FILM DEL MESE - 2008

 

 

 

 

gennaio

Robert Redford - Leoni per agnelli

Cristina Comencini - Bianco e nero

Abdel Kechiche -  Couscous

Ang Lee - Lussuria,seduzione,tradimento ●

Sam Garbarski - Irina Palm

Ridley Scott - American Gangster

Wilma Labate - Signorinaeffe

Sean Penn - Into the wild

 

aprile

Paolo Franchi - Nessuna qualità negli eroi

Wong Kar-wai - Un bacio romantico 

Jason Reitman - Juno

Gianni Zanasi - Non pensarci

Stefano Chiantini - L'amore non basta

 

luglio

Timur Bekmambetov - Wanted. Scegli il tuo destino

David Ayer, La notte non aspetta

Michael Hanecke, Funny games 

Christopher Nolan, Il cavaliere oscuro

 

novembre

Daniele Vicari, Il passato è una terra straniera

Uli Edel, La banda Baader Meinhof

Gulliermo Arriaga, The burning plain

Giulio Manfredonia, Si può fare

Juan Antonio Bayona, The Orphanage

Edoardo Winspeare, Galantuomini

Clint Eastwood, The changeling 

Ridley Scott, Nessuna verità

 

 

febbraio 

Carlo Lizzani - Hotel Meina

Mike Nichols - La guerra di Charlie Wilson 

Claude Chabrol - L'innocenza del peccato

Antonello Grimaldi - Caos calmo

Julian Schnabel - Lo scafandro e la farfalla

Tim Burton - Sweeney Todd

Joel Cohen - Non è un paese per vecchi

 

maggio 

Giuliano Montaldo -  I demoni di San     Pietroburgo

Richard Shepard - The hunting party

Renzo Martinelli - Carnera 

Martin McDonagh - In Bruges

Matteo Garrone - Gomorra

 

settembre

Ferzan Ozpetek, Un giorno perfetto 

Marco Bechis, La terra degli uomini rossi

Pupi Avati, Il papà di Giovanna

Nuri Bilge Ceylan, Le tre scimmie

Marco Pontecorvo, Pa-ra-da

Dennis Lee, Un segreto tra di noi

Cédric Klapisch, Parigi

 

dicembre

Danny Boyle, The millionaire

Luca Lucini, Solo un padre

Wim Wenders, Palermo shooting

Mike Leigh, Happy go lucky – La felicità porta fortuna

Gabriele Salvatores, Come Dio comanda

Arnaud Desplechin, Racconto di Natale

Gorge C. Wolfe, Come un uragano

 

 

 

marzo 

Gavin Hood - Rendition-Detenzione illegale

Paul Thomas Anderson - Il petroliere

Alina Marazzi - Vogliamo anche le rose

Marjane Satrapi - Persepolis

Sidney Lumet - Onora il padre e la madre

Sergio Rubini - Colpo d’occhio

Paolo Virzì - Tutta la vita davanti

Marc Forster - Il cacciatore di aquiloni  ●

 

giugno

Paolo Sorrentino - Il Divo

Marco Tullio Giordana - Sanguepazzo

Francesco Munzi - Il resto della notte

Susanne Bier - Noi due sconosciuti ●

Cao Hamburger - L’anno  in cui i miei genitori  andarono in vacanza

Michael Patrick King - Sex and the city

 

ottobre

Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna

Laurent Cantet, La classe

Jean-Pierre e Luc Dardenne, Il matrimonio di Lorna

Andrew Stanton, Wall-E

Christopher N. Rowley, Ciò che resta  di mio marito

Maria Sole Tognazzi, L’uomo che ama

Alessandro Baricco, Lezione 21

 

 

                                              dicembre 08

George C. Wolfe, Come un uragano

Al Massimo di Lecce il 25/12/08.

Esordio nel cinema di un autore e regista teatrale di talento. Il titolo originario è Nights in Rodanthe, poco appropriato perché qui di notti ce ne sono poche, una o due. Se poi il titolo italiano volesse dire che questa storia amorosa è come un uragano sarebbe lontano dal vero; mentre è vero che nel film arriva un uragano, che però non ha molto a che vedere con la storia d’amore.

Film piuttosto maltrattato dai critici. che lo accusano di romanticismo vecchio stile, di sentimentalismo e lacrimosità; ma si sa che i critici cinematografici, costretti a guardare troppi film, spesso non li vedono neanche per intero, spesso il loro giudizio è affrettato e poco significativo. Altri hanno parlato di una storia d’amore tra anziani; ma oggi l’anzianità non si sa bene a che punto si trovi. In ogni caso Diane Lane ha 43 anni; Gere ne ha 59, che non bastano a farne un anziano.

I due avevano già lavorato insieme in una storia di coppia, Unfaithful, infedele, un film di Adrian Lyne, di buon livello. Qui Diane Lane si rivela ancor più che altrove grande attrice, oltre che donna di stile e di fascino; e di fronte a lei impallidisce una star non molto dotata come Gere.

Opera di grande bellezza estetica, grande schermo, il pittoresco albergo chalet che s’innalza solo sulla spiaggia lambito dall’onda, la forte presenza del mare, la spiaggia, le dune. Presenza di una natura forte.

La storia dell’amore tra due separati, la donna che ha aperto l’albergo d’inverno  per quell’unico ospite, il chirurgo che vi passa tre giorni nel tentativo di riconciliarsi con la famiglia della donna che è morta sotto i suoi ferri. Un amore che insorge e dura solo due notti, un incontro, una passione calma e forse intensa. E cresce poi nei mesi in cui egli sta in Equador, dove è andato per riconciliarsi col figlio pure medico. Che in quel mesi di lontananza si rafforza nello scambio epistolare, nel pensiero e nell’attesa. Che subito è stroncato dalla morte di lui, travolto da una frana, da un fiume di fango. Cui segue il dolore di lei; dolore intensissimo, impossibilità di vivere. Su cui il film si chiude.

Storia condotta con finezza, nell’insieme ben costruita. Ha dietro a sé un romanzo di Nicholas Sparks. Storia di una prospettiva amorosa, di una possibile nuova vita, una passione-speranza, che s’infrange. Il dolore irrompe nell'esistenza che s'apriva alla gioia di vivere. 

 

 

Arnaud Desplechin, Racconto di Natale

All’Odeon di Lecce il 21/12/08.

Regista dotato, forse non talentoso: si vedano Io e la regina del 2006 e Aimée del 2007.

Un Natale alla rovescia. Il famoso incontro natalizio in cui l’intera famiglia si raccoglie; ma quello che dovrebb'essere un incontro affettuoso diventa conflittuale, concentra e rafforza i conflitti che tormentano la famiglia.

Siamo a Roubaix, città nel Nord francese nota solo per una corsa ciclistica internazionale; ed è anche la patria del regista.

All’inizio di tutto c’è la madre Junon, figura certo giunonica ma sempre fine, come può esserlo Catherine Deneuve; il cui primo figlio si ammala, e c’è poi una figlia, Elizabeth; mentre il secondo maschio, generato nella speranza che il suo midollo possa curare il primo profondamente amato, si rivela incompatibile. Ne viene una particolare disaffezione della madre per quel figlio, Henri; e anche per gli altri figli. La madre confessa candidamente di non aver amato molto i suoi figli. Forse per quella prima delusione. Ma anche la sorella maggiore Elisabeth condivide quella disaffezione, in modo ancora più aspro, durissimo, al punto da non voler più vedere  né sentire il fratello. Il quale, poi, in questo spazio scarsamente affettivo cresce male, perde anche la moglie da poco sposata, conduce una vita disordinata. Ma ecco che la madre si ammala, e si scopre così che proprio lei aveva trasmesso a quel figlio la malattia mortale. E sarà proprio Henri a donarle il midollo che può guarirla. C’è una curiosa insensatezza di comportamenti che travaglia la famiglia.

La riunione natalizia è tormentata da questa situazione. Ci sono altri due figli, Ivan e Simon. Ci sono pranzi in cui nessuno parla; c'è uno scontro feroce tra Henri e il marito di Elizabeth; anche se Henri, poco prima, ha scritto alla sorella una lunga lettera di riconciliazione, che però la sorella non accetta; gliela restituisce tra i regali di Natale. Una particolare asprezza. Ma la sorella, tanto dura, è stata pure colpita, ha un figlio adolescente paranoico, che l’ha assalita col coltello, ed è stato internato in una casa di cura.

C’è infine una storia minore, di Silvie, che ha sposato Ivan e ha due bambini; mentre era contemporaneamente amata dall’altro fratello Simon, che a lei è rimasto legato, e ha scelto così la solitudine. Questa vicenda si palesa e Sylvie passa l’ultima notte con lui.

Incantevole l’amore tra i due genitori, Junon e Abel, il loro rapporto intatto.

Questa complessa storia, raccolta in pochi giorni, è condotta con abilità. Il regista la divide in giornate, in quadri; introduce riflessioni esplicative. Storia altamente umana, anche se non intensa di passione; non raggiunge il tragico, piuttosto una certa comicità amara.

 

 

Gabriele Salvatores, Come Dio comanda

Al Massimo di Lecce il 14/12/08.

Dietro al film c’è il romanzo di Ammanniti; come già nel film precedente, Io non ho paura. Qui il titolo è ermetico.

Forse il più forte lavoro di Salvatores. Meno nella prima parte in cui si stabiliscono tuttavia i legami fondamentali: quello di un figlio ansioso, nevrotico, dissituato, con un padre rude ed aspro, ma che lo ama, e in cui il ragazzo nella sua ansiosa debolezza si rifugia; e l’amicizia col  tipo che un incidente ha reso paranoico, e che ha lo strano nome di Quattroformaggi; ha un’ossessione per una figura televisiva di ragazza porno. Questa prima parte non è ben costruita, disarticolata.

Segue la grande scena notturna battuta da una pioggia insistente, una schifosa pioggia torrenziale. Una ragazza bionda in rosso, già vista prima con altre ragazze, torna a casa in motorino, inseguita dal folle che vede in lei la ragazza porno della televisione che lo ossessiona; nella notte incontra un ostacolo e cade, il folle le è  sopra, la stupra e la uccide. Ma il gesto criminale non si vede. Sopravviene il padre col suo furgone, cerca l’amico folle; che lo assale e lo stende, sembra morto. Sopravviene il figlio che cerca il padre, vede il furgone, scopre la ragazza morta, scopre il padre steso, con grandi sforzi trascina l’uno e l’altro nel furgone. La pioggia batte sempre. Porta il padre all’ospedale, è mattino ormai, avvolge il corpo della ragazza in un foglio di plastica e con una carriola la trasporta dove le acque del fiume che scorre accanto sono più profonde, e ve l’abbandona. Il fiume è largo, con larghe zone ghiaiose, è forse il Ticino. Crede che il padre abbia ucciso la ragazza, lo dirà poi. Si conclude così la terribile scena notturna.

Ora il padre è all’ospedale in coma, il figlio lo visita; anche il folle, e si teme un qualche gesto inconsulto, poiché il padre è testimone del crimine. La tensione è forte.

Intanto si scopre il corpo della ragazza, la gente accorre. Si celebrano i funerali, il padre suo legge in chiesa un saluto angoscioso, si domanda se c’è Dio, come abbia potuto permettere un crimine così crudele.

Il padre si sveglia dal coma, il folle è comunque consapevole del suo crimine e s’impicca; il figlio comprende l’innocenza del padre.

Tutto questo corpo del film è fortemente drammatico, intensamente doloroso. L’infuriare della follia, la giovane vita stroncata, il pericolo estremo del padre, il dubbio del figlio. L’irrompere del male nella notte, il male che tutto sconvolge. Forte, fortemente doloroso.

Musiche pessime, insensate, orridamente rumorose.

 

 

Mike Leigh, Happy go lucky – La felicità porta fortuna

Dai Salesiani di Lecce il 13/12/08.

Con quest’opera il caposcuola del nuovo film proletario inglese ci delude; dopo film come Segreti e bugie, Career girls, Il segreto di Vera Drake. Difficile trovarvi lo happy come il lucky; quale felicità mai? e quale fortuna?

In questa ragazza ormai trentenne, Poppy, così come l’amica con cui vive; senza prospettive d’incontri, rapporti, amore; piuttosto rassegnate. Anche se a un certo punto c’è un ragazzo che s’interessa di lei, un assistente sociale o psicologo conosciuto a scuola, e s’incontrano e passano anche la notte insieme. Non male, forse, come maestra di scuola primaria; anche se nulla di particolare risulta del suo metodo, del suo approccio ai ragazzi.

Ha un temperamento esuberante ma anche troppo insistente, provocante, la battuta troppo pronta e anche pungente, la scarsa attenzione agli altri. Così alla scuola di flamenco, che inizia a frequentare al seguito dell’amica, con limitato interesse, con gesti e movimenti fuori tempo e luogo. Ma soprattutto alla scuola di guida – l’episodio forse più significativo – dove l’insegnante è un tipo ansioso e alquanto ossessivo, ma la ragazza lo provoca di continuo con la sua scarsa disciplina, con le insistenti e petulanti battute, fino a portarlo all’esasperazione nella scena in cui, dopo averlo rifiutato come insegnante, s’impadronisce delle chiavi della macchina e rifiuta di ridargliele. E perché poi ? Egli ne esce profondamente umiliato; ma anche lei.

Non v’è un storia. Il film ha molto colore, anche troppo.

 

 

Wim Wenders, Palermo shooting

Dai Salesiani di Lecce l’8/12/08.

Singolare opera, diversa da ogni altra, molto demolita dai critici. Un grande regista che con gli anni ha perso di forza, o forse di capacità costruttiva? Il film è dedicato ad Antonioni e Bergman, morti lo stesso giorno, mentre questo film veniva girato. “Fotografando Palermo”.

La vicenda di un fotografo di successo, esasperatamente attivo (Finn: è Campino, rocker tedesco). La prima parte avviene a Düsseldorf ed è caratterizzata dalle architetture razionali e dai grandi spazi in cui operano questi artefici della fotografia e del computer. V’è d’altronde un senso di vuoto, Finn dichiara che sotto la superficie visiva della foto non v’è nulla. Il suo dinamismo è morboso. D’altra parte il tema del tempo è presente fin dall’inizio, con quegli orologi fantasma che s’affacciano e dileguano. Al tempo si collega il tema della morte che domina il film, e che Finn prova una sera quando una macchina gli sbuca improvvisamente contro in una curva. Da allora diventerà un incubo costante.

Il passaggio a Palermo non è motivato. Finn ha visto certe foto e decide di andarvi subito con un aereo privato. Qui vaga per la città fotografando, la sua abitudine di non dormire la notte fa sì che spesso il sonno lo sorprenda mentre seduto o sdraiato contempla la città. Col sonno l’incubo della morte nella figura di un personaggio biancovestito e munito d’arco che lo colpisce di freccia; la seconda volta cade in mare e viene salvato col massaggio cardiaco e col bocca a bocca; ma non v’è ferita. L’ultima volta l’incubo lo porta nell’archivio di stato dove l’incontro con la morte è diretto, l’uomo bianco gli parla a lungo; la tesi è che la morte non dev’essere temuta perché non è una chiusura ma un’apertura: a una vita nuova e più grande, una vita divina, diremmo; ma Wenders non lo dice, il discorso resta sospeso e non convince. Il mistero della morte incombe ma non s'illumina.

Nel frattempo Finn ha incontrato Flavia (Giovanna Mezzogiorno, figura di una bellezza pacata e saggia), giovane restauratrice siciliana, l’opposto, o forse il compenso, della sua nevrosi. Di cui egli sente il fascino. Lei lavora al restauro di un trionfo della morte (un affresco cinquecentesco), la quale colpisce proprio di freccia; e però colpisce papa, arcivescovi e vescovi, uomini del potere ecclesiastico; mentre risparmia la gente del popolo. C’è un feeling tra loro, che si manifesta più in Flavia, e dormono anche nello stesso letto, ma come amici. Flavia è positiva e pensa positivo: la vita, l’amore, il lavoro. Lo può certo aiutare, forse guarire; anche se l’uomo è molto pieno di sé. A questo punto il film si chiude.

E lascia un senso di bellezza e di spiritualità.     

 

 

Luca Lucini, Solo un padre

Al Massimo di Lecce il 7/12/08.

Lucini è il giovane regista che ha lanciato Scamarcio come divo degli adolescenti, in film piuttosto superficiali e convenzionali. E però è maturato e qui raggiunge un esito notevole.

Un giovane padre, un medico, dermatologo che opera in una clinica privata, che resta solo con la figlia neonata in quanto la madre muore nel parto per  emorragia. Un carattere singolare costruito con finezza: l’amore per la figlia – e però all’inizio un po’ di rabbia per i pianti notturni che gli tolgono il sonno; ma l’amore e la cura per la figlia è profondo. Un tipo introverso, dalla parola scarsa. È tormentato dalla complessa vicenda del suo matrimonio, il rapporto amoroso già consumato, l’incontro di una notte, la gravidanza, la morte; da un senso di colpa non chiaro, oltre che dalla tragica morte e dalla lacerazione ch’essa ha prodotto. Deve anche difendersi da certe donne che lo vedono come possibile partner, in  particolare da Melissa. Di qui la complessità del tipo, che Luca Argenteri e il regista costruiscono con notevole sapienza

La storia del film sta in questa vicenda post partum e post mortem, così fortemente segnata. Non ha nulla di melodrammatico o di patetico; è piuttosto scarna, piuttosto aspra.

V’è una donna che via via gli si avvicina, Camille, la giovane ricercatrice francese che in Italia lavora ad una mappatura del cervello; ch’egli casualmente incontra nel footing mattutino; che gli fa da baby sitter, e c’è una crescita di feeling tra loro, ma sempre delicata e inespressa, la quale prelude forse ad un amore e ad un rapporto futuro, che sta oltre il film. Nella vicenda solitaria e scabra dell’uomo si profila una speranza.

Bellezza dell’immagine in cinemascope, il fiume, il mare, le grandi onde. La città è Torino, ma nulla la identifica.  

 

 

Danny Boyle, The Millionaire

Al Santa Lucia di Lecce il 6/12/08.

Slumdog millionaire, un povero cane milionario, diremmo; v'è nel titolo un residuo disprezzo? non certo nel film. Questa volta Danny Boyle non ci delude, dopo film come Trainspotting e 28 giorni; buono il primo, meno il secondo. Costruisce un film di straordinaria forza, sempre in quel mondo di emarginazione che gli è proprio; forza, coerenza, dinamismo, nervi, e infine colore, molto colore. E però musica assordante. Siamo in India, a Mumbai, la grande metropoli.

Costruisce la storia di un ragazzino – ma sono due fratelli, Jamal e Salim – e però l’eroe è Jamal, mentre Salim si perde nella malavita della nuova ricchezza di Mumbai, l’ascesa dell’India, e finisce massacrato – e v'è  inoltre il suo amore perenne incontrato da bambino, Latika. L’amore che corre lungo tutto il film.

