FILM DEL MESE 2013

 

 

 

da gennaio 2013 - Indice:     ● i migliori

 

 

gennaio

Robert Redford – La regola del silenzio  ● 

Ang Lee – Vita di Pi  ●   

Paul Thomas Anderson – The master     

Giuseppe Tornatore-La migliore offerta  ●     

Dustin Hoffman – Quartet       

Quentin Tarantino – Django unchained

febbraio     

Robert Zemeckis – Flight         

Steven Spielberg - Lincoln

Roberto Andò - Viva la libertà

Kathryn Bigelow – Zero dark thirty   

Gus Van Sant – Promised land

aprile

Christian Petzold – La scelta di Barbara   

Lorraine Lévy – Il figlio dell’altra

Derek Cianfrance – Come un tuono

Maria Sole Tognazzi – Viaggio sola

maggio

Steven Soderbergh – Effetti collaterali   

Tetsuya Nakashima – Confessions    

François Ozon – Nella casa

Sergio Rubini – Mi rifaccio vivo

Pablo Larraín – NO - I giorni dell’arcobaleno 

giugno

Paolo Sorrentino – La grande bellezza     

Agnès Jaoui -  Quando meno te l’aspetti

luglio  

Mira Neir - Il fondamentalista riluttante  

settembre

Dante Ariola – Il mondo di Arthur Newman 

Yaron Zilberman – Una fragile armonia 

Gianni Amelio – L’intrepido

Rawson Marshall Thurber – Come ti spaccio la famiglia

Gianfranco Rosi – Sacro GRA

ottobre

Ron Howard – Rush

Sofia Coppola – Bling Ring

Terrene Malick – To the wonder

Alfonso Cuarón - Gravity

Luc Besson - Cose nostre - Malavita

Abdellatif Kechiche – La vita di Adele  

novembre                                   

Rocco Papaleo – Una piccola impresa meridionale

Denis Villeneuve – Prisoners

François Ozon – Giovane e bella 

Giovanni Veronesi – L’ultima ruota del carro

dicembre

Pierfrancesco Diliberto – La mafia uccide solo d’estate

Asghar Farhadi – Il passato

Steven Soderbergh – Dietro i candelabri  

Woody Allen – Blue Jasmine  

Stephen Frears – Philomena 

 

 

 

                                    

                                dicembre

Stephen Frears – Philomena

Al cinema d’essai il 22/12/013

Frears produce qui un ‘opera di critica vigorosa, oltre che di umanità sofferente.

Una duplice critica del cattolicismo, in una delle sue forme più retro, quello irlandese. Da un lato l’ossessione della sessualità come peccato, come addirittura il più grave peccato (grave ex toto genere suo); per cui la ragazza ch’è rimasta incinta viene accolta (e reclusa) in una casa-clinica di religiose, dove partorisce, ma viene poi separata del figlio, che sarà poi ceduto in adozione  – forzata, contro la sua volontà, come punizione per il suo orrendo peccato. Dall’altro il costume corrotto e crudele di queste religiose, che recludono e straziano queste ragazze; che ricevono cospicue somme in cambio delle adozioni; che a certo momento distruggono i registri affinché nulla si sappia di questi crimini (ma dicono mentendo che i registri sono periti in un incendio), che vivono riverite e stimate nell’ipocrisia.

il film si sviluppa nella ricerca di un giornalista, insieme con la madre di uno di quei ragazzi (Judy Dench) a cinquant’anni dal misfatto. Opera forte, chiara, inesorabile nella stessa mitezza e volontà di perdono della madre, della sua profonda fede.

 

 

Woody Allen – Blue Jasmine  

al Massimo di Lecce il 1712/013

Un film drammatico, come da qualche tempo capita al caro Woody, già campione della commedia leggera, inoltre sempre impegnato in un film all’anno. Un po’ troppo, si direbbe

Qui la storia di una donna – una donna di classe, anche perché vive nella ricchezza e nel lusso frutto delle truffe del marito imprenditore; e però vive beata e non s’accorge di quello che tutti sanno (come spesso accade) che il marito è anche un libertino; finché un’amica non glielo svela e allora, dopo una lite furibonda, prende il telefono e lo denunzia; e il marito va in prigione e lì s’impicca. Ecco allora la donna sola, senza più casa e beni, sprofondata nella desolazione. Nulla, però, fa supporre che si sia pentita della telefonata.

C’è anche una sorella (o una sorellastra; ma ambedue sono adottive) bruttina e proletaria che le fa da contrappeso. Film solido, ben costruito, amorale tuttavia.

      

 

Steven Soderbergh – Dietro i candelabri   

al Massimo di Lecce l’11/12/013

Soderbergh ritorna alla grande con un film sfarzoso, anche se di uno sfarzo pervaso d’ironia, con grande tempra e grande brio. Su di un personaggio storico, uno showman, un pianista d’intrattenimento, un virtuoso, Valentino Liberace; un omosessuale in una società in cui l’omosessualità deve restare segreta, soprattutto in un divo; e il suo maggiore compagno e figlio adottivo Scott Thorson (che ha lasciato le sue memorie). Impersonati da Michael Douglas e Matt Damon.

Da un lato lo sfarzo estremo, l’eccesso fantasioso e fantasmagorico, pieno di colore e insieme d’ironia, in cui il divo vive; le sue brillanti ed eccentriche apparizioni. Dall’altro il sincero rapporto affettivo che s’instaura col giovane Scott; di lui sessantenne; spassoso anche. Che però poi trapassa nel drammatico quando un altro giovane si affaccia; il furore di Scott che tutto spacca; la separazione; gli avvocati. Infine la visita a lui morente di Aids, la riconciliazione. E le parole che Liberace pronuncia e si sentono mentre scorrono i titoli, parole di grande dignità e nobiltà.

Un’opera singolarissima.

 

 

Asghar Farhadi – Il passato

Al Cinema d’essai, l8/12/013

Regista iraniano quarantenne di successo: l’orso d’argento con About Elly, l’Oscar al miglior film straniero con Una separazione.

Di cui questo film è in certo modo il seguito, quattro anni dopo, quando il marito Ahmad torna a Parigi per firmare il divorzio. Marie nel frattempo vive con Samir, la cui moglie è all’ospedale in coma; un fatto alquanto repellente, che gli viene anche rimproverato dalla figlia grande che Marie ha avuto (con un’altra più piccola) da un matrimonio ancora precedente. Siamo nella comunità iraniana di Parigi.

V’è dunque uno sfacelo di famiglie, forse non così fortemente negativo per l’etica islamica che ammette la poligamia. V’è soprattutto, nel film, una enorme conflittualità che si sviluppa in continui litigi, soprattutto da parte della donna e madre, e della figlia maggiore (ma anche il piccolo Fouad, figlio di Samir, che non sopporta la nuova famiglia). Conflittualità che non porta a nulla, se non forse allo sfinimento; ma che anche nuoce al film, lo rende piuttosto ripetitivo. Che è poi il suo difetto maggiore.

Il passato non ha quel peso che gli dà il titolo: solo forse il fatto che delle unioni fallite resta ancora una traccia di affetto.

 

 

Pif  cioè Pierfrancesco Diliberto – La mafia uccide solo d’estate

Al Massimo di Lecce, il 4/12/013

Film d’esordio di un regista televisivo quarantenne. Insignificante il titolo.

La mafia vi è certo presente fin dall’inizio (il protagonista è concepito il giorno di un delitto di mafia) e in certo modo sempre. Ma nella prima parte è piuttosto la storia di un ragazzo di una qualunque famiglia siciliana, la scuola, la simpatia per una compagna, la strana simpatia per l’ambiguo Andreotti, il suo ingresso in un certo giornalismo anche al servizio di Salvo Lima o di altri politici; sempre però mantenendosi libero.

Nella seconda parte diventa un film storico, i grandi delitti mafiosi in Sicilia, l’attacco ai magistrati; cui segue infine il destarsi della gente, la grande manifestazione popolare. Un po’ stucchevole il finale, dove Arturo, che infine ha ritrovato la sua Flora, passa in rassegna le lapidi dei martiri di mafia.

Colori sgargianti, plateali

 

 

                                novembre

Giovanni Veronesi – L’ultima ruota del carro

Al Massimo di Lecce, il 20/11/013

Veronesi ritorna dopo Manuale d’amore, opera pregevole, almeno nella prima puntata. Il titolo da un'espressione del padre al figlio e protagonista del film.

