FILM DEL MESE 2011
gennaio Joseph Kosinski, Tron Legacy J.-Pierre Jeunet, L’esplosivo piano di Bazil Karan Johar, Il mio nome è Khan ● Clint Eastwood, Hereafter ● Stephen Frears, Tamara Drewe Michele Placido, Vallanzasca, Gli angeli del male Richard J. Lewis, La versione di Barney Tom Hopper, Il discorso del re
febbraio Mike Leigh, Another Year Alejandro G. Inárritu, Biutiful John Cameron Mitchell, Rabbit Hole Pascal Chaumeil, il Truffacuori Paolo Genovese, Immaturi Darren Aronofski, Il cigno nero ● Joel e Ethan Coen, Il Grinta Jaume Collet-Serra, Unknown - Senza identità Debra Granik, Un gelido inverno ●
marzo Danny Boyle, 127 ore ● David O. Russell, The fighter ● Lisa Cholodenko, I ragazzi stanno bene Mark Romanek, Non lasciarmi ● Ivan Reitman, Amici, amanti e…
aprile Lee Chang-Dong, Poetry ● Jo Baier, La fine è il mio inizio ● Nanni Moretti, Habemus papam Jafar Panahi, Offside Paul Haggis, The next three days Giambattista Avellino, C’è chi dice no Neil Burger, Limitless R oberta Torre, I baci mai dati
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maggio Ken Loach, L’altra verità (2010) ● Giorgia Cecere, Il primo incarico Terrence Malick, The tree of life ●
giugno Jean-Pierre e Luc Dardenne, Il ragazzo con la bicicletta ● In San-Soo, The housemaid William Monahan, London Boulevard Robert Redford, The Conspirator
luglio George Nolfi, I guardiani del destino
agosto Seth Gordon, Come ammazzare il capo e vivere felici Philippe Le Guay, Le donne del 6° piano Jake Kasdan, Bad teacher – Una cattiva maestra
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settembre Steven Soderbergh, Contagion Emanuele Crialese, Terraferma Roman Polanski, Carnage ● Daniele Gaglianone, Ruggine Pedro Almodovar, La pelle che abito ● John Requa, Glenn Ficarra, Crazy, stupid love
ottobre Ricky Tognazzi, Tutta colpa della musica Nicolas Winding Refn, Drive David Cronenberg, A dangerous method ● Paolo Sorrentino, This must be the place Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone ● Lars von Trier, Melancholia ● Céline Sciamma, Tomboy Cristina Comencini, Quando la notte
novembre Wim Wenders, Pina ● Pupi Avati, Il cuore grande delle ragazze Francesco Bruni, Scialla! A. Kaurismaki, Miracolo a Le Havre ●
dicembre Woody Allen, Midnight in Paris Gus Van Sant – L’amore che resta ● R.Guédiguian,Le nevi delKilimangiaro ● A.Kaurismaki –L’uomo senza passato ● George Clooney – Le Idi di Marzo ● Michel Hazanavicius – The Artist ●
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dicembre
Michel Hazanavicius – The Artist ●
Al Santa Lucia di Lecce, 18/12/011
Giovane regista francese che ha ottenuto un certo successo con film di spionaggio.
Qui un’opera singolare sul periodo del muto e del passaggio al sonoro. Anzi un film muto in bianco e nero, con rari passaggi verbali. E però un film di classe.
Un grande attore del muto, abituato a parlare col corpo, i gesti e la mimica, che quando arriva il sonoro non riesce ad uscire dal suo mondo, a capire il nuovo stile; al punto da emarginarsi dal cinema, perdere la moglie, finire in povertà, sfiorare la morte quando disperato dà fuoco alle pellicole dei suoi film; salvato dal suo cane che corre a chiamare un poliziotto. Egregiamente interpretato da Jean Dujardin.
In parallelo l’ascesa della ragazza che casualmente è stata fotografata con lui su «Variety», entra nel cinema, entra e si afferma nel sonoro: Peppi Miller, cioè Bérénice Béjo. E resta interiormente legata a lui, e sarà lei a salvarlo alla fine, e introdurlo nel sonoro.
Film perfetto nel rivivere gli anni Venti (1927, 1929), perfetto nel ricostruirne i personaggi; senza un momento d’incertezza. Così era quel mondo tipicamente hollywoodiano, che muore e rinasce.
George Clooney – Le Idi di Marzo ●
Al Massimo di Lecce il 17/12/011.
Quarto film dell’attore tanto esaltato per bellezza, simpatia, bravura; e il suo migliore. Di alto livello come cast, dialoghi, recitazione; meno come storia.
Il politico dai grandi ideali, in campagna presidenziale Usa; il politico puro che commette un errore (il rapporto con una giovane stagista che si ritrova incinta e si suicida; o forse è fatta suicidare dall’addetto stampa Steven che ha pure un rapporto con lei? lui le consegna i due flaconi). C’è la mannaia della stampa. Per non perdere, il politico puro cede, accetta l’alleanza col senatore potente e corrotto, con la sua squadra; ciò che aveva sempre rifiutato. C’è pure una lotta a duri colpi mancini all’interno del suo staff.
Dunque un mondo tutto corrotto? cadiamo nel qualunquismo? nell’antipolitica a basso costo? nel luogo comune e falso? Questo il lato deteriore.
Il film ha alla base un testo teatrale di Beau Willimon.
Aki Kaurismaki – L’uomo senza passato ●
Dai Salesiani di Lecce l’11/12/011.
Film del 2002, una delle opere maggiori del maestro, il cantore dei marginali, diseredati, clochards.
Qui la dignità del povero, dignità, correttezza, onestà. Nell’uomo che, giungendo a Helsinki in treno una sera, viene derubato e quasi massacrato da tre furfanti e finisce in ospedale dove sembra spirare ma invece nella notte si rialza e se ne va; è raccolto e amorosamente curato in una zona marginale del porto abitata da gente che vive in vecchi container abbandonati; e si rimette, ma ha perso completamente la memoria del suo passato e di se stesso.
E così inizia la sua nuova vita, povera ma dignitosa. L’Esercito della salvezza si prende cura di questa gente, coi suoi pasti caldi, gli abiti, ma anche i concerti e le feste. Lì trova degli abiti decenti e un modesto lavoro; lì incontra Irma, una delle militanti, un rapporto delicato, rispettoso, ma che si approfondisce. Sarà il suo futuro, che un treno passando ci nasconde, chiudendo il film.
Uno stile asciutto, rapido, senza atmosfere, scevro nei sentimenti. La vicenda scorre rapida, sospesa tra il reale e il grottesco (così la rapina in banca, così l’intervento dell’avvocato, oppure il ballo dei clochards, e altri passaggi). Gran Premio della giuria a Cannes.
Robert Guédiguian, Le nevi del Kilimangiaro ●
Al Massimo di Lecce il 10/12/011.
Film splendido, incredibile. La bontà grandiosa dei poveri, o meglio del proletariato maturo che è cresciuto nel lavoro e nella lotta, e ha raggiunto una vita decorosa, che ama intensamente, così come profondamente ama l’onestà, e come stupendamente sa essere generoso.
Guédiguian, il regista marsigliese 58enne (di origine armena), il cantore del proletariato operaio.
Il film è forte già dall’inizio, dal sindacalista che dovendo estrarre a sorte quelli che resteranno in fabbrica, preferisce non mettere nella cassetta il suo nome, sacrificare se stesso. È Michel, il maturo eroe. Ma poi c’è il fatto di acuto dolore, quando le due coppie (di Michel e Marie-Claire e della sorella), mentre giocano a carte insieme la sera, vengono rapinate e trattate con durezza da due ragazzi; dolore che resterà sempre nel film. Michel ne individua uno e lo denunzia, ed è preso; ma poi si pente, ritira la denunzia (e però la procedura è ormai avviata); chiede di parlare col ragazzo, e ne è trattato con strafottenza. Ma non si perde d’animo. Intanto, la moglie, Marie-Claire, ha già fatto qualcosa di più, è andata a casa dei due piccoli che sono rimasti soli (i fratelli del rapinatore, una famiglia i cui non c’è né padre né madre) e ha cominciato a provvedere lei, il cibo, la pulizia, la lavatrice. Un gesto di stupendo amore materno. Ma anche Michel ci va, e infine decidono di prenderli nella loro casa come fossero figli.
Strano il titolo, che riprende un famoso film americano degli anni cinquanta, alludendo qui al viaggio in Africa che era stato regalato alla coppia. Bella la visione del porto, su cui danno le case di questa gente, con le grandi navi. Il film s’ispira anche a “La povera gente” di Victor Hugo.
Gus Van Sant – L’amore che resta ●
Dai Salesiani di Lecce il 4/12/011.
Titolo originale Restless cioè inquieto, turbato.
Un film davvero singolare, forse il più significativo di Van Sant, e cioè l’incontro tra l’adolescente e la morte, tra due adolescenti segnati dalla morte. Il ragazzo che in un incidente d’auto ha perso i genitori e ne è uscito – egli dice – con quindici minuti di morte e tre mesi di coma; e la vita distrutta, ha lasciato la scuola e passa il tempo frequentando funerali. La ragazza che ha un tumore al cervello e tre mesi di vita. Lo incontra appunto ad un funerale; simpatizza subito; una ragazza dal volto di bambina, sempre sorridente, che lo cerca, lo vuole, pur nella sua cupezza; sì che nasce tra loro un amore delicato e tenero, che nella ragazza compensa il destino di morte con una grande forza vitale; ma conforta anche il ragazzo. Segue la scomparsa di lei, i riti funebri, tra cui la cena e la riunione commemorativa; dove anche il ragazzi si presenta a parlare ma è sopraffatto dai ricordi, sembra incapace di parola; ma ecco che gli spunta qualcosa di meglio e che finora era mancato, il sorriso. Su questo chiude il film.
Un tema tremendo, condotto con delicatezza, con soavità, diremmo, sostenuto sempre dal sorriso della ragazza che trascende e vince la cupezza del ragazzo come il destino di morte. Sostenuto da questo delicato intenso amore adolescente.
V’è nel film anche un amico fantastico che il ragazzo si era creato nella sua cupa solitudine, un kamikaze giapponese; che, penso, avrebbe dovuto scomparire con l’incontro con la ragazza. Un corpo estraneo che infastidisce e danneggia. Sempre delicate e sommesse le musiche
Woody Allen, Midnight in Paris
Al Massimo di Lecce il 3/12/011.
Di rado vado a vedere i film di questo regista troppo prolifico, che fa un film ogni anno. Ci sono andato a questo perché tutti i critici lo hanno entusiasticamente accolto, ne hanno intessuto le lodi; ci sono andato anche se la storia mi lasciava perplesso.
Intanto il film inizia con una panoramica su tutti i luoghi più noti e caratteristici di questa città, una specie d’introduzione turistica in cui tutti questi luoghi ci sono mostrati. Il che già lascia perplessi. Ma poi che senso ha mai questa storia di un ragazzo – un giovane turista americano, uno sceneggiatore che vorrebbe diventare romanziere, in visita a Parigi insieme alla sua ragazza e ai genitori di essa – che ama passeggiare la notte e che puntualmente, quando scocca la mezzanotte viene risucchiato nel passato, una macchina d’epoca passa e lo accoglie e lo trasferisce negli anni venti, dove incontra Scott e Zelda Fitzgerald, poi Hemingway, Gertrud Stein, Picasso; oppure Dalì, Buñuel; e la Stein legge il suo romanzo ecc.; e in certo modo s’innamora di Adrienne, amata da Picasso e da Hemingway, e che infine con lui entra nella belle époque, ch’essa considera l’età più bella della storia umana, dove incontrano Lautrec, Degas, e dov’egli non si sente di seguirla perché sa di appartenere ad un’altra età, quella del 2000; e su questo rifiuto chiude il film.
C’è dunque questa specie d’incantesimo in cui piomba ogni notte a sua insaputa, questo mondo di favola, d’irreale, che s’inserisce nella sua realtà di giovane turista americano in visita a Parigi.
Un film, insomma, in cui niente accade, niente che abbia un senso, un valore umano. Una pensata veramente e prodigiosamente strana del nostro Woody, che alcuni considerano un genio del cinema.
Il film, poi, è ben costruito, i personaggi sono credibili, i dialoghi sono spesso eccellenti. Ma tutto questo a che serve?
novembre
Aki Kaurismaki, Miracolo a Le Havre ●
Al Santa Lucia di Lecce il 26/11/011
Titolo originario è Le Havre; il miracolo è forse stato preso dal Miracolo a Milano di De Sica per ciò che di prodigioso si compie tra questa gente semplice, povera o anche emarginata. Tutta impegnata a salvare il ragazzo del Gabon sfuggito alla polizia e che deve raggiungere la madre a Londra. Che il figlio adolescente si ricongiunga con la madre, una legge umana che trascende ogni legge positiva, e che la gente semplice di questo quartiere popolare sente nel profondo. Un quartiere nel quale gl’immigrati, clandestini o meno, sono semplicemente trattati come uomini. E questo è l’insegnamento di Kaurismaki in un film insieme semplice e perfetto nella costruzione e nell’unità stilistica (anche se un po' rude), e profondamente umano. Perfetti gli attori nei loro ruoli. In particolare Marcel Marx, il protagonista, lustrascarpe ma perfetto nell’aplomb, nella sua dignità d’uomo, nella delicatezza con la moglie malata, nell’azione liberatrice per quanto complicata.