Una storia che s’intreccia col grande show televisivo milionario a quiz che tutta l’India segue; e come riesce l'adolescente ignorante a trovare le risposte? forse nel frattempo ha frequentato un college? o pensa il regista che i ricordi che si frappongono gli suggeriscono la risposta? ma i ricordi si frappongono nel film, non in quei pochi minuti di tensione E però l’interesse sta in quella vita di emarginazione, del bambino che vive nella baraccopoli immensa, ha perso la madre in una di quelle confuse azioni di polizia a colpi di bastone; polizia brutale, che lo metterà  alla tortura quando il conduttore del quiz lo accusa. di che poi? di aver truccato le risposte? fatto incredibile, polizia del Terzo Mondo. Bambini soli che cercano da mangiare nella grande discarica, sono raccolti da un’organizzazione criminale che li fa cantare per le strade, ma li acceca perché così raccolgono più denaro; riescono a fuggire salendo su di un treno, montando sul tetto mentre il treno corre; e però perdono la ragazza. Jamal la cerca ovunque, la trova in un bordello, ma il fratello già legato al crimine gliela sottrae; e diventa l’amante del boss;  e però il fratello alla fine si pentirà e la farà fuggire.

Storia anche di un’ascesa. Del bambino Jamal che diventa un adolescente esile ma interiormente forte, e pulito. Serve il caffè al call center, riesce nella telefonata che lo ammette al quiz, supera il quiz, raggiunge il benessere (20 milioni di rupie). Fedele al suo amore, promette alla ragazza che l’attenderà ogni giorno alla stazione alle cinque; e infine alle cinque essa arriva; e così anche l’amore si adempie.

Film duro in tutta la storia di emarginazione, storia di polizia violenta, storia di malavita. Dura la storia dei bambini di strada. Dolore di un popolo; che ora cresce, ma nella contraddizione, nel contrasto di ricchezza e povertà estrema. Film doloroso e violento.

 

 

                                    novembre 08

Ridley Scott, Nessuna verità

All’Odeon di Lecce il 29/11/08.

Body of lies il tutolo originale, che però non esprime il senso del film. Il quale s’incentra piuttosto sul carattere di questa lotta tra gli USA e il terrorismo islamico: il carattere onnipervasivo della trama islamica, il pericolo presente ovunque, il sospetto, il timore, la sorpresa. Perché da una parte c’è una rete spionistica, o d’intelligence come s’usa dire eufemisticamente (perché l’eufemismo c’è comunque); dall’altra c’è un popolo, una fede, una religione che ha nella sua fede e nella sua legge il principio illusivo e spietato della soggezione di tutti i popoli, della lotta incondizionata, del machiavellismo religioso per cui ogni mezzo è lecito, il terrorismo in particolare, l’uccisione indiscriminata  che non sottostà a regola alcuna; e il principio e fascino del martirio, tanto più suggestivo quanto più il giovane è immaturo e incolto.

Nel film sembra che il sistema spionistico americano abbia tutto sotto controllo, con le sue centrali mediatiche che possono tutto vedere, i telefoni satellitari che ovunque comunicano; suggestive le visioni dall’alto, le inquadrature che via via mettono a fuoco il luogo preciso in cui si svolge l’azione. Ma è solo apparenza: il tessuto popolare è troppo complesso, troppo impenetrabile.

Qui l’azione s’incentra nel caposervizio Roger Ferris (un Leonardo Di Caprio di grande maturità e forza) inviato ad Amman per snidare la mente degli attentati; nel suo difficile rapporto con Hofman, il superiore burocrate della CIA dalla visione globale ma astratta; nel rapporto quasi affettuoso con una infermiera, nel liberare la quale cade nella trappola islamica e per poco non ci lascia la pelle. E’ salvato da Hani, il terzo uomo della storia, il capo dello spionaggio giordano

La storia si sposta continuamente da un luogo all’altro. Ed è tutta assorbita dall’azione, molto meccanica e poco umana; anche se le principali figure sono caratterizzate, Ferris soprattutto.

 

 

Clint Eastwood, The changeling 

Al Massimo di Lecce il 23/11/08.

The changeling, il bambino scambiato.  Eastwood realizza qui forse il suo più grande film; su di una storia vera. Dominato dalla figura della madre, una straordinaria Angelina Jolie, con quei suoi grandi occhi, quella sua forza di sempre ma qui intrisa di dolore. Siamo a Los Angeles nel 1928.

V’è certo un errore, l’averlo lasciato solo a casa un giorno intero, il bambino (il padre li ha abbandonati da tempo); un sabato; mentre la madre è caposervizio in un centralino telefonico, con quella lunga fila di telefoniste che inseriscono e disinseriscono comunicazioni.

S’introduce qui l’altro orrido fattore, la polizia; la sua arroganza, la falsità, la coercizione; pronta anche all’annientamento di una persona pur di non ammettere il suo errore. Ritorna qui la tendenza trasgressiva di questi corpi, l’abuso di potere e di forza in cui delinquono; anziché difendere la società dal delitto.

Le presentano un bambino che si proclama suo, il nome, l’indirizzo; la polizia lo ha imbeccato per affermare il successo. Ma la madre lo individua subito come non suo; tra l’altro è circonciso, e inferiore d’altezza di circa otto centimetri, e non riconosce il suo posto a scuola. E si sviluppa qui il criminoso conflitto con la polizia che la interna in un manicomio come malata mentale in quanto non riconosce il preteso figlio; e si arriva all’elettroshock; e v’è un reparto di queste donne vittime della polizia.

Interviene qui il pastore, che da tempo ha scoperto questi metodi criminali, la sua denunzia, la sollevazione di popolo; quindi la liberazione.

La storia della ricerca del bambino avanza. C’è un ispettore che scopre un bambino in una fabbrica abbandonata e viene a sapere di un criminale folle che rapisce bambini, li rinchiude, e poi li uccide sadicamente; e tra questi ci sarebbe stato anche Walter, il figlio di Christine Collins, la madre. Il criminale è catturato e impiccato. C’è un altro bambino che racconta come è riuscito a fuggire, e con lui altri suoi compagni di prigione; e tra questi ci sarebbe anche Walter. Il cuore della madre si apre alla speranza e su questa speranza il film si chiude.

Opera fortemente drammatica, condotta sempre con rigore e con forza. Opera di grande maturità stilistica ed umana.

 

 

Edoardo Winspeare, Galantuomini

Al Massimo di Lecce il 22/11/08.

Winspeare presenta il suo terzo film, dopo Sangue vivo e Il miracolo.

I galantuomini sono i criminali della Sacra Corona Unita, la nuova mafia pugliese sorta negli anni 80. Qui siamo nei 90 e la mafia è quella salentina.

Nel film non v’è una storia, o meglio v’è la storia in gran parte sotterranea dell’amore tra la donna capomafia (o vicecapo, perché il capo è un certo Za) e il magistrato già compagno d’infanzia (Fabrizio Gifuni); mentre si svolgono i traffici mafiosi (i motoscafi velocissimi che raccordano il Salento al Montenegro per il traffico di droga) sotto il comando della donna, Lucia (Donatella Finocchiaro, premio alla romana Festa del cinema), un fatto inusuale soprattutto nel Sud fortemente maschilista, che provoca tensione, e la donna deve anche subire uno stupro. E v’è poi la lotta col clan avverso di un certo Barabba, dove la spedizione che dovrebbe annientarlo finisce in un’imboscata e in un massacro.

Intanto la storia sotterranea ha portato il magistrato a tradire il suo compito non denunziando la donna, e quindi alle dimissioni (probabilmente solo da quell’inchiesta); e v’è infine un grande momento d’amore quando la donna, che è sfuggita al massacro, si rifugia da lui; un momento intenso ma che non dura più di una notte perché al mattino, quando lui esce per prendere delle provviste, la vede allontanarsi. La donna sa che deve fuggire lontano per salvarsi. Il film si chiude in questo amaro disincanto; né d’altronde il magistrato poteva in realtà sperare altro da questa donna; anche se la sua delusione è forte

Questo amore tra due persone che stanno su versante opposti e avversi, il crimine e la giustizia, potrebbe dare al film uno spessore drammatico che però manca per il fatto che è sotterraneo, non è vissuto. Il film è luminoso, le musiche sono buone, sensibili

 

 

Juan Antonio Bayona, The Orphanage

Al Santa Lucia di Lecce il 15/11/08.

È l’opera prima di questo autore, uno spagnolo che finora aveva fatto documentari e corti. Ci si chiede quale possa essere mai il senso di un’opera di questo tipo, di fantasy o soft horror; anche se i critici ne hanno parlato assai bene. Perché ciò che manca o scarseggia è l’umanità e consistenza umana della storia.

Qui una donna che ha passato l’infanzia in un piccolo orfanotrofio privato, di cinque bambini, e che poi, sposata e adottato un figlio, riprende col marito quella stessa casa, abbandonata e cadente, per farvi rivivere l’orfanotrofio. Il piccolo è sieropositivo e destinato a non vivere a lungo. Ha dei compagni di gioco immaginari; cosa che capita talvolta ai bambini soli, ma qui segna l’ingresso nel fantastico.

Avendo dunque la coppia attrezzato l’orfanotrofio, i bambini arrivano coi loro cari e c’è una festa, in maschera anche. Ma qui Simón, il figlio adottivo, dopo aver trattato con violenza la madre (con una forza e una cattiveria diremmo superiore), scompare; è ricercato intensamente ma inutilmente dalle forze di polizia; l’orfanotrofio non viene aperto, il dormitorio appare sempre vuoto, non si vedono bambini.

L’idea è che la casa sia comunque abitata dal suo spirito, e da spiriti di bambini uccisi da una perfida assistente sociale. C’è la solita suspense; i soliti colpi, rumori, aprirsi e chiudersi di porte; magari congiunti con temporali; il tutto piuttosto ingenuo. C’è l’intervento di un esperto, un incontro di gruppo, una seduta medianica. Si conferma la tesi fatua della presenza post mortem.

C’è soprattutto la madre (Belen Rueda, di grande temperamento), il suo amore per il figlio, la speranza di poterlo ritrovare o comunque reincontrare; e infine la scena in cui lo incontra, lo tiene tra le braccia, gli parla e lo ascolta; anche se poi si trova tra le braccia una coperta soltanto. Era certo un’allucinazione, sostenuta dalla falsa idea della permanenza o del ritorno dei morti amati, che percorre il film.

Ciò che resta infine è questo amore materno, forte e allucinato, che produce fantasmi. In una storia irreale e piuttosto scombinata.   

 

 

Giulio Manfredonia, Si può fare

All’Odeon di Lecce il 9/11/08.

Titolo simpatico e modesto. Per un’impresa certo complessa e difficile, che segue in Italia al movimento dell’antipsichiatria avviato da Basaglia (in Inghilterra il Tavistock Institute e personaggi come Ronald Laing e David Cooper), alla legge 180, al decisivo principio dell’abbattimento dei manicomi come istituzioni detentive e rovinose per il malato; quindi la creazione di comunità terapeutiche, cooperative aperte al lavoro, all’arte, ad una vita libera e varia e soprattutto umana.

Qui il sindacalista Nello (Claudio Bisio) si vede affidata una cooperativa di ex manicomiali e inizia a gestirla come una vera cooperativa in cui i soci discutono e decidono (a parte il rispetto per cui ognuno viene chiamato come il Signor tale); e, tra le varie proposte decidono per il parquet, di cui diventano abili e fantasiosi operatori. Interviene il dottor Furlan, il quale spiega che i farmaci di cui questa gente è carica possono essere dimezzati, sì ch’essi possano recuperare una più ampia e intensa vitalità. E lavorano insieme. E s’aprono alla discoteca, al ballo, all’espansione affettiva e amorosa.

Qui il fatto tragico, il suicidio di un ragazzo che si era innamorato di una giovane donna, che in certa misura tuttavia gli corrispondeva; i motivi del suicidio non sono chiari. Ma segue l’intervento della polizia, e quindi di nuovo la reclusione, la delusione di Nello che ritiene chiusa l’esperienza e non vuol più saperne; mentre i malati attendono di riprendere quella vita che tanto li appagava. Sarà il dottor Furlan, il  grassone generoso e ottimista, che arriverà con un altro gruppo a rilanciare e rafforzare la cooperativa.

Molto fine la costruzione della vicenda, la scelta e il comportamento dei personaggi, di questi malati, la loro caratterizzazione. Un’opera di grande umanità, grande coraggio e grande speranza. Si può fare, certo; non bisogna disperare, essere scettici, chiusi, schiavi di pregiudizi che la realtà ha demolito quando è stata affrontata. Sperare, aprire l’animo alla fiducia, aprire queste inumane clausure alla ricchezza e alla bellezza della vita.   

 

 

Gulliermo Arriaga, The burning plain

Al Massimo di Lecce l’8/11/08.

Arriaga, lo sceneggiatore di Inàrritu, di opere importanti come 21 grammi e Babel; che qui gira a cinquant’anni il suo primo film. “La pianura bruciante”, il deserto del New Mexico, dove brucia il sole e bruciano le passioni. Un film notevole.

Arriaga ama mescolare le vicende, in modo anche piuttosto rude. Qui sono tre donne, la madre (Kim Basinger), la figlia maggiore (Charlize Theron), la figlia minore (Jennifer Lawrence). Tre star, se vogliamo, anche se non sono le star che importano; anzi spesso con la loro personalità disturbano la comprensione della vicenda. La madre è presa dal rapporto amoroso con un uomo, che incontra in una grossa roulotte abbandonata nel deserto; e fa i salti mortali per incontrarlo, le bugie, i pretesti (una sola volta il marito tenta con lei l’amore ma subito desiste, forse perché il sospetto lo tormenta). E però persiste. È spiata dalla figlia Mariana, che ha intuito la sua passione e l’ha seguita e scoperta; in lei il disprezzo per il tradimento materno, l’invidia fors’anche. Non lo sopporta, pensa di disturbare l’incontro amoroso, lo fa col fuoco ma provoca l’incendio, lo scoppio, l’annientamento della coppia, della madre. E certo c’era in lei un amore-odio e una volontà perversa di distruzione. E il film inizia proprio con quest’orrido fatto di morte che ha decapitato due famiglie; coi funerali. Ma la vicenda si sviluppa poi.

Sylvia, la figlia maggiore, si è smarrita nei facili e fugaci amori, e ha raggiunto una desolazione profonda; e però proprio la figlia avuta dodici anni prima da un uomo che ora giace all’ospedale in seguito alla caduta di un aereo agricolo; il ritrovamento di questa figlia le prospetta un futuro e una speranza.

Mariana, la sorella minore, la spiona e provocatrice di morte, la ragazza forte e sensuale ha conquistato un ragazzo, un tipo serio, lo spirito più nobile in questo ambiente; e con lui ha un figlio; e però avutolo abbandona l’uno e l’altro, spregiudicata, insensibile. Come già prima la sorella.

Così si chiude questa storia di passioni estreme; nella dissolutezza, nella morte.

 

 

Uli Edel, La banda Baader Meinhof

Al Santa Lucia di Lecce i1 2/11/08.

Il regista di un film che ha fatto scalpore quasi trent’anni fa, Christiane F.- Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, 1981; attivo poi in America con alterna vicenda. Il titolo italiano è fuori luogo con quella “banda” (nell’originale Komplex) che sembra un fatto di malavita; il vero nome era Rote Armée Fraktion, quasi una sezione dell’armata rossa internazionale che vorrebbe trasformare il mondo.

Film forte, che certa critica non ha capito; film che con la violenza dello stile, come dei personaggi e delle azioni, affronta e ricostruisce al vivo una vicenda di estrema violenza. Che non è quella della malavita, dei film d’azione americani, ma di una gioventù che si rivolta contro le ingiustizie del mondo; la violenza contro la violenza. E lo fa con una Gründlichkeit, una radicalità tipica dello spirito tedesco; cui non è comparabile il terrorismo italiano, incapace di grandi azioni collettive. Nel 1967, quando era in atto la Grande Contestazione; il Vietnam, dove uno stato sovrano veniva invaso col pretesto di salvarlo dal comunismo sovietico; la Palestina, dove Israele si era insediato sfrattando un popolo, e come avamposto dell’egemonia americana; la Persia di Reza Pahlevi, il tiranno feroce in visita a Berlino su cui il film s’apre, la forte contestazione della gioventù berlinese.

Così parte una storia di ragazzi dalla decisione estrema; che aggrediscono anzitutto i centri del potere economico e repressivo; con la dinamite. Il supermercato, tempio del consumismo; centrali di polizia, tribunali, basi americane. Poi vanno in Giordania a compiere un tirocinio di allenamento; strano contrasto tra una  emancipazione estrema, un costume estremamente libero (la nudità, la sessualità) e il rigore musulmano. Poi tornano, sono fatti prigionieri, i sei maggiori, tra cui Andreas Baader, Ulrike Meinhof, Gudrun Esslin; e nell’isolamento inizia l’estenuazione di alcuni di loro; Ulrike è la più sofferente, quella che per prima si suicida. Intanto è iniziato il processo, un processo aggressivo, in cui i ragazzi non tollerano avvocati, ma smontano la ritualità processuale con la loro immediatezza, e la violenza verbale.

Fuori una nuova generazione è subentrata, e ne è anima Petra Schelm che ha lasciato la prigione; e la nuova generazione non è meno forte né meno violenta della prima. Intanto i prigionieri decidono lo sciopero della fame; decidono infine l’atto di estrema protesta, l’autosoppressione, tutti nella stessa notte. Un atto positivo, non un cedimento, una espressa volontà, come spiega Petra Schelm.

Un film che ha il taglio dell’epopea, una grande opera, che s’ispira ad una grande impresa e insieme ad un  grande ideale, e ne fa sentire la grandezza, nella violenza stessa.; un grande ideale che diventa però un grande errore, la pretesa rivoluzione velleitaria di un’élite, anziché di un popolo.

 

 

Daniele Vicari, Il passato è una terra straniera

Al Massimo di Lecce i1 1/11/08.

Vicari è un regista che difficilmente indovina il film. Nel mio schedario L’orizzonte degli eventi, del 2005, una complessa vicenda che non riesce ad amalgamarsi. Qui  dietro al film c’è il romanzo di Carofiglio che avrebbe potuto dargli forza. Dove il titolo vorrebbe forse dire che il passato di male in cui il protagonista è caduto, gli è totalmente estraneo? Già in questa idea il film si sfasa.

Sarebbe la discesa nel male e il riscatto di un giovane studente in legge, già vicino alla laurea e con vocazione alla magistratura. La discesa e degradazione avviene attraverso un ragazzo ch’egli difende in una rissa e di cui diventa amico; che lo conduce insensibilmente nelle sale da poker, le bische in cui dominano i bari come lui; quindi il denaro, ch’egli nasconde nei libri della biblioteca del padre, professore universitario, nelle opere di Marx. Col poker la vita notturna; col denaro la macchina lussuosa (ma non la vita lussuosa, non v'è quest'attrazione); poi la signora sposata; poi il viaggio a Barcellona e la droga da comprare e spacciare, ma anzitutto usare; e si diventa dei tossici. Ma tutto questo avviene troppo insensibilmente, quasi lo spirito di Giorgio (Elio Germano) fosse neutro, quasi non ci fosse dietro una formazione, una coscienza, un’etica; non c’è risentimento, non rimorso, non tormento. Qui manca la caratterizzazione del personaggio.

Il punto di rottura è la violenza dell’amico e maestro nel male, Francesco (Michele Riondino), il sadismo violento che esplode con le ragazze cui s’accompagna, prima con la giovane cameriera Angela a Barcellona; che Giorgio difende e però la violenta lui pure. Poi con la ragazza che rientra dal servizio al locale nella notte barese – poi che Bari è la città, che però non assume qui nessuna caratterizzazione; salvo la moltitudine delle bische clandestine – e che Francesco assale con brutalità, mentre egli la difende e la salva. Ma interviene la polizia che lo castiga e pesta duramente perché lo crede  colpevole di brutalità e tentato stupro.

