere l’ultimo residuo della grande impresa in cui nessuno più crede.

L’inizio nella campagna non è male ma l’inaridimento, che poteva essere spettacolare, non c’è; si vede sempre una grande distesa di mais, il quale sarebbe l’ultimo prodotto che ancora resiste. Poi c’è la complessa nave spaziale, di una strana forma circolare, di cui ci resta ignota la composizione e lo scopo; mentre tutta l’attenzione si concentra sulla navicella e sulla sua vicenda tanto complessa quanto scarsamente significativa; ivi compresa l’idea dei tempi incongrui (la vicinanza di un buco nero rallenta il tempo, un’ora passata là equivale a sette anni terrestri). Quanto alla migrazione, non se ne sa quasi nulla. Suggestivo qualche passaggio, in particolare quello sul pianeta d’acqua con le sue onde alte come montagne.

Un altro film spaziale di scarso significato ed anche piuttosto noioso.

 

 

Anton Corbijn – La spia

Al Cinema d'essai di Lecce il 1° novembre 2014. A most wanted man.

Fotografo e regista olandese al suo quarto film. Da un romanzo di Le Carré.

La storia di una ricerca, impersonata con grande stile da Philip Seymour Hoffman in questo suo ultimo film, di cui è protagonista, il detective Günther Bachmann (è morto nel febbraio scorso per un’overdose). La ricerca dell’identità vera di un islamico di origine russa che giunge per vie traverse ad Amburgo (siamo dopo l’11 settembre 2001, e da Amburgo provenivano due degli attentatori), dove deve riscuotere una grossa eredità paterna (dieci milioni di dollari) che si teme sia destinata a finanziare i jihadisti. Una ricerca che giunge ad assolvere il sospettato quando lui rinunzia alla somma perché disonesta, accumulata da un padre disonesto; e la destina ad opere di solidarietà e beneficenza, indicate una per una.; e l’affida ad un suo onesto compatriota. A questo punto l’opera del detective sperimentato, anche se solitario, ciccione e beone, sarebbe compiuta; ma, mentre gl’islamici escono dalla  banca dove si è firmata la cessione, c’è il colpo di mano che li sottrae chiudendoli a forza in un cellulare. Forse la CIA (si vede l’agente donna, già prima più volte incontrata, che parte in macchina). Bachmann lancia un grido di rabbia. Per lui una nuova sconfitta.

La violenza prevale sull’onestà professionale, sull’onesta ricerca.

 

 

                     ottobre

Sabina Guzzanti – La trattativa

Al Cinema d’essai di Lecce il 26 ottobre 2014.

Un caratteristico prodotto, in cui s’intrecciano momenti documentali con momenti di ricostruzione o invenzione cinematografica, in un discorso di grande coerenza e interesse.

La trattativa dello Stato italiano con la mafia dopo gli omicidi, le bombe, le stragi del ’92-93; l’attacco riottoso e violento, attacco estremo; cui certi personaggi politici reagiscono nel modo più debole e vile, la trattativa con la mafia, la revoca del carcere duro a 300 mafiosi da parte dal ministro Conso, incredibile, ecc. ecc. Una vicenda ambigua che politica e giustizia non hanno mai affrontato, mai fatto chiarezza. Così il duo Berlusconi-Dell’Utri (quest’ultimo tuttavia condannato) e l’ospite mafioso Mangano, il preteso “stalliere” della villa di Arcore.

Un generoso tentativo di ricostruzione di questa vicenda oscura. Riaprirla, richiamarla alla coscienza.   

 

 

Edoardo De Angelis – Perez

Al Massimo di Lecce il 14 ottobre2014.

Secondo film, dopo Mozzarella stories, un film mediocre; qui un po’ meglio.

Film di camorra napoletana, ambientato nella  piccola grande metropoli del centro direzionale, una Napoli affatto inusuale, elegante e fredda. La storia di un avvocato ridotto a difendere d’ufficio i piccoli malviventi. Da un lato è disposto a collaborare con un boss che ha nascosto nel ventre di un  toro una partita di diamanti; pronto dunque alla delinquenza per denaro; cosa che farà. Dall’altra vorrebbe salvare la figlia che è legata a un bel giovane, un giovane camorrista. Che nel finale non esiterà a travolgere con la sua macchina, il suo modo perverso di  liberarla. La figura di Zingaretti dà una certa enigmatica dimensione a questo tipo d’uomo perduto.

 

 

Abel Ferrara – Pasolini

Al Cinema d’essai il 5 ottobre 2014:

Il grande e ambiguo regista italo-americano tenta qui un ritratto breve, l’ultimo giorno di Pasolini, impersonato con una eccezionale forza e vibrazione da Willem Dafoe. Basta di per sé questa straordinaria presenza a dare corpo al film. Perché poi quasi nulla accade: salvo la figura amorosa della madre con cui vive, alcuni brevi incontri, la ricerca del ragazzo per la sera (l’ignobile fatica) col  quale però non mangia, non cenano insieme prima dell’incontro, ma solo gli offre un piatto di pastasciutta, un piattone, che il ragazzo divora. Quasi un segno del distacco e disprezzo per quello che per lui era solo uno strumento. E però, diversamente dalla cronaca, Pasolini è prima assaltato e malmenato come frocio da tre ragazzotti; e il ragazzo gli dà il colpo di grazia passandogli sopra con la macchina mentre è a terra. Forse involontariamente.

 

 

 Pupi Avati – Un ragazzo d’oro      

Al Massimo di Lecce, il 1/10/014.