Una volta tanto la dignità semplice e grande del proletario, del sottoproletario, del povero. Dignità corale. Che anche la fortuna assiste, sì che tutto vada per il meglio. Ma sempre con semplicità, con discrezione.
Francesco Bruni, Scialla!
Al Massimo di Lecce il 20/11/011
Uno sceneggiatore di un certo livello (di Virzì, di Calopresti, di altri) che, cinquantenne, gira il suo primo film. Fatto di personaggi inconsueti, il padre un curioso anziano insegnante (Fabrizio Bentivoglio) che dà lezioni private e scrive biografie di calciatori e di pornostar; il figlio, un quindicenne irruente e insieme rilassato (scialla! calma, non prendertela), d’animo buono, che trascura la scuola perché non è cosa sua e tanto sa che farà altro, un tipo atletico che tira anche di boxe; un personaggio singolare e un po' selvaggio che Filippo Scicchitano crea con disinvoltura.
Nel film un padre cui la madre confida il figlio, rivelandogli che è suo, perché deve assentarsi per un certo tempo; e col quale il padre intraprende un’educazione impossibile, pur nella reciproca simpatia (il ragazzo non sa) e nella sollecitudine paterna. Un mondo scombinato in cui tuttavia dei fili di affetto s’intrecciano.
Una commedia inusuale, non spregevole.
Pupi Avati, Il cuore grande delle ragazze
Al Massimo di Lecce il 13/11/011
Avati, il cantore di una società emiliana e campagnola del passato, qui gli anni trenta (c’è il fascismo dietro, qualche balilla e qualche divisa s’intravede). Società povera, della scarsità; società arcaica, dalle usanze e credenze arcaiche e credule. Qui soprattutto una società maschilista, dove il maschio abusa tranquillamente della donna; Carlino (il protagonista) si fa tutte le ragazze del paese, in modo ovvio; così come ovvio è il libertinaggio dell’uomo sposato. Né, pur nel piccolo paese, manca la puttana, sfruttata e disprezzata. Anche per il matrimonio il maschio sceglie, decide, insieme alla famiglia. Avati riproduce senza battere ciglio questa società disonesta e oppressiva, le belle famiglie di un tempo.
Arriva poi la vicenda grottesca. Il bel ragazzo che si era fatto tutte le ragazze, povero e analfabeta, che visita ogni sera le due ragazze ricche e bruttine tra cui, per un patto di famiglia, dovrebbe scegliere la sposa, ma che non osa scegliere, finché non arriva la sorellastra romana, quella sì bellina, quella sì viene scelta. Il giorno delle nozze mancate in cui tutti arrivano e trovano la chiesa chiusa perché il parroco si è operato di tonsille (incredibile!) e però il pranzo di nozze non si può non consumarlo, essendo pronto. Le nozze vere, due settimane dopo, il viaggio, l’albergo, la stanza, la sposa che si prepara, mentre il ragazzo incontra una vecchia fiamma e si trattiene con lei; l’estremo dell’arroganza maschile; e la sposa fugge piangendo. La sposa lontana in Puglia presso una zia, che riceve ogni giorno una lettera dallo sposo (gliela scrive il fratello adolescente) e infine un telegramma che si è suicidato per suo amore; e torna quindi, ma era solo un espediente per farla tornare. E vivono felici e contenti – sembra –, e hanno quattro figli di cui si vede la foto.
Non male questa sequenza grottesca. Non male la ricostruzione di questo mondo arcaico. Ma quale cuore grande delle ragazze? Quello che si lascia sfruttare e opprimere dal maschio?
Wim Wenders, Pina ●
Al Santa Lucia di Lecce il 12/11/011
Un film che Wenders stava preparando con Pina Bausch, la grande coreografa sua amica, e che la improvvisa morte di lei ha trasformato in un documentario.
Certo resta un problema se e quanto Wenders sia riuscito a ricostruire e a narrare l’opera singolare di lei, questo singolarissimo teatro-danza. La scelta di brevissime interviste, di danzatrici o danzatori che parlano di lei, per lo più con una sola breve frase, cui segue poi un brano di danza, resta una scelta di dubbia efficacia. Molto belle invece la scene ch’egli trasferisce all’aperto, ad esempio sotto la metropolitana sospesa di Wupperthal, in altri angoli di città o campagna. E molto belle le musiche. Forse egli avrebbe potuto ricostruire una storia, in cui inserire via via le danze; in modo simile a quello che ha fatto Altman in The Company, ottenendo così un’opera unitaria e di grande bellezza.
ottobre
Cristina Comencini, Quando la notte
Al Santa Lucia di Lecce il 29/10/011
Un film molto criticato, molto demolito, anche ingiustamente. La regista lo ha derivato dal suo libro dallo stesso titolo.
Un film duro, con due personaggi duri. Marina (Claudia Pandolfi), una donna che va a passare una vacanza in alta montagna col suo piccolo di due anni, ed è colta da una crisi di rifiuto, d’odio per il piccolo, il suo continuo piangere la notte, che non le permette di dormire, e disturba il suo ospite, il padrone di casa. La solitudine, col bambino che ancora non parla; il rapporto freddo col marito (dalle telefonate); l’assenza di altri affetti. Fino a che non si arriva al dramma: un giorno il bambino s’arrampica, cade e si ferisce mentre lei dorme, e anzi, dopo l’incidente, si ritira nella sua camera e riprende a dormire, lasciandolo solo e sanguinante. Amore odio, aveva scritto su di un disegno fatto per distrarlo.
Su questa vicenda drammatica, che vuol portare luce sulle peripezie ed ambiguità dell’amore materno, sulla sua tanto vantata ineffabilità, sul duro sacrificio che chiede alla donna, s’innesta la figura di Manfred (Filippo Timi), la guida alpina rude e silenziosa, l’uomo divorato dalla sofferenza, abbandonato prima bambino dalla madre, abbandonato poi dalla moglie coi figli. Dolore chiuso, muto, divorante. Dove Marina diventa oggetto di amore, e però di un amore che non giunge all’incontro e allo scambio. Che avverrà solo dieci anni dopo, nel finale del film – con orrende crude scene di sesso che certo dovevano essere evitate, totalmente fuori stile – e senza speranza.
Il film è troppo scarso di parola; ne avrebbe bisogno.
Céline Sciamma, Tomboy
Dai Salesiani di Lecce, il 23/10/011.
Qui al suo secondo film, dopo Naissance des pieuvres che esplora la sessualità adolescenziale di tre ragazze, mentre qui la sessualità di una bambina di 10 anni. Che si sente maschio e vuol essere maschio; ne possiede anche il volto, per il resto è troppo piccola. Qui l’errore, donde lo scarso significato e la povertà di sentimento, passione, e anche parola del film; che per questo problema sceglie un soggetto troppo immaturo.
Lodato dai critici per la sua serietà; che però non basta.
Tomboy significa appunto maschiaccio.
Lars von Trier, Melancholia ●
Al Santa Lucia di Lecce il 22/10/011
Il maestro danese, il teorico di Dogma95, ritorna questa volta con un grande film. Grande arte.
La catastrofe cosmica incombe, la collisione di un pianeta minore con la terra. V’è come un’introduzione, dominata dall’ouverture del Tristano e Isotta di Wagner, una musica grandiosa e forte, che già scuote l’animo, che sarà il leitmotiv del film; in cui appaiono immagini forse simboliche, immobili, o appena in moto, apparizioni forse estreme, insieme con le immagini della catastrofe, la collisione.
Poi c’è una prima parte, Justine, il matrimonio grandioso nella grande villa con parco della sorella Claire. Matrimonio tormentato dall’amarezza della madre che nel matrimonio non crede più e lo dichiara, e dall’inquietudine della figlia, Justine appunto, divorata dalla nevrosi che tormenta la sua vita, che dalla festa continuamente si assenta, fino a che nnn si congeda anche dal marito. L’angoscia cosmica si traduce in angoscia esistenziale.
La seconda parte è dedicata alla sorella Claire, che aveva organizzato amorosamente la solenne festa di nozze, e che ora ospita Justine in quella grande casa in cui il marito segue l’evolvere dell’evento cosmico, convinto che non vi sarà collisione. Ma ecco che il pianeta si avvicina. John si avvelena nella stalla, Claire è divorata dall’angoscia soprattutto per il suo piccolo, Justine è calma, prepara una grotta magica fatta di rami sotto la quale attendono la catastrofe; che arriva con fragore immenso e chiude il film. Chiusura drastica, shock psicologico. La musica si fa intensissima, il fragore la sovrasta e la domina, l’impatto chiude il tutto.
Bellezza grande della villa, del grande prato che scende verso il mare, il bosco, i cavalli amati.
Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone ●
Dai Salesiani di Lecce, il 16/10/011.
Olmi ritorna (aveva detto che non avrebbe fatto più film) e tocca qui il problema degl’immigrati clandestini, la crudeltà di una legge che li respinge senza nessun riguardo per la loro dignità e il loro diritto di persona; l’ufficiale in casco, coi suoi sgherri armati di mitraglietta, che il vecchio parroco prende a ombrellate, come il Cristo coi profanatori del tempio.
Una chiesa dismessa, un fatto tragico, lo squallore della scena iniziale in cui tutto ciò che di sacro v’è dentro viene coperto e riposto; a cominciare dal grande e doloroso crocifisso calato dall’alto. E restano solo le panche. Un fatto simbolico, certo, di una dismissione più profonda. E un vecchio parroco che resta nella solitudine e nell’abbandono, sofferente, perseguitato dal dubbio.
Ma ecco il fatto stupendo: altri la riempiono, gl’immigrati che non hanno casa, i figli d’Africa; con le panche, e con cartoni e vecchi quadri, e con tende si costruiscono le loro celle, il loro piccolo villaggio; e tra essi v’è un ferito, v’è una giovane madre sofferente dopo il parto, e il suo piccolo. Bellezza di volti, nobiltà, fierezza di volti, di sguardi; su cui Olmi indulge, insiste, ad esaltarne l’umanità, la dignità. Certo le figure più dignitose di questo film, le più belle.
Il doppio tormento del vecchio parroco; che però si placa nel pensiero che se grande è la fede, più grande è la bontà, la carità, virtù suprema. Il vecchio parroco che macera la sua sofferenza nel letto.
Olmi iscrive una sentenza finale: che se noi non cambieremo la storia, la storia cambierà noi. La storia, cioè il divenire e farsi dell’umanità, il processo di umanizzazione, diventare più umani, meno inumani.
Paolo Sorrentino, This must be the place
Al Massimo di Lecce il 15/10/011.
Il titolo da una canzone; il luogo è forse la casa materna cui si ritorna infine? La critica ha in genere valutato questo film, quando non lo ha esaltato. Anche perché era dell’autore de Il Divo, e perché ha come protagonista una star americana, grande attore, Sean Penn (v’è anche Frances MacDormand, la poliziotta inusuale di Fargo).
Al centro una rockstar cinquantenne che da vent’anni ha lasciato, e però ha conservato il suo personaggio estroso, il ragazzo-ragazza dall’ampia chioma, con fard e rossetto, l’incedere, la parla tenue, scarsa, sentenziosa (grande interpretazione di Sean Penn). Una persona che è cresciuta sola, il padre più o meno sconosciuto, la madre abbandonata da tempo (che però l’attende sempre); che dunque ha in sé una sofferenza di fondo. Sposato da 35 anni con Jane, donna ormai matura ma sempre amata (il rifiuto di andare con un’altra donna, sono un uomo sposato). In tutta la prima parte non accade si può dire nulla se non una piuttosto noiosa quotidianità, il supermercato, il bar, un concerto (in cui canta David Byrne in persona).
Poi la notizia della morte del padre (un ebreo sopravvissuto al lager) a New York, il viaggio (dall’Irlanda) per i funerali e l’eredità da raccogliere, certi quaderni, l’incontro con un cacciatore di nazisti, la decisione di rintracciare e punire quel nazista che il padre ha ricercato per 35 anni (acquista anche una grossa pistola che probabilmente non sa usare). Lo rintraccia infatti, in una di quelle casette americane in legno, sperduta su di un pianoro innevato (troppo isolata e troppo visibile). C’è con lui il cacciatore, ma lo incontra lui solo. Curioso il lungo racconto che gli fa il nazista; dopo di che egli lo punisce con un’umiliazione simile a quella da lui inflitta al padre, lo fa uscire e camminare nudo sulla piana innevata.
Poi ritorna dalla madre, ma non è più la rockstar che abbiamo conosciuto; è un uomo come ogni altro, l’incontro con l’Olocausto, l'incontro-ritorno col padre e con la madre lo ha trasformato.
Il tutto non è molto credibile perché v’è una scarsa partecipazione passionale ed umana alla vicenda; nessun evento catartico. I paesaggi dell’America solitaria e selvaggia, lungo i viaggi, sono anche belli o di grande bellezza; ma non coagulano con l’insieme. Tutto il film manca di coesione come di passione.