Qui egli tocca il fondo della sua degradazione e inizia il riscatto; di cui però nulla si vede. C’è stato solo l’atto di difesa della ragazza, la lotta con l’amico brutale, la punizione al commissariato. Il film è racchiuso nella parentesi di un processo e di una giovane donna che accosta il magistrato per ringraziarlo infine di quella notte, quella difesa. Su cui anche si chiude.

Un film ben condotto, con belle immagini, ma debole nell’impianto caratteriale e morale; anodino, neutro; gli manca quel senso del male, quella sofferenza interiore che lo animerebbe e lo porterebbe ad una catarsi, ad un’autentica redenzione.   

 

                                   

                                      ottobre 08

Alessandro Baricco, Lezione 21

All’Odeon di Lecce i1 26/10/08.

Entrando nel cinema Baricco che cosa vuol fare? che cosa pensa di fare? La pretesa storia di un certo professore che avrebbe smontato la Nona sinfonia di Beethoven? La grande ultima sinfonia in cui a Beethoven la musica strumentale non basta più, ha bisogno della parola umana, il grande coro dell'Inno alla gioia.

Ma qui il professore non lo si vede quasi mai, né si segue il preteso filo della sua lezione. La pretesa critica della Nona è condotta da musicisti di quell’orchestra che come magica apparizione compare sulle nevi alpine, o da membri di uno strano gruppo incontrato su quelle stesse nevi (chi sono? che ci stanno a fare? nessuno lo sa), i quali si alternano in un discorso che non è per nulla critico della Nona. Si parla semmai dei dieci anni intercorsi dopo l’Ottava, anni di preteso silenzio; ma lo stesso violinista che – si dice – sarà trovato poi assiderato, e che qui ha una parte indefinita, ricorda le importanti opere prodotte in quel decennio. Si parla anche della scarsa presenza di gente al concerto della Nona, ma in realtà si vedono i parchi pieni che agitano fazzoletti come segno di applauso; e poi, la presenza o meno di gente al concerto non ha nulla a che vedere col valore della sinfonia. Insomma un discorso scombinato, come scombinato è l’intero film, e inconcludente, e anche sinceramente brutto. E noioso. Abbandonato ad un anarchismo pseudo-fantastico e per nulla creativo.

Buona la prima scena in cui quattro figure nere scivolano sul ghiaccio portando una bara. Ma tutto finisce lì.   

 

 

Maria Sole Tognazzi, L’uomo che ama

Al Massimo di Lecce i1 25/10/08.

La seconda opera di questa regista, figlia di Ugo Tognazzi, un grande della commedia italiana, e di Franca Bettoia; dopo Passato prossimo del 2003. Ha dietro a sé il romanzo Cronaca di un disamore di Ivan Cotroneo, che ha anche cosceneggiato il film.

Alla stampa non è piaciuto, cosa davvero strana. Si tratta invece di un’opera di grande originalità e grande tensione. L’amore profondo di un uomo per una donna (Pierfrancesco Favino e Xenia Rappoport), un amore intenso, un rapporto che a un certo punto viene spezzato da lei che gli dice mi trasferisco a Milano perché tanto «non ti amo»; poi raddolcisce, «non ti amo quanto tu mi ami». Ma nell’uomo l’amore è impiantato saldamente e fa di tutto per impedirle di partire; la segue persino e la blocca con la macchina. Poi inizia un tormento che gli divora l’anima, sì che lo prende l’insonnia, e si rivolge ad un medico e fa tutte le analisi del caso, poi ad uno psicoanalista. Ma il tormento continua.

Si parte dal settembre. A marzo incontra un’altra donna; ma in questo punto il film zoppica perché questa donna la vediamo improvvisamente nel suo letto (è Monica Bellucci), senza che nulla abbia preparato e avviato l’incontro; e tanto più ci sorprende, quanto più il tormento amoroso è presente e continua. Perciò questo rapporto è caduco e assai presto egli le dice che non l’ama. Né poteva essere diversamente.

Alla fine la donna amata ricompare; a Milano non s’era trovata a suo agio (in un altro albergo della stessa catena) ed era tornata a Torino; e li vediamo camminare insieme. Ma qui il film chiude.

La regista ha voluto espressamente portare alla luce quel tormento d’amore di cui l’uomo soffre quanto la donna e anche più; e che però mantiene chiuso in se stesso per orgoglio maschile, per non sembrare debole, e soprattutto per non sembrare dipendente dalla donna.

Una storia minore corre parallela, quella del fratello più piccolo e gay, e del suo amore; che improvvisamente e leggermente – diremmo – si scioglie perché ne ha incontrato un altro che gli piace di più, egli dice. Troppo facile il ragazzo. Ma si fa poi drammatica nella scoperta di un vizio cardiaco, nell’intervento chirurgico che ha solo una possibilità di riuscita del 30%, nell’ombra della morte. Cui però non soccombe.

Simpatici i genitori, la loro casa sulle  rive di un lago, l’amore che li lega ai figli.

Il film è ricco di colore, talvolta in colore si trasfigura. La fotografia sempre alta. Bellezza di natura, di paesaggi. Le musiche di Carmen Consoli sono talora suggestive, talora troppo rumorose. Inutile e dannosa la scena di sesso iniziale.

 

 

Christopher N. Rowley, Ciò che resta  di mio marito

Al Santa Lucia di Lecce i119/10/08.

Un’opera prima, un debutto. Bonneville è il titolo originale, dal nome della Cadillac Bonneville su cui la vedova e le sue due fedeli amiche intraprendono il lungo viaggio dall’Idaho alla California; viaggio che riempie il film, un road movie attraverso quei  grandiosi paesaggi americani dell’West che stupiscono e incantano. Un viaggio tutto particolare in cui Ardilla (Jessica Lange, la grande attrice), che ha con sé il vaso con le ceneri del marito cui l’hanno legata vent’anni di amore intenso, di vita intensa, di viaggi in USA e nel mondo, vuol percorrere luoghi già percorsi ed amati insieme, e spargervi via via le ceneri; ch’egli riposi e riviva nei luoghi in cui ha vissuto ed amato, ed essa con lui. Un viaggio doloroso certo, ma anche simpatico e spassoso sull’ampia macchina che fu di lui, e che lei non aveva mai guidato; senza fretta, per vie secondarie, con fermate in motel e altrove; con la presenza delle amiche, in particolare dell’ampia ed esuberante Margine. Cui ad un certo punto s’accompagna il gentile e simpatico camionista Hemmett, che con Margine particolarmente simpatizza. Un singolare viaggio in cui la morte si trasfigura nell’amore  e nel ricordo; in un ricordo intenso, doloroso ma insieme gioioso, un rivivere quanto già si era vissuto, un ritrovarsi, una presenza che si rinnova. Questo il senso del film; con anche il valore alto dell’amicizia, che contribuisce a trasformare gioiosamente il viaggio.

Diventa perciò marginale la vicenda della figliastra un po' arcigna, che reclama le ceneri del padre e minaccia di togliere ad Arvilla la casa che il padre ha lasciato a lei (ma vi dovrebb’essere un secondo testamento in favore della moglie, che però non si trova); e ha stabilito una cerimonia funebre e ha invitato gente, e attendono le tre donne che sono in ritardo ecc. Arvilla aveva conservato una manciata di ceneri per sé, ma poi pensa che non abbia senso; che anch’esse debbano essere disperse in quel mondo che lui ha vissuto e amato.

Un raccontare semplice, che del resto non ha bisogno di null’altro.

 

 

Andrew Stanton, Wall-E

Al Massimo di Lecce i118/10/08.

Un film di animazione di cui la critica ha intessuto alte le lodi. Wall-E è il nome del piccolo robot da rifiuti, ma lo si vede anche altrove.

Qui la Terra, a quanto pare, a 700 anni dal nostro tempo, è invasa dai rifiuti e l’umanità si è spostata su di una grande astronave tecnologicamente avanzatissima, altamente robotizzata; dove conduce una vita oziosa e ingrassa e si fa obesa, le persone simili a bambolotti gonfiati, tutti uguali, tutti lo stesso costume intero rosso o blu, sdraiati sotto un sole artificiale, si nutrono chimicamente; mentre tutto il lavoro è fatto dai robot e c’è un gran traffico di robot di ogni tipo il cui impiego permane ignoto.

Resta intanto da capire che cosa s’intenda per umanità perché l’astronave non è più grande di un grande palazzo; a meno che nel cielo ci siano migliaia di queste astronavi; di cui però non si parla. E poi, con questa tecnologia così avanzata e sofisticata, perché mai questa umanità non avrebbe saputo liberarsi dai rifiuti?

Andiamo innanzi. Sulla terra è rimasto un piccolo robot da rifiuti che continua il suo lavoro, poiché per questo è fatto; è simpatico, nel tempo ha sviluppato carattere e humor, è il personaggio migliore del film. E però da un’astronave che appartiene a quella grande che si libra negli spazi viene rilasciato a terra un piccolo robot bianco, non si sa per quale scopo; nasce un’amicizia tra i due, non si sa come; sembra anche che i due robot siano sessuati e quello bianco sia un robot femmina. Per cui, quando l’astronave lo riprende, anche l’altro riesce ad aggrapparvisi e anch’egli attraversa gli spazi e penetra nel mondo della grande astronave. Dove la vicenda che segue è piuttosto confusa, salvo in un punto. Il robot femmina ha inglobato in sé – non si sa come e perché – una piantina che il suo amico aveva scoperto, un nuovo inizio di vita. Quando il comandante della grande astronave lo scopre, pensa che quella nuova vita apra la possibilità di ridestare la vita sulla terra, e decide il ritorno. È osteggiato dal sistema robotico ma riesce a spuntarla. L’astronave raggiunge la terra, l’umanità vi ritorna, una nuova vita e una nuova storia hanno inizio.

Questa vicenda è altamente inverosimile, piuttosto inconsistente, spesso noiosa.

Forse le grandi doti di questa animazione stanno nella sua perfezione formale, nell’invenzione e lucentezza del mondo robotico, nella grandiosità del mondo dell’astronave. Può essere. Ma le incongruenze sono molte; in particolare lo pseudo-sentimento che scatterebbe tra i due piccoli robot, tra l’altro troppo dissimili.

 

 

Jean-Pierre e Luc Dardenne, Il matrimonio di Lorna

All’Odeon di Lecce i112/10/08.

I due fratelli belgi dallo stile rigoroso e austero, tanto da confinare talora con l’insignificanza di un piatto realismo. Uno stile spesso ellittico, allusivo, che porta all’ermetismo. Nel mio schedario Il figlio del 2002; L’enfant del 2006. Si tratta sempre di storie di squallore, di marginalità, storie dolorose ma di un dolore represso e inespresso. Il titolo originale è Le silence de Lorna, ma quale silenzio?

Lorna, la giovane albanese di una bellezza classica e fiera, per avere il permesso di soggiorno ha sposato un drogato laido, Claudy, un piccolo verme biondiccio, piccolo orrore (ma sarebbe l’attore feticcio dei due, Jéremie Perier). Lavora in una lavanderia, ma sospira di aprire un bar col suo fidanzato albanese, Sokoi, sempre in  viaggio tra una frontiera e l’altra per traffici oscuri; e ha già trovato il locale. Il denaro per aprirlo dovrebbe venire da un secondo matrimonio fittizio, con un russo che pure sospira il permesso di soggiorno. Perciò ha chiesto il divorzio e l’ha ottenuto; ma durante la mora l’italiano Fabio, che tratta l’affare, e che aveva già sempre pensato alla soluzione più spiccia dell’overdose, ha messo in atto il suo piano. Una storia sordida; un traffico sordido di matrimoni; un delitto.

Ora però la vicenda si fa oscura. Nell’ultimo incontro col piccolo verme c’è stato un rapporto, non si sa come, e lei pensa di essere incinta, ha anche un mancamento, pensa ad un figlio che vuol tenere; forse l’ha presa il rimorso, forse vuole redimersi con un amore vero da tutti quei disamori. E però non c’è gravidanza, all’ecografia non risulta incinta. Nel mentre viene condotta in macchina da un complice di Fabio (ma verso dove?), chiede di scendere e fugge nella foresta, fugge e fugge sempre pensando al figlio.

Sarebbe questa la sua redenzione? o non poteva essercene una vera? Il film  si chiude d'improvviso e lascia perplessi; anche la figura di Lorna risulta  contraddittoria. O forse è l’intrico della precarietà che l’avviluppa, l'esistenza precaria e marginale dell'immigrato, in cui si dibatte la sua vita, e anche si confonde, il bene il male; cui deve andare il nostro compatimento, la nostra comprensione.

 

 

Laurent Cantet, La classe

Al Santa Lucia di Lecce l’11/10/08.

Entre les murs il titolo originale; dentro i muri di questa scuola, il film si svolge tutto dentro la scuola, ed essenzialmente dentro una terza di scuola media in un quartiere popolare, una classe multietnica. Palma d'oro a Cannes.

Tentativo serio, rigoroso. Classe multietnica dalla lingua e dal sapere incerto; la scuola appena tollerata da questi ragazzi, domina l’indifferenza, l’apatia, o anche l’odio. Difficile per il giovane insegnante di lettere, che è poi quello più presente e più responsabile, costruire l’edificio della lingua e del sapere; difficile ottenere anche solo l’attenzione, tanto meno la corresponsione.

C'è però in lui una carenza di empatia, di amore, d’identificazione con questi ragazzi. Forse mantiene il distacco per non essere sopraffatto, perché quando una classe è difficile un certo distacco è necessario; ma è insieme necessario l’amore, un amore più grande. E quindi una strategia d’amore che va via via conquistandosi i ragazzi; che qui è assente. E però questa fondamentale freddezza  la si sente in tutti gl’insegnanti, nelle loro riunioni, il consiglio di classe, il consiglio di disciplina.

Sta qui la causa dell’insuccesso, il fatto che in un anno la classe abbia mantenuto intatto il suo distacco e la sua ostilità. E che così chiuda, nella freddezza di sempre.

In questo il film è mancato, anche se mantiene sempre vivo l’interesse; ma sempre ci si aspetterebbe quel salto affettivo che potrebbe segnare la differenza; oppure un fatto drammatico. Ma il film ha piuttosto carattere di documento. Non vi sono quasi storie; tranne quel breve percorso del ragazzo nero Suleiman, già sempre refrattario, che un giorno scatta e se  ne va; ed è quindi espulso.

 

Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna

Al Massimo di Lecce il 7/10/08.

Il grande regista afroamericano costruisce un film complesso e grandioso, film di guerra, dell’ultima guerra mondiale, costruzione certo difficile di una storia spietata. E però l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema è solo un episodio; la storia del film è altra.

Si parte da un impiegato postale nero che uccide con un colpo di pistola un italoamericano mentre gli chiede dei francobolli. Ha riconosciuto forse il falso partigiano traditore, lo ha freddato. Nel finale ci sarà l’inizio del processo, la richiesta della cauzione offerta da un ignoto, la liberazione, quindi l’incontro sulla spiaggia col bambino cresciuto, Angelo, quello che i quattro soldati neri avevano custodito con loro, e amato.. Così si chiude.

Spike Lee fa questo film di guerra perché v’è un battaglione di neri, in una fase in cui il suo popolo non ha ancora raggiunto l’emancipazione, i diritti civili; in cui sono inviati in guerra quasi come per un esperimento, se siano capaci o no di combattere. E v’è una prima scena di attraversamento di un fiume in cui vengono ampiamente falciati e già lo strazio si affaccia.

Ma il corpo del film è preso da un gruppo di quattro che si ritrova isolato in quella zona montuosa. V’è il grosso bonario nero che ha salvato Angelo, il bambino, di sotto alle travi cadute (ma gli aveva anche, quasi sbadatamente, ucciso l’amico partigiano, Arturo, che il bambino invoca); il piccolo che resta con loro, col grosso che è il suo grande amico; mentre sono appoggiati ad una masseria. Qui la storia si dilunga e un poco langue.

La parte più drammatica e dolorosa è l’ultima. Il massacro compiuto dai tedeschi, il più spietato possibile, su di una folla di donne e bambini; sulla piazza davanti alla chiesa; l’ufficiale che apre la strage colpendo il parroco alla testa; la pistola che passa a dare il colpo di grazia; il bambino trafitto. Un eccidio senza motivo, forse rabbia per la presenza partigiana, per la sconfitta che avanza, forse folle crudeltà. Il falso partigiano traditore che ha presenziato all’eccidio e uccide poi il compagno. L’attacco tedesco a soldati e civili in cui muoiono tre dei quattro, tra cui il grosso buono; e il quarto è ferito, salvato proprio dalla generosità di un ufficiale tedesco. Forse questo il miracolo, o forse quello del bambino che ancora una volta è salvo. Ma tutta questa parte è dolorosissima.

Vi sono momenti di preghiera corale; momenti di riflessione o discussione sulla fede. Sempre suggestivo il paesino con le stradine di pietra che si arrampicano su; o gli squarci sui monti. Suggestivi i titoli immersi in un campo di piccole croci, bianche, rosse, il segno del sacrificio supremo.   

                                          

 

                             settembre 08

Cédric Klapisch, Parigi

Al Santa Lucia di Lecce il 28/09/08.

Difficile l’impresa di fare della grande e grandiosa città la protagonista di un film. Certo essa è presente in visioni panoramiche dall’alto di edifici, anche se poco individuata e piuttosto anonima; e viene anche mostrata nella notte in cui scintilla la tour Eiffel, punteggiata di luci; o forse meglio nel finale percorso in taxi dal protagonista diretto ad un trapianto di cuore, e nella sua riflessione amara per tutta quella gente che va e viene, sosta, si annoia ma comunque ha la chance di vivere nella grande città,  mentr’egli è chiuso nel taxi che lo porta forse alla morte.

Del resto il film è fatto di storie non particolarmente parigine. Anzitutto il ballerino di varietà (forse alle Folies Bergère o al Moulin Rouge: Romain Duris, l’attore preferito) cui scoprono un vizio cardiaco grave e che lo può portare rapidamente a morte, a meno di un trapianto; e che, chiuso nella sua casa, dominato da un senso di morte, passa il suo tempo a guardare dalla finestra e dal balcone la città che vive sotto nelle strade e nella casa accanto. Strana vicenda funerea nella città che si pensa supremamente vitale. In quella casa oscura la vita è portata dalla sorella (Juliette Binoche) che si trasferisce da lui coi suoi tre bimbi, i quali certo sono pieni di vita. Ma la madre è piuttosto spenta, dopo la separazione e la solitudine; pur avendo solo quarant’anni; e solo alla fine, nella festa che organizza per portare un po’ di vita in quella casa, un negro le suggerirà una cura omeopatica d’uomo, a piccole dosi, piccoli svariati incontri; e lei ne inizierà uno con un fruttivendolo del mercato.

Più vivace, certo, quel mercato rionale, molto presente; e la vivacissima panettiera, anche elegante, che di tempo in tempo ritroviamo nella sua bottega. La seconda storia, che non ha nessun rapporto con la prima, è meno deprimente. Un professore, uno storico, attratto da un’allieva di cui un giorno scopre la bellezza, ne capta il numero di cellulare che sta dando a un’amica e comincia ad inseguirla di messaggi fino a che lei lo scopre e anche gli si concede; ma solo come distrazione, perché ha un ragazzo cui dà il suo amore.  L’avventura non sembra colmare il professore, che finisce dallo psicanalista. E del resto non poteva sperare di più.