Un film mancato. Vorrebb’essere il cammino di riscoperta del padre, morto in un incidente d’auto, da parte di un ragazzo (Riccardo Scamarcio) che in vita l’ha odiato. Un padre ch’era sceneggiatore di film di serie B, mentre il figlio è un pubblicitario creativo, e anche sceneggiatore. Anzitutto la ricerca e la scoperta di un romanzo che vince il premio Strega; la scoperta quindi di una forza d’arte che non si supponeva. Una ricerca sfrenata e condita da farmaci, con improvvisi scoppi aggressivi, che finisce nell’alienazione totale, nel manicomio, in cui il ragazzo ormai dice di star bene e voler vivere. Questa tragica vicenda poteva essere altamente significativa, ma non matura i modo adeguato.

E l’intera storia – con anche una mezza fidanzata di scarso peso, e una Sharon Stone amante del padre debole e diluita – non è condotta con convinzione e coerenza; e soprattutto manca di profondità e di passione. L’insieme è inconsistente.

                                   

 

                             settembre

Michele Alhaique – Sena nessuna pietà  

Al cinema d’essai il 21 settembre 2014.

Film d’esordio, preceduto da qualche corto anche significativo.

Qui una famiglia di palazzinari  romani mafiosi di cui è nipote Mimmo, un capomastro, che è poi Pierfrancesco Favino imbruttito da un barbone incredibile. Tipo introverso, alquanto a disagio nell’ambiente, un capomastro che vorrebbe fare il suo lavoro e non avere altre incombenze, specie se di tipo mafioso. Perciò costretto ad una recitazione chiusa e inespressiva, Tra le varie incombenze il cugino gli affida in custodia una sua ragazza di Latina, una mezza escort, di cui s’innamora. Il film scorre senza nulla di significativo o di credibile; tranne il finale.

Quando la ragazza decide di tornarsene a casa e attende alla stazione degli autobus, e Mimmo pensa di raggiungerla e dichiararle il suo amore e forse vivere un’altra vita con lei. Ma arrivato lì, e intravedutola che attende, è sorpreso dal cugino, che lo saluta e gli spara nel ventre. Cade, ma riesce a rialzarsi e riprende l’ormai duro cammino. Ma intanto l’autobus è in partenza, la ragazza vi sale e se ne va. E lui ricade, questa volta per sempre.

Un finale forte, l’unica cosa buona nel film.

 

 

Jonathan Teplitzky – Le due vie del destino    

Al cinema d’essai il 14 settembre 2014-10-03

Regista australiano al suo quarto film. Opera notevole.

Il titolo italiano è più significativo dell’originale, The Railway man – L’uomo della ferrovia, in quanto penetra nel  tessuto profondo del film, le due vie essendo quella del male e del bene, della crudeltà e del rispetto della persona, della vendetta e del perdono.

Con l’esemplare interpretazione di Colin Firtn. I prigionieri di guerra americani che costruiscono una ferrovia sotto la crudeltà atroce dei giapponesi; mentre, quando lì arriva l’esercito americano, l’ufficiale dice ai prigionieri: Sarete trattati umanamente. Il principio del rispetto del prigioniero, che non è più combattente, è un uomo inerme; la dignità e diritto della persona umana. E, in seguito, la sofferenza che permane in questi uomini al ritorno a casa; sofferenza e volontà di vendetta. Eric in treno incontra Patricia (Nicole Kidman), s’innamora e la sposa; ma quel dolore è più forte. e lo tormenta. Patricia è nel film solo un'apparizione; altre cose premono, troppo forti e dure. Finché un amico trova su di un giornale della comunità giapponese il volto di uno di quegli aguzzini, che ora fa da guida ai turisti in quei luoghi; e spinge Eric ad andarci e compiere la sua vendetta. Ed Eric ci va, e lo vede, lo incontra nel piccolo museo di guerra che vi hanno costruito. E lo inchioda alle sue responsabilità. Ma quando prende il grosso bastone che ha con sé per spezzargli il braccio, non riesce: lo chiude in una di quelle gabbie in cui i giapponesi chiudevano loro, dove sta accucciato, come loro di sono stati; ha un grosso coltello e vorrebbe trafiggerlo, ma ancora non ci riesce. La volontà di perdono è più forte; e si abbracciano e diventano amici, e il giapponese s’impegna a parlare al suo popolo, e lo farà.

Una storia vera, una sofferenza e una volontà di vendetta che si redime nel perdono. Anche se di quelle atrocità non  ci si dovrà dimenticare.

 

 

                               luglio        

Clint Eastwood – Jersey boys    

Al Massimo di Lecce, il 2/0/014.

Film di scarso rilievo. Sarebbe la storia di un gruppo pop statunitense degli anni Sessanta, The four seasons, fatto di quattro ragazzi italo-americani del New Jersey; e deriva da un musical di successo.

Si parla molto dell’amore di Eastwood per questa musica; e si parla anche della pulizia di questo film, dello scorrere della narrazione. Ma si tratta quasi solo di concerti. Un storia si abbozza all’inizio, la  strada, il furto, la prigione di uno di loro, la famiglia di Frankie, il più dotato nei singolari acuti della voce; e in fondo anche il più saggio. Verso la fine c’è la crisi, i furti di Tommy, il ritiro di un altro; ma poi il gruppo si ricompone. Il rapporto con le rispettive famiglie sarebbe un punto chiave, per ragazzi che sono sempre in giro per un grande paese, ma ne esce solo la breve parentesi della famiglia di Frankie, il risentimento della moglie, la figlia Francine scappata di casa, e poi la morte. Ed è un episodio staccato. Il film è tutto preso dai concerti, troppo facile e troppo alienante dalla vita. Manca la costruzione di una storia, nella sua complessità.