Tenta di narrare la storia di un uomo comune, Ernesto Marchetti (Elio Germano), una specie di eroe del quotidiano, che con naturalezza e positività affronta la vita e i suoi passaggi; sposa la donna che ama, cresce la sua famiglia, affronta il lavoro nelle sue varie fasi con naturalezza e il sorriso sempre: prima tappezziere, poi un casuale e impreparato cuoco di scuola materna, ma soprattutto una piccola impresa di traslochi, col suo camion che scorrazza per le strade; con anche una parentesi  di alto management con amici truffaldini che finiscono in prigione; ma lui no, non è compromesso, riprende il suo camion.

Il tentativo di una commedia diversa, che coincide con una vita comune e positiva. Che poi ha dietro a sé, per brevi cenni in bianco e nero, punti salienti della storia italiana dagli anni settanta: il caso Moro, la caduta di Craxi e di tutto il sistema, l’avvento  del ridente e perverso Berlusconi. Che non dice molto ma tenta una prospettiva più ampia.

Un’opera singolare, anche se forse non del tutto riuscita.

 

 

François Ozon – Giovane e bella 

Al Cinema d’essai il 17/11/013.

Opera notevole, forte. Una ragazza diciassettenne di “buona famiglia”che fin dall’inizio non dimostra alcun interesse per l’amore, col giovane tedesco che conosce al mare e con cui ha la sua prima esperienza sessuale; come poi, più tardi, dopo lo scandalo, con un altro ragazzo che anche la famiglia accoglie pensando così di aiutarla. Invece la prostituzione, che esercita ogni pomeriggio in un albergo, con appuntamenti presi via internet o cellulare. Un metodico incontro in cui va ammucchiando denaro che nasconde poi in una borsa nell’armadio della sua camera. Fino a che non arriva la tragedia, la morte dell’anziano cliente, il suo tentativo di rianimarlo col bocca a bocca e il massaggio cardiaco, la fuga, non senza aver preso il denaro.

Con la tragedia, il blocco della sua strana attività: interviene la polizia, la famiglia è avvertita, il dramma familiare, la psicoterapia; ma lei stessa dirà poi che non si sente più di farlo, si sente come sporca.

Strano tipo di ragazza che diremmo apatica: nessun interesse, nessuna passione; anche la psicoterapia è per lei inutile chiacchiera; e neppure la festa cui la porta l’amica, dove ragazzi e ragazze s’incontrano in molti modi, cantano, danzano;  neppure questo l’attrae. Un tipo totalmente amorale, si direbbe, dove neppure dopo la tragedia .la sua coscienza si ridesta.

Sembra che Ozon s’interroghi sui problemi dell’adolescenza; di questa fase ancora informe  che può riserbare le più grosse e strane sorprese. Film drammatico e doloroso in cui una giovane vita si smarrisce, né si vede come possa essere recuperata.

 

 

Denis Villeneuve – Prisoners

Al Massimo di Lecce il 12/11/013.

Regista canadese di talento al suo quinto film.

Due bambine rapite e ritrovate alla fine dal poliziotto pacato e un po’ scettico di Jake Gyllenhaal.  Uno happy end inatteso e che sembra quasi estraneo al film. Che è dominato dallo scatenarsi della rabbia del padre di una di esse, Anna, il quale punta la sua ricerca sul giovane rimasto infantile ed ebete; che vive parte in un camper, parte ospite della zia. Punta su di esso ma non ottiene se non due parole che non sa interpretare. E passa le sue giornate e notti tra l’accanimento su di lui e l’alcol o anche il letto su cui si getta senza risposarsi; poi che si è giunti al quinto giorno dalla sparizione. Lui il torturatore; in un paese in cui vige ancora la tortura.

Film drammatico, tenebroso, dominato dalla notte o da giorni dalla pioggia battente, giorni oscuri. Dominato dalla disperazione dei giorni che passano. E dalla tortura del padre sul ragazzo ebete.

Gyllenhaal non convince molto, è un po’ fuori parte; forte invece il padre, Hugh Jackman .

 

 

Rocco Papaleo – Una piccola impresa meridionale

Al Massimo di Lecce il 6/11/013.

Papaleo, al suo secondo film, ci dà un’opera singolare, graziosamente dispersa e dispersiva, ricca di luce e di grazia. In un paesaggio di mare luminoso e bellissimo, su cui ritorna con insistenza e ci delizia.

E, per quanto dispersiva, la sua storia ha un senso, in quell’accolta di personaggi marginali: il prete spretato (interpretato da lui con grande misura e garbo), il marito cornuto e però musicista gioioso (che poi è Scamarcio), la prostituta che ha chiuso col suo mestiere, canterina, generosa; la coppia di ragazze che s’amano e che alla fine vengono da lui unite in una solenne cerimonia; i ragazzi della ditta di restauro del vecchio faro abbandonato (in cui la madre ha spedito il figlio per timore dello scandalo) e che assomigliano a dei clown gioiosi. Tutti uniti in quell’opera che trasforma il vecchio edificio abbandonato e cadente; così come trasforma il materiale di riporto e rifiuto raccolto in discarica. Ma sono soprattutto l’amicizia e l’amore fraterno che trasformano gli uomini e le cose.

 

 

                               ottobre

Abdellatif Kechiche – La vita di Adele  

Al Cinema d’essai il 31/10/013.

Opera notevole del regista franco-tunisino. Tra l’altro dura tre ore.

La storia di una ragazza positiva, solare, travolta da un amore lesbico, ma per lei un amore vero.

Una prima fase con la vita di scuola, le amiche, un breve contatto con un ragazzo, che non dura forse perché lei non si sente ancora matura; fase un po’ ripetitiva. Un seconda con l’amore lesbico e le scene lunghe, insistite di amore fisico, che tuttavia non stonano forse perché sono tra donne, o perché assumono una linea estetica, scultorea. Che termina con la scena durissima di gelosia, di grida ed urla, in cui viene scacciata. Nella terza fase è ormai maestra di scuola materna, il suo desiderio di sempre, i bambini; dove la sua solitudine è temperata dalla presenza e dal candore dei piccoli, che negli anni crescono ma sono pur sempre dolcissimi. Qui si colloca un ultimo incontro con l’amata, all’apertura di una sua mostra (poiché essa  è artista grafica) cui è invitata ma non più corrisposta (v’è un’altra). Le resta il dolore e la solitudine, e sul suo allontanarsi si chiude il film; ma non senza la fiducia che la sua forza interiore supererà la prova.  

 

 

Luc Besson - Cose nostre - Malavita

Al Massimo di Lecce il 23 ottobre 2013.

Malavita è il titolo del romanzo francese di Tonino Benacquista che sta alla base del film; ma titolo del film è The Family, la famiglia (insignificante il titolo italiano), perché di una famiglia si tratta, una famiglia molto unita e coesa, quella del mafioso Manzoni divenuto prezioso testimone dell’FBI e sostenuto da un programma di protezione che da Brooklin lo porta in Francia, in Normandia, in un piccolo paese, e però in una grande casa anche se vecchiotta.

Il film è piuttosto una parodia della mafia, parodia che nei suoi  modi e nei suoi eccessi finisce per diventare spassosa. La famiglia è infatti tenera e delicata, ma pronta a gesti estremi: il padre, che malmena duramente l’idraulico che non lo asseconda; la madre, che fa saltare la superette in cui non trova il burro di noccioline; la figlia, che abbatte a racchettate il ragazzo falso seduttivo; e lo stesso fa il figlio coi compagni prepotenti.

Il padre è un De Niro mafioso in vacanza, padre tenero, che scrive le sue memorie; la madre è una Michelle Pfeiffer sempre raffinata e bellissima; la figlia è una fine e bella ragazza che s’innamora dell’insegnante di matematica; il figlio è un adolescente molto a modo. Ma poi accanto al mafioso v’è un agente FBI, un Tommy Lee Jones dalla spettacolare grinta trucida. E infine v’è l’assalto finale con la mobilitazione di una moltitudine di ceffi che con un bazooka faranno saltare la casa, ma con la famiglia non riusciranno a nulla. Troppo abile, troppo scaltra. La vediamo ripartire in macchina nella notte verso altre destinazioni.