Altre piccole storie s’intrecciano. Un film piacevole, forse, anche se dominato da quel fondamentale senso di morte, e da persone che hanno rinunziato all’amore e alla vitalità, oppure lo cercano senza trovarlo.

Una Parigi, dunque, un po’ funerea, un po’ delusa dalla vita, un po’ nevrotica. Ma il film non dispiace, è nonostante tutto leggero, i problemi soltanto sfiorati. Suggestivo il tema musicale  di Satie, quasi un leitmotiv, nella storia amara del ragazzo.    

 

 

Dennis Lee, Un segreto tra di noi

Al Massimo di Lecce il 27/09/08.

Il regista, di origine cinese, è al suo debutto, ma ha lavorato molto come soggettista e documentarista.

Il titolo italiano non dice nulla, il segreto non gioca qui un particolare ruolo; ma anche il titolo originale, Fireflies in  the garden, lucciole in giardino, è sfasato (v’è solo una brevissima scena di caccia alle lucciole).

Ma il film, contrariamente al parere di alcuni critici (vedi «la Repubblica»), è notevole, una forte e complessa storia di famiglia.  Dominata, nella prima parte, da un marito e padre autoritario e arrogante, un professore universitario della cui  cultura non ci accorgiamo (il personaggio è troppo duro e rozzo, Willem Dafoe), che in particolare si accanisce sul figlio Michael, con veri atti di sadismo, sino a portarlo all’odio. Perciò prende risalto la figura della madre, Julia Roberts, la sua dolcezza, la sua amorosa difesa del figlio; mentre avrà un rapporto amoroso con un suo professore, quasi a compenso della durezza del marito; e il figlio lo scoprirà poi, e ringrazierà l’amante di quanto di felicità ha dato alla madre.

Al centro v’è l’incidente di macchina, che le toglie la vita; che anzi avviene presto, nella prima scena, il viaggio dove già si scatena il conflitto, la persecuzione del bambino. Ma viene poi spostato dall’intreccio delle storie, dal continuo ritorno del passato.

Poiché nella seconda scena noi troviamo Michael già grande e scrittore noto, che in aereo giunge a quella che era la sua casa e ora è della sorella, con la quale sta il padre in stampelle. È la persona che porta in sé l’amore della madre, con cui s’incontra ogni giorno più volte – egli dice – il suo pensiero va a lei in certi precisi tempi (perciò la figura dell’orologio, insistente già all’inizio). E proprio in forza di questo amore ha raggiunto un superiore equilibrio; e anche il libro che ha scritto, e che è fortemente autobiografico, probabilmente ha avuto un effetto catartico. È persona nobile, pacata, intelligente.

In quel ritrovarsi insieme tutti, col padre che l’incidente e la menomazione ha fiaccato, con la sorella e la sua famiglia, i figli, l’ostilità di prima si stempera, l’odio di un tempo, anche perché l’amore della madre è più forte e più appagante; e Michael, che nel frattempo apprende di attendere un figlio suo, parte ora con uno spirito rinnovato; ha anche bruciato il documento materno che attestava la vicenda amorosa, così come il manoscritto del suo nuovo libro.

Opera drammatica, forte, nel sovrapporsi dei tempi non sempre chiara.

 

 

Marco Pontecorvo, Pa-ra-da

Al Santa Lucia di Lecce il 21/09/08.

Un giovane, figlio di un regista di talento cui il film è dedicato, Gillo Pontecorvo, l’autore della Battaglia di Algeri, di Queimada. Pa-ra-da è il titolo dello spettacolo circense dei bambini.

Qui un giovane franco-algerino, Miloud, che vive a Parigi e opera nel sociale con la speciale risorsa del clown di strada, nel corso di un viaggio a Mosca capita a Bucarest e subito incontra la desolata situazione dei bambini di strada, che vivono attorno alla stazione, la quale offre il rifugio dei vagoni in sosta o abbandonati; vivono in puzzolenti rifugi sotterranei, forse vecchie fognature; vivono del rancio offerto dalle ong, ma anche di furto, droga, prostituzione. Un fenomeno già famoso in America Latina ma che si ripresenta in Romania. Per Miloud è ovvio dedicarsi subito a loro, con la sua speciale risorsa, la sua speciale attrazione; con la sua simpatia, il suo animo generoso. Ma anche col tratto lieve, che li asseconda e insieme delicatamente li richiama alla «dignità» del vivere, e via via li conquista.

Insorgono le difficoltà, la polizia che detesta questi bambini, l’ostilità della malavita che lo accusa di pedofilia, il burocratismo delle ong, l’ambasciata di Francia che lo consiglia di andarsene.

Ma proprio nella difficoltà egli concepisce l’idea di uno spettacolo redimerà questi e altri bambini.

Il tema è dolorosissimo, e averlo sollevato è un grande merito del film; che è opera simpatica, pervasa  di simpatia e di amore per questi bambini e ragazzi sofferenti, abbandonati; ed è opera di alto valore morale ed umano. Anche se non costruisce una vera storia, sta piuttosto sul fronte del documento. E però la storia è vera, e Parada è diventata un'associazione internazionale, presente anche in Italia, che si dedica all'amore e alla redenzione dei bambini.

 

 

Nuri Bilge Ceylan, Le tre scimmie

All’Odeon di Lecce il 14/09/08.

Un regista turco che già nel 2003, con Uzak, aveva vinto a Cannes il gran premio nonché il premio per i due protagonisti; e con questo ha vinto quest’anno la migliore regia e l’attore protagonista.

Ma, a parte i premi, e gli elogi di molti critici, il film non convince. V’è certo una serietà, un rigore, che però non raggiunge un livello stilistico per l’eccessiva e immotivata lentezza, che diventa banalità se non ha un oggetto adeguato; diventa banalità e noia. Di conseguenza il ristagnare dell’azione, e il suo diluirsi nell’oscurità e nell’insignificanza.

Si parte da un incidente, un politico che su di una strada di campagna travolge e uccide un uomo; e che, nel timore dello scandalo e del conseguente insuccesso, ottiene che il suo autista s’incolpi, nella previsione di una pena non dura, un anno circa di carcere; e in cambio dello stipendio e di un lauto compenso finale. L’autista accetta, ma il film cade nel semplicismo e nell’ingenuità; perché qui v’è stato un omicidio con omissione di soccorso; dovrebbe intervenire la polizia, svilupparsi un'indagine; vi sono anche dei testimoni. Nulla di tutto questo: il caso è risolto tra i due con la proposta e l’accettazione.

Con la moglie che va a riscuotere il mensile nasce una relazione amorosa col pur duro e riottoso politico, mentre il marito è in carcere; relazione che per la donna è reale ed intensa; anche se lo sappiamo solo alla fine, quando il marito esce dal carcere e riceve il compenso; in una discussione – ripresa peraltro da lontano, sì che i personaggi si sentono ma appena s’intravedono – in cui la donna dichiara il suo sentimento, mentre il politico ribatte cinico e violento che il rapporto era per lui solo strumentale.

Il figlio, rincasando fuori tempo per cambiarsi la camicia macchiata da un colpo di vomito (attendeva alla stazione il treno che lo portasse dal padre), scopre la relazione materna e rimprovera poi duramente la madre; ma si viene in seguito a sapere che ha ucciso il politico. E anche qui la polizia non interviene, se non con un brevissimo interrogatorio del padre; nessuna indagine. La stessa ingenua astrattezza.

Le tre scimmie del racconto giapponese, il non vedo-non sento-non parlo, s’applicherebbero ai tre personaggi di questa strana famiglia, marito, moglie, figlio. Forse una tipica famiglia turca, l’arretratezza culturale in cui il padre nel suo autoritarismo  abitualmente non parla con gli altri; mentre il rapporto affettivo e amoroso è scarso, i matrimoni essendo per lo più combinati; e scarsa è anche l’effusione materna e lo scambio col figlio. Qui si vorrebbe dire che il marito sospetta della moglie ma preferisce non approfondire; d’altronde c’è il delitto del figlio che potrebbe complicare tutto. Sa del figlio ma è ovvio che dissimuli con lui. Così come ovviamente dissimula la donna. Ma questo non aggiunge molto all’abituale assenza di comunicazione di tali famiglie; tranne il fatto che il marito, il maschio dominatore e offeso, rinunzia all’abituale violenza sulla donna traditrice.

Il film, insomma, per quanto premiato, resta scarso di senso. Così com’è scarso di parola.

Atmosfera grigia, oscura.   

 

 

Pupi Avati, Il papà di Giovanna

Al Massimo di Lecce il 13/09/08.

Avati ritorna e costruisce un grande film, mentre altre volte ci aveva deluso. Un film del passato (si apre nel 1938), di un passato ricostruito con fedeltà e atmosfera; perché poi è nella sua Bologna, in quello spazio sentito ed amato. Alcuni critici vi hanno trovato una eccessiva presenza del fascismo; ma non è vero affatto. Il fascismo è presente, e non poteva non esserlo; ma solo quanto serve a questa storia. Che è poi una storia di gente semplice, modesta, in una società di scarsità, com’era allora la società italiana, ed è stata sempre la condizione popolare fino a quando la ricchezza prodotta dall’industria, congiunta con la lotta operaia e con lo stato sociale, non la redimono. Qui il padre è insegnante di disegno, ma il guadagno è scarso.

Qui una famiglia con una figlia tarata, bruttina e quindi in conflitto con la madre di cui invidia la bellezza; madre che non si cura di lei come non si cura del marito, cui forse rimprovera, tra l’altro, l’eccessivo amore per la figlia. La quale, proprio perché menomata è adorata dal padre, che la sostiene e stimola negli studi, vorrebbe  fosse come ogni altra, anche nel vestire, nel rapporto che sembra profilarsi con un ragazzo cui egli promette sostegno nel consiglio dei docenti.

A questo punto, in questo quadro incerto e sofferente, scoppia la tragedia. Giovanna uccide l’amica che – dice – le insidiava il ragazzo; la uccide nel bagno della palestra, col rasoio del padre che ha portato da casa. Compie il gesto spropositato e folle. Segue il carcere, il processo in cui è riconosciuta incapace d’intendere e volere, il manicomio criminale. L’angoscia è estrema.

Il padre, che è il grande protagonista della storia, il piccolo grande uomo, col suo sviscerato amore, il  profondo ottimismo, la forza morale che trascende sempre il dolore – ed è Silvio Orlando, premiato a Venezia come miglior attore – lascia la moglie all’amico che ha perso la sua sotto un bombardamento, al grande affettuoso amico di cui conosce la simpatia per Delia, l’ambigua donna della sua vita (Francesca Neri). Per trasferirsi presso la figlia. Trova una stanza in una piccola casa contadina: per esserle vicino, andarla a trovare, parlarle attraverso la rete metallica che si usava allora nei manicomi e rinchiudeva i malati come animali. Fino a che essa è libera e ritornano insieme nella vecchia casa resa un po’ insicura dai bombardamenti, l’amore del padre la riconduce.

Storia profondamente umana, nel grande dolore sempre superato e vinto.

 

 

Marco Bechis, La terra degli uomini rossi

Al Massimo di Lecce il 7/09/08.

Bechis è regista di talento, legato al Sudamerica e ai suoi drammi (è nato in Cile). Nel mio schedario non c’è nulla, ma ha fatto film notevoli come Alambrado del ’91, Garage Olimpo del ‘99, Hijos (figli), sui desaparecidos, del 2001.

Qui un popolo perdente, gl’indios dell’Amazonia, dove la foresta viene sempre più distrutta dalla speculazione dei fazenderos, la foresta ch’era la loro terra, e loro relegati in concessioni. La grande ingiustizia che ancora ogni giorno si consuma.

Qui questo popolo reclama la sua terra e la occupa; un piccolo gruppo cui altri via via si aggiungono. Un film corale, dove quasi null’altro avviene se non piccoli episodi, il maggiore dei quali è l’impiccarsi del figlio rimproverato e scacciato dal padre. La grande storia della terra non si sviluppa. D’altra parte la reazione dei fazenderos non è forte come ci aspetterebbe. V’è sì una specie di assedio notturno in cui sembra incombere  la strage e la distruzione del piccolo villaggio; viene ucciso il capo e padre, certo, cui segue poi la reazione del figlio, il grido disperato e altissimo nella foresta. Ma nell’insieme la reazione dei nuovi padroni è pacata, il proprietario preferisce allontanarsi per alcuni mesi in attesa di fatti nuovi e parte con la famiglia. Il che anche stupisce, se si pensa alle notizie feroci che ci giungono dal Brasile, di padroni che uccidono il contadino per prendergli la terra.

Il film, pur nella sua serietà, lascia perplessi, Deliziose le musiche corali di Zipoli, il musicista allievo di Scarlatti, poi gesuita, e attivo in Sudamerica.

 

 

Ferzan Ozpetek, Un giorno perfetto 

Al Massimo di Lecce il 6/09/08.

Dietro al film c'è il romanzo omonimo di Melania Mazzucco. Ozpetek ne trae un'opera di singolare forza umana e potenza drammatica, mantenendosi sempre ad un alto tenore narrativo ed emotivo. Solo la musica non corrisponde sempre alla vicenda o la carica eccessivamente; ma in molti punti è suggestiva. Taluni critici lo hanno accusato di eccessiva lentezza, altri di scadimento melodrammatico; ma a torto. Spesso i critici di professione giornalistica credono che sia loro  imprescindibile compito trovare dei difetti al film; il che non ha senso.

Qui il conflitto di coppia, dopo la fase amorosa (accennata solo in un racconto della donna). Conflitto acuto, estremo. Da un lato il maschio rude, violento, che rifiutato tenta il recupero. Ma anche medita la vendetta: ha preparato una tanica di benzina, forse pensa d’incendiare l’appartamento. È un poliziotto, Antonio, in servizio di scorta ad un parlamentare: lo vediamo, con la sua ispida barba, appostato sotto le finestre della donna la notte in cui inizia quell’unico giorno perfetto nell'orrore, ed è Valerio Mastandrea. La donna, Emma, è una stupenda Isabella Ferrari, con quel volto ossuto, fortemente drammatico, quegli occhi che brillano piccoli e forti, quella volontà indomita. Una caratterizzazione altissima.

Due sono gli episodi chiave. Quello in cui lui la trascina a forza lungo l’argine stretto e pericoloso di un fiume, e quindi in un bosco in cui tenta coinvolgerla nell’atto amoroso cui la donna cede, sotto l’impeto della passione; ma subito dopo ritorna al suo rifiuto.

Quello finale, tragico, in cui il padre ha trovato i due figli (felice la caratterizzazione del piccolo), li ha condotti a cena in trattoria, quindi nell’appartamento. Mentre la madre li ricerca invano e si trattiene un poco con la professoressa della figlia (figura dolce morbida di Monica Guerritore). Nella camera il padre prepara la sua vendetta, mentre il piccolo segue al televisore il suggestivo documentario sui pinguini, e si sentono in sottofondo le voci, la sollecitudine paterna per i piccoli, il doloroso contrasto. Prima pensa al suicidio e ha già la pistola in bocca; ma più forte è l’impulso alla vendetta, uccidere prima i due figli, il piccolo e la sorella; poi se stesso.

Intanto la madre vaga per la città, saluta la professoressa, si prende un grosso gelato e gustandolo si avvia verso casa. Qui il film chiude: la donna è ad un crocicchio, probabilmente ha visto le luci della polizia davanti alla sua casa, ha intuito la tragedia. Su questa probabile visione, su questo dolore che s’apre immenso, chiude il film.

Storie minori vi s’intrecciano. La ragazza dai begli occhi lucenti (Nicole Grimaudo), amata dal giovane pittore che dipinge per lei un triplice volto. Il parlamentare alla ricerca del presidente, che gli svelerà poi la fine della sua carriera; ed eromperà in un pianto forte, mentre la piccola che gli sta di fronte lo accoglie stupita con un sorriso. Anche Antonio ha una crisi di pianto. Anche Emma. Ma nulla c'entrano col melodramma.

Nel film, dunque, un caso tipico di mascismo, del maschio trasgressore e violento, che poi non accetta la decisione della donna, la considera sua proprietà, non ne riconosce l'autonomia e l'autonoma volontà. E giunge così al massacro, suo e dei figli. Come la stampa ci riferisce spesso. Il processo di emancipazione della donna è ancora recente, decisivo solo dal 1970; e ancor più ritarda la maturazione del maschio. Un ritardo culturale ed umano  dolorosissimo, in Italia particolarmente; che il film ricostruisce con grande forza. 

           

 

                                   

                                     luglio 08

Christopher Nolan, Il cavaliere oscuro

Al Massimo di Lecce il 27/07/08.

The dark knight, il secondo film di Nolan su Batman, dopo Batman begins del 2005; e dopo i due film di Tim Burton. Nolan è un regista di un certo talento: si veda di lui Memento del 2000, Prestige del 2600, e lo stesso Batman begins, specie nella seconda parte.

Strana questa insistenza su di una figura di fumetto, di gusto bambinesco, fortemente improbabile nella sua divisa e nei suoi voli, ammissibili in un contesto fantastico non in quello di film realistici. L’eroe sarebbe ben più credibile se operasse senza questi orpelli. Così come risulta ambiguo il suo rapporto con le forze dell’ordine, le quali non dovrebbero tollerare il giustiziere privato.

Il film di Nolan è un tipico  colossal americano, assai contorto e confuso nella costruzione. La presenza più forte e significativa è quella di Joker, l’eroe del male, la sua stessa figura di clown, i suoi discorsi bizzarri grotteschi. Pur risultando incomprensibile com’egli riesca a far saltare un ospedale, a minare una serie di battelli, senz’avere un piano (si dichiara contrario ad ogni piano), una organizzazione, che non si intravede se non forse all'inizio. Certo la sua solitudine e i suoi improvvisi e sempre più feroci colpi di mano, congiunti con la figura clownesca e il folle ragionare e sragionare ne fanno un una specie di oscura misteriosa potenza malefica, potenza diabolica. Il film raggiunge momenti grandiosi quando la minaccia invade la città, lo sfollamento degli ospedali (di cui uno di fatto salterà interamente), la fuga della gente nel pericolo misterioso e diffuso che tutti coinvolge, il panico della gente sui battelli che minacciano di saltare. Gettato da un grattacielo Joker s’impiglia col vestito a mezz’aria e resta impavido sospeso a continuare i suoi ragionamenti folli. In ogni caso la sua potenza resta intatta.

La polizia è come un corpo intermedio più o meno impotente, col suo commissario Gordon dato per morto e poi redivivo, con lo pseudoeroe Dent che avrà mezzo il volto bruciato (la scena in cui minaccia Gordon di averlo tradito, minaccia di uccidergli la moglie o il piccolo figlio); la polizia si agita inutile imbelle. A un certo punto ha prigioniero Joker ma se lo lascia scappare non si sa come.

Batman è il giovane Bruce Wayne, un giovane e ricco imprenditore che di notte diventa giustiziere.

Sempre suggestive e anche minacciose le visioni notturne di Gotham City, con le sue luci, i suoi grattacieli. Suggestivi anche certi passaggi elettronici in  blu. La musica è orrenda, orrendamente rumorosa.                          

 

 

Michael Hanecke, Funny games 

Al Santa Lucia di Lecce il 13/07/08.

Hanecke, regista austriaco di talento autore di film in cui emerge il male, un male insuperabile. Nel mio schedario La pianista, del 2001, film notevole con Isabelle Huppert, dal romanzo di Elfriede Jelinek che ebbe poi il Nobel; e Niente da nascondere (ma il vero titolo è Caché cioè nascosto), del 2005.