David Cronenberg, A dangerous method ●
Al Santa Lucia di Lecce l’8/10/011
Il grande regista canadese ci sorprende alquanto con questo film piuttosto lontano dalle sue esplorazioni nel mondo metascientifico e metareale, oltre che nella violenza. Qui un film storico, la fase genetica della psicoanalisi, la trasgressione amorosa di Jung, l’amicizia e il dissenso tra Jung e Freud; condotto peraltro con grande coerenza stilistica. Ma i temi dell’inconscio, delle malattie della psiche, dei sogni che qui compaiono e di cui si cerca il senso; questi temi sono pur vicini al mondo di Cronenberg.
Qui il nodo centrale è la trasgressione più grave nella psicoterapia, il passaggio dal transfert al rapporto amoroso, il cedimento amoroso del terapeuta che sconvolge la terapia. Dove il medico, che ha in trattamento la donna (Sabina Spielrein, qui Keira Knightley) che soffre spasmodicamente di masochismo per le percosse paterne che pur le sono diventate fonte di piacere, e che da queste dovrebbe guarirla, col cedimento amoroso giungerà lui stessa alla percossa masochistica (siamo all’inizio del secolo, Jung ha 29 anni, Sabina 18).
Vicenda amorosa ovviamente tormentata in quanto Jung è consapevole della trasgressione e a un certo punto taglia, e la donna passa in cura da Freud. E si laurea e diventa essa stessa terapeuta. E sviluppa una teoria dell’amore sessuale come annientamento reciproco dell’uno nell’altro, nella fusione amorosa; che contiene una verità, ma contiene pure il residuo di quel masochismo profondo.
Il punto più di più forte divergenza tra Jung e Freud sta nella ragione e in ciò che la ragione trascende – così il divino – che Freud non ammette in nessun modo. Ed è certo un suo limite, anche grave.
Film in cui la parola ha un ampio ruolo (anche perché v’è alla base una pièce, The talking cure di Christopher Hampton, che a sua volta s’ispira a un romanzo di J. Kerr, A most dangerous method; da cui il titolo). Ma è una parola viva e consistente.
Freud è qui Viggo Mortensen, già protagonista di History of violence; Jung è Michael Fassbender.
Ricky Tognazzi, Tutta colpa della musica
Al Santa Lucia di Lecce il 2/10/011
Ricky Tognazzi ha fatto certo di meglio che non questa commedia piuttosto scombinata, con frammenti di piccole storie. Al centro vi sarebbe il coro che canta pezzi d'opera con anche due solisti; ed è pure piacevole. Ma le piccole storie hanno scarsa consistenza. Il pensionato dalla faccia rotonda e barbuta che s'innamorerebbe della più giovane e piacente solista (Stefania Sandrelli) è poco credibile; e l'amore del già maturo Nappo per una giovane immigrat tutta moine non persuade e dura poco, perché la giovane se ne va con un giovane suo pari. Né prende senso qualche riflessione estemporanea sulla vita.
Nicolas Winding Refn, Drive
Al Massimo di Lecce il 1/10/011.
Regista danese quarantenne che ha talento e vigore, anche se tende all'eccesso. Ama la violenza. Qui il suo sesto film, premiato a Cannes per la regia.
Notevole lo stile, la costruzione dell'immagine; così come dei caratteri. Il protagonista in particolare, giovane silenzioso, parola tarda e scarsa, azione rapida e sicura, animo generoso.
La storia di un ragazzo abile meccanico e ancor più abile guidatore, il suo capo lo vede pilota nelle corse. C'è però un punto debole: la sera non sdegna di guidare per rapine, senza esservi direttamente coinvolto.
Conosce una ragazza, sua vicina di casa, nasce un sentimento che però non si manifesta. È sposata e ha un figlio, il marito è in carcere, esce, ha un debito con la malavita. E lui consente di guidare per una rapina che possa pagare quel debito. Ma nella rapina è coinvolta la malavita, quella che non risparmia nessuno; una rapina da un milione di dollari che restano a lui perché il marito, come la ragazza legata ai boss, vengono uccisi. E sui quali si scatena il macello, una serie di uccisioni. Finché si viene ad un patto: lui consegnerà il denaro, la ragazza sarà al sicuro, non lui. Nello scontro finale è ferito, ma non gravemente; la borsa dei soldi resta lì per terra, lui se ne va, gli basta che la ragazza sia salva. È il suo amore, una volta l'ha baciata intensamente, in ascensore.
settembre
John Requa, Glenn Ficarra, Crazy, stupid love
Al Santa Lucia di Lecce il 25/09/011.
Due sceneggiatori americani che hanno fatto ora due film, insieme: Colpo di fulmine, ma il vero titolo è I love you, Phillip Morris, sull'omosessualità; e questo, che è il migliore.
Il titolo è ironico e significa il contrario: semmai sono folli e stupide tutte quelle vuote avventure di sesso che anche qui compaiono. L'amore di una coppia cinquantenne con tre figli, un buon lavoro, una solida posizione, che si spezza quando lei confessa quello che di solito viene detto un "tradimento", che è magari una piccola distrazione o un momento di debolezza. Ma queste troppo drammatizzate rotture avvengono spesso nel cinema americano; forse anche nel costume di quel paese.
L'impossibilità di reggere alla rottura appare subito nell'uomo, lo smarrimento, la pena. Un amico libertino gl'insegna l'arte della seduzione (a lui che in tutta la sua vita ha avuto quel solo rapporto), e lui ci prova per una settimana; ma questi rapporti impersonali non compensano per nulla il dolore e la solitudine. Al contrario, il grande libertino e seduttore è vinto anch'egli dall'amore, e proprio per la loro figlia più grande, Anna. Non resta che la riconciliazione.
La commedia si regge discretamente, anche se talora si fa inverosimile, talora è eccessiva e sopra le righe. Molto presenti i locali, dove le coppie s'incontrano, bevono e bevono, i luoghi della frivolezza e dello spreco: spreco di vita.
Pedro Almodovar, La pelle che abito ●
Al Massimo di Lecce il 24/09/011.
Film singolare, stilisticamente perfetto, e perfetto nella narrazione.
Un grande chirurgo che perde la moglie, prima sfigurata nell'incendio dell'auto, poi suicida quando vede il suo volto sfigurato riflesso nel vetro della finestra. Perde la figlia che impazzisce dopo un tentato stupro. Un doppio grande amore, un dolore immenso, una ricerca intensa per trovare quella pelle che avrebbe potuto salvare la moglie e che potrebbe ridargli la figlia (una pelle anche più forte, impenetrabile agl'insetti). Una volontà decisa e folle, un nuovo Frankenstein deciso a tutto, senza remora alcuna. Rapisce il ragazzo che aveva tentato lo stupro, lo chiude in prigionia per indebolirne la personalità, poi lo chiude nella sua villa clinica per trasformarlo nella figlia che ha perduto. Lo trasforma, ne fa anche un oggetto di amore. A questo punto l'opera titanica sembra essere compiuta.
Ma la ragazza casualmente vede su di un giornale la sua foto di ragazzo scomparso, la sua storia si ridesta in lei, la volontà di vendetta, lo uccide (le pistole non mancano in casa).
Il chirurgo è Banderas, freddo, deciso, nel suo folle intento, pronto a tutto. Amore, dolore, follia lo salvano nel suo percorso criminoso? lo salvano moralmente e umanamente?
Si è parlato di un film minore di Almodovar, scarso di passione, di umanità. Può essere. Alla base ci sta il racconto Tarantula di Thierry Jonquet, o anche il film Occhi senza volto di Franju.
Daniele Gaglianone, Ruggine
Al Massimo di Lecce il 18/09/011
Quarto film di un regista quarantenne.
Film di orrida confusione gabbata per risorsa stilistica. Per capirci qualcosa bisogna aiutarsi col romanzo da cui deriva. Qui vediamo una periferia con una serie di casermoni cui appartengono tutti questi bambini che hanno trovato il loro fantastico mondo in due vecchi silos rugginosi che chiamano il castello, nel terreno abbandonato in cui hanno costruito dei ripari di latta, ma soprattutto in un accumulo di auto e ferraglie abbandonate in cui hanno scavato un galleria dove avvengono i loro incontri e le loro sfide. Ma l'audio è pessimo e poco si capisce dal loro linguaggio. Né alcuna storia si costruisce. Vi sono poi delle scene casalinghe di padri che giocano coi figli, alzano grida insensate (mancano le madri). Vi sono tre riunioni di un consiglio di classe o d'istituto piuttosto rozze e ripetitive. V'è infine la storia di un medico che tocca una bambina, il gesto empio, e viene castigato e bastonato dagli altri bambini. Ma questo sarebe avvenuto prima, quando i protagonisti (si fa per dire) erano piccoli: Carmine lo sfaccendato, Sandro (un Accorsi che compare solo in una breve scena col figlio) e Cinzia.
Musiche talora suggestive, ma interrotte da odiosi orrendi rumori..
Roman Polanski, Carnage ●
Al Massimo di Lecce il 17/09/011.
Strano questo film in cui due copie discutono sullo scontro dei figli undicenni, uno dei quali con un bastone ha spaccato due denti e messo a nudo un nervo dell'altro che lo aveva chiamato spia. S'incontrano e discutono per una riconciliazione dei figli. Stanno chiusi nel soggiorno di un appartamento di Brooklin (ma v'è anche la cucina e il bagno), e anche mangiano (una crostata) e bevono dell'ottimo whisky, mentre la discussione evolve e a tratti s'accende, raggiunge il grido, l'ingiuria; tocca di passaggio temi come l'Africa povera e sofferente; tocca quei temi come altri, ma non ha senso alcuno; dura 79 minuti (certo un film breve), ma potrebbe durare ore ed ore, nel suo fondamentale nonsenso, fondamentale vacuità, perpetuo oscillare tra l'intesa e lo scontro.. Certo ci si aspetta che finisca, si soffre di claustrofobia, si vorrebbe uscire da quel soggiorno, passare ad altro. Invece finisce il film.
Alcuni lo hanno chiamato un film perfetto e avrebbero voluto che vincesse a Venezia il Leone d'oro. E forse v'è una certa bravura nel sostenere quei 79 minuti di discussione e litigio; nel riprenderla sempre quando s'affloscia e sembra concludersi. E poi vi sono delle star, in particolare le due donne, Jodie Foster e Kate Winslet; ma anche i due uomini, il morbido John Reilly e il bonario Christof Waltz; e v'era la pièce di Yasmina Reza, pure cosceneggiatrice.
Titolo eccessivo, non c'è qui alcun massacro.
Emanuele Crialese, Terraferma
Al Massimo di Lecce l'11/09/011.
Dopo Respiro e Nuovomondo, film di un certo pregio, Crialese ci dà questo Terraferma. Titolo ambiguo? è la terraferma, la fuga dall'isola cui pensano certi abitanti ora che la pesca rende poco e soprattutto non c'è lavoro?. O è la terraferma verso cui sospirano gl'immigrati che arrivano su vecchie barche stracariche o anche esausti a nuoto?
Il film ha come due storie o due linee. La prima è la vicenda di questi abitanti della piccola isola: ora che la pesca non rende e cresce il turismo: disarmare la barca, coltivare il turismo, lasciare l'isola per città in cui v'è possibilità di lavoro per tutti. È il caso della famiglia Puccillo, dove solo il vecchio nonno è rimasto fedele al mare; mentre il piano della figlia, giovane madre e vedova, Giulietta, che ne parla al figlio Filippo, ragazzone ancora incerto, è andare altrove; e intanto accogliere in casa i turisti, ritirandosi nel garage. E v'è infatti l'invasione estiva e un po' pacchiana dei turisti, che contrasta con quel mondo, la sua serietà, la sua forza..
La seconda storia s'innesta sulla prima e in certo modo la contrasta. Gl'immigranti che la barca incontra mentre va alla pesca, il vecchio gommone strapieno e quelli che l'accompagnano a nuoto; che il vecchio accoglie nella barca, secondo la legge di sempre del mare; e li accoglie poi in casa. Commettendo un reato che la guardia di finanza gli contesta, in quanto questi migranti possono essere accolti solo dalle motovedette che li avviano poi nei centri di accoglienza o di permanenza temporanea; il contrasto tra un'antica e profonda legge etica e questa disposizione sommaria che rifiuta il principio di accoglienza.
D'altra parte tra gli accolti in casa v'è soprattutto – e vi resta – una donna, un'etiope che ha partorito un bimbo; verso cui il sentimento di Giulietta è ambiguo, in quanto quella permanenza contrasta il suo piano; per cui la donna dovrà partire al più presto (e ci sarà un abbraccio, ma non convinto); tuttavia, per evitare i controlli, sarà Filippo che si avventurerà con essa in barca sul mare. Su questo viaggio notturno ed incerto, con straordinari riflessi dell'onde, chiude il film. Mentre i problemi restano aperti; com'è ovvio del resto; anche se rimane qualche dubbio se il regista li abbia compresi appieno.