 

 

Alfonso Cuarón - Gravity

Al Massimo di Lecce, il 16 ottobre 2013.

Regista messicano di medio calibro.

Qui un film tridimensionale nello spazio. Sarebbe la vicenda di un’astronauta donna, un dottoressa (Sandra Bullock, che però è poco visibile, avvolta nelle tute spaziali; come non è visibile se non per qualche minuto il suo partner George Clooney). V’è all’inizio un lungo e insignificante armeggiare di astronauti intorno ad una stazione o nave spaziale. Si parlano anche, e parlano con la base di Huston; ma sono brevi frasi scarse di senso. Sembra che la donna, che riesce a sfuggire su di un velivolo spaziale all’incendio e scoppio della nave; corra prima in soccorso del partner che si era perduto negli spazi (ma il partner quasi subito scompare, non si sa come), e si diriga poi verso un’altra stazione che però viene investita e distrutta da quello che è forse uno sciame di meteoriti; e quindi decida il ritorno a terra, la navicella posandosi sull’acqua di una baia da cui poi raggiunge la riva. Una vicenda che non assume nessun risalto veramente drammatico né umano. Ed è accompagnata da una musica perenne veramente noiosa.

 

 

Terrene Malick – To the wonder

Al Massino di Lece il 15/10/013

Opera singolare del grande maestro in cui a stento si ritrova una storia, che pure è sottesa. Dell’amore che s’intreccia a Parigi, di una donna con un’americano; che continua poi in America dove ha una pausa in quanto a lei scade il soggiorno e deve ritornare con la figlia; mentre l’uomo è ripreso da un vecchio amore; e però poi i due si ritrovano. Opera astratta, rarefatta, e pure bellissima, quasi un canto continuo a Dio, all’amore, alla vita; un canto che si dispiega con accenti anche sublimi. Dove la donna domina con la sua soavità, la sua dolcezza, ed è Olga Kurylenko; mentre l’uomo, che poi è Ben Afflek, risulta un po’ goffo e fuori parte, manca di quello slancio, di quella singolare spiritualità..

 

 

Sofia Coppola – Bling Ring

Al Massimo di Lecce, il 4 ottobre 2013.

Ritorna Sofia, la figlia del padre famoso. Ritorna col fascino perverso del lusso di Hollywood, il, lusso delle ville di celebri attori e attrici, i gioielli, le collezioni di scarpe (Bling è parola gergale proprio in tal senso). Seduce gli adolescenti, ragazze soprattutto, che s’introducono di notte nelle ville deserte (i proprietari sono altrove, magari a New Yotk a girare un film) e rubano questi oggetti dei loro sogni frivoli, abiti soprattutto, da sfoggiare poi, gioielli, denaro; e passano poi le ore tra fumo e droga. Facebook è il punto di riferimento, dove le notizie compaiono.

L’America che affonda, i suoi figli che si perdono nella vanità, nell’immoralità, nella droga autodistruttrice. Gli 800 ragazzi che mandano messaggi di solidarietà a Marc, il ragazzo timido che in quell’avventura è entrato renitente, e si è perduto, e ora va incontro al processo e al carcere; e che di quei messaggi si stupisce sdegnoso.

Un film che si dilunga troppo, e diventa anche ripetitivo, in tutta la vicenda dei furti notturni e dello sfoggio. Cui non segue una catarsi; forse solo il ragazzo soffre, le ragazze piuttosto si vantano, inventano storie e falsi ideali. C’è un processo, ci sono delle pene, per lo più leggere, processo rapido, fuggevole. Nulla è cambiato. Un film leggero, forse anche falsamente piacevole, leggero troppo per un'adolescenza traviata.

 

 

Ron Howard – Rush

Al Massimo di Lecce il 2 ottobre 2013.

L’opera di un regista affermato, anche se non di alto livello. Rush cioè corsa, velocità.

Un film sulla Formula 1, in realtà la storia di Niki Lauda e del suo avversario James Hunt. Un Lauda molto giovane che in quel mondo rappresenta la forza della ragione, del controllo, della prudenza; che al Nürburgring, in una giornata piovosa e nebbiosa chiede la sospensione della gara; che nel gran premio del Giappone, in una giornata ancora peggiore si ritira dopo due giri. E però dotato di estremo coraggio, nel suo ripresentarsi e vincere dopo soli quaranta giorni dal gravissimo incidente in cui la sua macchina si era incendiata ed egli ne era uscito a stento pieno di ustioni.

Mentre Hunt rappresenta la passione del correre congiunta con quella del vivere mondano e libertino, fatto di donne, alcool, fumo; che lo porterà dopo due anni a ritirarsi, e a morire a 43 anni d’infarto. Passione e libertinaggio cui si  unisce tuttavia con un senso della morte, che secondo lui costituirebbe il fascino anche mondano di quelle corse.

Un film ben costruito, forte di umanità e di opposte passioni.

                                         

                             settembre

Gianfranco Rosi – Sacro GRA

Al Cinema d’essai di Lecce, il 29 settembre 2013.

GRA è l’acronimo di Grande Raccordo Anulare, l’anello autostradale che circonda Roma e sul quale si è costruito questo lungometraggio documentario, che è detto sacro per  assonanza col Graal, assonanza qui  indebita.

Questo documentario è lodato dalla critica quasi fosse addirittura un autentico film narrativo. In realtà delude. Ciò che di bello contiene è l’autostrada, col suo fremito continuo, il fragore inesausto delle macchine; e soprattutto il brillio notturno delle luci, su cui il film di tempo in tempo si sofferma; già all’inizio con insistenza. Le storie che vi inserisce non fanno emergere quello che forse lui avrebbe voluto, e cioè quel mondo che attorno al raccordo è andato sorgendo, con le sue peculiarità. Sono piuttosto bozzetti isolati: il botanico che cura le palme malate, il pescatore di anguille, il locale di spogliarello ecc. La ricostruita unità di questo mondo avrebbe dato al film tutt’altra risonanza.

 

 

Rawson Marshall Thurber – Come ti spaccio la famiglia

Al Massimo di Lecce, il 27 settembre 2013.

Terzo lungometraggio di un regista quarantenne di scarso rilievo, che però qui riesce in un film ben condotto ed esilarante, altamente godibile (bellissimi i paesaggi). Il cui originario titolo è We ‘re the Millers, Siamo i Miller, titolo sobrio, molto meglio dell’italiano.

Una famiglia di finzione, combinata da David – il simpatico spacciatore di marijuana che per salvarsi deve compiere una missione di massiccio trasporto droga dal Messico. Accanto a lui c’è la finta moglie e madre Sarah (una Jennifer Aniston non molto in vena), e  i due finti figli, Chase, una ragazzina perduta, e l’ignaro e timido ragazzo Will, figura certo singolare. Perché così su di un camper passeranno facilmente la frontiera, la famigliola in vacanza il 4 di luglio; come avviene all’andata; mentre al ritorno si salveranno solo per un improvviso impegno della polizia. Accanto a loro c’è una famiglia vera, quella dei Fitzgerald; vera ma in crisi, consumato l’amore e l’intimità; dove il marito Don è un poliziotto della DEA, l’antidroga.

Il linguaggio è spesso apertamente scurrile, molto più del solito; ma si perde tuttavia nella leggerezza dell’insieme.

Alcuni critici hanno visto in questa famiglia finta, come nella vera in crisi, un intento dissolutivo, la dissoluzione della famiglia americana; ma è  vero l’opposto perché la famiglia finta, con tutte le peripezie e i  pericoli che supera, e con lo stare assieme, finisce per diventare in certo modo una vera famiglia, con David a Sarah che si amano e convivono, e i due adolescenti che vivono con loro. E così li vediamo nel finale.

 

 

Gianni Amelio – L’intrepido

Al Massimo di Lecce, il 18 settembre 2013.

Un uomo che fa il più precario dei lavori, il rimpiazzo; per un’ora, più ore, un giorno. Rimpiazza lavoratori che si assentano per una qualunque necessità; chiamato da un caporale che si prende la sua percentuale e magari neppure lo paga. Fa dunque i lavori più disparati, dall’edile al meccanico al tessile, o anche i più strani; e certo questa varietà d’impieghi è piuttosto improbabile. Forse Amelio voleva rappresentare in termini estremi la precarietà in cui il capitale ha cercato in questi anni di asservire e sfruttare più a fondo il lavoro, e che si è espressa nella legge Biagi, nell’idea mendace di flessibilità.