Qui Hanecke rifà con scrupolosa esattezza un suo film del ’97; ma lo rifà in America, con cast americano e per il pubblico americano; il pubblico che più di ogni altro ama il film di crimine e di violenza; e l’apparato hollywoodiano che lo sfrutta commercialmente. Qui il rifacimento acquista un senso tutto particolare.

Qui egli presenta con precisione e alquanta freddezza la piccola famiglia borghese che se ne va nella sua casa di vacanza con barca  (Naomi Watts, la dolcissima protagonista di Mullholland Drive di Lynch, ora cresciuta e un po’ più dura; Tim Roth e figlio). Su cui subito si avventa il male puro, immotivato, il male per il male; nella figura impeccabile, quasi, di due ragazzi in bianco da tennis che penetrano la casa con un  pretesto, e rifiutano di lasciarla, spezzano con una mazza di golf una gamba al padre e iniziano il loro giuoco o rito che deve portare alla morte – questo è subito dichiarato – ; con un comportamento di estrema cortesia, si direbbe, le belle maniere di figli di buona famiglia, di ragazzi perbene, e tuttavia decisi, inesorabili, ma cortesi sempre. Film durissimo in cui si consuma lentamente il massacro. Che però, a differenza dei film americani, non è ostentato né visibile, quasi, ma è condotto con germanica puntualità (questa sì).

V’è anche una pausa in cui si allontanano, non si sa perché, e i due tentano di liberarsi (il figlio è già ucciso). Ma ritornano e portano a termine la loro nefanda azione. Il film non ha sangue ma certo ha molto strazio, specie nella donna; e la freddezza e sadica gentilezza dei ragazzi lo rende ancora più straziante.

Qui il male è incondizionato, non v’è catarsi; i due hanno già prima annientato una famiglia, ora sono alla seconda e alla fine stanno entrando in una terza casa. Su  questo ingresso si conclude.

È il loro gioco gentile e perverso, il male per il male, non per altro. La lezione va probabilmente al pubblico americano (ma non solo, si veda la nostra televisione coi serial polizieschi che la dominano, spesso di origine tedesca) che gode della violenza e del crimine, e poi crede di appagarsi con lo happy end, il fatto che il  criminale è stato ucciso o catturato o individuato e assediato dalla polizia. Lo happy end, la catarsi; e però questa diffusa violenza penetra nell’animo e vi genera altra violenza, specie nell’adolescente e nel giovane. Mentre qui il puro male in tutta la sua spietatezza affronta con durezza lo spettatore e lo porta alla nausea e al rifiuto..  

 

 

David Ayer, La notte non aspetta

Al Santa Lucia di Lecce l'8/07/08.

"Street Kings" è il titolo originale, i re della strada. Non dice molto. Di Ayer un film forte è "Harsh times", del 2006, dove un reduce dalla Guerra del Golfo discende nell’inferno del crimine.

Qui un giovane poliziotto puro, onesto, anche solitario perché da poco ha perso per malattia la moglie (Keanu Reeves), nella giungla della corrotta polizia di Los Angeles; una corruzione totale, certo eccessiva. In un complicato e incredibile intreccio, dove due poliziotti deviati gli uccidono il compagno di squadra in un supermercato, ma facendo in modo (attraverso residui biologici) da essere scambiati per due malviventi, e insieme da incolpare lui attraverso un colpo di pistola che sarebbe suo. Giungerà a scoprire che i due malviventi sono semisepolti su di una collina, e che gli uccisori sono due poliziotti di colore. Non ha timori né scrupoli nella sua ricerca, anche perché è protetto dal suo capo, che però poi scopre essere il più disonesto di tutti. È un poliziotto di colore, come anche gli altri due; forse i più disonesti sono ancora neri, mentre l’onesto è bianco, in una visione che permane razzista.

Film che non convince: il poliziotto eroe è debolmente costruito, dovrebbe avere ben altra tempra; il fango che lo circonda è eccessivo; la storia è poco credibile, e anche banale.

 

 

Timur Bekmambetov - Wanted. Scegli il tuo destino

Al Massimo di Lecce il 5/07/08.

Un regista kazako che ha avuto successo in Russia con una saga sul tema della lotta tra forze del bene e del male, I guardiani del giorno, I guardiani della notte, I guardiani del crepuscolo. Un film tratto da un fumetto che riprende il tema del giustiziere, cioè di colui che colma le lacune della giustizia ufficiale, lacune sempre numerose. Perciò un tema sempre attuale.

Qui tuttavia il tema si fantastizza in una confraternita millenaria di tessitori-giustizieri che opera sulla base delle indicazioni di un telaio-fato; manipolato poi da un capo; da giustizieri autonomi; da lotte interne. Il tema si estenua.

Interessante la formazione del ragazzo impiegato, piccolo travet insignificante, cornificato dall’amico in sua presenza, perseguitato dalla caposervizio cicciona orribile, che viene chiamato dalla confraternita a succedere al padre ucciso. La formazione dell’eroe, durissima, allo spasimo, picchiato a sangue, tormentato in mille modi, coinvolto in una folle fuga-inseguimento in auto con la compagna Fox (l’irresistibile Angelina Jolie), in esercizi di destrezza sul tetto del velocissimo metrò. Così si trasforma l’impiegatuccio (James McAvoy).

Più enigmatica la sua missione per la soppressione di un malvagio che invece si rivela essere il padre, che non è stato ucciso. Qui l’inseguimento nel treno e la grandiosa stupenda scena dell’alto viadotto su cui il treno deraglia, e quindi si spezza e precipita; scena di alta invenzione e orrida bellezza in cui il padre viene ucciso dal figlio. E già si allontana il tema del giustiziere, e si perde. Si scade nel conflitto interno.

Segue la vendetta del figlio, che sfonda con un grosso camion l’edificio della confraternita e vi libera un esercito di topi-bomba che lo devastano (qui si deborda nel grottesco); quindi l’uccisione dei capi che tutti cadono, tranne il supremo (Morgan Freeman).

Con questo l’eroe ha consumato la sua missione e lungo la strada si annienta, e si ritrova travet nell’ufficio. Ma quando è raggiunto dal capo che lo vuole uccidere, in realtà si volta e non è lui; o forse il capo si è sbagliato, mentr’egli riprende la sua missione.

Finale ingarbugliato, confuso. Il film è di uno straordinario estremo dinamismo, film di superazione; e però spinto ad un eccesso quasi perenne, con una colonna sonora estremamente rumorosa, dura di colpi ai nervi. Invenzioni come quella delle pallottole di cui si segue la traiettoria. Nell’insieme il film è molto meglio di quanto dica la critica che lo reputa un polpettone, un ibrido blockbuster.

 

 

                                           giugno 08

Michael Patrick King - Sex and the city

Al Massimo di Lecce il 22/06/08.

Il film, che deriva dalla famosa serie di sei anni, ha una sua personalità; non riprende né riassume la serie, ma ad essa si aggiunge come un momento nuovo. Le quattro grandi amiche hanno ormai passato la quarantina; Samantha, la robusta, che abita ora a Los Angeles, compie i cinquanta. Charlotte ha adottato col marito una piccola cinese, ma ecco che resta incinta e ha una figlia sua. Miranda è sposata e ha un figlio. Ora è la volta di Carrie, nella quale s’incentra la vicenda: il fallito matrimonio con Big che all’ultimo momento non si presenta; un matrimonio preparato con un fasto enorme eccessivo, anche perché è accompagnato da un articolo della stessa Carrie su “Vogue”; fasto che Big non gradisce. Ma non si comprende se è questa la vera ragione. Segue la grande delusione, il tormento, l’azione consolatoria. Mentre Miranda scaccia il marito che le ha confessato di avere una volta ceduto con un'altra donna; lo scaccia inesorabile anche s’egli chiede perdono.

Il film ha l’eccesso, l’opulenza,  la mancanza di misura tipica di Hollywood: troppo lusso, troppi abiti, troppe cose inutili che inutilmente lo appesantiscono. E non è più “Sex and the city”: la città c’è, ed è New York, compare il Central Park e il Ponte di Brooklin; e il dinamismo e la confusione che la caratterizzano; ma non il sesso. Piuttosto l’amore, o meglio la difficoltà di amarsi con costanza, di convivere amandosi, il difficile rapporto tra uomo e donna, e il dolore, le amarezze che v’intervengono e lo tormentano. Il film è più serio di quanto lo fanno sembrare gl’inutili orpelli.

L’altro grande punto è l’amicizia, che certo ha caratterizzato l’intera serie; il valore profondo dell’amicizia, forse ancora più grande di quello dell’amore perché più persistente, più libero, più leale.

Insomma questo film è meglio di quel che si pensava entrando in sala.

 

 

Cao Hamburger - L’anno  in cui i miei genitori andarono in vacanza

Al Santa Lucia di Lecce il 21/06/08.

Film brasiliano (il regista ha solo un primo film, del genere fantastico) segnato dalla sofferenza di quel popolo sotto la dittatura militare (dal 1964, militari, ma anche multinazionali e CIA). Siamo nel 1970 ma questo tema doloroso non emerge subito. V’è l’enigma di quei genitori che partono in auto lasciando il figlio al nonno, con tanta fretta da non fermarsi neppure a salutarlo. Dicono di andare in vacanza, una formula che lascia perplessi. Il loro ritorno tarderà, tornerà poi solo la madre, mentre per il padre si parlerà di esilio.

Intanto il nonno, barbiere, nuore improvvisamente quel giorno stesso mentre sta radendo un cliente; e il ragazzo, che i genitori nella loro fretta hanno lasciato davanti all’immobile, fatica ad entrare in casa, gli apre il portiere; incontra un anziano ebreo e viene adottato dalla comunità ebraica come un novello piccolo Mosè, affidato dalla madre alle acque del grande fiume.

Ma il piccolo è rimasto completamente solo, totalmente spaesato, renitente ad altri incontri, alla sollecitudine dell’ebreo cui è stato affidato: porta sul volto un’ombra di tristezza che cesserà solo quando si ritroverà fra le braccia della madre. Intanto si scatena la persecuzione, l’irrompere delle guardie a cavallo, la fuga, gli arresti. E però essa s’intreccia con la coppa del mondo di quell’anno, in Messico, le vittorie della squadra brasiliana (è la fase di Pelé), la partecipazione corale del popolo intero, l’entusiasmo di tutti. (anche gli anziani e il rabbino della comunità ebraica).

Intanto il ragazzo un poco si è integrato, con gli altri ragazzi, col gioco¸ ma conserva sempre quella piega di tristezza, il dolore di quell’abbandono.

Opera originarle condotta con mano leggera, la musica fine, il dolore profondo di quel,popolo, il dolore dei popoli oppressi.

 

 

Susanne Bier - Noi due sconosciuti 

Al Santa Lucia di Lecce il 15/06/08.

Regista di talento, danese, che ci aveva dato una grande prova in Dopo il matrimonio del 2005. Qui il titolo italiano allude forse ai due protagonisti, la donna che ha perduto il marito profondamente amato, e l’amico di lui che si dibatte nell’inferno della droga; qui due grandi attori, Halle Berry e Benicio Del Toro, due tormenti che non possono incontrarsi. Ma il titolo originale è Things we lost in fire, cose perdute nel fuoco, nell’incendio terribile dell’improvvisa separazione e del dolore insanabile, così come nell’alienazione e nel tormento della droga. Primo film americano della regista.

La primissima parte è un intreccio di scene in cui si accavallano i tempi. La morte interviene quasi subito, e già i funerali; solo poi si saprà e si vedrà com’è avvenuta, nel tentativo di difendere una donna percossa a morte dal marito, che gli spara. Si saprà della visita fatta da Brian all’amico sempre caro, ma vittima della droga e alienato dalla vita.

Il film è una lunga e sofferta elaborazione del lutto, della separazione, del dolore. L’uomo profondamente amato, uomo buono, saggio. I due bambini. Lei è nera, o meticcia; e del resto Halle Berry è troppo nota. Vuole che l’amico di Brian venga a viverle accanto, nel garage approntato per lui, quasi come una presenza dell’amato; vuole persino che, per vincere l’insonnia, dorma con lei carezzandole l’orecchio come faceva Brian. Ma poi l’impossibile sostituzione la spinge a scacciarlo, e lo fa così ripiombare nella droga; e però subito si accorge dell’errore e lo ricerca nelle vie desolate dove i drogati affondano nel loro male; e lo riconduce a casa anche se fuori di sé, lo riconduce a forza, lo affida al fratello.

Si sviluppa qui il tormento orrendo della droga, poi dell’astinenza, le orrende convulsioni, l’alienazione totale, il dramma indicibile. Lui riprende il percorso già prima avviato tra i “drogati anonimi”. I piccoli figli vedrebbero in lui un nuovo padre, ma non  lei. Ci sono crisi di pianto esasperato, crisi distruttive.

Nel finale un certo appagamento. Jerry ha incontrato una ragazza tra i “drogati anonimi” e parte con lei verso una nuova vita. Le lascia un grande mazzo di fiori con la scritta “accetta il bene”. Lei sorride.

Grande potenza drammatica e insieme grande finezza. Grande senso stilistico, sosta su dettagli significativi: l’occhio, sosta frequente, l’espressività dell’occhio; i giocattoli abbandonati sotto la pioggia. Amore del dettaglio espressivo. Uso parco e sapiente della musica.

 

 

Francesco Munzi - Il resto della notte

Al Massimo di Lecce il 14/06/08.

Giovane regista che ci aveva dato in Saimir del 2005 un film sull’ambiente squallido e doloroso dell’emigrazione albanese; film povero ma ben costruito e ricco di senso (nel mio schedario).

Qui ci dà un’opera che diremmo perfetta nella storia, nella sua costruzione, nella misura, nell’uso parco e sapiente delle musiche; soprattutto nel profilo dei personaggi (tra questi Valentina Cervi è la più intensa); nello squallore dell’ambiente in cui gl’immigrati vivono, soffrono, delinquono; e, di contro, la famiglia borghese che abita in villa, col padre insulso, egoista, che persino la giovane amante rifiuta, la moglie e madre intensa e sofferente, la figlia ambigua, la giovane simpatica colf immigrata ma sospettata di un furto vero, quindi licenziata, riesce a recuperare il ragazzo che poi perderà. Una di quelle ville periferiche colpite dai furti, di cui sempre parla la stampa; dove scoppia infine la tragedia che già sempre incombeva.

Da un lato la coppia borghese con figlia, e poi anche il suo ragazzo, che dorme con lei in quell’ultima notte, e perirà; mentre la ragazza sarà ferita. Ragazza fredda e distaccata; soffre probabilmente della freddezza tra i genitori.

Dall’altro il mondo degl’immigrati che domina la storia. Con anche un italiano, un cocainomane cupo, violento, separato dalla giovane moglie, vorrebbe l’affetto del figlio che invece lo teme, sempre timoroso il piccolo quando è con lui; vorrebbe portarlo con sé ma la madre allerta il giudice e la polizia. Vive di furti. L’altro, il fratello maggiore da cui si rifugia la colf dopo il furto, e riesce a recuperarlo con scaltrezza, con seduzione, perché non ha casa e non sa dove andare. Il minore la disdegna, solo alla fine le carezzerà la mano, quando già è avvenuta la tragedia, il fratello maggiore è morto, la casa scotta e lei se ne va via svelta.

I due tentano la grande impresa, il fratello minore farà la guardia. È notte e la coppia è al concerto, ma la donna ha come un presagio, sta male, vuol tornare a casa. I due hanno una pistola, il grave errore, e anche il marito ne ha una; e avviene lo scontro mortale. Il cocainomane è ferito grave e chiuderà la sua vita sul greto del fiume.

Film forse ingiusto con gl’immigrati, colpiti tutti dal vizio e dal crimine. Troppo. Si salva forse solo la giovane moglie del drogato che lavora in fabbrica ed è decisa a salvare il figlio dalla delinquenza paterna; ma è figura marginale.

Film di dolore forte: la vita squallida dolorosa degl’immigrati in quelle vecchie case squallide sporche. Vita dolorosa di un popolo cui non sembra esserci rimedio. Sembra porre con forza un problema tuttavia inaccettabile: perché vengono da noi a vivere una vita così grama, e insieme ad insidiare e rendere grama la nostra vita?

 

 

Marco Tullio Giordana - Sanguepazzo

Al Massimo di Lecce l’8/06/08.

Regista di forte impegno socio-politico e capace di grandi affreschi come La meglio gioventù del 2003; Nel mio schedario anche Pasolini, un delitto italiano del ’95, I cento passi del 2000; Quando sei nato non puoi più nasconderti del 2005.

Qui un grande film, una grande epopea. La vicenda di una coppia di attori tra i maggiori del fascismo, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, il loro incontro, l’amore, il rapporto, la vita drammatica nella repubblica di Salò e nella lotta partigiana, fino alla tragedia in cui tutto si consuma.

Osvaldo (Luigi Zingaretti), vicino al fascismo ma non fascista (non tesserato); e anche il suo ingresso nella X Mas ha altri motivi, di salvezza in una situazione di sfacelo. Grande istrione con alto senso di sé, e insieme tormentato dal vizio, tossicodipendenza (cocaina; tremende crisi di astinenza in cui si contorce impotente sul letto), gioco d’azzardo. Forte e insuperabile il legame con Luisa (Monica Bellocci), qui donna libera, orgogliosa, parca di parola. Legata ad Osvaldo ma anche al giovane regista che per primo l’ha ingaggiata, omosessuale tuttavia; che il fascismo manda al confino a Ponza ma poi ritorna come infiltrato degli alleati e vorrebbe che Luisa si salvasse con lui. Ciò che lei non può fare; anche se quando lui giace ferito nell’ospedale e lei lo conforta, gli dice che potrebbero poi vivere insieme e avere molti figli (è incinta in quel momento; il primo figlio l’ha perduto). Perciò Osvaldo sul tram, dove lo ha riconosciuto, parla di un film che vorrebbe fare, e sarebbe “Sanguepazzo”, dove una donna è legata a due uomini, e da nessuno dei due può staccarsi. Ma “sanguepazzo” si riferisce fors’anche al temperamento ardente e vizioso di Osvaldo, e insieme nobile e generoso, un pazzo insieme.  

Una vicenda tutta drammatica, quella dei due attori che s’amano e tuttavia talora si contrastano, e Luisa tenta una volta di lasciarlo ma lui la trattiene con forza e passione; e s’intreccia con la vicenda ancora più drammatica del fascismo agonizzante nella Repubblica di Salò, e della guerra partigiana, in un intreccio continuo in cui i tempi e i fatti si sovrappongono; ciò che rafforza l’intensità drammatica. La fuga, l’occultamento nella fattoria con una porta dissimulata in una legnaia, la fuga ancora, il pericolo continuo, gli amici che aiutano. E infine il tribunale partigiano che non riesce tuttavia a trovare la colpa, il crimine, anche solo quello per Osvaldo di essere fascista; che però non può dirsi un crimine. Perciò segue l’apparente liberazione: andate, e la coppia si avvia lenta; ma la tragedia incombe, la si attende; i colpi di mitra che li annientano mente stanno abbracciati.

Nel film un dolore forte, dei personaggi come di un popolo intero; un forte soffrire e risoffrire quanto già si è sofferto, già sempre. Il ricordo necessario. La necessità di risoffrire il passato e i suoi errori e il suo dolore; riviverlo, non dimenticarlo, la memoria necessaria di un passato ch’è nostro; anche per purificarsi e ripurificarsi dall’errore, per non ricadervi.