 

 

Nick Cassavetes – Tutti contro lui-The other Woman

Al Massimo di Lecce l’1/07/014

Nick, il figlio di John Cassavetes, ormai quasi cinquantenne.

Qui una commedia brillante, diremmo, che è poi la vendetta della donna contro il libertino che passa da una donna all’atra, tradendo e mentendo. Finché le donne si coalizzano per colpirlo, umiliarlo, annientarlo. Tre donne, la moglie e altre due che nulla sapevano dei suoi legami; cui egli si diceva pronto a sposarle. Mentre lui quando torna a casa abbraccia e bacia la moglie come se nulla fosse. La vendetta è anche buffa, quando gliela fanno fare nei pantaloni; ma è amara, è l’annientamento dell’orgoglioso uomo d’affari cui la moglie (che è consigliere delegato dell’impresa) gli sottrae tutto il denaro e lo,lascia in mutande.

Commedia simpatica, anche se non raffinata.

 

 

                                 giugno

Philippe Garrel – La gelosia

Al Cinema d’essai il 29/06/014.

Regista francese ormai sessantenne con una decina di film..

In questo v’è forse una cosa bella, il bianco e nero, così com’è trattato. Il resto è molto confuso e poco significativo. Un trentenne, Louis, che fa l’attore – ma di tutto questo non si vede quasi nulla – ha una figlia che ama molto, va con questa o quella donna. Incontra Claudia, un’attrice forte ma che ha smesso, o forse interrotto, e sta un po’ con lui; poi lo lascia; forse ha capito il tipo, il nomade senza senso né gusto, si lega ad un altro uomo, che appena intravediamo. Louis è addolorato? non si vede; si dà un colpo di pistola ma non al cuore, dall’altro lato. Forse uno scatto di nervi? Così finisce.

 

 

Louise Archambault – Gabrielle-Un amore fuori dal coro

al Cinema d’essai il 22/06/014.

Giovane regista canadese al suo  secondo film; il primo è Familia.

Un film certo inusuale e coraggioso, un gruppo di disabili (la mente, la personalità) in una casa d’accoglienza, che già subito pone il problema e la tristezza di questo handicap che li affligge e li emargina; pur nel sorriso che ne illumina in certo modo il volto non compiutamente umano. Anche perché li vediamo nella prova di un coro musicale destinato poi ad accompagnare un affermato cantante in uno spettacolo. Qui il dramma di un amore che nasce tra loro, Gabrielle e Marcel. Gabrielle, che recita se stessa con una grande meravigliosa spontaneità; Marcel che è un attore, eppure si cala mirabilmente nel personaggio disabile. L’amore che spunta in quel gruppo, e che subito è osteggiato come cosa riprovevole, dalla madre di lui in particolare. Gabrielle che resta sola e sola vaga per la città e anche si smarrisce, pur con quel suo sorriso malato sempre sulle labbra. E però si ritrovano; proprio la sera del grande spettacolo s’incontrano, si nascondono sotto il palco e compiono l’unione amorosa; la tanto sospirata e sofferente. E ritornano poi nel grande concerto che in qualche modo la celebra.

 

 

Roger Michel  - Le week-end  

Al Massimo di Lecce il 172/06/014.

Decimo film di un regista inglese di medio calibro, di cui si ricorda Notting Hill.

Un matura coppia inglese - lui docente universitario, lei liceale - decide di passare un week-end a Parigi, per gl’inglesi certo una città romantica e ispiratrice; e dove loro avevano celebrato la luna di miele. Pensando forse di potervi rinnovare il loro rapporto, o di dargli un poco di maggiore vitalità; perché certo lo week-end è un tempo breve.

Qui il primo passo è della donna, che rifiuta l’alberghetto prenotato per un grande albergo dove addirittura ottengono una suite, l’albergo essendo del resto tutto occupato. E qui, e nella città, nella sua varietà passano quei giorni in un alternarsi d’intesa e di conflitto, cioè come sempre. E nulla in realtà alla fine è cambiato. E stranamente manca nel film anche il livello culturale che ci aspetteremmo da due docenti, la finezza del pensiero e del sentire. Nell’uomo, in particolare, un tipo medio, una figura mediocre; forse l’attore non adatto, Jim Broadbent.

 

 

Alexandre  Coffre – Tutta colpa del vulcano

al Massimo di Lecce l’11/06/014.

Secondo film di un regista francese di cui si sa poco.

Un vulcano islandese (che dà il titolo originario al film), che con le sue ceneri scombina i voli di linea in tutta Europa; e quindi la vicenda di una ex-coppia che dalla Francia deve andare a Corfù per il matrimonio della figlia.

Ma la coppia è divorziata da vent’anni e cordialmente si odia. Quindi il viaggio, con tutte le sue innumerevoli peripezie. Non sono partiti insieme ma ad un certo momento s’incontrano e da allora, più o meno contro voglia, fanno quel terribile viaggio sempre cordialmente odiandosi, nel sorriso o anche nella risata, nella beffa reciproca. Sino ad arrivare a quella bianca chiesetta che dalla montagna si staglia sul mare, dove c’è la figlia dolcissima e dolcemente amata, il matrimonio, la giovane sposa.

Quell’odiarsi cordialmente ma tenacemente è il tema del film; forse non nuovo ma sostenuto con grande verve, con avvincente tenacia (da Dany Boon e Valérie Bonneton). Molto belli i paesaggi.

                                    

 

                                        maggio

Marco e Antonio Manetti – Song ‘e Napule  

Al Massimo di Lecce il 22/05/014.

Forse il migliore tra i film di questi fratelli quarantenni, autori di seconda serie. In cui capito per caso.