Ciò che stupisce è ch’egli collochi in questa dolorosa e dannata situazione non un disperato ma un uomo buono, dolce, un Antonio Pane (Antonio Albanese) pronto sempre alla parola gentile, al sorriso ineffabile. Un uomo solo, tra l’altro, lasciato dalla moglie; che ha un figlio sassofonista che ama, certo; ma solo resta, incapace d’intessere altri rapporti, come con la ragazza bellina ma desolata, o forse anche paranoica. Sì che quel suo sorriso buono come pane diventa incredibile. O è paranoico lui stesso?

Nel film nulla accade, nulla di significativo. Forse Amelio vuole congiungere solitudine, precarietà estrema, insignificanza. Ma allora come sostenere quella bontà o quel sorriso? che poi, nel simbolismo, diventano atroci. Forse che i poveri precari e straprecari italiani dovranno accettare col sorriso la loro disperata situazione? Non sarebbe meglio la rabbia, la rivolta rabbiosa?

E quello sarebbe l’intrepido?

 

 

Yaron Zilberman – Una fragile armonia, 2012 

Opera prima di un documentarista di valore che anche ha avuto l’Oscar. A late quartet il titolo originale, forse un quartetto attempato. Un quartetto d’archi straordinario. Quattro persone che sono insieme da 24 anni, con 300 concerti, e stanno per celebrare il venticinquennio. Hanno raggiunto una straordinaria compattezza e sonorità, e stanno provando il quartetto n. 14 in Do diesis minore op. 131 di Beethoven, che si dice fosse il suo preferito.

A questo punto la crisi. Il coordinatore, il violoncellista Peter (Christopher Walken), più anziano degli altri di una ventina d’anni, si trova colpito dal  morbo di Parkinson, sia pure in fase iniziale; resiste per ora, ma prevede il ritiro; anche se è pronta una sostituta, Nina. In questo frangente il secondo violino, Robert (Philip Seymour Hoffman) chiede di alternarsi col primo, cosa che non viene accettata, romperebbe l’armonia raggiunta.. Entra in conflitto anche con la viola Juliette (Catherine Keener) che è sua moglie, che lo sorprende con un'altra donna e lo caccia da casa; ciò che poi non avviene in quanto Robert le protesta il sua amore, che per nulla è turbato da quell’unica caduta. Ma intanto la figlia Alexandra è entrata in amore col primo violino, il virtuoso e rigoroso Daniel (Mark Ivanir), suo maestro; ciò che turba ulteriormente i rapporti del quartetto.

È la tempesta, che s’abbatte sui quattro, i quali tuttavia continuano a lavorare e provare, risuonano le splendide musiche del quartetto beethoveniano, avvolgono l’intero film.

Infine la tempesta si acquieta. Vediamo il quartetto in concerto. A un  certo punto Robert s’alza, spiega al pubblico il suo ritiro; entra Nina, la musica riprende nella sua bellezza inesorabile.

Fim notevole, grandi interpreti, affiatamento, bellezza delle musiche.

 

 

Dante Ariola – Il mondo di Arthur Newman 2012

Alla multisala The Space cinema di Surbo l’8/09/013.

Debutto nel lungometraggio di un grande pubblicitario statunitense. Il titolo è Arthur Newman. L’aggiunta del «mondo» non si confà molto; è piuttosto una vicenda che implode.

Il tema di un uomo che ha una posizione, ha denaro, ha anche una sua umanità e moralità (Colin Firth), e che però, stanco di un’esistenza amareggiata dal divorzio, da una compagna che non ama, dal figlio che lo disprezza, decide di diventare un altro, si procura un nuovo passaporto – era Wallace Avery, diventa Arthur Newman –  e con un pretesto in realtà parte con la sua mercedes decappottabile per la nuova vita. È anche un  professionista del golf, ha l’invito per un lontano campo; ma non se ne farà nulla.

Il cambio di vita e di personalità, nell’idea di una vita altra e migliore.

Inizia lo scorazzare per le infinite strade d’America, i villaggi, i ristorantini sparsi, i motel. L’incontro decisivo è con una ragazza spossata dalla  droga, Michaela (Anna Heche), una sbandata e quasi moribonda ch’egli salva, e che sceglie di stare con lui, anche se in un primo tempo solo come compagna di viaggio, poi con un rapporto amoroso ma non profondo. Una ragazza dalla personalità scarsa, dalla parola scarsa; gentile ma sofferente di paranoia, come anche la sorella ch’è ricoverata, e la madre morta.

Ma ecco che il mero scorazzare per le strade si rivela scarso di senso; e in Newman riporta a galla l’amore del figlio, e lui stimola in Michaela l’amore e la cura della sorella.

Il ritorno a casa, dunque, l’avventura che implode, la tensione del film che si smonta, si sgonfia. Non sappiamo come sarà questo ritorno a casa di Newman, né quello di Michaela; di cui vediamo solo un quadro. La critica è stata severa con questo film; più  del giusto, credo.

 

 

                                          luglio

Mira Nair – Il fondamentalista riluttante. 2012     

Al Cinema d’essai di Lecce, il 1/07/013.

La regista indiana, che però opera negli USA, torna qui ad un film di livello. E però, stranamente, concerne il mondo pakistano ed islamico; in particolare l’ondata fondamentalista che ha il suo episodio vertice nell’assalto alle torri gemelle.

Dove un giovane ma eccellente manager pakistano, emigrato negli Usa a diciott’anni e ivi formatosi, integrato nell’alto mondo degli affari, e che “ama l’America”, si ritrova improvvisamente avvolto dal disprezzo, dal sospetto, dall’inquisizione (è arrestato e perquisito); perde l’amore della sua Erica, la giovane artista con cui anche si scontrava per certa fondamentale diversità di spirito e di costume; e infine decide lui stesso di lasciare quella professione unicamente tesa all’aumento del profitto d’impresa (con licenziamenti, con demolizione delle imprese non-profittuali); per tornarsene in patria, dove è accolto come professore nell’università di Lahore. Dove si ritrova nell’ambiente studentesco in lotta contro l’egemonia americana in Pakistan; si ritrova accanto al fondamentalismo e al terrorismo. Ma non cede, non accetta la violenza, non accetta quel fondamentalismo che gli richiama i “fondamentali” d’impresa che aveva rifiutato.

Questa storia è rivissuta durante un racconto che il protagonista fa ad un giornalista americano che è anche agente CIA, in un’atmosfera di reciproco sospetto; atmosfera di lotta, assalto di polizia. Ha alla base un romanzo breve di Mohsin Hamid dallo stesso titolo (in it. da Einaudi).Titolo tuttavia impertinente perché il protagonista non accetta il fondamentalismo né la sua violenza cieca e fanatica.

 

 

                                   giugno

Agnès Jaoui -  Quando meno te l’aspetti     

Al Massimo di Lecce, il 9/06/013.

Ma il titolo vero è Au bout du conte, cioè alla fine del racconto, di una storia.

Regista e attrice francese quasi cinquantenne con all’attivo una decina di film e molta personalità.

La storia di un uomo cui uno pseudo-veggente ha predetto il giorno della morte, il 14 marzo di quell’anno, una data che diventa per lui un’ossessione. Un uomo che gestisce una scuola di guida, un tipo severo, dalla parola scarsa, separato, con un giovane figlio ostile che lo cerca solo quando ha bisogno di denaro; un giovane piuttosto introverso ma compositore di vaglia. Un mondo di coppie separate, di famiglie sfasciate, di figli nevrotici; senza religione né fede, senz’amore. Un amore nasce tra due ragazzi, e sembra essere vero e forte; ma la ragazza cede facilmente ad un seduttore fascinoso. Nel finale un altro amore giovanile sembra  nascere o rinascere, ma è appena un pallido inizio. La Francia d’oggi, forse.

Un film ben condotto, ben intrecciati gli accadimenti e le storie. Dove domina la desolazione.

 

 

Paolo Sorrentino – La grande bellezza     

Al Massimo di Lecce, il 2/06/013.

Quale grande bellezza? quella di Roma? forse, che in parte è presente, almeno all'inizio, in tagli originali; ma non in seguito; pur essendo sempre notevole la fotografia. Così come notevole è la musica, specie corale.(tra gli altri il Requiem di Preisner), anche se non si capisce bene come si raccordi alla vicenda.