 

 

Paolo Sorrentino - Il Divo

Al Santa Lucia di Lecce il 7/06/08.

Regista di talento: nel mio schedario L’amico di famiglia del 2006.

Certo singolare l’idea di ricostruire la figura di un politico vivente, Giulio Andreotti; certo non quel politico come tale ma l’icona di un’età e di uno stile,  di una concezione della politica che a un certo punto viene espressamente teorizzata, disvelata senza pudore: la necessità del male singolo, della singola azione perversa, che si ripete, non solo, ma è il carattere stesso del politico; l’azione perversa per il bene della nazione.

Il film ha un suo stile particolarissimo, in cui dominano le sale e i salotti del palazzo, e in esse l’ombra, la penombra, la cricca della corrente andreottiana, la cospirazione; almeno fino al crollo e tracollo della compagine democristiana; alla mancata elezione a Presidente della repubblica, sospirata e data per certa; poi le accuse e i processi per collusione mafiosa; sui quali il film s’interrompe in modo un po’ abrupto. Accuse che d'altronde nessun italiano poteva accogliere, tanto contrastavano con la misura e la scaltrezza del personaggio.

In quest’amosfera la singolare  figura creata da Toni Servilo, con la tipica gobba e le orecchie a ventola; figura introversa, misteriosa ambigua; dalle movenze meccaniche, quasi un burattino adulto e scaltro, ma misterioso sempre, silenzioso a custodire i suoi misteri, con la battuta esemplare che appunto li custodisce, li fa impenetrabili. Spesso colto di spalle, ancora più oscuro; oppure nel primo piano del volto inespressivo e inaccessibile. Figura surreale, quasi solo simbolo.

Spesso nella chiesa, al confessionale; ma nulla della intensità del fraterno amore cristiano, del cristianesimo autentico, in lui traspare. Talora, verso la fine, nella sua casa con la moglie, in un rapporto distaccato, anche se non privo di affetto. E però la figura ha una sua dignità, che più volte si esprime. Ma è il giudizio è estremamente severo: di lui nulla resterà nella storia.

La vicenda sarebbe quella dell’Italia di tutti quegli anni; ma non tanto la storia interessa qui, quanto questa incarnazione di una politica cinica e perversa, in un’apparente correttezza formale. Il formalismo cattolico spinto agli estremi, il machiavellismo vaticano estremizzato da un suo fedele adepto.

 

 

                                    maggio 08

Matteo Garrone - Gomorra

Al Massimo di Lecce il 24/05/08.

Regista di talento: nel mio schedario L’imbalsamatore, del 2002, film di notevole originalità e forza.

Qui si parte dal romanzo di Saviano, opera di denunzia e insieme di successo.

Il primo pregio del film è l’ambientazione nel degrado urbano: grandi stabili grigi, opprimenti, caseggiati e fabbriche abbandonate, scantinati simili a fogne. Squallore dei luoghi e squallore del vivere.

L’altro pregio è la scelta dei personaggi, per lo più rozzezza e bruttezza, grossolanità, ferocia. Vi sono certo altri tipi di mafia: si veda ad esempio Il padrino 2.

L’autore ha anche deciso per lo stretto dialetto locale, francamente incomprensibile; donde la sottotitolatura e il conseguente disturbo sia per l’immagine, sia per le parole illeggibili quando lo sfondo è chiaro, o troppo veloci; uno sforzo che produce tensione e impedisce la visione calma e attenta, e la concentrazione.

Lo stile che ne viene è singolare, lontano dal consueto stile cinematografico, molto realistico, duro ed aspro.

Il difetto maggiore sta nell’intreccio delle storie, che non si disegnano chiare, nette, in un sapiente comporsi; ma creano un tessuto disparato e confuso, dove si fatica a seguire e ricostruire le vicende. Più nettamente visibili i due ragazzi (uno smilzo, l’altro tarchiato) decisi a lavorare  da sé soli, facendo banda a sé (scoprono un deposito di armi, lo depredano e si divertono a tirare lungo il mare; quasi non fossero strumenti di morte), che un anziano boss inganna a spinge al massacro. E il ragazzino che fa servizio a domicilio dal negozio della madre, e viene a poco a poco coinvolto nella malavita, e consegna una sua cliente all’esecuzione. O il distributore di denaro alle famiglie dei carcerati, don Ciro, figura scialba, che vive nel timore; o il sarto che cede all’offerta del laboratorio cinese che lo assume come maestro, figura anch’essa mediocre. O infine l’impresario di rifiuti tossici che avvelena i campi; ed è Toni Servillo, qui in una parte modesta.

Nell’insieme il film delude per questo disordine costruttivo che lo depaupera, gli toglie senso e passione.

 

Martin McDonagh - In Bruges

All’Odeon di Lecce il 20/05/08.

Commediografo di valore al suo primo film. I critici ne parlano bene, forse per rispetto verso il commediografo, forse per la presenza di attori come Colin Farrell e Ralph Fiennes; in realtà questo primo manufatto risulta piuttosto scombinato; si spera meglio per il secondo.

Difficile dire che cosa intendesse realizzare qui il regista. C’è certo Bruges (o Brugge, essendo fiamminga), cittadina di straordinaria bellezza per l’incanto del suo mondo medievale conservato intatto; case, chiese, palazzi e incantevoli canali. Ma non è che il film ne sappia ricreare la presenza; una presenza e una bellezza ripresa per noi con originalità e forza. La città avrebbe un ruolo perché due killer irlandesi vi sono stati inviati dal loro boss per un soggiorno di due settimane, lungo le quali attendono di conoscere il da farsi. Ma certo due killer non sono i personaggi più adatti per ammirare le finezze di una città medievale. In verità uno di loro, il robusto e più maturo Ken, pensa che quel tempo possa essere piacevolmente passato da turisti, visitando la città; ma l’altro, Ray, è totalmente refrattario.

La storia è confusa. In un probabile flash-back si vede il giovane che uccide un sacerdote, non si sa perché e, nel colpirlo a più riprese, uccide anche un bambino. Sembra che questo misfatto dell’uccisione del bambino sia la sua condanna, e proprio per questa si attende l’ordine. Ken tenta di farlo fuggire, ma Ray ritorna perché si è legato in certa misura ad una ragazza. Infine sopraggiunge il boss e accade il macello. Ken è colpito due volte da lui sulla torre, forse perché non ha eseguito il suo ordine, e dalla torre si getta; Ray è inseguito e colpito a più riprese, ma sembra si salvi. Infine il boss si spara un colpo in bocca. E perché poi? quando mai un boss della malavita si spara dopo aver castigato due dipendenti infedeli?

Le intraviste bellezze di Bruges non valgono a compensare la delusione e la noia di questa malconcia storia

 

Renzo Martinelli, Carnera -  The walking mountain

Al Massimo di Lecce il 10/05/08.

Regista sensibile, coscienza civile attenta, in opere come Porzus del ’97, e Vajont del 2001.

La sua ricostruzione del mito di Carnera non è male. Da un lato la figura di un uomo buono, semplice, ingenuo (Angelo Iaia). Tanto forte quanto buono (e però ci sorprende con alcuni scatti un po’ duri con la giovane moglie, la quale li supera col suo animo fine, e con un amore intenso e coraggioso); ingenuo nella gestione dei suoi guadagni, nelle truffe dei manager; una disattenzione che però non meraviglia in un campione. E tuttavia ce lo immagineremmo più rude, un montanaro del Friuli, un figlio del popolo; anche se il ragazzone bello e simpatico non guasta.

Il punto chiave del film è l’entusiasmo dei nostri emigrati, tanti in quegli anni di forte emigrazione; proprio in America anzitutto, dove Carnera trionfa, raggiunge il titolo più alto e più ambito nella boxe, quello dei pesi massimi. Per il popolo degli emigrati ovunque un motivo di vanto, di orgoglio, di fierezza. Negli stadi enormi d’America quella presenza, quell’agitarsi di bandiere, quel grido di folle.

Questo entusiasmo popolare è la parte più viva del film. Che del resto è di semplice fattura; e si conclude dopo la prima perdita del titolo, col ritorno in Italia sulla nave.

 

Richard Shepard, The hunting party

Al Santa Lucia di Lecce il 4/05/08.

La partita di caccia, per uno di quei criminali della guerra bosniaca (e sarebbe Karadzic, secondo l’articolo del giornalista Scott Anderson da cui il film deriva; l’altro è Mladic), autori di orrendi massacri e stupri, e genocidi, che tutti cercano e nessuno trova, o nessuno vuol trovare: Cia, Nato, Tribunale dell’Aja. Questa denunzia è palese nel film.

Ma la ricerca qui non mira tanto alla giustizia quanto alla taglia; ed è l’idea di un giornalista americano che ha perso il posto per intemperanza, ed è rimasto in quelle terre, arrangiandosi con servizi vari, tra debiti e fame. Un Richard Gere piuttosto debole e insipido, anche se calato in una storia di ardimento e pericolo estremo. Lui solo (ma c’è il suo vecchio cameraman che ha fatto carriera, e un ragazzino alle prime armi, che pur scettici gli si accompagnano). E vagano su e giù per le montagne di Bosnia, tra informatori più o meno affidabili e gente ostile e minacciosa; sono fatti prigionieri proprio dal ricercato e stanno per essere sacrificati a colpi di scure quando la Cia  irrompe e li libera, ma del ricercato non sembra curarsi. Li libera e li imbarca, ma fuggono e riprendono la ricerca, e s’imbattono proprio in lui mentre tranquillo caccia la volpe, il suo sport preferito; lo fanno prigioniero, lo abbandonano in un villeggio di quei musulmani che lui ha ferocemente perseguitato, certi ch’essi non mancheranno di farne giustizia.

Storia narrata in termini approssimativi e improbabili, con quel trio più da commedia che da tragedia. Mentre la tragedia, o i suoi residui, e il ricordo evocato, permangono in tutto il loro orrido orrore. Da questa tragedia di un popolo il film avrebbe tratto una forza incomparabile, se vi si fosse calato.

Regista giovane, inesperto (ha fatto un solo film, The Matador, piuttosto mediocre). Speriamo che ne faccia in  seguito di migliori.    

 

Giuliano Montaldo, I demoni di San Pietroburgo

Al Massimo di Lecce il 1°/05/08.

Torna al cinema un regista di grande esperienza e di grande passione civile, che da un certo tempo taceva. Suo Sacco e Vanzetti; suoi, nel mio schedario, L’Agnese va a morire del ’76, Il giorno prima del marzo ’87, Gli occhiali d’oro dell’ottobre ’87, Tempo di uccidere dell’89.

Un film, questo, ideato da Andrej Konchalovski, e che è stato meditato a lungo. Portare sullo schermo la figura di Dostoevski, uno scrittore così grande e così tormentato.

Ma il film è soprattutto un affresco della Russia di fine Ottocento. Affresco cupo, dominato dal dispotismo monarchico e dai suoi strumenti repressivi, la polizia, l’esercito. Dominato dalla tensione, dalla paura. Dove un gruppo di giovani sospira la libertà e per la libertà lotta, col terrore, con le bombe, col disegno di annientare la famiglia imperiale. Dostoevski ha lottato e sofferto a suo tempo, condannato a morte, poi chiuso in un campo di concentramento in Siberia; a tratti quella condanna e quella vicenda estrema viene rievocata. Ha però meditato e si è portato su posizioni di nonviolenza, convinto anche che questa violenza non sia compresa e condivisa dal popolo; la storia poi lo smentirà, la Rivoluzione russa sarà anzitutto una rivoluzione popolare. Di qui il suo contatto col gruppo anarchico e bakuniano, il suo sforzo di convincerli a rinunziare alla violenza.

Una parte del film è dedicata al suo lavoro di scrittore, a quel romanzo che, sotto la pressione di un contratto capestro, egli deve finire in pochi giorni dettandolo direttamente ad una stenografa; quella che poi diventerà la sua seconda e definitiva moglie. Ma questo rapporto è appena sfiorato.

Il film è dominato dal terrore dispotico e dalla passione giovanile per la libertà. Film in gran parte notturno,  senza sole. Molto bello il finale volo dell’aquila che gli studenti hanno curato e poi liberato nel cielo, con quelle grandi ali, quei grandi cerchi, quel simbolo di libertà. L’attore scelto per Dostoevski non convince; un po’ rude. Un po’ di trasandato lo stile. Ma il film è intenso di passione e di dolore; molto meglio di quanto ne ha scritto certa critica.    

 

 

                                       aprile 08

Stefano Chiantini, L’amore non basta

Al Santa Lucia di Lecce il 27/04/08.

Il titolo è forte e, in fondo profondamente vero: l’amore sessuale è un fatto grande, sublime anche, ma non basta all’essere umano, al suo mondo ricco e complesso, alla complessità della sua vicenda.

Qui però, più che non bastare, l’amore non riesce a decollare, a costruirsi, ad espandere la sua magnifica potenzialità. Perché per il ragazzo c’è la morte prematura della madre (il cui ritratto è sempre presente e visibile), e quindi un complesso edipico probabilmente non risolto; c’è inoltre la presenza insistente e ingombrante del padre, un magistrato bizzarro, cui il figlio non sa sottrarsi. Un ragazzo caratterialmente debole, insicuro, incerto nel rapporto. Come incerto è nel lavoro di cameriere in una pizzeria, lavoro che poi lascia, anche dietro l’insistenza paterna; ma per fare che?

La ragazza, hostess in Air One, non ha avuto un vero padre; l’uomo con cui vive la madre non sembra significare nulla per lei; e la madre è sofferente sotto l’indifferenza e la volatilità di quell’uomo. Impossibile qui credere nell’amore.

Il film ha una sua finezza un po’ fragile, un po’ insicura; che d’altronde riflette l’insicurezza dei personaggi. Così come la storia, nella sua scarsa consistenza. È il secondo film di u regista trentenne che forse promette.

 

 

Gianni Zanasi, Non pensarci

Al Cinema Salesiani  di Lecce il 20/04/08.

I critici hanno parlato bene di questo film, non si sa perché. Anche il titolo che significa? non pensarci, ai tuoi guai, a quelli di famiglia? Forse. Ma non è raro che i nostri film, specie di giovani registi, abbiano di questi titoli futili.

Qui sarebbe la situazione di una famiglia (situazione statica, non si può parlare di storia) cui appartiene il chitarrista rock Stefano, che suona in una band romana e che, deluso dallo scarso successo, e dalla ragazza sorpresa con un altro (il concerto è finito anzitempo), se ne torna in famiglia per una pausa. Ragazzo introverso (ma ha 35 anni), apatico (con la ragazza non reagisce per nulla, scambia anzi due parole col ragazzo che l’ha soppiantato); non parla, nulla d’interessante.

Famiglia d’imprenditori, con una fabbrica di sciroppati, una bella casa; famiglia unita, affettuosa. Ma la fabbrica, condotta dal figlio maggiore Alberto (che è poi l’ultrarobusto Battiston), è agonizzante; ed è soprattutto una fabbrica fantasma, in cui non si vede né lavoro né lavoratori; forse il regista non ha idea di cosa sia una fabbrica. Lo strano, poi, è che il padre – che probabilmente l’ha creata – se ne disinteressa totalmente. Insomma in questa vicenda della fabbrica, dei suoi debiti, ipoteche, ricerca di finanziamenti ecc. non c’è nulla di serio. L’Alberto ha anche una mezza relazione o amicizia con una ragazza facile, di cui a un certo punto si dice innamorato e pronto a lasciare tutto; ma sono soltanto parole.

Ci si aspetterebbe a un certo punto la crisi, la catastrofe risolutrice, ma non succede nulla. Il chitarrista se torna a Roma nella sua band, lo vediamo sul palco, da cui a un certo momento si getta con un salto sul pubblico; e qui il film chiude; forse un gesto simbolico, ma di che? disperazione?   

 

 

Jason Reitman, Juno

Al Santa Lucia di Lecce il 13/04/08.

Figlio di Ivan Reitman, regista Usa di origine cecoslovacca, piuttosto mediocre (suo Ghostbusters, film di cassetta, divertissement senza senso).

Qui la storia di una sedicenne che resta casualmente incinta alla sua prima esperienza sessuale, vorrebbe abortire ma trova scortese l’impiegata, un'amica le parla delle molte coppie senza figli che cercano, insieme scorrono  le inserzioni di un giornale, lei sceglie, decide, incontra la coppia, si accorda.

Un tipo di adolescente dal volto semplice e pulito, dal carattere vivace, estroso, il linguaggio tipico degli adolescenti, spregiudicato, tagliente, sempre troppo sicuro di sé. La prima parte ha questo timbro un po’ duro e sprezzante.

C’è Vanessa, la futura madre adottiva, col suo desiderio profondo intenso, la sua finezza d’animo; mentre il marito Marc ancora non si rivela. ma già pensa di abbandonarla perché, dice, non v’è più amore. Il punto che drammatizza la seconda parte.

Nella quale la ragazza Juno (il nome solenne mitico per il tipo semplice) ha acquistato una maturità, una morbidezza, forse apportata dal figlio che sente crescere in sé, quella pancia che accarezza, che mostra con spontaneità e dolcezza. Il proposito di abbandono di Marc la sconvolge, ma essa confida nella decisione materna di Vanessa e non si arrende. La seconda parte si fa più intensa, più profondamente umana. La figura della ragazza adolescente (Ellen Page) ha tratti di eccezionale caratterizzazione e vivezza. Il film, più convenzionale nella prima parte, si rafforza, senza smagliature.

Il problema realissimo di questi incidenti adolescenziali d'inattesa gravidanza, dove la ragazza non si sente neanche lontanamente pronta alla maternità, è risolto nel modo  più giusto: non l'aborto ma l'adozione da parte di una coppia sterile; quella che dovrebb'essere poi la soluzione di sempre, per quanto possibile. Soluzione di vita anziché di morte, soluzione giusta e amorosa.

Il finale è dolciastro, andrebbe tagliato.

 

 

Wong Kar-wai, Un bacio romantico

Al Santa Lucia di Lecce il 9/04/08.

Ma il titolo originale è My blueberry nights, le mie notti al mirtillo, la torta di mirtillo dell’inizio, un elemento marginale nella storia; mentre il bacio sta solo alla fine e, per quanto affettuoso, resta enigmatico nel suo senso.

Ma l’intera storia è enigmatica, oscura. Legata in qualche misura ad una ragazza (il debutto incerto di Norah Jones) che ha perso il suo amore, e la troviamo all’inizio in un bar di New York, poi cameriera a Memphis, poi a Las Vegas, e infine nel bar dell’inizio, tenuto da un ragazzo simpatico (che è Jude Law), dove il bacio enigmatico chiude la storia. Ma la ragazza è piuttosto atona e inespressiva. Non si vede quel «road movie» di cui parlano i critici; s’intravedono sì treni passare veloci nella notte, e autobus, ma la strada non prende risalto alcuno. Siamo invece sempre chiusi in questi locali, dove si disegnano (o schizzano) altre due piuttosto nebulose storie di donna: quella che imbambolata, alienata lascia il marito, lui sì sofferente; quella che gioca sui tavoli di Las Vegas, e della quale non sappiamo null’altro.

In questo suo primo film americano il regista di Hong-Kong, il raffinato narratore e pittore di In the mood for love, di Angeli perduti, si smarrisce, si direbbe. Rivela sempre doti di stile, un grande senso del colore, americaneggiante piuttosto, colore vistoso, pennellate rapide. Sempre nella notte.