Si è criticato la sua sensibilità estetica, la presenza di visioni di grande bellezza quasi fossero cartoline estranee al contesto; ma non è così: v'è invece una sensibilità estetica che permea il film. V'è il mare, bellezza sovrana; v'è l'isola coi suoi monti e le sue baie, la bellezza sovrana della natura.
Steven Soderbergh, Contagion
Al Massimo di Lecce il 10/09/011.
Soderbergh affronta il tema del contagio planetario da parte di un virus sconosciuto che si trasmette facilmente attraverso il contatto. Un fatto possibile, una catastrofe tutt'altro che irreale, anche se qui raggiunge proporzioni enormi (più di un miliardo di morti); tanto più possibile in una società globale sempre in movimento, dove le persone passano ogni giorno, ogni ora da un continente all'altro. Il potere di trasformarsi di questi virus, il tempo che richiede la loro individuazione e soprattutto l'elaborazione e la messa in opera di un vaccino.
Film dominato da laboratori scientifici e di ricerca, da luoghi ordinati e asettici. E anche un po' troppo formale e freddo. La reazione umana è presente, il panico, il saccheggio dei supermercati, gli assalti alla ricerca di cibo, infine l'abbandono e lo squallore delle città. Film corale in cui le singole storie hanno scarso rilievo (quella stessa di Thomas che perde moglie e figlio subito all'inizio e si chiude in casa con la figlia); così come hanno scarso rilievo le star che vi operano (Matt Demon, Gwyneth Paltrow, Kate WInslet, Marion Cotillard, Jude Law)..
agosto
Jake Kasdan, Bad teacher – Una cattiva maestra
Al Santa Lucia di Lecce il 27/08/011.
Figlio di Lawrence Kasdan, sceneggiatore con Lucas nelle Guerre stellari e autore alquanto ineguale (Il grande freddo, Turista per caso), Jake ha 36 anni e 4 film di scarso valore.
Qui la vicenda piuttosto scombinata e improbabile di un'insegnante di scuola media, che è poi una Cameron Diaz ragazza-donna spregiudicata e insignificante, inutilmente e insensatamente dinamica.
Un'insegnante che invece di far lezione apre il televisore (ma che fa poi in tutto quel tempo? e i ragazzi non reagiscono, e i genitori, e il preside? Che s'impadronisce del denaro raccolto in un gioco e che andrebbe alla scuola). Dopo un anno cambia scuola ma non metodo (se non forse nell'ultima fase dell'anno; passaggio non chiaro). In compenso viene premiata come la migliore insegnante dell'anno.
Tipo esibizionista, sempre in vesti succinte, ma apatica, senza carica amoroso-sessuale, eppure ci sono i giovani colleghi. Il suo supremo obiettivo sarebbe rifarsi in grande stile il seno; ma poi vi rinunzia, non si sa come.
La scuola qui è solo un pretesto per far giocare un'attrice nota; e però il gioco è pessimo.
Philippe Le Guay, Le donne del 6° piano
Al Santa Lucia di Lecce, il 27/08/011.
Francese passato alla regia dopo l’insegnamento; e questo è il suo terzo e migliore film.
Il problema delle donne di servizio spagnole che abbondano in Francia; come anche le portoghesi. Ed è quello della donna di servizio o colf, collaboratrice famigliare, e della sua umanità e dignità umana. La dignità del suo lavoro, che comporta un forte grado di dipendenza. L’abituale considerazione d’inferiorità in cui le colloca la mentalità corrente; la borghesia che se ne serve. Siamo infatti nella famiglia di un finanziere, la cui casa alloggia al 6° piano in condizioni precarie un gruppo di queste donne spagnole.
Qui è il padre e marito, il finanziere, interpretato con finezza da Fabrice Luchini, che si accorge di loro, si fa consapevole dei loro bisogni, fraternizza con loro; giunge infine a rifugiarsi in una camera del famigerato 6° piano quando la moglie lo scaccia per un preteso tradimento;dove però lui, Jean-Luis Joubert, evita la spiegazione, forse perché ha intravisto nella giovane colf spagnola la possibilità di un rapporto migliore. Pensa infatti di rifarsi con lei una vita, come suggerisce il finale in cui – tre anni dopo – la ricerca e la ritrova.
Seth Gordon, Come ammazzare il capo e vivere felici
Al Massimo di Lecce il 20/08/011.
Mediocre regista americano quarantenne al suo quarto film. Che è stato pure apprezzato dai critici, forse anche per il cast in cui c’è Kevin Costner nella parte di un dirigente autoritario che poco gli si addice, Colin Farrell nella parte di un mediocre assistente, e Jennifer Aniston come dentista esibizionista e sessualmente ossessiva; incredibile.
Ci sono certo i tre dipendenti da capi autoritari, bizzarri o folli; un po’ o molto sopra le righe. E c’è la cospirazione, anche se incerta e debole. Che in realtà non approda a nulla. Semmai i capi si uccidono tra loro o finiscono in prigione, e così la liberazione avviene comunque.
luglio
George Nolfi, I guardiani del destino
Al Massimo di Lecce il 26/06/011
Uno sceneggiatore di blockbuster alla sua prima regia. Da un racconto di Philip Dich, Adjustment Team; donde il titolo originale The Adjustment Bureau, l’ufficio che dirige e accomoda.
Idea tipicamente dickiana, di un potere occulto che ha stabilito il destino di ognuno, e cui l’uomo, con la sua tanto vantata libertà, col suo libero arbitrio, non può sfuggire. Qui un fantomatico Presidente, i libri in cui i destini sono segnati, le squadre che all’aggiustamento presiedono, le misteriose porte che comunicano con l’oltremondo.
Il destino in questione è quello di un politico, un mancato senatore – ma sempre in corsa (Matt Demon) – che s’innamora di Elisa, una gentile ballerina, un fatto non previsto dal potere occulto, con cui entra in lotta.
Film piuttosto banale, oltre che incredibile.
giugno
Robert Redford, The Conspirator
Al Massimo di Lecce il 10/07/011.
Redford è al suo quarto o quinto film. Un film storico e giudiziario, il processo degli uccisori del presidente Lincoln, il delitto di estrema rivalsa del Sud schiavista e sconfitto contro il Nord libertario e vincitore. Ma qui, in particolare, il processo contro l’unica donna che vi viene coinvolta in quanto è nella sua pensione che i cospiratori si riunivano; e uno dei cospiratori è suo figlio, che però si è dato alla macchia prima del delitto.
Il problema di come una persona che si proclama innocente, e probabilmente lo è, possa salvarsi in un processo che deve colpire un delitto che ferisce l’intera nazione; un processo che non è solo giustizia ma anche e soprattutto vendetta; e viene celebrato da militari in quanto la nazione si considera ancora in guerra.
La donna sarà condannata anch’essa all’impiccagione e il film ci fa assistere al funereo rito. Siamo nel 1865, un secolo dopo che Beccaria ha dimostrato che lo stato non può uccidere il cittadino; nel 1879 la prima abolizione della pena di morte, nel Granducato di Toscana.
Film austero, condotto con rigore. Nobile la figura della donna.
William Monahan, London Boulevard
Al Massimo di Lecce il 12/06/011.
Sceneggiatore cinquantenne inglese al suo primo film, da un romanzo di Ken Bruen.
Opera piuttosto confusa, di scarsa capacità costruttiva, e scarsa originalità, in cui ritornano luoghi comuni dei thriller.
C’è qui un ragazzo che esce dal carcere dove ha passato tre anni per atti violenti e che sembra voler avviare una vita nuova. Ha anche la faccia pulita di Colin Farrell. Sarebbe interessante se egli riuscisse nel suo intento, pur frequentando vecchie conoscenze che militano nella droga, nell’usura, nel crimine. Tipico il suo tentativo di salvare la sorella incline al bere e alla vita facile; o la sua protezione del vecchio clochard sotto il ponte, ucciso poi da ragazzi scombinati e violenti. Siamo nella periferia, nulla fa pensare di essere a Londra; una periferia qualunque. Ma queste frequentazioni sono certo pericolose. Piuttosto fumoso l’incarico di provvedere e proteggere la casa di un’attrice divenuta troppo famosa e perseguitata dai paparazzi; persona ormai nevrotizzata e marginale; che anche dice d’essersi innamorata di lui; un fatto pure marginale. Ovviamente il bravo ragazzo Mitchell o Mitch ricade nella criminalità e finisce ammazzato.
Musiche rumorose, fastidiose.
In San-Soo, The housemaid
Al Santa Lucia di Lecce il //06/011.
Cinquantenne coreano al terzo film, che poi è un remake dell’omonimo film di Kim Ki-Young, del 1960.
Vorrebb’essere il contrasto tra la giovane ricca famiglia, la sontuosa dimora, il marito giovane e ricco abituato ad avere tutto ciò che vuole; e la cameriera che subito il signore fa sua, e la mette incinta. Mentre la giovane moglie (che attende due gemelli) con dell’erbe a sua insaputa la fa abortire e insieme la scaccia. E lei, che tutto ha perso, s’impicca al lampadario del soggiorno, e oscillando sul camino che arde sempre s’infiamma e brucia come una torcia; mentre i ricchi padroni, invece di soccorrerla, se la svignano.
Film atroce, diremmo, almeno nel finale; ma nel suo insieme freddo, non ben caratterizzato, superficiale; pur in una certa bellezza formale.
Jean-Pierre e Luc Dardenne, Il ragazzo con la bicicletta ●
Al Santa Lucia di Lecce il 5/06/011.
Ritornano i due fratelli belgi con il loro stile severo, ma questa volta più duttile, più sensibile ed umano; con il loro intenso interesse per l’adolescenza emarginata e sofferente. In un film di notevole compiutezza,
Qui la bicicletta è protagonista quanto il ragazzo che la inforca con vivacità e vigore, forse l’unica cosa veramente sua, profondamente amata. Forse viva quanto lui, questo ragazzo dinamico, forte, un po’ anche spavaldo perché solo, perché in lotta col mondo.
Col padre, anzitutto, ch’egli cerca con un ardore, una decisione che sembra da lui tutto attendere. Ma, strano, quel padre tanto amato e cercato è un tipino debole e amorale cui nulla importa di lui, che lo rifiuta, lo scaccia. Mentre la madre, unita ad altro uomo, non ha presenza alcuna. Ragazzo la cui forza è apprezzata da tre giovinastri che gli affidano una rapina di cui forse egli non comprende neppure il male; rapinare un uomo e il figlio, dopo aver dato una botta in testa ad ambedue. Lo salva Samantha, la parrucchiera cui un giorno egli casualmente si è stretto, e che firma per lui, rimborsa i rapinati per lui, diventa la sua vera madre.
Domina qui il silenzio, con solo un brano classico che ritorna più volte sempre lo stesso, un leitmotiv.
maggio
Terrence Malick, The tree of life ●
Al Massimo di Lecce il 29/05/011.
L'albero della vita, quinto film di un regista quasi settantenne, parco, meditativo, creativo; il primo film a trent’anni, La rabbia giovane, nel ’73.
Un’opera che trascende ogni modello e misura. Profondamente religioso, in esergo la famosa frase in cui Dio risponde al lamento di Giobbe richiamando la grandezza della sua opera, la creazione, “dov’eri tu?”. Che introduce il fondamentale tema del dolore – la morte di un figlio diciannovenne nella famiglia texana attorno a cui si svolgerà il film; ma subito passa alla risposta divina, ad una lunga sequenza cosmica, la crazione appunto, fasce di colore che scorrono, cieli, galassie, cascate, vulcani, fiumi, mari, mentre risuona la stupenda musica del Requiem di Preisner. In tutto il flm, la musica, per lo più classica, ha un grande e suggestivo ruolo, che si alterna a lunghi silenzi. Poi il dolore, quello della madre, quello del fratello ormai cinquantenne, che si aggira nelle città dai grattacieli splendidi, ma anche nello squallore dei deserti, delle lande sperdute, nell’insignificanza dell’umano. Anche se nello splendore dei grattacieli si celebra forse l’opera d’uomo, pur nella sua vanità; o forse la vanità soltanto. Il film trascende i tempi e li mescola. Fondamentale il tema della grazia che fa felice la vita, mentre la natura l’assoggetta alla delusione e al dolore.
Si passa alla storia della famiglia texana degli O’Brian, già introdotta all’inizio. Ma qui il racconto attento e preciso. La nascita dei tre figli maschi, la loro prima infanzia; poi la fanciullezza e la prima adolescenza; dove una madre sensibile e amorosissima (Jessica Chastain); e un padre severo e autoritario (Brad Pitt) che scatena l’odio del figlio maggiore Jack, che ne vorrebbe la morte, e ne è tentato quando il padre sta sotto la macchina sostenuta da un crick; ma ci sarà poi la riconciliazione. Il principio è che l’amore rende felice la vita, mentre la sua mancanza l’abbandona al dolore (che è poi la dualità di grazia e natura; il film è profondamente religioso ed evangelico); ma questi temi risuonano discreti, da una voce recitante che di quando in quando interviene.