Non v’è storia; v’è una specie di vitellone felliniano di 65 anni; un giornalista che ha scritto un  romanzo quarant’anni prima (molto diverso da un altro suo analogo, il Mastroianni de La dolce vita; felliniane anche molte estrose toilette e acconciature), che passa le sue notti col jet set romano, onnipresente fino alla nausea, con i suoi luoghi comuni e le sue riflessioni superficiali, inconcludenti (è Toni Servillo, poveretto); in un film che non ha capo né coda, paurosamente noioso. V’è qualche spunto, anche se non gioca nell’insieme. L’attore inconcludente di Carlo Verdone, che ad un certo punto prende la decisione giusta, di tornarsene al paese. La santa omologa di Madre Teresa che, pur bistrattata in una vecchiaia decadente e ripugnante, si arrampica dolorosamente sulla Scala santa, in uno sforzo virtuoso estremo; figura che anch’essa non si accorda all’insieme, quasi un corpo estraneo. Beffata nella scena  del grande baciamano. Vi sono almeno tre di quei balli sfrenati e rumorosi, luoghi comuni e noiosi di molti film.

Che cosa si vorrebbe dire, dunque? Questa inconcludente e noiosa borghesia vorrebb'essere un'immagine simbolo dell'Italia del ventennio berlusconiano? Che però ha un ben altro calibro: di spavalda menzogna, di truffa, corruzione; di libertinaggio. Una ben altra forza immorale.

La critica ha però intessuto la celebrazione di questo film, chiudendo gli occhi sulla sua insensatezza e sul suo sostanziale fallimento. E ha avuto poi il suggello dell'Oscar. Ma si sa quanto spesso gli Oscar non vadano a segno.

 

 

                           maggio

Pablo Larraín – NO - I giorni dell’arcobaleno (2012)    

Al Cinema d’essai di Lecce, il 26/05/013.

Quarto film di un regista cileno trentenne.

Il No al referendum sul crudele e cruento regime militare che, sotto la pressione internazionale, Pinochet fu costretto ad indire, sicuro di vincere. In realtà ottenne il 46%, un quoziente alto (stranamente, diremmo) e però perse; e tornò la democrazia.

Il film segue la vicenda e il problema di come dovevano essere impostati quei quindici minuti che la televisione di stato concedeva giornalmente al No (come al Si); dove il giovane regista cui l’impresa è affidata (René Saavedra) persegue la linea della democrazia libera e gioiosa che seguirà al no, la linea di un gioioso futuro, più che quella – su cui altri insistono – di un triste passato, i crimini che la dittatura militare ha commesso, le migliaia di torturati, uccisi, scomparsi; di cui pure si parlerà; ma il tono dominante sarà quello del futuro gioioso. La democrazia come vita giusta, dignitosa, prospera e soprattutto libera e gioiosa. Che sarà la linea vincente.

Un film sobrio, quasi documentale, e che fonde sapientemente narrazione e documenti del tempo; ma appassionato, e ben costruito. Importante per la memoria del passato criminoso, in cui i popoli non devono più ricadere.

 

 

Sergio Rubini – Mi rifaccio vivo

Al Massimo di Lecce, il 21/05/013.

Rubini è regista mediocre, pur con un certo estro, e difficilmente indovina un film.

L’inizio non è male, la rivalità tra due persone, a cominciare dall’infanzia fino all’imprenditoria, in cui l’una sempre prevale, il conte Ottone di Valerio, che alla fine propone al rivale un falso affare in cui soccombe; per cui, disperato, si annega. Segue una specie di oltretomba in cui al suicida è concessa una settimana di vita  per redimersi con una buona azione; una di quelle magie in cui Rubini ogni tanto casca. In realtà è una specie di allucinazione che il suicida ha tra la caduta in acqua e il suo liberarsi dal cappio (con pesante masso) e riemergere. Dove lo vediamo ballare allegro nel finale. Ma il film non ha senso, se non forse in quel balletto allegro.

 

 

François Ozon – Nella casa (2012)    

Al Cinema d’essai di Lecce, il 19/05/013.

Regista francese di medio calibro di cui qui Angel del 2007 e Potiche-La bella statuina del 2010.

Piu significativo, forse, quest’ultimo, che sviluppa il rapporto tra la realtà e la sua narrazione, in cui la realtà s’inflette, s’inventa anche (così il suicidio dell’amico Rapha); anche se qui la creatività, l’invenzione creativa poetica e artistica è povera perché si tratta di un ragazzo di liceo, anche se dotato, che racconta di settimana in settimana brani della sua vita. Stimolato dal suo professore, col quale si stabilisce un rapporto e una complicità - incredibile tuttavia che il professore sottragga al collega di matematica il testo del compito in classe per favorire il suo pupillo, reato per il quale sarà poi sospeso dall’insegnamento.

In questa storia, così stimolata, il ragazzo penetra “nella casa”, nella famiglia borghese ch’egli invidia e ritiene “perfetta” (ingenua illusione); e, in momenti in cui è vuota, e l’amico intento ai compiti di matematica, la ispeziona; o anche, ospitato la notte, giunge ad entrare nella camera dell’amico e in quella della coppia immersa nel sonno. E, attratto dalla giovane madre (Emmanuelle Seigner) giunge a baciarla, ma non a conquistarla, come lei gli dirà restituendogli la sua poesia; ciò che porterà alla rottura violenta con l’amico, che ha visto. Così come tenterà l’approccio con la moglie del professore.

Il finale è squallido e incomprensibile. Il professore è lasciato dalla moglie, non si sa perché, e sospeso dalla scuola; è annientato; lo vediamo pallido e sfiduciato su di una panchina del parco parlare col ragazzo che ha abbandonato la scuola.

Alla base del film una commedia dello spagnolo Juan Mayorga.

 

 

Tetsuya Nakashima – Confessions (1910)     

Al Cinema d'Essai di Lecce, il 18/05/013.

Regista giapponese cinquantenne noto in particolare per due film, Kamikaze Girls e Memories of Matsuko, e per uno stile pop e colorito, qui completamente abbandonato per un rigore stilistico esemplare. Il film ha alla base il romanzo omonimo di Kanae Minato.

Qui una catena del male che si snoda inesorabile; in un mondo adolescente che al male si direbbe ancora immaturo, in un ambiente scolastico distratto ed anarchico. Una inesorabilità forse tipica dello spirito giapponese, che non conosce redenzione.

L’uccisione di una bambina di quattro anni gettata nella piscina della scuola da due ragazzi che prima l’hanno stordita con una borsetta che aprendosi provocava uno scoppio. Ma il ragazzo che l’ha gettata nell’acqua dov’è annegata ha visto ch’era viva, che si era ripresa dal colpo. Questo punto della volontà criminosa e della colpa ritorna più volte. È il male che genera male. Qui la confessione della madre su cui si apre il film (che però è intessuto di confessioni); il lungo racconto. L’insegnante che chiude così la sua esperienza in quella scuola del delitto in cui non può più stare; che ha individuato i colpevoli e li punisce immettendo nella bibita che hanno bevuto in quel momento il sangue inquinato dall’AIDS del suo compagno, che ha lasciato proprio per non essere inquinata e non inquinare la figlia. Il ragazzo che ha ucciso è preso da una specie di follia e scoppia in urla nella sua camera, e giunge ad uccidere la madre. E poi si ucciderà la ragazza e si giungerà infine a quella esplosione simbolica in cui tutto va in frantumi, il mondo intero, a lungo esplode il mondo, esplode il mondo dilaniato dal male: esplode la coscienza di colpa, si abbatte per terra ii ragazzo nella grande riunione. Su cui il film si chiude.

Un grandefilm la cui intricata vicenda in parte ci sfugge, ma non il senso. Ha avuto l’Oscar per il miglior film straniero.

 

 

Steven Soderbergh – Effetti collaterali   

Al Massimo di Lecce, il 12/05/013.

Soderbergh, regista di talento, ma ineguale. Qui tuttavia un film d’interesse e valore, anche se forse un po’ pasticciato e protratto. Qui gli effetti collaterali dei medicamenti psichiatrici: certo un grosso problema, specie negli Usa, dove questi medicamenti sembra siano più usati e abusati che da noi.