 

 

Paolo Franchi, Nessuna qualità agli eroi

Al Santa Lucia di Lecce il 6/04/08.

È questo il secondo film di Franchi, dopo La spettatrice del 2006, già notata per la qualità dello stile.

Qui c’è pure una forte ricerca stilistica, forte ma non priva di eccessi e squilibri. Così le numerose scene d’ombra o di notte, dove a stento si vedono le persone e le cose, con intento simbolico. Così come il grigio che all’ombra succede. Portare il suono a vibrazione altissima per poi improvvisamente spezzarlo. Spezzare le scene.

Ma è la vicenda che resta oscura. Non tanto quella del protagonista, Bruno, un giovane imprenditore di Ginevra che opera a Torino, in difficoltà economiche, pressato da un banchiere o un usuraio. Che proprio in quei giorni scopre la propria sterilità. L’impotenza del maschio, ma ancora più forte l’odio del padre, pittore cresciuto in fama, e scomparso, che la critica esalta. Vive in uno stato di permanente depressione e assenza, un essere-non essere; una figura monocorde, quasi noiosa nella sua atonia, nel suo vagare senza scopo. Gli è accanto una donna luminosa (Irène Jacob, che però ha perso alquanto quella singolare purezza di stile che aveva nel Film rosso di Kieslowsky), che col crescere della incorresponsione ed assenza di lui, lo lascia, in attesa di giorni migliori.

La figura del giovane, che è poi il figlio del banchiere, e anch’egli posseduto dall’odio contro il padre - lo ha ucciso, e sarà arrestato alla fine - compare improvvisa, e poi di quando in quando, ma non si lega mai bene alla storia; resta un’apparizione enigmatica. Nel suo tentativo di suicidio si capisce appena che è salvato da Bruno. Anche l’uccisione del padre la s’intuisce appena. V’è qui una oscurità del racconto che lo rende duro a comprendersi

II punto più forte, più fortemente espressivo, è il grido alto e straziante, il singhiozzo di Bruno, ormai solo, si appoggia al muro, si accascia. Poi va ad accusarsi di avere ucciso il padre, si accusa di una colpa che ha commesso solo nell’animo. Forse in un tentativo di liberazione da quell’odio che lo aveva divorato sempre.

Storia dominata dalle nevrosi familiari, dal male di vivere che ne viene, dall’odio, e dal delitto che all’odio consegue. L’uccisione del padre. Nulla vi si libera, non v’è speranza.

 

 

                                  marzo 08 

Marc Forster, Il cacciatore di aquiloni  

Al Santa Lucia di Lecce il 30/03/08.

Forster è regista di talento. Suoi sono Monster’s ball - Un sogno per la vita del 2002 e Neverland - L’ombra della vita del 2004. Dietro questo film c’è il notevole romanzo di Khaled Hosseini; ma è chiaro che il film va considerato per se stesso.

Qui gli aquiloni sono il simbolo e il ricordo della fanciullezza, e insieme di un’età di pace in cui i ragazzi afgani lanciavano liberi nel cielo il loro uccello di colori e luce e si sfidavano gioiosi, e l’intera città vi partecipava come ad una festa. Pace che il bambino, liberato dalla crudele austerità talebana, dall’orfanotrofio di pena e fame, dall’oppressiva scuola coranica, ritroverà alla fine sulle coste della California. Ancora intontito e assente nel suo passato di dolore.

Ma il corpo del film è la storia straziante di quel paese e della sua gente. La fuga di fronte all’invasione russa, in Pakistan su vecchi camion per strade solitarie e impervie. Di questi vecchi camion, vecchie macchine, di queste strade, di queste pianure immense e desolate è pieno il film; della desolazione di un paese straziato sconvolto prima dalla violenza russa, poi da quella talebana; ancora più feroce perché sorretta da una presunta potenza divina, da certezze presunte assolute, oltre che da arcaiche leggi coraniche e da arcaici costumi tribali.

Fuga in Pakistan, poi in USA, il padre e il figlio (la madre già scomparsa prima); l’uno che invecchia, si ammala e muore; l’altro che cresce, studia, si sposa. Ma subito è richiamato dalla notizia che il suo compagno di giochi e di aquiloni era suo fratello, e ora è morto, ed è rimasto il figlio chiuso nell’orrido orfanotrofio. E allora riprende il pericoloso viaggio su quelle strade e quelle solitudini e quelle atrocità. La scena della lapidazione della donna adultera nello stadio. La scena del capo talebano (il grande turbante bianco, l’immensa barba nera) che lo assale e lo sta massacrando di pugni e calci, ma è colpito all’occhio dalla fionda del bambino.

Immenso dolore di un’umanità dolorante nel nostro tempo.

Di passaggio sia detto che il critico di “Repubblica” riteneva questo film troppo hollywoodiano e scarsamente personale; mentre metteva in prima fila il mediocre “Tutta la vita davanti”.  

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Paolo Virzì, Tutta la vita davanti

Al Santa Lucia di Lecce il 29/03/08.

Qui Virzì non è riuscito a mantenere quella misura che aveva fatto apprezzare due film come My name is Tanino e Caterina va in città, del 2003.

Il tema è forte, il lavoro di una ragazza in un call center che raccoglie appuntamenti per la vendita a domicilio di un elettrodomestico multifunzionale; un lavoro faticoso e malpagato, 400 euro al mese; per una ragazza intelligente e colta, che si è laureata in filosofia a pieni voti con una tesi su Heidegger e pensa di continuare gli studi come ricercatrice,  e continua a ricercare e scrivere fino a produrre un saggio che le viene pubblicato a Oxford. Ma il film non ha idea di come un laureato riesca a diventare ricercatore, di come si avvii una carriera universitaria; anche quella che vorrebb’essere la discussione della tesi davanti a cinque professori decrepiti non ha nulla di reale – si sa che la commissione di laurea consta di 11 professori; e la storia di Oxford è fumosa.

C’è un contrasto evidente nel film tra il call center e il centro promotori, sempre sopra le righe; dove appunto manca quella misura che avrebbe dato al film un senso forte, quello di un problema sociale. Un call center da operetta, un centro promotori di ragazzi forzuti ed esaltati. Il contrasto con la ragazza e la sua serietà, l’intelligenza e l’impegno con cui conduce il lavoro, la forza d’animo con cui affronta il secondo lavoro da baby sitter con una madre squinternata; affronta il promotore esaltato e il sindacalista inetto che le corrono dietro.

Con queste premesse il finale tragico non regge: Claudio, il titolare dell’impresa, che nel conflitto con la moglie, nella perdita dei figli, nell’annunzio di una gravidanza dell’amante si suicida; il promotore esaltato e licenziato che a folle velocità va incontro ad un tir. Che senso ha tutto questo? Quanto alla ragazza, Marta, non ha perso il suo stile di figura positiva, di animo forte. Troverà certo la sua strada nella vita. Anche se il titolo del film vorrebbe dire il contrario: di una vita tutta disponibile ma vuota.

 

 

Sergio Rubini, Colpo d’occhio

Al Santa Lucia di Lecce il 24/03/08.

Ė difficile che Rubini riesca a condurre un film senza incongruenze (nel mo schedario La terra del 2006, L’amore ritorna del 2004, L’anima gemella del 2003, Tutto l’amore che c’è del 2000). Questo è forse il meno compromesso, pur nelle difficoltà della costruzione. Spettacolare, forse troppo, l’immagine, e però di notevole bellezza.

Il nodo della storia sta nella figura del critico d’arte, l’onnipotente critico del nostro tempo, che lavora su di un’arte visiva molto incerta e arbitraria, avendo distrutto tutti i canoni che l’avvincevano e l’opera stessa; potente per la rete pubblicistica e commerciale che a lui si raccorda, riviste, gallerie, mostre, musei. Qui un Lulli mefistofelico (ed è poi Rubini stesso) che ha legato a sé una giovane e intelligente allieva, Gloria. Che, quando essa s’innamora del giovane scultore, tenta il suicidio, o forse solo l’atto clamoroso, spingendo l’auto contro un muro; ma ne esce solo con la rottura di un ginocchio, e lo vediamo per un certo tempo col bastone ma in piena forma. Non ha rinunziato a Gloria ma le si avvicina attraverso il giovane scultore, che lega a sé coinvolgendolo prima in una mostra a Berlino, poi organizzandogli una personale a Roma. Paga anche in parte il sontuoso appartamento in cui i due giovani ignari si sono trasferiti.

La crisi inizia con la morte del bambino che i due attendevano, per un aborto spontaneo. Su cui s’inserisce il nervosismo, l’orgoglio, la gelosia  del giovane. Qui il passaggio non è chiaro; soprattutto il gesto estremo di scacciarla da casa. Ma lei ritrova un’amica che le offre una professione nell’arte stessa, giornalismo, critica, rapporto con gli artisti. Lulli  manovra la gelosia del ragazzo, lo snerva demolendo il suo lavoro attuale, poi lo spinge su di un lavoro che in realtà è un plagio; e lo sa lui, come soprattutto Gloria. Gli mette sotto mano una pistola; di cui il ragazzo si munisce, ma perché? vuole forse uccidere Gloria per sfuggire allo scandalo del plagio? e come è possibile sfuggirgli?

La scena finale nell’anfiteatro corona tutta l’ambiguità che amareggia questa storia. Perché Adrian ha dato appuntamento a Gloria; la quale però, avvertita da Lulli, lo teme e si nasconde. La mano ch’egli affonda in tasca vuole offrirgli la collana che lei aveva smarrito? ma solo questo? oppure la collana era un’esca? La minaccia di quella mano fa scattare il colpo che lo uccide; lo uccidono Lulli e i suoi, che l’avevano seguito.

Terribile macchinazione, che stronca la vita del ragazzo, stronca la sua arte e la sua speranza.

Il male pervade questa storia e la domina; anche se talora confusamente; e la porta alla sua assurda fine. Il male trionfa, la potenza del critico d’arte diventa strumento di male fino al crimine che non verrà punito. Non vi sarà giustizia.

 

 

Sidney Lumet, Onora il padre e la madre

Al Santa Lucia di Lecce il 15/03/08.

Questa volta il titolo italiano è migliore, forte nella sua amara ironia, nella spietata crudeltà che sottende, nella catastrofe. Piuttosto che il titolo originale, “Prima che il diavolo sappia che sei morto”, tratto da un proverbio irlandese che però ha un altro senso.

Film quasi perfetto, diviso in quadri e tempi (il giorno della rapina, tre giorni prima, quattro giorni) che s’intrecciano, e rafforzano la tensione. Forte, esasperata tensione. Tanto quanto l’empietà, la catastrofe di una famiglia, il crollo che corre lungo l’intero film, fino al gesto vendicatore ma spietato del padre. La pietas, la virtù familiare per eccellenza, che qui si sgretola. Ma il numero dei morti è eccessivo; la mano del grande, classico regista è stata troppo pesante.  

Qui due fratelli. Il maggiore, un uomo solido, con un solido impiego da dirigente ma una vita troppo dispendiosa; con solidi vizi, la droga in particolare; una moglie giovane e scontenta (la scena di sesso all’inizio è inutile, priva di senso); un tratto altero; il rimprovero al padre di non essere stato abbastanza amato, mentre l’amore si concentrava sul fratello più piccolo. Un cinico, un violento. Non ha figli.

Il minore, forse troppo amato e viziato, debole, informe. Incapace di resistere al maggiore, alla proposta di rapinare la gioielleria paterna, ché tanto c’è solo l’anziana domestica, e si usa una pistola giocattolo, e i gioielli sono assicurati. Non si danneggia nessuno. Tormentato poi dal rimorso, dalla disperazione quando il suo complice uccide la madre, che aveva sostituito quel mattino la domestica. E però avrebbe dovuto riconoscere l’auto del padre che l’accompagnava, e lei stessa. Strano.

Dopo di che si precipita lungo la china dello sfacelo e dell’orrore. Il minore, disfatto, sta sotto il ricatto del fratello del suo complice. Il maggiore, annientato dal tragico esito, dal rimprovero e disprezzo paterno, dalla fuga della moglie, trascina il minore nella furiosa rivalsa (le corse in taxi che si succedono) che vorrebbe elidere il ricatto e recuperare denaro, e sbocca nel crimine, nel macello; dov’egli stesso è ferito. Sarà il padre a finirlo, nella stanzetta d’ospedale, soffocandolo con un cuscino. L’empia vendetta paterna su cui si chiude questa storia familiare, e che ne vorrebb’essere l’inaccettabile catarsi.   

 

 

Alina Marazzi, Vogliamo anche le rose

Al Santa Lucia di Lecce il 12/03/08.

Un documentario che forse avrebbe voluto ricostruire il processo di emancipazione della donna che parte dalla Grande Contestazione degli anni 1970 e insieme anche una ulteriore tensione che va oltre i diritti ( il «pane»), ancora solo in parte acquisiti, la piena «dignità e diritto» della donna come persona, la apri dignità e diritto con l’uomo; si porta sulla sua peculiarità, sul suo particolare dono all’umanità, la sua bellezza sensibilità intelligenza tenacia resistenza alla fatica, la sua gioia e visione gioiosa.  

In realtà né l’una né l’altra sono raggiunti. Non la ricostruzione di un percorso storico coerente; e lo si sarebbe potuto fare anche attraverso storie di singole donne; come attraverso momenti e vicende comuni. Né il cammino ulteriore da percorrere oltre il diritto, nella pienezza del riconoscimento e dell’accettazione, della valorizzazione, della gioiosa espansione.

L’autrice ha ricucito materiali vari, non particolarmente significativi. Ė mancata la selezione intelligente e la costruzione coerente. Il giudizio della critica è stato in genere troppo generoso; e fuorviante.

 

 

Marjane Satrapi, Persepolis

All’Odeon di Lecce il 9/03/08.

Vado a vedere i film di animazione solo se ritengo siano singolari. E questo direi che lo è. Già il bianco e nero (con solo qualche lampo di colore), la semplicità del tratto, quasi infantile, l’espressività raggiunta con forza nella semplicità (quegli occhi che vibrano accesi), la vicenda di oppressione e liberazione. Proviene da quattro volumi di fumetti.

L’autobiografia di una ragazza iraniana, di una donna che cresce in un paese oppresso, prima dal potere monarchico, poi dal potere clericale, su cui s’inserisce anche l’inutile, lunga, mortale guerra Iran-Irak; paese oppresso in cui la donna è doppiamente oppressa.

V’è tuttavia un intreccio singolare, in questa oppressione, perché la famiglia è liberale e ricchissima; e v’è una nonna altamente liberale, altamente amata e stimata, che porta innanzi la formazione della ragazza.

La quale è tosta, e repellente al costume oppressivo e alle intrusioni degl’insopportabili pasdaran; ma ha il sostegno della famiglia e della nonna. Che, per sottrarla al disagio in cui vive, riescono a spedirla a  Vienna, dove finisce il liceo. E infine a Parigi, a studiare belle arti; da dove uscirà il suo grandioso e semplice fumetto, il suo grido contro l’oppressione della donna musulmana.

 

 

Paul Thomas Anderson, Il petroliere

Al Santa Lucia di Lecce il 5/02/08.

Il titolo originale There will be blood non dice molto, è anzi fuorviante; meglio quello italiano. Un regista di notevole livello. Di lui nelle mie schede Magnolia del 2000, che tenta un affresco di società attraverso l’intreccio di più storie.

Qui un pioniere del petrolio, figura singolare, prima cercatore solitario d’argento in un pozzo, una vita durissima, un pericolo mortale. In un paesaggio duro, pietroso, così come pietroso e duro è il cercatore, un uomo forse indurito dalla sua stessa ricerca. Ha con sé un piccolo che ha raccolto da un compagno morto, e che però egli usa come strumento di tenerezza, insieme con l’elogio della famiglia, quando, scoperto il petrolio, avvia la sua carriera di trivellatore e deve ottenere i terreni dai contadini. Il piccolo sente di non essere amato; nello scoppio di un pozzo perde l’udito e, alla scarsa comprensione del padre, concepisce un risentimento che lo porta ad incendiarne la baracca. Il padre allora lo allontana, lo mette su di un treno con un suo dipendente che poi con una scusa si eclissa. Questo “figlio” lo rivedremo in seguito, sempre nella sua dolorosa sordità, nel suo esilio dal mondo. C’è una ragazza ch’è cresciuta con lui in quelle terre, e si sposano; e c’è l’ultimo e dolorosissimo incontro col padre, lui sempre bloccato dalla sordità, con un interprete, e il padre che gli rivela che non è  figlio suo e lo scaccia come un “bastardo”.

Un uomo avido e crudele, che proclama il suo odio per l’umanità, il suo disprezzo per ogni altro, la sua asocialità. Uccide quel poveraccio che gli si era presentato come suo fratello, quando messo alla prova confessa di non esserlo; un uomo mite. Uccide nel finale il giovane pastore, persona dall’apparenza limpida ma dalla realtà ambigua, fanatico nel combattere quel satana sotto il cui dominio poi cade; lo uccide senza motivo, forse solo per disprezzo.

Un figura di rude genio del male, l’opposto della grandezza generosa che di solito anima gli eroi della “frontiera”, dell’epopea del West.

Una storia in negativo che ci sorprende, storia di male senza possibilità di redenzione; che anzi nel male s’indurisce e quasi si esalta, si accanisce in una volontà di male esplosiva, estrema. Ci sorprende, ci amareggia proprio per la totale assenza di catarsi, di liberazione, di speranza.

 

 

Gavin Hood, Rendition – Detenzione illegale

Al Santa Lucia di Lecce il 2/02/08.

Un regista sudafricano che si era già fatto notare con Il suo nome è Tsotsi, cioè gangster, del 2006, storia di un adolescente delle favelas che vive di rapine, storia dolorosa.

Qui un film di denunzia, forte, ben costruito. Denunzia del crudele escamotage introdotto dal governo americano dopo l’11 settembre, per cui chi è sospetto di terrorismo può essere sequestrato e affidato a uno di quei paesi in cui l’imputato non è protetto, dove vige la tortura, per ottenere da lui collaborazione contro il terrorismo. Non potendolo torturare in USA lo si fa torturare da altri. Ma già il sequestro è un crimine, che toglie alla persona ogni garanzia giuridica.

Denunzia delle scuole islamiche di terrorismo, dove i giovani vengono fanatizzati con l’idea del martirio, del paradiso, e così indotti a stragi indiscriminate che seminano la morte ovunque, e colpiscono persone ignare, innocenti. Un punto di crudele arretratezza dell’Islam.

E sono le due storie che s’intrecciano nel film. L’ingegnere chimico di origine egiziana che vive in USA ma non  ne ha la cittadinanza, ha la green card (motivo ulteriore di sospetto); e viene sequestrato dalla CIA e spedito in Nordafrica, affidato alla polizia di quel paese, dove inizia il suo itinerario di tortura. Forse per un’omonimia;  accusato di collaborazione con un noto terrorista; ma non gli è data possibilità di spiegazione, o anche solo di parola (qui la figura di una dirigente molto determinata, cinica, reticente, impersonata da Meryl Streep). Uno strazio.

Il ragazzo egiziano che frequenta la scuola di terrorismo, cui è legata una figlia del capo della polizia, e che proprio quel padre deve uccidere facendosi esplodere; mentre una settimana prima si è fatto esplodere suo fratello, sulla stessa piazza. Ciò che lui sente come un più forte motivo per il sacrificio.