Sarebbe un film poliziesco perché è la storia di un ragazzo che entra in polizia in seguito alla raccomandazione della madre al questore, e viene poi infiltrato in un gruppo musicale napoletano verace, quello di Lollo Love, come tastierista (in realtà è un pianista disoccupato); è chiaro che la polizia gli resta estranea. Viene infiltrato per riuscire a catturare un boss della camorra, in quanto sarà presente al matrimonio della figlia di un altro camorrista, matrimonio allietato dalle musiche appunto del gruppo. Il che avviene, non senza peripezie in cui il ragazzo viene ferito al braccio. In compenso la sorella di Lollo s’innamora di lui.

Film piacevole, per la musiche napoletane, la simpatia, e in particolare quel simpaticone di Lollo. Film anche ben costruito. Non altro.

 

 

Atom Egoyan – Devil’s knot-Fino a prova contraria   

Al Massimo di Lecce, il 9/05/014.

Il  regista canadese di origini armene che ha prodotto film toccanti come Il dolce domani si avventura qui ancor sempre in una storia di bambini, ma questa volta uccisi nel bosco  e gettati poi nel fiume che vi passa, uccisi nel «covo del diavolo» (ma il titolo dice il «nodo», a indicare la difficoltà di sciogliere il fatto delittuoso) da giovani satanici – sembra – in un rito satanico. I supposti colpevoli vengono condannati all’ergastolo e alla pena di morte, non però eseguita; ma resta sempre il dubbio poi che non vi sono prove decisive. Quasi un male profondo e invincibile, che non si giunge a colpire. Dopo sei anni i ragazzi, pur restando colpevoli, vengono scarcerati.

Una storia vera, un racconto scrupoloso di cui vengono annotati i momenti, ma che resta inerte, non riesce a prendere vita; non riesce neppure ad intessersi in una vicenda coerente. Colin Firth, nel ruolo di un investigatore privato che vorrebbe contestare e chiarire le conclusioni ancora immature della polizia, resta un personaggio inerte; più intensa la passione di Reese Witherspoon, la madre, che però resta marginale. Anche le musiche sono per lo più banali.

 

 

Wes Anderson – The Grand Budapest Hotel

Al Massimo di Lecce, il 7/05/014.

Un film che risente della fin troppo consueta leggerezza di Anderson. Pieno zeppo di attori famosi, sprecati certo. Con anche una vicenda, anche se raccontata; del portiere Gustave (Ralph Fiennes), che ha piuttosto un ruolo da direttore, dei suo debole per anziane signore che di lui s’innamorano; di un quadro rinascimentale che una di questa morendo gli lascia – tesoro preziosissimo – contestato dagli eredi legittimi; per cui finisce in carcere ecc. ecc. Ma è piuttosto una favola, in cui si muovono personaggi-burattini, in colori confetto, in inquadrature per lo più irreali, a cominciare dal grandhotel collocato sul cocuzzolo di una montagna, in uno staterello immaginario della Mitteleuropa, irreale totalmente. Insomma un divertissement di cattivo gusto e che profondamente delude. Ciò nonostante è stato premiato alla Berlinale. Nel finale la dedica a Stefan Zweig, a indicare i tempi e i modi.

 

 

                                        aprile

Alice Rohrwacher – Le meraviglie

Al Cinema d’essai il 25/04/014.

Un film che lascia molto perplessi, anche se ha avuto il gran premio di Cannes.

Pregevole forse il coraggio di rappresentare una famiglia che vive in un vecchio e malandato casolare di campagna, dove neppure è sicura di poter restare; la vita di campagna nella sua rustica durezza, impersonata anzitutto nella figura del padre, un tedesco dalle poche parole e dalla scarsissima empatia; una madre (Alba Rohrwacher, la sorella) piuttosto assente e che non supplisce a ciò che manca nel padre. Poi che ci sono quattro sorelle di cui la maggiore ha 14 anni. Una campagna rustica e desolata che non ha quasi nulla della stupenda bellezza della natura. C’è un lavoro fondamentale, quello dell’apicultura, delle arnie numerose, del lavoro con guanti e maschere dove gli sciami in fuga sono presi a manate e reintrodotti nell’arnia. Di  quel secchio di  miele che si rovescia e deve essere raccolto dal pavimento ruvido e sporco senza troppa cura.

Insignificante il cammello che ad un certo punto vediamo nell’aia e di cui nessuno si cura veramente: Che ci sta a fare? E il concorso televisivo in cui compare addirittura Monica Bellocci, bellezza affatto estranea a quel mondo; ma di cui non si sottolinea l’estraneità. Insomma che cosa si vuol dire qui? e quali sarebbero le meraviglie di questo luogo e di questa vita aspra  e dura? Forse l’averla ritratta? il tono documentale? e però ritratta ma non amata.

 

 

Ferzan Ozpetek – Allacciate le cinture   

Al Massimo di Lecce, l’1/04/014.

Ozpetek ritorna, in un film che sa essere luminoso e solare pur nel dolore, nella morte che avanza.

Siamo a Lecce (si vede, ad un certo momento, la caratteristica piazza Sant’Oronzo, e la cattedrale). Una prima parte fatta di vite e incontri giovanili, amicizie ed amori tra ragazzi; che culmina nell’incontro decisivo tra Elena, la delicata cameriera di bar, ed Antonio, il meccanico di garage muscoloso e forte, e anche un po’ selvaggio; l’incontro e l’abbraccio amoroso in quello stupendo tratto di mare dai colori di trascendente bellezza.