Qui gli psichiatri, il loro uso troppo facile di quelle droghe, magari forse ancora in fase di sperimentazione; o il loro contatto con le case produttrici; infine il loro dominio sui pazienti, o il loro abuso di essi.

Qui un medicamento che ha nome Ablixa, un antidepressivo, che produce pesanti effetti collaterali, tra cui una specie di sonnambulismo. Una ragazza che, mentre sta tagliando peperoni in cucina, e il marito arriva e l’abbraccia da dietro, gli affonda il grosso coltello nel ventre due volte, poi nella schiena; e così lo uccide. E però dice sempre di non sapere nulla di quello che ha fatto; nel processo e fuori (era probabilmente in quello stato di sonnambulismo); e viene chiusa in manicomio. Ma prima era in cura da una psichiatra, una donna, che però era lesbica e abusava di lei. V’è poi tutto il discutere e l’accusarsi tra psichiatri e avvocati e responsabili del settore. Alla fine la ragazza si sente meglio, quasi guarita, e ottiene di essere libera; ma lo psichiatra la minaccia: può sempre rinchiuderla.

                                    

 

                             aprile   

Maria Sole Tognazzi – Viaggio sola  

Al Massimo di Lecce, il 29/04/013.

Una figlia del grande comico, ora quarantenne, al suo terzo film, forse il migliore che abbia fatto.

Storia di solitudine. Di una donna (che poi à Margherita Buy, sempre intensa nella sua umanità) che vive nella sua professione di ispettrice di una catena di grandi alberghi a cinque stelle; e quindi è in giro per l’Italia e per il mondo, in questi spazi lussuosi in cui entra come un’ospite qualunque e in cui svolge il suo lavoro sulla base di questionari predisposti, un lavoro molto accurato in un ambiente che mira alla perfezione.

Una solitudine che sembra non pesarle, anche quando la sorella, che è sposata con due bambine, glielo fa notare; che solo ha una piccola crisi quando la studiosa americana che aveva incontrato nella sauna, e con cui aveva discorso, muore improvvisa nella notte stessa. Forse di fronte alla morte s’interroga sulla sua vita, e un poco si smarrisce. Crisi che la porta a reincontrare l’amico del passato (Stefano Accorsi) a dormire una notte con lui; ma che poi subito si placa, e il viaggio riprende.

Film esile e accurato, con grande schermo e grandi paesaggi, grande cura dell’immagine.  

                                    

                                    

Derek Cianfrance – Come un tuono

Al Massimo di Lecce, il 17/04/013.

Regista americano (ma il cognome è italiano) appena trentenne, al suo secondo film, dopo Blue Valentine, molto apprezzato. Ma il titolo originale è The place beyond the pines, il cui senso ci sfugge.

Il film soffre alquanto del suo snodarsi in tre tempi e diversi protagonisti. Il primo dominato dal motociclista campione dei luna park e del giro della morte, che trova poi lavoro a rapinare banche con la sua velocissima moto (come un tuono), e finisce sotto il colpo di un poliziotto cadendo da una finestra. Denaro per mantenere il figlio avuto da una donna che ormai lo rifiuta e sta con un altro uomo? Dubbioso.

Il secondo dal poliziotto che lo ha colpito dopo essere stato colpito ed è acclamato com’eroe; è onesto, e non si lascia coinvolgere dai compagni corrotti che trovano e si dividono il denaro del motociclista; al momento non osa rifiutarlo ma poi lo restituisce; e così, mentre i compagni finiscono sotto processo, lui inizia la carriera che lo farà procuratore generale dello stato di New York. Figura peraltro appena abbozzata, di debole spessore.

Il terzo sono i figli, dell’uno e dell’altro, compagni di scuola e amici; ambedue molto diversi dai padri. E però il figlio del motociclista, quando conosce la storia del padre, tenta la vendetta. Strano che il poliziotto e procuratore non reagisca con una rapida mossa al ragazzetto con la pistola, ma anzi s’inginocchi e scoppi in lacrime; e così lo commuova. Scontro tra crimine e onestà, ma un’onestà che vorremmo più forte.

 

 

Lorraine Lévy – Il figlio dell’altra

Dai Salesiani di Lecce, il 14/04/013.

Quarto film di una regista ebreo-francese.

Che affronta il tema del conflitto ebreo-palestinese attraverso una vicenda familiare, la sostituzione di un neonato nella clinica – come talora avviene – per cui la famiglia ebrea si trova il figlio della palestinese e viceversa. Il figlio amato, da cui non è possibile distaccarsi, anche se ormai ha diciott’anni e dello scambio ci si accorge quando egli fa la visita medica previa al servizio militare obbligatorio; il figlio della famiglia ebrea che abita a Tel Aviv; il gruppo sanguigno poi il Dna incompatibile. Sì che, attraverso la clinica si cerca e si trova l’altra famiglia; e la s’incontra.

Un film che s’intesse nell’amore profondo per i figli, e nel dolore che minaccia questo amore; negl’incontri tra famiglie, tra figli. Una commozione viva ma pacata. Mentre, su questi brevi viaggi, preme l’odioso muro eretto dal governo d’Israele, che torna e ritorna; e i checkpoint, i controlli da parte di soldati israeliani armati. L’arroganza d’Israele. La soluzione non può essere che una sola: che i due figli siano amati da ambedue le famiglie; che ebrei ed arabi si ricompongano in questo amore.

Un film denso e insieme leggero, dove gli affetti profondi sono vissuti con semplice dolcezza.

 

 

Christian Petzold – La scelta di Barbara   

Regista tedesco cinquantenne al suo quinto film.

Un’opera quasi perfetta. La Germania degli anni del regime sovietico, regime del controllo e della paura.

La giovane Barbara, una dottoressa che, in punizione di aver chiesto un passaporto per l’estero, il regime ha spostato da Berlino in un piccolo ospedale di  provincia. Dove è sola, e vuole restare sola, perché sa che la polizia di stato è onnipresente e nel collega e presunto amico può esservi la spia. Il primo nodo poetico è questa solitudine, questa personcina di giovane donna scevra, severa, sola, che evita ogni contatto; che si sposta in bici nel piccolo paese, nelle straducole di campagna battute dal vento dell’Est, non accetta passaggi; puntuale nella professione, protettiva verso una ragazza semidetenuta in una casa per minorenni.

Ha un amore, che di quando in quando viene dall’Ovest, e la sostiene, l’aiuta, prepara la sua fuga. Ma la notte in cui la zattera che la deve prelevare arriva, e v’è un solo posto, preferisce offrirlo alla ragazza che dalla detenzione era fuggita da lei, sotto la sua protezione. Preferisce il sacrificio e il rinvio; si salverà un’altra volta.  

 

 

                           febbraio

Gus Van Sant – Promised land

Dai Salesiani di Lecce, il 24/02/012.

Una terra, una comunità contadina minacciata da una società produttrice di gas naturale con promesse di grossi guadagni al seguito delle perforazioni; che però inquinerebbero le falde acquifere con pericoli per il bestiame come per la gente.

Bellezza di foto dall’alto, le grandi distese di verde, le belle fattorie e granai e silos che v si collocano, le strade che le percorrono. Steve Butler è l’agente che ha il compito di convincere i contadini, coadiuvato da un’impiegata (Matt Demon e Frances McDormand)

C’è un’assemblea della comunità in cui un anziano studioso e insegnante spiega alla gente il pericolo e chiede alcune settimane affinché tutti possano capire e riflettere; dopo di che un’altra assemblea deciderà. Butler continua il suo lavoro, anche se con difficoltà. Interviene pure un giovane ambientalista che fa una apparente controazione ma che in realtà è inviato dalla stessa società, come si scopre alla fine. Il che adonta l’agente Butler e lo spinge a parlare chiaro sui pericoli nell’assemblea; per cui viene subito licenziato e decide di restare lì, in quel paese che gli ricorda tanto quello in cui era cresciuto; e dove ha conosciuto una donna in cui spera.

Un film forse un po’ moscio, scarso di forza e di passione. Perciò la critica l’ha demolito; ma perlomeno discute un problema.

 

 

Kathryn Bigelow – Zero dark thirty 

Ai Salesiani di Lecce il 17/02/013

Il titolo porta il nome della missione, che è poi la sua ora, mezzanotte e mezza.