Lunga e attenta questa dinamica dei figli, di genitori e figli. Il padre esce poi sconfitto; egli che coi suoi 25 brevetti sperava nella grandezza e nella ricchezza.
Ritornano i passaggi cosmici, si prospetta la fine dell’umanità in una landa acquosa in cui tanta gente si aggira, i protagonisti bambini e adulti nella insignificanza ormai del tempo e del cosmo.
Giorgia Cecere, Il primo incarico
Dai Salesiani di Lecce l’8/05/011.
Opera prima, la regista ha lavorato come sceneggiatrice con Gianni Amelio e con Edoardo Winspeare.
Già curiosa la scelta del tempo e del luogo: gli anni 50 in Puglia, nel Salento, anni in cui la campagna salentina non era ancora uscito dal medioevo. Più curiosa ancora la scelta della località dove vive questa giovane maestra di scuola, che ha studiato per corrispondenza e si è diplomata; la povertà delle case e del vivere, la povertà di espressione anche degli affetti più profondi come quelli materni. Anche se in quel paese – che però non vediamo – v’è la villa di un probabile aristocratico con un figlio studente che alla giovane maestra è legato. Arcaica è la località in cui la maestra è inviata per il suo “primo incarico”, le quattro case a trullo (forse nella valle d’Itria), case povere, rudi, disadorne; mentre la scuola è un vecchio locale con quattro banchi e sette ragazzi ignari di tutto. Forse la regista ci vuole far riflettere su quello ch’era la vita in tempi non lontani, prima che si diffondesse la società del benessere.
Il film ha una sua ricerca di stile ma è molto spezzettato, scene molto brevi, difficoltà di ricucirvi una storia; anche perché manca la parola, vi si parla pochissimo. Non c’è un comune, un’organizzazione comunale in questo luogo sperduto? Non c’è nessuna particolare attenzione per la giovane maestra? E che cosa conclude lei nella scuola al di là di qualche addizione?
Sappiamo da una lettera che il suo ragazzo s’è legato a un’altra donna, la vediamo improvvisamente piombare nel letto di un ragazzo di lì, che poi anche sposa, ma poi gli nega il bacio e gli resta estranea. Difficile ricostruire questa come l’intera storia, che resta sospesa.
Film rude, rustico, duro come la sua gente; ma anche inespressivo come lei. Una scelta coraggiosa ma alquanto inesperta.
Ken Loach, L’altra verità (2010) ●
All’Odeon di Lecce il 1°/05/011.
Titolo originale Route Irish, la strada che dall’aeroporto di Baghdad porta alla Zona Verde, ritenuta la strada più pericolosa del mondo. Perciò la guerra irachena, la più sporca guerra mai vista. In essa le milizie mercenarie (i contractors), assoldate da imprese private, in cui si combatte e si rischia per denaro (10.000 sterline al mese), senza nessuna norma, nessuna legge.
Il film è la ricerca della verità sulla tragica morte di un amico, un amico d’infanzia, un amico strettissimo, Frankie; da parte dell’amico Fergus. Siamo sempre nel mondo proletario prediletto da Ken Loach. Fergus, personaggio duro, introverso, ossessivo; lui che aveva spronato l’amico a quella occasione di guadagno. Ricerca ossessiva di ciò che è veramente accaduto dopo che Frankie si era rifiutato perché su quella macchina c’erano dei bambini ed erano stati uccisi. Non accettando lui la sbrigativa spiegazione che si era trovato “al posto sbagliato nel momento sbagliato”. Ricerca ossessiva, cui giunge infine la voce che il capo pattuglia Nelson ha pagato un killer perché lo uccidesse. Ma la voce è vera? Fergus cattura Nelson e lo sottopone alla tortura islamica dell’acqua fino a che quello è disposto a dire tutto ciò che lui vuole. Poi risale ai capi, li sorprende dopo una riunione, li fa saltare nell’auto. Ma allora il dubbio, il dolore, lo sconforto lo corrodono a morte, e la morte cerca gettandosi nel fiume dal traghetto che lo attraversa; il traghetto che più volte abbiamo visto, già quando loro erano adolescenti. Siamo a Liverpool.
Film arido, spoglio, senza abbandoni, dominato dalla ricerca e dal dubbio.
aprile
Roberta Torre, I baci mai dati
Al Santa Lucia di Lecce il 30/04/011.
Difficile dire se la Torre abbia mai costruito un film significativo tra i cinque che ha fatto.
Qui ci sarebbe una veggente (ma la ragazza ha solo sognato che spaccavano la testa alla statua della Madonna da poco inaugurata in uno spiazzo vicino – ragazzi che giocavano al pallone la sera; e in seguito al sogno riesce a far ritrovare i pezzi sì che la statua viene restaurata). E quindi l’accorrere di gente che affida alla sua intercessione i più svariati bisogni. Un caso di supposto miracolismo. La ragazza si limita ad ascoltare; ma forse dovrebbe spiegare che lei ha poco da vedere con queste cose: la Madonna non le ha parlato, non le è apparsa; c’è solo il sogno, forse un caso di telepatia. Ma alla fine, poi, avviene davvero qualcosa come un miracolo: una ragazza che da bambina aveva perso la vista in seguito ad un trauma, la riacquista.
Il film non raggiunge un senso; non si può dire vi sia una critica delle molteplici apparizioni, dei pretesi miracoli, di una fede popolare credula e materialista. Lo stile tende al grottesco, sia nella ricostruzione della scombinata famiglia in cui questo accade (la madre in particolare, la sorella); sia, e ancor più, nel salone da parrucchiera in cui la ragazza lavora da inserviente (marginale, del resto).. Ma grottesco è anche lo sfilare dei postulanti con le loro richieste. Un grottesco voluto, spesso eccessivo. Pessime le musiche, insignificante il titolo, quali baci?
Neil Burger, Limitless
Al Massimo di Lecce il 25/04/011.
Regista americano al suo quarto film. Apprezzato The Illusionist, del 2007, ma anche Interview with the assassin del 2002.
Qui il tema di una nuova e particolare droga capace di esaltare le potenze cerebrali e trasformare l’uomo, esaltare le sue conoscenze, la capacità comprensiva e la creatività in ogni campo: nelle lingue, nel calcolo, nella scrittura. Un vecchio mito, vecchio sogno, raggiungere nell’istante ciò che normalmente esige impegno, persistenza, duro lavoro. Raggiungerlo e trascenderlo. La pillola trasparente; il cui effetto però dura solo qualche ora; la si deve riprendere; una pillola non ancora pienamente testata, che può portare alla morte; attorno alla quale s’accende poi la lotta, per averla. Da un lato l’esaltazione, dall’altro il tormento.
Ma il nostro eroe, Danny, uno scrittore in crisi, entra nel successo alla grande: il romanzo, il calcolo che lo introduce nel mondo della finanza e gli fa guadagnare grandi somme, consigliere di grandi finanzieri. Ha avuto prima una sola pillola dall’ex cognato; ne recupera una busta intera nella casa di lui devastata da ignoti concorrenti, lui morto; gli è sottratta dal suo avvocato; la recupera; incarica un laboratorio di analizzarla e quindi fabbricarla; è perseguitato da un boss della mafia russa che la vuole; il grande finanziere con cui tratta ne ha scoperto l’effetto. Il film è attratto in questa vicenda convulsa come in un tunnel percorso a grande velocità, quale vediamo mentre scorrono i titoli iniziali, e rivediamo anche in seguito. L’esaltazione della droga esalta la vicenda, la sua frenesia, che a un certo momento s’interrompe, ma va certo verso la morte.
Film d’azione, di grande tensione.
Giambattista Avellino, C’è chi dice no
Al Massimo di Lecce il 24/04/011.
Avellino è il regista di Ficarra e Picone, che qui tenta un film impegnato contro la raccomandazione; quindi contro il nepotismo, il favoritismo, il clientelismo che ammorba la politica, ma anche la cultura italiana; in particolare qui l’università. Una dei grossi vizi della nazione. Ci sono i concorsi, ma ci sono anche i soliti vincitori, amanti, figli, nipoti, magari attraverso lo scambio con un’altra università, per non dare nell’occhio. Qui tre giovani trombati mettono in piedi una serie di molestie contro i soppiantatori, registrano e poi proiettano in una riunione dal preside proprio sull’argomento, diffondono un volantino contro i “pirati del merito”. Ma il problema è troppo grosso; inoltre uno dei tre cade nello stesso errore accettando di scrivere un articolo che porterà la firma del barone, per ottenerne la benevolenza. C’è anche una polizia inetta e totalmente fuori ruolo. Il film manca della forza necessaria per affrontare un tale tema.
Paul Haggis, The next three days (2010)
Al Massimo di Lecce, il 22/04/011.
Sceneggiatore e regista canadese cinquantenne operante negli Usa. Ci ha dato due film notevoli, Crash anzitutto, del 2004, ma anche Nella valle di Elah del 2007.
Qui la storia di una fuga, un marito, che poi è un professore (donde il suo comportamento sempre pacato) che riesce a far fuggire la moglie, accusata di omicidio; a farla fuggire dopo che si è fatta ricoverare in ospedale; la fuga in auto, poi in aereo verso l’America Latina, con lei e il figlio. Un tema tutt’altro che insolito; una fuga tuttavia senza inseguimenti perché la polizia arriva sempre troppo tardi; ma anche quasi senza parole, e soprattutto senza caratteri, la donna in particolare, ma anche l’uomo, un attore come Russell Crowe, il famoso interprete di A beautiful mind. Un film piatto, che ci dice poco.
Jafar Panahi, Offside
Ai Salesiani di Lecce il 17/04/011.
Regista iraniano cinquantenne, già aiuto di Kiarostami, al suo quinto film. Affronta la condizione femminile iraniana come già nel precedente Il cerchio.
Film tuttavia debole e monotono con due soli scenari, l’autobus che va e quello che poi torna dallo stadio, l’angolo di corridoio in cui sono trattenute le donne. Il grandioso stadio s’intravede di sfuggita una sola volta. Scadenti i dialoghi.
Ragazze che tentano di evadere il divieto, tipico di questa società maschilista e clericale, di partecipare ad eventi sportivi maschili; in questo caso la partita Iran-Bahrein dell’ultimo mondiale di calcio. Tentano di sfuggire alla rigorosa sorveglianza militare dopo aver comprato un biglietto dai bagarini; ma vengono individuate e catturate, e relegate in un corridoio, in un angolo chiuso da sbarre, custodito dai soliti militari. I quali, interrogati, cercano di spiegare il perché del divieto, pur nella loro rozzezza. E cioè che nello stadio si troverebbero tra uomini loro estranei (nell’Islam la donna sta sotto la tutela del padre, del fratello, del marito), e anche ne ascolterebbero le parolacce e le escandescenze (la donna è perennemente minorenne).
Alla fine, lungo il tragitto che le porta in caserma per non si sa quale punizione, capitano nel bel mezzo della festa per la vittoria, un ragazzo che è prigioniero con loro sfugge, le due guardie lo inseguono, e così tutte le ragazze si dileguano. L’intervento repressivo sfuma infine.
Niente musiche ma rumori di fondo, in particolare quelli dello stadio.
Nanni Moretti, Habemus papam
Al Massimo di Lecce il 16/04/011.
Un cardinale francese eletto inaspettatamente papa, e che pressato accetta, dice il fatale sì, ma subito si sente incapace di assumere quella carica (le grida di rifiuto), chiede di uscire in città in incognito, sfugge ai suoi accompagnatori e vaga per la città in uno stato di semincoscienza ("non ricordo nulla"), di panico. Figura tuttavia semplice e buona, impersonata da Michel Piccoli, simpatico nel suo incerto vagare, nel suo rapportarsi ad uomini e cose.
Il nodo problematico è quello di una carica che tutto accentra in sé, una carica di tipo dispotico e imperiale, l’ultimo residuo degli antichi e moderni imperi, del dispotismo di un tempo; in una società democratica in cui il potere è essenzialmente popolare, di tutti; e, anche nella rappresentanza, condiviso tra parlamento, governo, magistratura, tre corpi distinti ed autonomi. Di qui il senso dello schiacciamento, dell’oppressione estrema.
Il cardinale fuggiasco è ritrovato nel palco di un teatro e ricondotto in Vaticano, dove dichiara infine ch’egli non si sente di assumere quella guida e responsabilità di cui loro abbisognano.
Il film, che affronta un ambiente e una tematica difficile, gelosamente custodita, ritenuta sacrale, è ben condotto, con qualche scarto. Così lo psicanalista che interroga il papa in presenza dei cardinali è evidentemente un nonsenso (impersonato male dallo stesso Moretti; un po’ meglio quando organizza un torneo di pallavolo tra i cardinali); e l’altra psicanalista che compare in una sola seduta quando il papa è fuggiasco. Una terapia di sostegno anche breve era opportuna, ma in ben altro modo.
Jo Baier, La fine è il mio inizio ●
Al Santa Lucia di Lecce il 10/04/011.
Film tedesco di un regista sessantenne estremamente parco. Porta il titolo del libro di Tiziano Terzani da cui deriva; un libro che, nella fase estrema della sua vita, racconta al figlio Folco ciò che la sua vita è stata e ha significato; la vita e la morte, attesa col sorriso.