Una seconda parte, tredici anni dopo, Elena ed Antonio sposati con due figli, in cui irrompe la malattia terribile, il cancro al seno e il suo doloroso cammino che lento avanza e va verso la morte; e la intravede, nel letto vuoto della compagna di camera. Ma Ozpetek la evade con la ripresa della scena di amore davanti a quel meraviglioso mare. La ricopre di gioia, di vita gioiosa. Non sappiamo se poi la morte ha vinto; per ora ha vinto la vita.

Ma perché allacciate le cinture? per il pericolo? il pericolo estremo?

                                

 

                           marzo

Edoardo Winspeare – In grazia di Dio

Al cinema d’essai, il 30/03/014.

Qui il ritorno alla campagna, alla natura; dopo che la piccola fabbrica che lavorava per imprese del Nord si è chiusa sotto il peso dei debiti. Il fratello se ne va in Svizzera, ma la sorella maggiore, Adele, con la figlia, la minore e la madre si salvano in una casetta con ampio podere e uliveto che raggiunge il mare; e lì coltivano verdure e legumi, e ne fanno il loro lavoro e sostegno, vendendo poi ai negozi e mercati dei dintorni. E vivono dunque in quella campagna bellissima del Salento che, ad un certo momento un imprenditore vorrebbe acquistare, l’uliveto soprattutto, che costeggia il mare; ma la madre non cede. Essa che poi a 63 anni si risposa felice.

Il ritorno alla natura, dunque, come recupero della gioia di vivere? Qui Winspeare forse un poco si smarrisce perché in quella casa c’è una forte conflittualità, tra quelle donne, in particolare tra Adele e la figlia, svogliata e facile coi ragazzi, che pure si ritrova incinta. Il volto duro di Adele, che anche rifiuta l’uomo che l’amava. Mentre la matura madre è la più serena e saggia.

Una immersione nella natura, che tuttavia non riesce a penetrare l’anima e quietarla, e sublimarla.

 

 

Brian Percival – Storia di una ladra di libri

Al Massimo di Lecce il 23/03/014

Regista inglese che ha lavorato soprattutto per la televisione.

Questo film, che deriva dal romanzo di Zusak Marcus, è stato molto criticato perché tratterebbe con superficialità il nazismo e i suoi crimini. Poi che è un film che appartiene a quella vicenda. E però la sua vicenda è quella di una ragazza quattordicenne, Liesel, la cui madre ha dovuto lasciare la Germania in quanto comunista, e viene quindi  accolta da una matura coppia. Ed è essenzialmente la storia di questa ragazza, analfabeta all’inizio, della sua alfabetizzazione, della sua crescita spirituale attraverso la lettura; prima col padre adottivo che l’alfabetizza, poi col giovane ebreo che la coppia nasconde in casa (in cantina), il suo vero maestro, e quindi poi con le sue letture. Si arriva così alla fase catastrofica della guerra: i bombardamenti, sotto cui muoiono i due genitori adottivi; e anche lei rimane sotto, ma si salva. Resta sola, ma la guerra è finita e lei reincontra l’amico ebreo ritornato.

A parte la storia, la grande interpretazione della ragazza, Liesel., Sophie Nélisse, canadese; la sua stupenda capacità di affrontare la vita , la sua intangibile vitalità. Notevoli anche i genitori adottivi: Geoffrey Rush, l’uomo semplice e buono che a lei si dedica, antinazista, poi costretto al servizio militare, da cui tuttavia torna; e la madre, Emily Watson, la tipizzazi0one di una donna dura, forte, che tuttavia nasconde un grande cuore.

Strano che, pur essendo in Germania, le scritte dell’alfabetizzazione, l’alfabeto con le corrispondenti parole che il padre scrive sui muri di una camera, siano in inglese; come anche altre stampe e giornali. Il regista non si accorge dell’incongruenza? ma anche in altri film accade.

 

 

Spike Jonze – Lei – Her   

Al Cinema d’essai, il 16/03/014.

Il quarantenne americano partito con Essere John Malkovich. Geniale?

Qui un tentativo sull’amore digitale: qui un uomo che ha perduto la moglie, diviso, la firma del divorzio vicina (la si vede poi); che acquista un sistema operativo a voce femminile e inizia il colloquio con questa voce di donna, e in esso passa il suo tempo (è uno scrittore di lettere per clienti in rete, ma non lo si vede  mai al lavoro) e stabilisce un rapporto, che poi è anche un rapporto d’amore, corrisposto; sempre con quella voce, quella realtà digitale; fino a che non gli dice che lei colloquia con 8315 uomini ed ha un rapporto amoroso con 641. Un fatto talmente sbalorditivo che il già sempre sbalordito Theodore, l’alienato che si trascina  qua e là, trasecola e non sa che dire. E però è poi la voce che taglia il rapporto, per motivi tecnici.

Ecco dunque il rapporto consolatorio del futuro,  per uomini soli, uomini timidi, uomini sperduti; il rapporto alienativo in cui l’uomo magari già alienato ancora più e definitivamente si aliena. Come il Theodore che nella vita si trascina mesto, triste, il volto sempre uguale, sempre ugualmente depresso.

Un film che apre un futuro che diremmo pauroso; anche se è piuttosto ripetitivo..

 

 

Giovanni Veronesi – Una donna per amica

Al Massimo di Lecce, il 12/03/014.