Il film della scoperta e dell’attacco mortale ad Osama Bin Ladem. Un’opera condotta con «msaschio» rigore, come si addice alla tempra dell’autrice (in collaborazione con lo sceneggiatore Bol, che è anche suo compagno). Film austero, quasi un documentario.  Che ovviamente segue i comportamenti anomali della superpotenza americana: la tortura dei prigionieri (anziché il rispetto della loro dignità e diritto di persona), la violazione del territorio di uno stato sovrano, il Pakistan, per catturare Bin Laden; l’uccisione e (ciò che on compare nel film) la sparizione in mare del cadavere di colui che doveva invece essere giudicato e condannato, ma non a morte.

Perno del film è una donna, Maya, che ha il fisico delicato, fine, fragile di Jessica Chastain (già protagonista de L’albero della vita di Malick); è lei che per oltre un decennio persegue l’arduo compito di ricerca dell’ago nel pagliaio (è il caso di dirlo), lo persegue con decisione sempre immutata, lottando coi superiori maschi che di lei si ritengono migliori (“chi è quella? è quella figlia di puttana che ha trovato Bin Laden”, la sua risposta) e con le indecisioni e lentezze della politica. Questa valutazione ed esaltazione della donna è il grande apporto etico e spirituale del film.

 

 

Roberto Andò - Viva la libertà

Al Massimo di Lecce, il 16/02/013.

Ma quale libertà? forse quella che si prende il politico che scompare piantando tutto? per qualche giorno, si dice; ma qui siamo in campagna elettorale e si arriva alle elezioni.

Film basato sullo scambio di due gemelli (come è avvenuto in altri film), impersonati da Toni Servillo. Quando il segretario del partito scompare – è andato a Parigi in casa di una vecchia conoscenza che là è sposata – il suo segretario pensa di sostituirlo col gemello in tutto simile a lui; tranne la schizofrenia per cui è stato ricoverato in una comunità psichiatrica,che tuttora ama e frequenta. La sua stranezza, i suoi discorsi un po’ sibillini, i suoi slogan piacciono, danno un tono nuovo alla campagna elettorale, sì che il partito vince le elezioni.

Ma all’infuori di questo gioco un po’ meccanico, e del resto scontato, il film non dice nulla. A parte la bravura o meno di Servillo nelle due parti.

 

 

Steven Spielberg - Lincoln        

Al Massimo di Lecce di Lecce il 3/02/013

Spielberg, regista ineguale, ci dà talora dei film di alto livello, come Schindler’s List, il vasto e ineguagliato  affresco sull’Olocausto, e come questo Lincoln. Che non è affatto biografico ma è quel momento nodale, quello sforzo supremo dell’abolizione della schiavitù in un paese fortemente schiavista. All’elezione di Lincoln nel marzo 1861 segue nell’aprile la guerra di secessione degli stati del Sud, cui Lincoln risponde col decreto di emancipazione degli schiavi nel settembre 1862, poi, quando la guerra va già verso la sua soluzione,  col 13° emendamento che abolisce la schiavitù, approvato dal Senato nell’aprile ’64 e dalla Camera nel gennaio ’65. In questo momento cruciale inizia il film, quando si tratta di ottenere il voto della Camera, che si presenta difficile. Il film è sempre condotto con la stessa serietà e lo stesso stile; ma nella prima parte si attarda in una serie d’incontri e di discussioni di non particolare interesse. Salva sempre la difficoltà dell’alta impresa umana, il voto, e lo sforzo di superarla. Acquista grande pathos col salire della discussione alla Camera e soprattutto con la votazione e con le manifestazioni popolari che la seguono; poi l’assassinio, trattato con sobrietà. Dove Lincoln paga con la vita la sua coscienza e lotta per la libertà, per la liberazione degli Stati Uniti dall’obbrobrio schiavista, e diventa un presidente martire della libertà. Il martirio che lo consacra per sempre.

 

 

Robert Zemeckis – Flight        

Al Massimo di Lecce di Lecce il 2/02/013

Il volo. Un film profondamente drammatico e doloroso. Di un uomo, un pilota d’aereo, che è schiavo di alcool e droga, e in questa schiavitù continua e affonda (è Denzel Washington, un po’ ormai appesantito e meno espressivo). In tutta la prima fase non lo sappiamo: quando si sviluppa il volo con oltre cento passeggeri, di cui è comandante, con le forti turbolenze che lo scuotono, lo sbalzano; poi l’aereo che diventa ingovernabile, precipita, il comandante che tuttavia lo riprende , lo fa persino volare capovolto, infine riesce a farlo atterrare in una zona erbosa, dove l’impatto provoca tuttavia sei vittime; e lo ritroviamo all’ospedale, e però con solo una lieve commozione cerebrale, una zona d’occhio ferita, le gambe che zoppicano. Ma nel suo sangue hanno trovato le tracce di alcool e droga.

Dopo pochi giorni esce e si ritira nella vecchia casa di campagna del nonno, per evitare giornalisti e fotografi; e incontra anche una simpatica donna, che già aveva incontrato in ospedale, che difende da un aggressivo e violento padrone di casa; e viene a vivere con lui. Ma la donna ha deciso di uscire dalla schiavitù della droga e lo invita con sé in un gruppo di alcolisti; cui però si sottrae; onde la donna lo abbandona, decisa com’è a liberarsi. Avrebbe voluto fuggire con lei in Giamaica.

Avvicinandosi il giorno in cui  dovrà comparire davanti alla commissione, il sindacalista suo amico lo fa ricoverare in un appartamento sorvegliato dove passa da sobrio nove giorni; ma l’ultima notte, mentre dorme, qualcuno sembra battere alla porta; non v’è nessuno, è invece un’altra doppia porta che lo introduce in una camera da letto (fine la scena della porta che tocca e batte) dove trova un frigorifero abbondantemente rifornito di alcoolici, e dove ricade pesantemente nel suo vizio, e così lo ritrovano al mattino.

Davanti alla commissione riesce a mentire e mentire fino al punto in cui non ne può più; come confesserà poi ai compagni in carcere: aveva mentito fin’allora ma non riusciva più a mentire oltre, Dio lo aveva come fermato. Così iniziava la sua redenzione.

Film notevole, molto ben costruito, eticamente e religiosamente sensibile.

                              

 

                                   gennaio

Quentin Tarantino – Django unchained       

Al Massimo di Lecce di Lecce il 30/01/013

Un film di oltre due ore e mezza. Stilisticamente non ha nulla della raffinatezza di Pulp fiction, non ha pretese stilistiche, si collega in parte allo western ma lo diremmo un film popolarmente narrativo condotto con vigore e coerenza.

La sua forza anche etica è la denunzia della schiavitù americana, dei suoi orrori, della sua crudeltà, del suo profondo inumano disprezzo dello schiavo. Così lo schiavo dilaniato dai cani; così la fustigazione, anche delle donne, vibrata con una forza e un sadismo, un vero piacere sadico; così la lotta tra due schiavi dinnanzi al padrone, che finisce con la martellata del vincitore, quindi la morte. È tutto un  mondo di umiliazione e di abiezione in cui si muove il film; quel mondo.

Figure positive sono il dottore dentista divenuto cacciatore di taglie e lo schiavo nero ch’egli libera e  fa suo compagno e collaboratore, Django appunto. Certo quel mestiere è strano ed inumano perché il cacciatore ha il compito di portare alla giustizia il criminale vivo o morto, e quindi per lo più lo uccide. Ma il dottore è comunque figura positiva e simpatica per la sua opposizione allo schiavismo, il suo accompagnarsi allo schiavo che ha liberato come ad un amico; la volontà di liberare anche la sua amata che è schiava di un grande negriero, Calvin Candie. Qui avviene, verso la fine, lo scontro che porta ad una furibonda sparatoria in cui viene decimata la casa del negriero. Mentre nel finale Django, recuperata la sua amata, farà saltare con la dinamite quella grande costruzione neoclassica, col grande colonnato. Distruzione simbolica. Siamo nel 1858, tre anni appena prima della guerra di secessione che  scoppia nel 1861.

 

 

Dustin Hoffman – Quartet       

Al Santa Lucia di Lecce il 26/01/013

Del 2012: Dustin Hoffman a 75 anni fa il suo primo film, e un film sulla vecchiaia. Forse si sente vecchio, non ha maturato la visione utopica della “terza giovinezza”, non conosce la profezia isaiana “morire a cent’anni sarà morire giovani”: profezia che si sta avverando; è succube del pregiudizio corrente.