Grande interpretazione di Bruno Ganz, grande bellezza della natura montuosa – l’Apennino, la Toscana, in cui Terzani ha ritrovato il suo eremo, in cui è immerso, pur vivendo con la famiglia.
Una grande meditazione che si sviluppa lungo tutto il film, la vita – e certo una vita straordinaria di giornalista, di viaggiatore, di contemplativo; dominata dall’amore per l’Oriente, la Cina, l’India. Si sviluppa con naturalezza e leggerezza nell’attesa della morte. Nel senso panico proprio dell’Oriente, il rientro nel tutto; non nel senso cristiano dell’incontro col Dio-amore, col Padre amoroso, in cui l’identità personale non si dissolve ma si esalta e si adempie. In tal senso il sorriso, o anche il riso, di Terzani contiene in sé l’implicita disperazione dell’annientamento, del nulla.
Ma il film fa tuttavia il suo corso sereno e luminoso, illuminato da una saggezza antica e profondamente vissuta. In realtà quel tutto in cui Terzani pensa di dissolversi è il divino, è anzi il Dio personale in cui il suo essere non si annienterà ma si adempirà nel trascendente divino amore.
Lee Chang-Dong, Poetry (2010) ●
Dai Salesiani di Lecce il 3/04/011.
Regista coreano cinquantenne di grande tempra, al suo quinto film.
Poesia è la linea fondamentale del film. Di una donna sessantaseienne, Mija (Yu Junghee, grande attrice), che entrata casualmente in un corso di scrittura poetica condotto da un poeta, avvia la sua vita come una ricerca poetica, ricerca di come vibrano le piante, i fiori, la natura sempre splendida; e di come vibra lei con esse. Donna fine, sempre fine nel vestire come nel tratto.
Con questa linea s’incontra la linea del male, la ragazza che si è uccisa gettandosi nel fiume (già all’inizio la vediamo galleggiare). Ma ecco che Mija è convocata dai cinque padri, poiché la ragazza era stata portata alla disperazione dallo stupro di sei ragazzi nel laboratorio appartato della scuola; e uno di questi è il nipote di Mija, che vive con lei perché la figlia è separata e non lo può accudire; ragazzotto rude e di scarsa parola. E i cinque padri pensano di tacitare tutto con un risarcimento alla madre, 30 milioni di won, 5 ciascuno. Mija trova il denaro con uno stratagemma un po’ cinico e irreale, concedendosi all’anziano di cui è badante attraverso il viagra, ed esigendo poi la somma.
Ma la vicenda precipita. Interviene la polizia, il ragazzo è preso; lei riesce a scrivere la sua poesia e la consegna, e viene letta dal poeta; ma scompare.
Film limpido luminoso, dall’andatura lenta, senza musica alcuna, semmai le voci della natura, il fiume, il vento, gli uccelli. La poesia come forma di sublimazione per cui Mija non è toccata dalla vicenda del male, ma pur dovendo operare anche in questa dimensione, vive nell’altra.
marzo
Mark Romanek, Non lasciarmi (2010) ●
Al Santa Lucia di Lecce il 27/03/011.
Regista americano cinquantenne al quarto film. Alla cui base sta il romanzo del giapponese Ishiguro Kazuo, qualcosa come un horror contemporaneo e insieme totalmente immaginario.
Poiché all’inizio, quando la protagonista Kathy H. inizia il suo racconto e lei è bambina, siamo negli anni 70, nel severo collegio inglese di Hailsham; per passare poi nell’95 ai Cottage, una masseria, e i ragazzi sono adolescenti; e siamo poi nel 2004; e da lì in poi la mattanza è in corso.
Qui sono radunati dei bambini fatti nascere appositamente da incontri tra gente della «feccia» – come dice Ruth –; e cresciuti nel collegio come in un mondo totalmente altro, senza nessun rapporto col mondo reale. Dove però un’insegnante un giorno svela alla classe il tremendo segreto: un allevamento di donatori di organi che, fatti adulti, procederanno alle donazioni, e quindi moriranno. L’insegnante viene licenziata, ma nell’animo di questi ragazzi non succede nulla, né allora né poi. Nessuna coscienza, nessuna ribellione, nessuna fuga. Totale insensibilità, totale accettazione. Il film acquista una forte tensione proprio perché si carica di orrore e insieme, in noi, di attesa che qualcosa accada, che qualcuno sfugga a quell’inumano destino. Ma nulla accade. I tre amici di cui seguiamo la vicenda, Kathy, Ruth, Tommy; continuano la loro vita. Ruth e Tommy si amano; ma ritroviamo poi Ruth sola quando già ha fatto due donazioni; è malridotta, neppure si regge. I tre si ritrovano e fanno una gita insieme, raggiungono una spiaggia solitaria dove giace un battello abbandonato; Ruth dice a Kathy che il suo è il vero amore per Tommy, e la vediamo morire sotto la terza donazione. Così come vedremo morire Tommy. C’è un pensiero, in Kathy, nel finale: che in fondo le nostre vite non valgono meno di quelle di quelle cui doniamo. Ma nulla segue.
Un film condotto con morbidezza e dolcezza; con finezza di dettagli; sotto i quali si nasconde l’orrore e la totale incoscienza. Che così raggiunge inesorabile la sua fine.
Forse che quasi tutto il valore del film è dovuto al romanzo? ma il regista ha una mano fine e sicura. Titolo insignificante
Ivan Reitman, Amici, amanti e… (2010)
Al Massimo di Lecce il 26/03/011.
Regista canadese sessantenne di origine slovacca, autore piuttosto mediocre, l’autore di Ghostbusters 1, 2, 3, che gli ha dato una certa dubbia fama. Meglio il figlio Jason, di cui ricordiamo Juno e Tra le nuvole.
Il titolo italiano non dice nulla, quello originale è forse meglio, No strings attached, non legati con lo spago.
Qui il vecchio tema di amicizia ma non amore, che poi inevitabilmente amore lo diventa; salvo che invece dell’amicizia c’è il sesso; il puro incontro sessuale, il puro piacere. Strano che questo principio sia sostenuto proprio dalla ragazza; mentre il ragazzo ha un impianto più serio. Borghesia californiana estroversa, superficiale; ambiente giovanile di puro divertimento.
Lisa Cholodenko, I ragazzi stanno bene (2010)
Al Santa Lucia di Lecce il 13/03/011.
Regista americana quarantene al quarto lungometraggio. Il film è stato pluripremiato e ha avuto successo.
Affronta il problema della coppia lesbica con figli propri, generati attraverso una banca del seme; problema assai presente negli Usa; assente da noi per l’omofobia dominante, generata dalla condanna vaticana.
Una famiglia alternativa con due madri in cui si vive assai bene; i figli, una ragazza e un ragazzo, sono cresciuti, la ragazza sta per diventare maggiorenne e partire per il college; il ragazzo ha qualche anno in meno. La situazione si complica alquanto quando il ragazzo confida alla sorella di voler conoscere il donatore di seme, che è poi il padre, e assieme lo fanno e lo incontrano; e lo introducono nella famiglia. Un personaggio di grande rilievo umano, grande carattere, grande generosità, realizzato magnificamente da Mark Ruffalo. Si complica in quanto una delle donne, che è stilista di giardinaggio, lavorando per lui e stando con lui, ha delle cadute amorose, che lei stessa non si spiega. Che, confidate alla compagna, provocano una leggera rottura, poi ricomposta.
Il film è fondamentalmente sereno e armonioso: la coppia lesbica con figli può rappresentare una soluzione per certe vite. Le due donne sono Annette Bening e Julianne Moore.
David O. Russell, The fighter (2010) ●
Al Massimo di Lecce il 6/03/011.
Un originale regista newyorkese, cinquantenne, al suo quinto film.
E originale qui, particolarmente, in questo film, che proviene da una storia vera; ed è sì un film di boxe, ma è anzitutto un film di famiglia. Una famiglia singolare, dominata dalla madre, con due figli e sette figlie (tutte grandicelle, grottesco); un enorme carico affettivo. Dove il maggiore ha iniziato la boxe e ha raggiunto esiti notevoli, ma si è poi smarrito nel crack; e noi ne vediamo la strana e fine caratterizzazione (Mark Wahlberg), il personaggio sempre un po’ fuori dal reale, sempre un po’ evanescente nel suo dire. Che anche finisce in carcere più volte. Il minore lo ha seguito; è abbastanza tosto, tipo forte e leale, tipo sensibile, legato profondamente al fratello maggiore; e però, dopo un match perduto, decide di staccarsi dalla famiglia (la madre manager, il fratello allenatore); ora che ha anche un legame amoroso con la fine e saggia Charlene (Amy Adams). E così avanza nella boxe vincendo un match dopo l’altro. Ma quando il fratello esce dal carcere è come risucchiato da lui e con lui riprende ad allenarsi (anche perché il fratello gli ha insegnato una particolare tattica) E con lui riuscirà comunque a vincere il titolo dei welter a Londra, avendo superato la rottura con la famiglia, forse per lui troppo dolorosa. Siamo a Lowell, nel Massachusetts, cittadina degradata.
Film intenso di tensione e passione
Danny Boyle, 127 ore (2010) ●
Al Santa Lucia di Lecce il 3/03/011.
Un regista che ha una sua forza, come in Trainspotting, un significativo, freddo, amorale film sulla droga; e in altri film, ma non sempre.
Qui ci dà un film severo, una storia estrema. Un ragazzo, un escursionista allenato e attrezzato, ragazzo scevro, solitario, che ama affrontare dassolo la natura impervia, queste alture tozze tondeggianti di roccia percorse da stretti canyon, corridoi sottili e sinuosi. Qui l’incidente, il dramma. Una, roccia, una grossa palla si stacca , scivola lungo la fessura e gl’imprigiona il braccio. Nessuna possibilità di uscirne. Le ore, i giorni passano; 127 ore, cioè cinque giorni e sette ore; e nessuno sa ch’egli è lì, a nessuno ha detto dove andava; purtroppo non ha risposto al colpo di telefono della madre proprio prima di uscire. Nessuno passa per quelle alture solitarie.
Tentativi futili: segare la roccia col coltello serramanico; spostarla imbrigliandola con la corda che gli serve per le discese. Pochi viveri, insufficiente l’acqua. Inizia a sentirsi esausto. Prende la decisione eroica: con quel coltello si taglierà il braccio; e lo fa, e si libera, e riesce ad uscire dal canyon, a calarsi dalla roccia. Poi incontra una coppia con bambino che lo soccorre, chiama l’elicottero, lo salva.
I flash back, i ricordi, le immaginazioni, le allucinazioni non sono particolarmente suggestive. Suggestive, semmai, anche se dure, quelle tozze alture dello Utah, e con esse il deserto, quei canyon, quei laghi sotterranei. Strane quelle folle di persone, di macchine che scorrono dividendo lo schermo in due o tre parti, durante i titoli; e tornano alla fine. La folla di contro alla solitudine? Questo il senso? Brutte le musiche.
febbraio
Debra Granik, Un gelido inverno ●
Al Massimo di Lecce il 27/02/011.
Regista statunitense al suo secondo film, premiato al Sundance Festival e a Torino; candidato all’Oscar come miglior film. Winter’s bone, un inverno che penetra le ossa. Dal romanzo omonimo di Woodrell.
Storia dolorosa in un tipico ambiente statunitense, quella specie di agglomerati fatti di case di tronchi, prefabbricati, roulotte, vecchi autobus, sparsi nel bosco, nel disordine e nell’abbandono, con carcasse di macchine e relitti vari e sporcizia. Gente che si è comprata un pezzo di terra là dove costava poco, o semplicemente l’ha occupato. Dove i bambini crescono nella natura e con la loro fantasia si divertono, ma la vita è stentata, e s’intreccia con la malavita.
In questo ambiente di desolazione la storia di una ragazza decisa, forte (la madre è malata, alienata) che cerca il padre perché da lui, spacciatore di droga, che ha ceduto in cauzione terra e casa per uscire dal carcere e sfuggire al processo; da lui dipende la sorte di terra e casa; madre e tre figli che si troveranno improvvisamente senza un tetto; se, ad esempio, non si presenterà al processo.
Il film è una peregrinazione della figlia alla ricerca del padre, in un ambiente spesso ostile, talvolta anche aggressivo fino alla violenza e alla minaccia di morte. E la salvezza viene proprio dalla morte del padre, ucciso e sepolto nella palude, del quale lei potrà esibire alla polizia le mani, relitto prezioso e macabro, che una motosega ha segato per lei.
Opera austera, senza musiche (solo il canto che accompagna i titoli, e le canzoni del pub).
Jaume Collet-Serra, Unknown - Senza identità
Al Massimo di Lecce il 26/02/011.
Regista spagnolo trentacinquenne con quattro opere mediocri.
Qui un film ambiguo, che si pensa si svolga sulla perduta identità del protagonista (un eccellente Liam Neeson, in uno spettacolare incidente d’auto) e su ciò che di dolorosamente umano possa comportare (si ricordi Memento di Christopher Nolan). Ma il regista costruisce invece un complicato film d’azione e di malavita, con quei dannati inseguimenti di macchine già sempre visti, e altre cose del genere. Il film non è mal costruito, salvo che è piuttosto scontato, e inoltre confuso.