Un Veronesi in tono minore, che contraddice il suo titolo e tema. Poiché certo una donna che praticamente convive con un uomo, una francese (Laetitia Casta) che non si sa come si ritrovi nel Salento, anche se ha qualche altra avventura, anche se v’è ed è intesa una libertà reciproca, non può essere solo amica; e infatti la troviamo alla fine, dopo i sette anni, sposata con lui e con due figli; ma della maturazione di questo amore non si sa nulla. In questa libertà di rapporti il film è anche spassoso, e insieme un po’ libertino, non essendoci nessun vincolo. Francesco (Fabio De Luigi) è la figura portante, l’avvocato di provincia che tutti rispettano, sempre positivo, sempre a suo agio, col sorriso forte e chiaro. Bello anche il paesaggio, che qui è il Salento, con la sua luminosità. Ma il film, in quella sua pretesa di libertà, finisce per essere piuttosto inconsistente.

 

 

Steve McQueen – 12 anni schiavo     

Al Cinema d’essai di Lecce il 2/03/014

Regista nero inglese quarantenne che in breve tempo si afferma con tre forti film: Hunger  del 2008, Shame del 2011 (vedi i profili critici, ambedue nel 2012), e questo del 2013.

La storia vera di Solomon Northup, un nero libero e professionista con moglie e figli, che col pretesto di un nuovo lavoro viene drogato e poi venduto come schiavo. Siamo nel 1841. Storia vera, narrata nella sua autobiografia.

Un film che traccia il quadro orrido inumano di uno dei crimini più iniqui dell’umanità, in pieno Ottocento. Quando la Dichiarazione d’indipendenza americana ha dichiarato da tempo che tutti gli uomini sono stati creati da Dio uguali, e dotati d’inalienabili diritti quali la libertà; e lo stesso aveva fatto la Rivoluzione francese; non solo ma il processo di abolizione della schiavitù era già avanzato lungo il secolo. Qui l‘ipocrisia di quella che si crede una grande nazione; qui l’avidità di denaro nel mercimonio umano, qui la crudeltà di uomini, di gentili donne, di famiglie. Il film è forte: così la fustigazione della ragazza che le lascia la schiena tutta orribilmente lacerata e sanguinante; o  il supplizio d’impiccagione, dove lo schiavo evita lo strangolamento reggendosi sulla punta dei piedi. E l’arroganza di questi padroni d’uomini, l’arroganza vile.

Solomon passa lungo questa orrenda avventura sempre uguale a se stesso; sempre silenzioso e prudente, sempre attendendo l’occasione; che infine gli si presenta quando un canadese dall’animo scevro, convinto della uguale dignità e diritto alla libertà di ogni essere umano, capita nella piantagione come assistente, ed accetta di consegnare alle autorità la lettera che reclama i suoi documenti e diritti di uomo libero.

Film severo, coerente, quasi in bianco e nero. Da ricordare che in questa fase altri film sulla schiavitù sono apparsi a turbare e riscuotere la nazione presunta eletta: Lincoln di Spielberg, Django unchained di Tarantino. Bene, molto bene.

                           

 

                           febbraio

Carlo Verdone – Sotto una buona stella  

Al Massimo, il 24/02/014.

Torna Verdone con la sua scalogna. Qui anche peggio, il corpo tozzo, lo sguardo ossessionato, sotto certe brutte lenti. Con un incipit catastrofico, la moglie morta gli riporta in casa i figli (con anche una nipotina); il dissesto dell’impresa finanziaria di cui è socio gli toglie lavoro e beni; un vero terremoto, con i due figli che ovviamente lo odiano come traditore della madre; e tutto questo gli toglie anche la giovane compagna, certo poco affidabile. A dire il vero, il dissesto finanziario è troppo rapido e scarsamente motivato; così come la ricerca di lavoro che segue; e anche la fuga della compagna è troppo rapida; insomma l’incipit catastrofico è un po’ abborracciato. Ma non importa, forse, perché deve solo provocare lo stato di sfacelo che segue, la perenne depressione, il Verdone perennemente dissituato e maldestro col suo sorriso amaro. C’è anche una parete eccessiva, di vero cartone, attraverso cui si sente tutto, ma proprio tutto.

Raggiunto questo stato estremo, ecco che rapidamente tutto si risolve. La figlia che col ragazzo inglese va a Londra, il fratello che la segue, l’amore di e con Luisa, la vicina dietro la famosa parete. Resta incerto che cosa Verdone voglia dirci: la buona stella? la speranza che non muore mai (ma qui non c’è speranza)? Il lieto fine non convince: forse era meglio restare  e resistere nel male.

 

 

Joel e Ethan Coen – A proposito di Davis    

Al Cinema d’essai di Lecec il 23/02/014

I due fratelli ci deludono, anche se i critici continuano ad osannarli.

Qui la storia di un cantante folk nel Greenwich Village degli anni ’60, Lewyn Davis, un tempo in duo con un collega, ora solo. Si trascina di qua di là senza soldi, senza casa, senza lavoro, con la sua chitarra e il suo sacco senza mai nulla concludere, senza neppur quasi mai cantare. Se non la bella tenebrosa canzone che sta all’inizio e alla fine, “Hang me”, impiccatemi; cui seguono le dure botte fuori dal locale da parte di un oscuro mafioso. All’inizio come alla fine, la stessa inesorabile miseria. Davis ha già deciso di tornarsene a lavorare su di un mercantile.

Una storia certo dolorosa, ma di scarsa consistenza.

 

 

John Wells – I segreti di Osage County

Al Cinema d'essai, il 3/02/014

Sarebbe il secondo film di un regista cinquantreenne. Con gente come Meril Streep (molto truccata, quasi irriconoscibile come vecchia madre; e però si ringiovanisce a tratti con una parrucca), Julia Roberts, Juliette Lewis, Ewan Mc Gregor, Sam Shepard.