Qui, poi, la casa di riposo per anziani, che il pregiudizio lo moltiplica, lo concentra, lo appesantisce. Anche se si tratta di una casa particolare, per musicisti, che dunque risuona continuamente di musicalità: solisti al pianoforte, quartetti d’archi, e soprattutto l’opera, i grandi dell’opera, le arie, i cori. C’è anche una particolare malinconia perché qui ci sono soprattutto i grandi solisti, i cantanti d’opera abituati all’applauso nei grandi teatri del mondo; i grandi concertisti. Che forse potrebbero elidere la malinconia rivivendo quella grandezza, risentendo quella musicalità. Ma non avviene.

Certo il posto è magnifico, la grande villa, i prati verdi che si stendono, si perdono nella natura; una villa anche sontuosa. Ma non basta.

Il titolo deriva dal quartetto del Rigoletto che si canterà nel gala offerto agli amici e benefattori nell’anniversario della morte di Verdi; intorno a cui s’intesse una storia, di due cantanti che s’erano amati e sposati ma quasi subito divisi; una storia in cui ritorna l’amore.   

 

 

Giuseppe Tornatore - La migliore offerta  ●     

Al Massimo di Lecce il 13/01/013

Film di grande levatura, che sfiora il capolavoro. Grande cast, narrazione calibrata e avvincente, finale problematico e doloroso.

Film in cui giocano venature ideologiche. L’arte, che è il tema dominante, in cui è maestro il protagonista, un esperto d’arte e internazionale conduttore d’aste; e però inesperto nell’arte di amare; abituato alla contemplazione della donna d’arte, i quadri di cui ha riempito il suo segreto caveau contemplativo, ignaro della donna vera. Se in ogni falso o in ogni copia si può trovare il segno personale del copista o falsario, che ha voluto o gli è sfuggito (in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico); così nella verità si possono nascondere momenti di falsità. “Vivere con una donna è come partecipare ad un’asta; non sai mai se la tua è la migliore offerta”.

Qui il grande esperto, ormai sessantenne, che ha vissuto tutto e unicamente per l’arte; il carattere altezzoso, insofferente; perfetto nell’apparente stile di vita. Che incontra la giovane donna sofferente di agorafobia, chiusa nella sua stanza in quella casa preziosa e colma d’arte di cui, morti i genitori, vuol vendere tutto. La sente parlare, la spia, e tanto più ne è attratto quanto più essa si sottrae. Fino a che avviene l’incontro e nasce l’amore (o almeno così sembra) e tutto in lui cambia, e decide anche di chiudere con la sua vita di esperto, e va a Londra per la sua ultima asta.

Ma al ritorno la giovane donna è scomparsa; dalla sua casa, in cui si era trasferita; dalla vecchia casa di lei; e con lei sono scomparse le donne della sua preziosissima collezione. La sua vita è sconvolta; lo vediamo ricoverato e quasi ebete; o che si riprende, fa ginnastica; è tentato di ricorrere alla polizia; al bar di fronte le cose si confondono perché lì c’è un’altra Claire, una nana intelligentissima, che si dice lei la vera proprietaria della vecchia casa preziosa. Alla fine lui va a Praga, va al locale di cui gli aveva parlato la sua donna, dove lei s’incontrava col suo giovane amore; si siede a un tavolo, attende.

Che cosa dunque è accaduto in quei pochi giorni? chi può saperlo? nella delusione e nel dolore si chiude il film, e anche il nostro animo esce sofferente dalla sala. Attento alla vita! alle sorprese che riserva, che può riservare.

 

 

Paul Thomas Anderson – The master     

Al Santa Lucia di Lecce il 6/01/013

Film di grande ambizioni, per l’autore di Magnolia e de Il petroliere; ma che lascia perplessi.

Il maestro è una di quelle figure carismatiche e profetiche – o pseudo tali – che negli Usa furoreggiano: come Ron Hubbard, fondatore di Dianetics, e molti altri. È impersonato da Philip Seymour Hoffman, con la sua corposità e il suo carattere forte e insieme morbido. Ma la sua dottrina come il suo metodo non si caratterizzano abbastanza: reincarnazione sì, introspezione, memoria e immaginazione; e neanche le sedute sono abbastanza significative. Quale l’obiettivo, quali le vie per raggiungerlo? Troppo vago. Di fronte a lui il marinaio Freddie, la cui madre è morta in manicomio, e  che è uscito dalla Seconda guerra mondiale con la psiche sconvolta: con l’ossessione sessuale (si vedano le scene di apertura), quella dell’alcool, l’aggressività. Cui il maestro si dedica in sedute ed esperienze varie e che non approdano a nulla. Se solo si guarda alla sua faccia tirata e disperata nell’ultimo incontro nella grande sala, dove il maestro siede dietro ad un grande tavolo avendo alle spalle una grande vetrata.

 

 

Ang Lee – Vita di Pi    

Al Santa Lucia di Lecce il 3/01/013

Film singolare e un po’ scomposto, almeno nell’infanzia e adolescenza di Pi (abbreviazione di Piscine Molitor con cui lo chiamò il padre, e che si prestava a deformazioni offensive): la fede in particolare, che tende al sincretismo dall’indiano-cristiano-islamico, le tre religioni ch’egli incontra. Il film è tutto raccontato ad un giornalista in Canada, dove Pi si è trasferito seguendo l’intenzione del padre.

Ma la grandezza e grandiosità dell’opera, l’epopea, sta tutta nella tempesta oceanica che si scatena mentre Pi con la famiglia si sta trasferendo in Canada dove il padre ha venduto gli animali dello zoo che possedeva in India. Pi è indiano. Sta nella grandiosità della tempesta, immensa, estrema.  La grandiosa e grandiosamente squallida solitudine in cui è abbandonato e vive e resiste l’adolescente (l’unico che viene calato in tempo dalla nave in una scialuppa, prima che la nave s’inabissi) in quell’immenso spazio oceanico; dove gli è compagna solo la tigre, che ha divorato gli altri animali saltati nella scialuppa, e vorrebbe divorare  anche lui; ch’egli riesce ad ammansire ricordando ciò che avviene nei circhi. Solitudine, riflessione, lettura, scrittura, rafforzamento interiore, fiducia nel Dio che salva. Nella scialuppa v’è acqua e cibo e altre cose. Raggiungerà la costa del Messico, sfinito.

Quasi una parabola della vicenda umana, della forza che richiede allo spirito, della fede come forza suprema.

Bene il personaggio dell’adolescente, meno quello dell’adulto. Alla base il romanzo di Yann Martel, ma anche il ricordo di Gordon Pym e di altri racconti.

 

 

Robert Redford – La regola del silenzio   

Al Santa Lucia di Lecce il 1°/01/013

The Company you keep è il titolo originale. Redford riesce qui a darci un grande film. La contestazione della guerra in Vietnam, gli Weather Underground degli anni Settanta. Trent’anni sono passati da questa lotta giovanile anche violenta (bombe notturne in sedi e uffici governativi – ma qui la rapina in una banca con l’uccisione di un uomo), lotta contro il potere ingiusto che mandava i suoi giovani alla morte in una guerriglia che non aveva ragione, violando uno stato sovrano, e che era già persa in partenza. Trent’anni. Una donna, Sharon Solarz, si consegna alla polizia; un giornalista scopre che l’avvocato che si fa chiamare Jim Grant è invece un membro del gruppo e presunto autore della rapina. L’avvocato fugge, incontra vecchi compagni che lo aiutano anche se non vogliono avere guai, si nasconde in un casotto ligneo nella foresta al confine del Canada; ma la sua telefonata alla figlia adolescente che adora lo tradisce. Lì incontra Mimi Lurie, la compagna di lotta che è rimasta fedele all’ideale di allora, che non tollera il preteso ordine di uno stato profondamente ingiusto; mentre lui e gli altri ormai pensano che fu pure un errore. Strana conversione. L’avvocato sarà preso e scagionato; ritrova la figlia adorata che il fratello aveva preso con sé: lo vediamo nel finale camminare parlando con lei in un viale alberato.

Ricordo, nostalgia di una lotta giusta, di un amore della giustizia che ancor sempre è vivo. Grande cast. Alla base il romanzo di Neil Gordon.