Dunque il protagonista, che si crede sia un botanico che dagli Usa sbarca a Berlino con moglie bionda per un congresso internazionale, ha questo spettacolare incidente col suo taxi che vola nel fiume, dove è salvato dal coraggio e dalla generosità della giovane tassista. Dopo di che sta quattro giorni in coma e quando si sveglia trova che il nome ch’egli ricorda, Martin Harris, appartiene ad un altro; come di un altro è la moglie con cui l’abbiamo visto sbarcare dall’aereo. C’è però una organizzazione malavitosa che lo insegue e tenta sopprimerlo; e quando recupera la preziosa valigia dimenticata all’aeroporto vi troviamo diversi passaporti con diversi nomi; e ad un certo punto egli dice che è stato a Berlino qualche tempo prima per collocare nell’albergo del congresso, dove è presente anche un principe islamico che finanzia la ricerca; la bomba che provocherà il panico finale, e che infine scoppierà; avviata elettronicamente da quella bionda che più che moglie sembra essere un membro della stessa gang o servizio che sia..
Insomma, di quel dramma umano che ci aspettavamo non c’è nulla, ma solo un banale film d’azione, uno dei tanti; che sprecano soltanto un po’ di adrenalina..
Joel e Ethan Coen, Il Grinta
Al Massimo di Lecce il 21/02/011.
I fratelli Cohen riprendono qui lo western, rifacendo un film di Hathaway del 1958, da un romanzo di Charles Portis. Questo strano amore americano del remake che spesso è soltanto commerciale. Ricalcare il successo.
Il titolo originale è True grit, qualcosa come vera fermezza, e non sembra aver nulla a che vedere col Grinta italiano, se non una certa assonanza.
Il film ha un suo stile, una secchezza, una essenzialità. Dominato da una figura di ragazza quattordicenne, straordinaria figura, carattere fermissimo, parola pronta e decisa, volontà ferrea (Hailee Steinfeld). Ha stabilito che farà giustizia al padre, ucciso da un pistolero o mezzo criminale per depredarlo. Il volto puro limpido di questa ragazza, la sua fermezza che su tutto s’impone, e che raggiunge sempre il suo scopo.
Accanto a lei l’anziano sceriffo decadente e beone, e però dal tiro sicuro quasi infallibile, dall’animo generoso, che lei riesce a piegare al suo volere; pistola facile e certa, eccesso di morti, come quasi sempre in questo genere di film. E insieme partono per la ricerca e la caccia all’uomo, per quella sospirata giustizia della figlia al padre; che si adempirà. Si sa che nello western per lo più il malvagio è vinto, la catarsi si adempie. V’è una frase all’inizio, dal libro dei Proverbi, “Il malvagio fugge anche quando nessuno lo insegue”. Qui il malvagio è inseguito, raggiunto e punito.
Darren Aronofski, Il cigno nero ●
Al Massimo di Lecce il 20/02/011.
Regista statunitense quarantenne, noto in particolare per The Wrestler , del 2008.
Film di notevole bellezza, perché film di danza, il Lago dei cigni, per le musiche di Ciaikovski, per la presenza di Natalie Portman nel ruolo di prima ballerina, con la sua straordinaria interpretazione. E insieme film di grande tensione, che è poi anzitutto propria di questo straordinario lavoro della danza classica, con tutto ciò che essa chiede al corpo come allo spirito; ed è quella intensissima della giovane Nina, prescelta per interpretare per la prima volta il ruolo di protagonista, il cigno bianco e il cigno nero; tesa verso la perfezione; che però, come le dice il coreografo, specie nel ruolo del cigno nero, deve anche intensificare la sua passionalità, così come la tenebra che c’è in lei. Mentre la danza ne assorbe completamente l’esistenza, sì che la ragazza non ha amicizie né amori.
Questa forte duplice tensione si carica dell’apprensione ossessiva della madre, ballerina mancata che ha riversato sulla figlia tutte le sue attese; e della rivalità della collega Lilly, scelta come riserva al suo ruolo, la sua amicizia ambigua, il suo trascinarla fuori dal suo rigoroso stile di vita, verso l’alcool e la droga, il suo volerla forse perdere e traviare per rimpiazzarla.
Questa fortissima tensione la porta verso lo squilibrio psichico, l’allucinazione (Beth, la collega che lei ha sostituito, che si uccide a colpi di coltello; Lilly, che lei stessa uccide con un pezzo dello specchia infranto contro cui l’ha sbattuta). Nel rapporto con Lilly come nelle allucinazioni il film un poco si squilibra, forse (e su questo è intervenuta certa critica per demolirlo; come anche per le due brevi scene di espansioni lesbiche in cui Lilly la trascina); e si è anche parlato di horror ecc. Ma senza ragione.
Meno rispondente al suo ruolo il rude Vincent Cassel, il coreografo, e le sue rudi espansioni.
Il film ha già vinto il Golden Globe per l'interpretazione di Natalie, ed è candidato all'Oscar e a molti altri premi.
Paolo Genovese, Immaturi
Al Massimo di Lecce il 16/02/011.
Regista quarantenne che proviene dalla pubblicità in cui ha avuto molto successo. Ha fatto già alcuni film di medio calibro.
Questo delude già nel titolo che potrebbe avere una valenza sociale se significasse giovani uomini immaturi, quei “bamboccioni” di cui parlava il Ministro Padoa Schioppa, quei “figli di mamma” che non riescono a lasciare il caldo e comodo nido della casa in cui sono cresciuti. Invece immaturi qui sono sei giovani ormai quarantenni che, per un disguido burocratico-giudiziario, devono rifare dopo circa vent’anni l’esame di maturità. Una incidenza molto più banale. Tra di essi c’è un “figlio di mamma”, che però è anche il più il più preparato e in certo modo il leader dell’impresa. Del resto, in questo confuso intreccio di vicende nulla di speciale accade, nulla di specialmente significativo; e però v'è un padre che alla fine accetta il figlio di cui la sua donna è incinta, e si formano alcune coppie, alcuni problemi si risolvono. C’è insomma il lieto fine.
Pascal Chaumeil, il Truffacuori
Al Santa Lucia di Lecce il 13/02/011.
L’arnaque è la truffa, arnaqueur il truffatore; che qui diventa arnacoeur il truffacuori. Esordio di un regista francese, film apprezzato dalla critica ma in realtà inconsistente, privo di senso, e anche scarsamente divertente.
Una specie di strana agenzia, attiva nel rompere unioni amorose e fidanzamenti non graditi alle famiglie o altrove. Sono tre persone tra cui un seduttore che però, adempito il suo compito, si ritrae; il che rende il successo insicuro; d’altronde egli non può certo caricarsi della gente che seduce, il peso sarebbe eccessivo, oltre che improbabile. Grottesco, si direbbe. A parte l’azione maggiore, la rottura del rapporto della figlia di un magnate (una piuttosto imbalsamata Vanessa Paradis) con un giovane inglese, la vigilia delle nozze, che non si sa bene se finisca in amore, dissolvendo l’agenzia.
John Cameron Mitchell, Rabbit Hole
Al Santa Lucia di Lecce il 12/02/011
Regista statunitense quarantenne al suo primo film. Rabbit Hole, la tana del coniglio, è il titolo di un fumetto di cui è autore il ragazzo dell’incidente; con cui la madre ha una serie d’incontri, forse perché le richiama il figlio morto; un modo per stare con lui; ma è anche il titolo del dramma da cui il film è tratto. Sarebbe la tana in cui ci si ritrae nel dolore.
Il tema dell’elaborazione del lutto, il recupero del distacco di una giovane coppia dal figlioletto di quattr’anni morto in un incidente (il cane era corso fuori in strada e lui lo inseguiva); in particolare della madre, dopo otto mesi. Elaborazione resa più difficile per una donna che vive nelle tipiche villette americane di periferia e non ha una professione; è sola l’intero giorno in casa. Non ha attività, interessi, distrazioni; è chiusa in sé e nei suoi pensieri, nella sua disperata tristezza. Non ha il conforto supremo della fede, considera anzi un presunto Dio come un carnefice o un insensibile che non alza un dito per impedire questi fatti dolorosi.
Il film è in tal senso serio ma monotono, in questa solitudine, nei tentativi vani del marito; tentativi amoroso-sessuali, proposta di un nuovo figlio. Stilisticamente elegante ma freddo.
Uno spiraglio è aperto forse dall’ultima scena di una serata passata con parenti e conoscenti, come in un ritorno alla vita? È un’ipotesi. La donna è Nicole Kidman, qui forse particolarmente espressiva; l’uomo è Aaron Eckhart, tipo molto maschile e anche un po’ rude, tipo forte. Ha un suo modo di stare col figlio, rivedendosi dei video la sera, un modo più gioioso, diremmo. Mentre la donna vorrebbe eliminare tutto ciò che è suo, anche cambiando casa. Non comprende il dono della presenza interiore della persona amata, del legame affettivo.
Alejandro G. Inárritu, Biutiful
Al Santa Lucia di Lecce l’8/02/011
Qui il regista di Babel e di altri film notevoli, un po’ ci delude.
Il “bello”, cioè il “brutto”: i bassifondi di Barcellona, le vecchie anguste case dai soffitti cadenti, dai pochi brutti mobili; dove abita gente che vive di espedienti, spagnoli, immigrati.
Dove il protagonista Uxbal concentra in sé il male: il padre non conosciuto, la madre morta, la moglie bruttina e volubile da cui è separato, il denaro guadagnato sfruttando gl’immigrati, e infine il cancro in fase terminale che gli dà due soli mesi di vita. Per cui il film è già segnato dalla sua agonia.
Ama i figli, che ha in custodia; c’è questo amore; e c’è anche un fondo di bontà, nel suo trattare la gente che tuttavia sfrutta.
Detto questo, che cosa succede nel film? Nulla di particolare, tranne i 25 cinesi, sfruttati da altri cinesi e che dormivano in uno scantinato come clandestini, e che il gas delle stufe uccide nella notte; che i loro padroni e aguzzini gettano in mare; che il mare respinge sulla spiaggia. Ma non v’è nessuno che pianga su di loro.
Insomma che cosa ci vuole dire questo film? Perché lo sfruttamento degl’immigrati non si tematizza, è in fondo marginale; mentre al centro c’è lui, dalla barba e dal tono ruvido, che inesorabilmente va verso la morte, ma senza farne un problema. Qui tutto è male, come nulla lo è; non v’è coscienza etica che reagisca. Si sa soltanto che le cose vanno così; purtroppo, diciamo noi.
Notevole l’interpretazione di Javier Bardem.
Mike Leigh, Another Year
Al Massimo di Lecce il 6/02/011.
Ritorna questo simpatico regista inglese del filone popolare e proletario.
Qui il quotidiano, il semplice scorrere della vita – attraverso le stagioni, e i loro titoli –. Un matura coppia, una famiglia, i suoi amici. Lui geologo, lei psicoterapeuta, il figlio avvocato trentenne che vive ancora con loro ma compare poi con la sua ragazza, Katie, semplice e simpatica. Ci sono due amici che li frequentano, Ken, spesso ubriaco, e soprattutto Mary, la donna ancora relativamente giovane che è rimasta sola e soffre della sua solitudine e cerca l’uomo, e soffre. Passano i giorni, passa un altro anno. Alla periferia della città ci sono gli orti, dove loro lavorano con passione, Gerri e Tom, la coppia, e i frutti si vedono. C’è un lutto, muore la moglie del fratello di Tom, un tipo severo, aspro; e tutti vanno laggiù, e partecipano ad un breve rapido funerale, forse anglicano; e poi portano il vedovo con loro, che possa riscaldarsi un poco al loro calore.
Affetti semplici e caldi, gli affetti essenziali, i più importanti nella vita di ognuno, gli affetti indispensabili.
Mike Leigh ha scelto questo mondo e la sua vicenda, e la conduce con sapienza.
gennaio
Tom Hopper, Il discorso del re
Al Massimo di Lecce, il 30/01/011
Regista televisivo inglese quarantenne. Ci dà questo film singolare sulla vicenda di quello che sarà Giorgio VI d’Inghilterra, il fratello minore di David, l’Edoardo VIII che abdica per il suo legame con l’americana e divorziata Wallis Simpson, il re che abdica per amore. Una storia che ha fatto epoca.
Che qui certo ha un suo posto, ma la vicenda che domina il film è la balbuzie di Alberto, dica di York e futuro Giorgio VI, padre di Elisabetta e di Margaret. Balbuzie, timidezza, senso d’inferiorità. E quindi il tirocinio col logopedista australiano Logue che lo porta al decisivo discorso della resistenza della nazione inglese all’arroganza hitleriana.
Colin Firth lo impersona con un certo vigore; Helena Bonham Carter è invece troppo minuscola e inconsistente come regina; il film non ha grandi carte da giocare, la balbuzie di un re oggi non ci dice molto. C’è anche un Churchill poso somigliante; rendere i personaggi storici non è sempre facile, e anche pericoloso.