Ma quale Osage County? Qui c’è solo una casa, e in essa una famiglia, con forse alcune altre case, sperdute nella grande immensa monotona pianura. Ma ormai ci vive solo una coppia, un marito alcolista e una moglie imbottita di farmaci per un cancro alla bocca. E però c’è anche un lago, in cui si suicida il marito alcolista che pure era un poeta.

Ed è nella grande cena funebre che scoppia il conflitto, nella grande scena che incentra in sé il film; dopo la quale il conflitto continuerà. La madre, con la sua verve malefica, con la sua doppia faccia di piacevole incantatrice e di perfida avversaria. E le tre figlie. La maggiore, Barbara, è anche lasciata dal marito, che se ne va con la loro figlia, è tesa, infelice, aggressiva; la seconda s’é innamorata del suo fratellastro e ammonita non cede. La terza ha il suo amore lontano, a Miami. Tutte in conflitto, se ne vanno tutte. Forse il simbolo esasperato della conflittuale famiglia americana.

Film teatrale, che infatti deriva da una pièce.

                                   

 

                              gennaio

Martin Scorsese –The Wolf of Wall Street   

Al Massimo di Lecec il 27/01/014

Scorsese ritorna, e con lui Di Caprio, il suo attore feticcio, dopo De Niro. Veramente qui non siamo a Wall Street, che il giovane broker ha lasciato dopo il lunedì nero. Jordan Belfort. Siamo a Long Island dove s’è imbattuto in una modesta e un po’ sbilenca agenzia finanziaria che ha trasformato e via via ingrandito. Un’agenzia che si rivolge ai grandi ricchi, e che invece d’investire il loro denaro, se lo appropria. Questa è l’arte truffaldina, qui i broker arricchiscono rapidamente

Il film dell’eccesso, dove tutto è smisurato. La truffa anzitutto, certo.La ricchezza, di Jordan in particolare, la grande casa, le Ferrari, lo yacht. I discorsi di Jordan alla sua truppa (anche se non valgono quello famoso di Gordon Gekko sull’avidità in Wall Strett di Stone), l’atmosfera d’esultanza che regna nella nuova finanziaria; dove di tempo in temo vengono introdotte giovani escort in quantità e si fa sesso (davvero un po’ eccessivo).

Ad un certo memento interviene l’FBI, inizia l’espiazione. Cresce a poco a poco; intanto il denaro è trasferito in Svizzera attraverso viaggi molteplici di persone adatte. Ma a un certo punto si profila un processo con una pena di vent’anni. Che però la giustizia americana è pronta a ridurre se Jordan collaborerà denunziando i suoi complici. Il che avviene, la pena è ridotta a 36 mesi e Jordan si ritrova così in un penitenziario, dove si gioca anche a tennis. Ha perso la moglie e i figli. Dice che il denaro conta anche in prigione. Insomma persiste nel male, il male trionfa in questo film dell’eccesso.

 

 

Alexander Payne – Nebraska  

Al Cinema d’essai di Lecec il 26/01/014

Il cinquantatreenne Payne è un regista di valore, anche se le sue opere non sono da noi molto note.

Qui un film in bianco e nero, che è già un’eccezione e il segno di un gusto preciso. Un road movie, film di viaggio che porta con sé la bellezza di una natura sempre affascinante.

Ma è anche film di vecchiaia decadente, il vecchio Woody che ha sprecato la vita, ubriacone, cattivo padre e marito – a parte la guerra di Corea –, anche se ha pur sempre una moglie e due giovani figli affettuosi. E con lui i vecchi compari che ritrova nel paese d’origine in cui si trova a passare; uno di quei tipici abitati americani sperduti lungo una grande strada vuota, persi nello squallore. Lui con l’illusione di aver vinto un milione di dollari per uno di quegli annunci insensati che ti arrivano a casa. E deciso a seguire l’illusione, anche a costo di andarci a piedi a quella città di Lincoln in Nebraska. Sì, il Nebraska come simbolo di decadenza, illusione, nonsenso; simbolo di un popolo invecchiato e decadente, sperso nel nonsenso. Un film amaro, né lo salva la gentilezza del figlio che asseconda l’illusione del padre e lo porta a quel nulla di nulla..

 

 

Ridley Scott - The counselor – Il  procuratore

Al Massimo, il 19/01/014.

Regista di talento, certo, di cui tutti ricordano Blade Runner e Alien. Ma eclettico, che arriva a questo film dopo aver fatto Robin Hodd e Prometheus. Insomma.

Qui un film di malavita, la malavita messicana, la più spietata possibile, cui non si sfugge. Ma perché Il procuratore e non l’avvocato, che è il senso della parola ed è quello che sempre compare nel film? Un avvocato che si compromette nel furto di una partita di droga (nascosta in un’autobotte); e perché poi? ed è anche l’unico che non viene spacciato, per quanto muoia di paura; almeno nel film, forse dopo. Un tipo serio, poi, non è facile crederci.  A Ciudad Juarez. Un film splendido di colore, di tipi inconsueti, di star del cinema; con anche scene spettacolari come il ragazzo motociclista la cui testa è segata dal perfido filo teso sulla strada; o la Cameron che fa la spaccata sessuale sul parabrezza della Ferrari; o   Dove la Cameron riesce infine a creare un personaggio complesso ed ambiguo, non è più la solita bambola. Mentre è sprecato Brad Pitt.

Lo si vede con piacere e orrore, nella sua totale immoralità, nella vittoria del male.