Michele Placido, Vallanzasca, Gli angeli del male
Al Santa Lucia di Lecce il 23/01/011.
Placido ritenta qui l’impresa di Romanzo criminale, dalla Banda della Magliana alla Banda della Comasina. Ma il primo era più corale, più personaggi e storie vi si raccoglievano. Il titolo deriva probabilmente dall’autobiografia di Vallanzasca scritta con un giornalista, L’angelo del male.
Storia condotta tutta sul crimine: rapine, scontri con la polizia, carceri, fughe. Non vi sono linee amorose che vi s'intreccino e la umanizzino; ci sono le centinaia di lettere di donne più o meno affascinate o fanatiche del giovane criminale; tra queste egli ne sceglie una e la sposa, quasi un capriccio; mentre la donna ch'egli ha amato all'inizio, e il figlio, scompaiono subito. Una vita arida e insensata, tutta in negativo. Non ci sono momenti di debolezza o di resipiscenza, prospettive di uscire da quell'inferno; nulla di catartico. Anche la frase iniziale, queste armi sono fatte per impaurire non per uccidere, resta vuota; si uccide, e troppo; il film poteva essere condotto con mano più leggera. C’è una lotta, certo, e aspra, ma è vista sempre dalla parte del crimine; mentre la legge e la giustizia sono aliene, stupide, soccombenti. Notevole l’interpretazione di Kim Rossi Stuart. Originali spesso le musiche dei Negramaro.
Richard J. Lewis, La versione di Barney
All’Odeon di Lecce il 22/01/011.
Regista televisivo canadese al suo primo film significativo. Il titolo è quello di un romanzo di grande successo dell’ebreo canadese Mordechai Richler ; meno adatto al film che non è in primo persona, con voce recitante, e non può dare quindi la sua versione di certi episodi.
La storia di un produttore televisivo (ma non vediamo quasi nulla della sua professione) gran bevitore e spesso ubriaco, impersonato da quell’attore appassionato e simpatico che è Paul Giamatti; ed è questa la sua prima chance. La seconda è l’amore autentico, ch’egli trova dopo due matrimoni (ma il primo si dissolve subito per suicidio della donna, troppo improvviso e inesplicato), e proprio durante il banchetto di nozze del secondo, in cui è entrato troppo facilmente (vediamo una distesa di tavoli pieni di kippah); una giovane donna ch’egli incontra e subito sente che è quello l’amore; e riesce a sposarla e ad avere una vita felice con lei, e tre figli. Ma poi la perde, perché durante una settimana di sua assenza, casualmente la tradisce (ma la reazione della donna è davvero eccessiva e irreale, lei così amata). E però il suo amore resta intatto, ma la sua vita decade; subentra l’Alzheimer.
Opera simpatica, umana.
Stephen Frears, Tamara Drewe
Al Santa Lucia di Lecce il 9/01/011.
Frears è ormai un regista di lungo corso, quasi settantenne, di medio livello.
Una commedia anche piacevole, tranne che nelle due ragazzine fanatiche e spavalde che nella vicenda interferiscono in modo indecente e anche troppo facile. Luogo della commedia è una fattoria nella placida campagna inglese, luogo di lavoro per scrittori, i quali in quella pace e bellezza trovano ispirazione e sollievo al lavoro; e vi risiedono abitualmente, sì il film si sviluppa per stagioni, dall'estate alla primavera seguente. Tra questi scrittori ve n’è uno, un giallista, che ha una moglie molto devota e sua collaboratrice, ma ha anche il vizio delle giovani donne, come diversivo, come spasso. Un uomo di mezza età ma libertino, costretto poi a continue menzogne e frottole.
Tamara arriva da Londra per vendere la casa dei suoi, si è rifatto il naso, è splendida. Tipica ragazza esuberante attrae a sé il batterista di una band di passaggio nel paese, che si trattiene ma ha altri legami; poi l’anziano scrittore. E qui scoppia la tragedia perché la cosa viene risaputa, la moglie lo attacca, il collega indignato viene a pugni con lui e lo stende a terra, e proprio in quel momento la mandria di vacche della fattorie aizzata da un cane sopraggiunge e lo calpesta, lo annienta.
Avvenuta la catarsi, l’ordine si ricompone: il libertino è scomparso; la moglie prega l’altro anziano scrittore (quello che ha steso il marito) di restare con lei; il batterista ricompare con la sua Porsche gialla ma ha perso la fiducia di Tamara; la quale riprende il suo lavoro, forse ritorna a Londra.
Frears ama la campagna, ama la pace, ama l’ordine.
Clint Eastwood, Hereafter ●
Al Massimo di Lecce l’8/01/011.
Hereafter, cioè l’aldilà. Difficile capire quale sia l’intento di un regista peraltro serio e sempre straordinariamente impegnato nei suoi film. Nelle tre storie che qui s’intrecciano – a Parigi, San Francisco, Londra –. C’è un bambino che ha vissuto la morte da vicino, morte del fratellino gemello sulla strada, in cui ha perso quasi una parte di sé, e che non lo lascia più vivere come prima. C’è una giovane donna che, nello tsunami asiatico di qualche anno fa, è stata sulle soglie della morte e ha provato qualcosa d’indicibile ma anche d’inobliabile, che le impedisce di riprendere la sua normale vita di star della televisione e la spinge a scrivere un libro su queste straordinarie esperienze. C’è un uomo, un sensitivo, cui basta prendere le mani di una persona per pochi istanti per sentire-vedere le persone morte cui essa è legata. Esperienze dell’oltre la morte, di persone morte che attraverso il sensitivo parlano, dicono cose reali, accadute, riscontrabili.
Siamo a questo punto. Probabilmente Eastwood non ritiene la persona umana immortale nel suo spirito cioè nella sua più genuina personalità; né è soccorso dalla fede nel Dio che salva e accoglie i suoi piccoli figli per una più grande vita.. Si affida a queste esperienze indiziali e insieme ambigue, fumose: i morti parlerebbero ai vivi, verrebbero loro in soccorso; ma da dove? e come? Forse che gli spiriti delle persone che hanno cessato la loro esperienza di vita nel mondo vagano non si sa dove, si presentano, sono captate dal sensitivo? Non è forse più chiaro e convincente lo spirito immortale e l’ingresso nel divino?
Questo il problema. Il film è bello e godibile, ben costruito: la catastrofe grandiosa dello tsunami, l’intrecciarsi delle tre storie sul grande schermo, il sensitivo che si sente oppresso dalle storie di morte e imprende un altro lavoro, il piccolo gemello che perde il fratellino cui era profondamente legato. Lascia perplessi il fatto finale del sensitivo che incontrando la star sente-vede il bacio tra loro, un futuro amore; uno happy end appiccicato e alquanto banale.
Belle le musiche, ritmate da grandi silenzi.
Karan Johar, Il mio nome è Khan ●
Al Santa Lucia di Lecce il 6/01/011 (2010).
Regista indiano trentottenne, nel 1998 il suo primo lungometraggio, molto attivo.
Film splendido, pieno di luce, di colore, di vitalità. Sul grande schermo. E dura due ore e mezzo.
Anche se il protagonista, Istvàn Khan, è affetto da una forma minore di autismo (morbo di Asperger), che gli rende difficile la parola e il gesto, l’incedere. Ma l’interprete rende magnificamente il personaggio, con le sue difficoltà, le sue ingenuità.
Dopo il prologo in India, dove l’intenso rapporto dei due fratelli con la madre, la prima parte è già in Usa, a San Francisco, dove i due fratelli sono emigrati (San Francisco, la città più bella e più viva) ed è presa dall’incontro con Mandira, ragazza luminosa e piena di vita (abbandonata dal marito ha un figlio dodicenne, Samir), ragazza gentile, con Istvàn in particolare, e il suo handicap. Simpatizzano, si sposano.
A questo punto la tragedia. L’attacco alle torri gemelle, il risentimento contro i musulmani (e Istvàn lo è), l’uccisione del piccolo Samir attaccato da ragazzi rabbiosi in quanto musulmano (porta il nome del patrigno), la disperazione della madre che vede in Istvàn e nel suo nome la causa della rabbiosa vendetta; la decisione di lui: andrà dal Presidente e gli dirà “il mio nome è Khan, e non sono un terrorista”. È il nodo drammatico del film: la tragedia delle torri gemelle, la tragedia dei musulmani d’America.
Segue il pellegrinaggio d’Istvàn alla ricerca del Presidente. In autobus, a piedi nel deserto col suo passo incerto; lo vede passare in una lunga fila di limousine, inavvicinabile; non riesce ad entrare nella cena di beneficenza perché è solo per cristiani; mentre stringe le mani alla gente grida il suo “non sono un terrorista”, ma gli altri sentono solo l’ultima odiosa parola e lo atterrano, lo imprigionano; in Georgia si prodiga per le vittime dell’uragano; ormai l’America lo conosce. Ma ecco il nuovo Presidente, Obama, la nuova figura di umanità e di speranza, che lo cerca, e a lui può dire infine, la sua parola, tante volte ripetuta: “Il mio nome è Khan e non sono un terrorista”. E ritrovare così anche l’amore di Mandira
Musiche talora eccessive, manca il senso del silenzio.
Jean-Pierre Jeunet, L’esplosivo piano di Bazil
Dai Salesiani di Lecce il 2/01/011 (2009).
Il titolo francese non era di facile traduzione, Micmacs à tire-larigot, forse raggiri a garganella.
Jeunet, ormai quasi sessantenne, è il regista di Delicatessen, suo primo film, e de Il favoloso mondo di Amélie che ha avuto grande fortuna in Francia, forse non meritandola appieno.
Un film originale e anche gustoso, che ruota intorno ad un grosso problema, quello degli armamenti, del mercato delle armi, delle mine e delle bombe a frammentazione; è l’attacco a questo mondo che in Francia prospera (anche perché vende alle ex-colonie), ad una grande fabbrica d’armi; l'attacco da parte di un gruppo di clochard, di marginali; un attacco di gente ingenua ed estrosa, che ci si diverte come in un gioco.
E parte da un bambino che perde il padre su di una mina in Marocco, e che poi da giovane è colpito alla testa da una pallottola vagante (tra l’altro il chirurgo decide se estrarla o no a testa e croce). E capita in una curiosa comunità di clochard vecchi e giovani, che vivono in uno strano alloggio che s’apre in un gran mucchio di rifiuti; vivono allegramente recuperando ingegnosamente materiali di rifiuto e di riporto.
Con questa comunità solidale e inventiva, con le sue estrose invenzioni Bazil realizza il suo piano, la distruzione della grande fabbrica di morte, che esplode e brucia; l’umiliazione e l’annientamento morale dei due grandi capi, gli orgogliosi padroni della morte. Non la vendetta, no, perché questi clochard sono buoni e saggi.
Le invenzioni del film sono talvolta surreali, talvolta sopra le righe; ma coerenti col suo mondo.
Joseph Kosinski, Tron Legacy
Al Massimo di Lecce, l’1/01/011.
Legacy, cioè l’eredità; cioè di Tron, un programma informatico (nel film e nel suo mondo i programmi compaiono come personaggi), ma anche il titolo del film del 1982, diretto da Steven Lisberger, che in tempi in cui l’informatica non era ancor molto sviluppata introduceva il tema dell’ingresso in quel mondo, con grandi effetti grafici e luminosi; un film molto apprezzato in seguito. E che ha ora una continuazione dopo quasi trent’anni. Kosinski è un regista trentenne alla sua prima regia nel lungometraggio; Lisberger qui è produttore.
Riprende così l’ingresso di uomini, di programmatori o creativi, nel mondo del software, anzi ormai nella rete. Uomini che sono trasformati in esseri elettronici e recuperano poi la loro sostanza umana, e possono così uscire alla fine dal sistema Qui è il figlio Sam Flynn alla ricerca del padre Kevin, il protagonista del primo film, grande creativo, che entra (attraverso un massiccio portale) prima nella sede della Encom, la potente società informatica che detiene il sistema, e di cui egli col padre è grande azionista, ma che è dominata da altri in combutta col megacervellone del sistema stesso. Aveva ricevuto un messaggio dal padre, sparito da tempo, e lì lo incontra. in lotta appunto con CLU, il programma che tutto controlla, che accetta e annienta. Lotta dell'uomo contro un sistema informatico, e il centro che vi presiede, e che diventa arrogante, pensa di poter diventare superiore all'uomo stesso. Un cervello elettronico superiore al cervello umano.
Dopo varie vicende, in particolare lotte del tipo videogame con personaggi del sistema, si congeda dal padre ed esce, deciso a combattere la battaglia di potere; mentre il padre resta per lottare all'interno. Lo strano è che con lui esca una ragazza-elemento del sistema, un tipo di elemento sofisticato che il padre aveva creato. Il film non è privo d'incoerenze, che anzi abbondano.
La bellezza del film, - come già, e ncor più, il primo - sta nella fantastica costruzione di questo mondo di forme e di luci, anche se piuttosto arbitrario e ancor meno comprensibile nel suo strutturarsi..