 

 

Paolo Virzì – Il capitale umano

Al Massimo di Lecec il 21/01/014

Il film è ripreso e trasposto dal romanzo dall’americano Stephen Amidon, collocato in Brianza, centrato nella sfarzosa villa di un finanziere disonesto. Secondo la critica vorrebbe raccontare la rovina del paese in questa fase; e a questo proposito si cita una frase di Carla, la moglie del finanziere, una figura di donna un po’sfasata (Valeria Bruni Tedeschi) su chi ha scommesso sulla rovina del paese e ha vinto.

Ma intanto il capitale umano del titolo sarebbe il valore da rifondere alla famiglia del poveraccio che è stato investito da una loro macchina ed è morto (lo si apprende dalle scritte conclusive). O si vuol forse dire che solo questo capitale è umano, mentre tutto il resto è disumano? Nel film c’è un grande sfoggio di macchinoni che circolano ovunque, e di cene da vip.

Ma in fondo che dice il film? C’è un impresario edile che investe una grossa somma in una speculazione presso il disonesto finanziere, e la perde al 90%; ma ecco che casualmente viene a conoscenza della notizia che può scagionare il di lui figlio (sempre sbronzo o drogato) dall’aver investito il poveraccio (la macchina è la sua), e con questa lo ricatta e recupera la sua somma. Due disonesti, che vorrebbero essere lo specchio della disonestà del paese? Forse, ma il film non è ben bilanciato, né chiaro; il sonoro è pessimo. Fabrizio Bentivoglio, nella parte del palazzinaro, è ridotto a macchietta, e perché poi?

 

 

Lee Daniels – The butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca 

Al Massimo di Lecec il 15/01/014

Daniels, regista di colore, regista di Precious, la sua opera più singolare, dove nel dolore estremo di questa ragazza sta forse il simbolo del dolore del suo popolo, il nero..

Ripreso qui, in questo film di oltre due ore, che ha in fondo il carattere del Kolossal nazional-popolare, ma contiene dolore e passione nel ricostruire la figura e la storia di trent’anni di servizio del maggiordomo, e insieme la storia della lotta per la liberazione del suo popolo.

La figura del maggiordomo (Forest Whitaker, con lui Oprah Winfrey, la donna che amerà sempre), dell’uomo che ha raggiunto la Casa Bianca; dopo essere stato il ragazzo cui il giovane signore bianco zoppo ha ucciso il padre e fatto impazzire la madre; l’adolescente che è fuggito e a Washington è cresciuto fino al grande hotel e poi alla Casa Bianca.  Ma è sempre un maggiordomo tra tanti; che serve e tace; che passa in quel mondo sapendo di non appartenervi, un estraneo che serve, tace, obbedisce, deve obbedire. E nel suo sguardo v’è questa coscienza, quest’angoscia. Negli anni della segregazione e discriminazione; negli anni stessi in cui si sviluppa la lotta liberatrice, in cui entra il figlio maggiore (l’altro va in Vietnam convinto di servire la patria, e vi nuore), i gruppi che infrangono la segregazione, siedono sulle tavole dei bianchi, sugli autobus dei bianchi, formano le “pantere nere”. Quando i leader muoiono uccisi, Malcom X, Martin Luther King. Lui sempre nella sua angoscia di servo. Passano i presidenti e nel film sono un po’ ridicoli, sbrigati in poche scene, e non somiglianti. A un certo punto anche lui un poco si ridesta, chiede che il suo salario sia pari a quello dei bianchi, chiede una due volte, accoglie il figlio che lotta. Ma nei suoi occhi resta sempre quell’angoscia, quel dolore di un popolo.

Una storia vera, dietro al film, quella del maggiordomo Eugene Allen. Una storia che nella sofferenza ci ridesta, ci fa partecipi.

 

 

Luca Miniero – Un boss in salotto

Al Massimo di Lecce, il 14/01/014

Regista mediocre, Miniero, che ha avuto qualche successo popolare con Benvenuti al Nord, poi al Sud. Qui invece c’è gente del Sud che si è rifatta al Nord, in particolare la protagonista Carmela diventata Cristina (Paola Cortellesi), e guida con padronanza e maestria la sua ben coesa famiglia, con marito passivo-arrendevole e due figli. Questa famiglia così ben coesa, anche se un po’ artefatta, è la cosa migliore del film. Quanto al boss, suo fratello, un camorrista che è costretta a tenere in casa  per qualche giorno prima del processo, è un Rocco Papaleo un po’smunto, su cui s’intesse una poco credibile storia.

 

 

David O. Russell – American hustle – L’apparenza inganna

Al Massimo di Lecce, l’8/01/014

Regista americano cinquantenne al suo quarto film. Quell’ «apparenza inganna» è banale e insignificante. Invece è la truffa che qui domina, e anche la truffa di Stato. Un filmaccio di due ore e mezzo condotto con brio, che avvince, pur nella sua mediocrità. E nella sua immoralità, perché qui sono i truffatori che trionfano, in particolare quel personaggio mediocre che vediamo all’inizio aggiustarsi i capelli col mastice (Christian Bale), grosso e rozzo, vissuto sempre di truffa; e la sua compagna Sidney (Amy Adams), con cui finisce degnamente per unirsi; lui che, pur nella sua rozzezza morale, aveva conservato un legame affettivo col figlio e con la moglie. L’unico che persegue un piano di giustizia, l’agente Richie DiMaso, soccombe; anche perché crede di poterlo perseguire con l’aiuto dei truffatori; e perché il piano è troppo ambizioso (una retata di politici corrotti), e ovviamente non piace al suo immediato superiore, che ad ogni passo lo boicotta. Finisce licenziato, buttato fuori. Così – sembra – vanno le cose nei servizi di Stato americani, di cui il cinema non cessa di denunziare la corruzione. Difficile pensare che sia solo fiction.