Le due storie corrono verso il loro epilogo. Il giovane chimico, che ha percorso l’infame cammino della tortura e ha confessato, viene liberato dall’agente della CIA che alla tortura ha assistito; persuaso che le confessioni così estorte sono false; che a un certo momento il torturato confessa ciò che vuole il suo aguzzino, confessa qualunque cosa pur di liberarsi da quel tormento. Ciò è avvenuto per secoli, nei processi dell’Inquisizione, nei processi di stregoneria (circa 60.000 portati al rogo, quasi sempre donne),  come nei processi laici; e gli storici come gli psicologi ne sono persuasi.

Il ragazzo va verso il suo martirio su quella stessa piazza dove si è sacrificato il fratello, dove incontra la ragazza che implora per il padre, è colpito dalla polizia, ma lo scoppio avviene comunque perché egli aveva già tolto la sicura al comando. E con lui scompare la ragazza.

Film di orrore e di dolore, denunzia di orrori del nostro tempo, di poteri e di religioni criminali; denunzia per una strategia di giustizia e di pace; cui tutti noi dobbiamo collaborare.

 

                          

                       febbraio 08 

Joel (con Ethan) Cohen, Non è un paese per vecchi

Al Massimo di Lecce il 24/02/08.

Il titolo proviene dal romanzo di Cormac Mc Carthy che ha ispirato il film, e si riferisce forse allo sceriffo, che rappresenta la forza della legge; una forza ormai rinunziataria in quanto egli è anziano e vicino alla pensione, e si perde d’animo di fronte a queste lotte estreme. Ma, a parte lo sceriffo e la sua particolare funzione, il titolo non ha molto senso perché perché questa criminalità è solo marginale e, al di fuori di essa, in questo paese la gente può invecchiare benissimo.

Un film quasi perfetto nella fattura, nella conduzione della storia, nella sequenza delle immagini. Senza musiche, che non servono, non ne sente il bisogno. Un film semplice, che si colloca tutto nella fuga e nell’inseguimento di un uomo, quello che ha con sé la valigia del denaro. Un cacciatore che casualmente, col suo binocolo, ha scorto dall’alto la desolata scena in cui la droga e il denaro nello scambio avevano reciprocamente provocato la strage. Nella desolata deserta pianura del Texas, desolato deserto d’America. Un film semplice e complesso.

Ma deteriore sotto l’aspetto umano ed etico, che è il più alto, e necessario alla coscienza. Dove il male vince, nella lotta esasperata per il denaro, denaro della droga. Dove domina il killer psicopatico che tutti uccide, indistintamente; il demone nero, dai lunghi capelli e dai grandi occhi, più simile ad un ecclesiastico o ad un maestro di scuola (Javier Bardem); inesorabile, uccide tutto ciò che incontra sul suo cammino. E ancora alla fine lui è vivo, dopo che ha coronato l’inseguimento e ha raggiunto e annientato il fuggiasco, e anche l’innocente moglie che a stento sapeva. Ha consumato la strage ma non si sa se abbia trovato la valigia agognata; e se anche l’avesse trovata, non resterebbe che piangere su tutte le vittime che ha sacrificato e su lui stesso, sulla sua atroce insensatezza.

Perciò non v’è catarsi, non una giustizia che si affermi infine. E anche lo sceriffo vi ha rinunziato, mentre era il suo compito; e lo troviamo che ormai è in pensione e spreca parole vane.

Così, dunque, ancora una volta vince il male, e i fratelli Cohen neppure se ne accorgono.

Di loro nella mie schede Blood simple dell’88; Barton Fink del ‘91; Fargo del ‘96; Il grande Lebowski del ’98; Fratello dove sei? del 2000; L’uomo che non c’era del 2001; Prima ti sposo poi ti rovino del 2003, il peggiore.  

 

 

Tim Burton, Sweeney Todd

Al Massimo di Lecce, il 23/02/08.

Sapevamo che Tim Burton ha una certa tendenza al macabro e al vampiresco (vedi Batman dell’89; Il mistero di Sleepy Hollow del 2001; La sposa cadavere, singolare film di animazione, del 2005), ma questa volta è caduto nel Grand-Guignol della peggior specie. Un autore peraltro intelligente e raffinato. Ma che crede di poter fare e dire tutto, e perde ogni senso del limite.

Qui un barbiere di cui un giudice ha fatto morire la moglie e s’è appropriato la figlia, che tiene come prigioniera, e vorrebbe sposare; questo barbiere ritorna a Londra dall’esilio dopo quindici anni per compiere la sua vendetta. E appunto la vendetta sarebbe il tema del film.

Una vendetta che diventa un massacro, fin troppo facile per il barbiere che impugna il rasoio e taglia la gola al cliente chiunque sia, indistintamente, non si sa perché, l’ossessione della vendetta che diventa follia; mentre la donna che l’ospita, e che vorrebbe diventare sua moglie, la donna fine e delicata, imbandisce nel suo negozio, e nel sottostante sotterraneo diventato luogo di macello, una riuscita cucina antropofaga che attira clienti, gustosa quanto orrenda. Il penultimo massacrato è il giudice, l’ultima è la stessa sua figlia, che nella fuga si era travestita da ragazzo. Così la folle vendetta si è rovesciata su se stessa, e il folle è poi a sua volta colpito alla gola dal ragazzo che s’era nascosto nel sotterraneo per sfuggirgli. E il sangue scorre a profusione da quella gola, una fontana di sangue scorre dalla gola della vendetta insaziabile.

Un film di bassa cucina dell’orrore; qui è finito Tim Burton.

Ne ha fatto un musical, forse pensando di alleggerirlo con quelle strofette in recitativo. Ma il film musicale è già sempre un ibrido, e le strofette banali non lo sollevano certo. Come lo opprime una  musica pesante, spesso a toni altissimi, nessuna saggezza nel suo uso.

Un film quasi senza colore, come una vecchia stampa; una Londra nebbiosa sempre, oscura, tenebroso il cielo come le case, i palazzi. Costruita da Dante Ferretti.

 

 

Julian Schnabel, Lo scafandro e la farfalla

Al Santa Lucia di Lecce, il 20/02/08.

Schnabel, un artista figurativo di origina ceca, che ci aveva dato un interessante film sul pittore spontaneo e drammatico Basquiat.  Qui egli tenta di ricostruire il dramma di un uomo nel pieno della sua vitalità (è redattore capo di “Elle”, la rivista femminile francese; è immerso nella creatività, e insieme nella vita mondana parigina); che l’ictus ha sorpreso e bloccato, serrando il suo spirito, l’immaginazione, la creatività in un corpo immobile, ferrigno, lo scafandro appunto, che si vede di tempo in tempo immerso nell’acqua. Lo spirito è intatto, e anche sente e vede, ma non può esprimersi se non col battito di una palpebra; l’altro occhio essendo stato cucito per evitare un danno maggiore.

Qui il nodo poetico: una vitalità potente ma serrata, che tuttavia attraverso quel pertugio si esprime nella sua forza intensa; quel battito di palpebra, che dice si-no alla lettera d’alfabeto e, assieme alla persona che lo asseconda, costruisce la parola, e costruisce così un libro, il libro della sua straordinaria e disperata esistenza; che porta quel titolo. Prodigio, certo. La farfalla che comunque s’invola.

Opera di delicata umanità, di una speranza ultima che  sfugge alla disperazione, di un vigore di vita rubato alla malattia mortale, alla morte. Racconto semplice, lineare. Simpatia e affetto circondano il dolore.  

        

 

Antonello Grimaldi, Caos calmo

Al Massimo di Lecce, il 17/01/08.

Il film riprende il romanzo di Sandro Veronesi, l‘idea centrale è sua; ed è l'elaborazione del lutto, della perdita di una persona amata.

Un padre dunque (Nanni Moretti), che ha un lavoro importante come imprenditore, e  che improvvisamente perde la moglie: è caduta, si dice. Un punto  su cui il regista passa troppo velocemente; non  riflette sul fatto che nei riti funebri, anche a prescindere dalla fede, inizia una importante elaborazione del lutto, anche per la presenza di molte persone che portano affetto. Questo padre, dunque, lascia il lavoro per dedicarsi completamente alla figlia ancora bambina, che porta a scuola per poi passare l’intera giornata nel boschetto vicino, su di una panchina, leggendo il giornale, facendo strani conteggi delle compagnie aeree su cui ha volato, delle vie in cui ha abitato.

C'è qui un amore grande immenso per la figlia; e insieme il bisogno di compiere accanto a lei quella elaborazione, superare con lei il dolore e la nevrosi della perdita. Un dolore intenso, che sta chiuso nell'animo, e immobilizza l'uomo, lo blocca su quella panchina, nell'inerzia, nel silenzio, nell'insignificanza. Un dolore-amore. Questo il nucleo poetico del film, che molto s'attaglia al Moretti autore-attore. E però lo avremmo compreso meglio se ci fosse stata una qualche presenza della donna perduta, e della morte, della sua ritualità.

Lì passano i  suoi colleghi e abbozzano discussioni; ma certo il Pietro morettiano  non è credibile come imprenditore; e anche tutta la storia di questa impresa, e di una fusione in corso con un'altra maggiore impresa, risulta vaga e confusa. Probabilmente così la vive il protagonista, che se ne è estraniato.

Passa il fratello, un tipo molto diverso, estroverso, solo abbozzato. Passano delle donne, in particolare la sorella della moglie, sposata e incinta di un altro uomo, e alquanto scombinata. E anche la donna ch’egli ha salvato dal mare grosso (lui e il fratello ne hanno salvato due quel mattino, ambedue in difficoltà). E con questa c’è poi una improvvisa e furiosa scena di sesso; molto criticata da varie parti perché alla pecorina, che è una posizione legittima quanto un'altra; forse meno dignitosa e meno amorosamente espressiva di quella classica del "missionario", ma sulla quale non val la pena discutere e tanto meno far polemica; a parte che la critica e chiacchiera è servita a pubblicizzarla. E però questo incontro costituisce un fatto isolato, che non s’armonizza col film. Anche se si può comprendere che un uomo, che  improvvisamente ha perso la moglie e da mesi non ha rapporti, possa provare un bisogno forte estremo. Ma qui c’è un tipo d’uomo, e una scelta di vita che non gioca bene con quello sfogo furioso; né con quella donna quasi sconosciuta, che compare e subito scompare.

Il film non è del tutto convincente. Il finale è comico-amaro, molto morettiano: la figlia gli dice che il regalo grande che le ha promesso (siamo ormai vicini a Natale) dovrebb'essere quello di non sostare più presso la scuola, perché le compagne si beffano di lei che ha un padre fannullone.

        

 

Claude Chabrol, L’innocenza del peccato     

Al Santa Lucia di Lecce il 13/02/08.

Ritorna qui uno dei maestri della Nouvelle vague. Nelle mie schede Trappola per un lupo del '73; Un affare di donne dell'89; Grazie per la cioccolata del 2000; La commedia del potere del 2006. Titolo originale La fille coupée en deux, ma in che senso? la ragazza non è mai divisa tra due amori

La storia dell’amore tra un maturo scrittore e una giovanissima ragazza che lavora in una televisione locale. Uno scrittore di successo, che vive nella campagna del lionese come in un luogo di natura e di pace più adatto al suo lavoro creativo; e ha appena pubblicato un romanzo. Ha una moglie che lo adora e cui è molto legato. Le due figure più belle sono proprio questa moglie e la madre della ragazza, il cui padre ha lasciato e vive lontano, ma la madre ha con lei un rapporto di totale apertura e comprensione e sostegno; un rapporto mirabilmente armonioso.

Lo scrittore è piuttosto rude, scarso di parola, oscuro nell’intento. Possiede forse il fascino del successo, della fama, dell’arte. La ragazza ne è sedotta, presa d’amore; o almeno s’illude d’esserlo; ma tra loro c’è quasi solo il rapporto fisico, lo scrittore è troppo chiuso in se stesso, troppo severo e altero. Dopo aver sedotto la ragazza parte per Londra e l’America per presentare il libro, e stranamente cambia la serratura all’appartamento di cui aveva lasciato alla ragazza le chiavi. Un fatto incomprensibile, il quale però fa pensare che la ragazza sia stata per lui solo un gioco, ch'egli l'abbia atrocemente ingannata.

La ragazza cede allora al corteggiamento di un giovane strano, un figlio di imprenditori, di famiglia ricchissima, un tipo danaroso e sfaccendato. Si sposano e lei gli racconta della sua avventura con lo scrittore; sembra ch’egli l’avesse indotta a comportamenti libertini, un punto non chiaro. Da qui parte la vendetta del ragazzo, i due colpi di pistola che annientano lo scrittore impudico. Cui segue il carcere e, per l’avversione della madre, il divorzio e l’espulsione di casa.  Un finale strano, ambiguo; la ragazza d’altronde resta estranea a tutta quest'ultima vicenda perché non c’era amore né simpatia, ma solo ripiego.

Chabrol introduce volentieri il crimine nei suoi film. Ma qui non convince.

 

 

Mike Nichols, La guerra di Charlie Wilson

Al Massimo di Lecce il 10/02/08.

Mike Nichols, un regista di una certa intelligenza. Nelle mie schede Conoscenza carnale del '71, un film famoso; Il giorno del delfino del '74; Silkwood dell'84; Una donna in carriera dell'89; A proposito di Henry  del 91; Closer del 2004.

L’interesse del film, cui sta dietro un libro, sta nella ricostruzione di una vicenda poco nota; di come gli USA giunsero alla decisione di armare la resistenza afgana contro l’invasione sovietica; che avanzava sotto la copertura dell’aiuto ad un alleato, con un presidente fantoccio totalmente succube. L’invasione fu fermata, anche per i buoni uffici di Gorbaciov.

Nel film l’autore di questa operazione è un oscuro deputato, membro di una sottocommissione che finanzia gli armamenti a disposizione della CIA. Un Charlie Wilson qualunque, grande bevitore e circondato da donne, o da spogliarelliste; un tipo estroverso, gran parlatore (si tratta di Tom Hanks, un po’ ingrassato). Che intuisce la situazione e vola in Pakistan, dove incontra il presidente Zia e i suoi ministri, e dietro suo invito visita il campo profughi di Peshawar, enorme, disteso sulla collina; ascolta i racconti degli spietati attacchi degli elicotteri russi ai civili, s’intrattiene coi bambini mutilati, che hanno perso braccia, mani, gambe.

Nel film interviene dunque un motivo umanitario. È proprio la crudeltà sovietica, gli attacchi indiscriminati, le stragi, che convincono il deputato, poi il suo capo, ch’egli porta in quello stesso campo, accolto trionfalmente dai profughi che s’aprono alla speranza.

Ma bisognerà compiere un’operazione scaltra; non armi americane ma sovietiche; ottenute da Israele, che ne ha fatto bottino nelle sue guerre di liberazione; da altri paesi che i sovietici hanno rifornito, come l’Egitto, la Siria. I sovietici saranno battuti con le loro stesse armi; con quei lanciarazzi a spalla che gli afgani iniziano a maneggiare un po’ increduli e che invece raggiungono l’obiettivo, abbattono quei crudeli elicotteri predatori. Lanciarazzi, bombe, carriarmati, tutto un armamentario bellico. Nell’operazione interviene anche una ricca potente signora, amica del Charlie, una Julia Roberts un po’ troppo impettita e leccata; la cui parte è tuttavia accessoria.

Un film che, a parte l’interesse della storia, è un tipico prodotto hollywoodiano, scarso d’anima, di caratteri, di passioni. Lussuosamente confezionato.

 

 

Carlo Lizzani - Hotel Meina

Al Santa Lucia di Lecce il 3/02/08.

Lizzani ritorna fedele al suo interesse ed insegnamento di sempre, il politico e il sociale. Nessuno come lui  così fedele al suo interesse ed impegno di sempre. Anche se il livello filmico è talora ineguale. Nel mio schedario non vi sono film recenti, ma ciò forse è casuale, la mia frequenza al cinema essendo sempre legata agl’impegni di lavoro. Così Caro Gorbaciov dell’88, Mamma Ebe dell’85, Kleinhoff Hotel del ’77, Scene di vita e malavita (notevole) del ’75, Mussolini ultimo atto del ’74, Torino nera del ’72, Roma bene del ’71.

Qui un’atroce storia di olocausto, un gruppo di famiglie ebree che trova rifugio in un albergo sul Lago Maggiore, gestito da ebrei turchi; ed è ormai l’8 settembre, il giorno in cui l’Italia esce formalmente dalla guerra e s’apre alla speranza; subito soffocata dall’arrivo di una compagnia tedesca e dalla ripresa della persecuzione.

Film corale, film d’angoscia. La spietatezza dei tedeschi, la durezza, la crudeltà; l’incombere della morte. La storia manca forse di linearità, di costruzione; e però contiene figure e momenti notevoli. A cominciare dal giovane ufficiale tedesco, la sua presenza inumana, il volto sempre teso in un’oscura minaccia, la ferrea e folle esaltazione per una nuova era che s’apre per l’umanità, per una Germania che dominerà il mondo. Di fronte a lui proprio una tedesca, Cora Dorn (Ursula Buschhorn), che apparentemente lavora a Torino nella selezione delle opere d’arte da rapinare, ma in realtà è un’infiltrata della resistenza; figura notevole nella sua necessaria ambiguità, nella sua forza sdegnosa, che resiste all’ufficiale e alla fine lo rinchiude nell’albergo coprendolo di disprezzo, “assassino”; e lo ucciderebbe, ha una piccola pistola in mano, ma non lo fa, non se la sente di uccidere. Grande momento.

Siamo alla fine: nella notte una parte degli ebrei viene trucidata e affondata nel lago; una parte riesce a fuggire con l’aiuto dei partigiani. Rivivere la tragedia di questo popolo fa bene all’anima, risveglia l’amore fraterno per esso, e per tutti i popoli che soffrono.

                            

 

                         gennaio 08

Sean Penn – Into the wild

Al Santa Lucia di Lecce, il 30/01/08.

Uno dei maggiori attori americani, ma sensibile anche alla regia.

Qui uno dei miti americani, quello della natura grandiosa e solitaria, in cui immergersi; e insieme la fuga dalla città artificiosa e congesta, e il viaggio sulle grandi strade nei grandi spazi.

Qui però la fuga del ragazzo, che ha appena finito il college e si è laureato in una grande cerimonia festosa, contiene un dramma e un risentimento e una rabbia. È la fuga rabbiosa dal padre che è sempre rimasto legato alla prima moglie e ai figli avuti da lei, e non ha mai regolarizzato il rapporto con la sua nuova donna, quasi fosse solo un'amante, né ne ha riconosciuto i figli. L’odio del padre, e anche della madre che non ha preteso da lui il legame definitivo. Perciò egli scompare e non darà mai notizia di sé, e i genitori lo cercheranno invano.

Qui non è solo l’amore della natura nella sua purezza e grandiosità, l’amore incomparabile, e l’amore del rischio anche estremo, e la ricerca della grande solitudine in cui si dilata l'anima e la vita; qui è anche la fuga sdegnosa. Fuga dalla famiglia, fuga dall’umanità.

Il film è diviso in tempi, in fasi di viaggio; con anche soste, specie in quei luoghi dove altri come lui si sono ritratti in una solitudine maggiore o minore; in piccole case isolate, in terreni di camper; e stringe amicizie, sia pure passeggere. C’è anche una ragazza, che gli si offre; ma il ragazzo è austero, pensa sia ancora adolescente, sedici anni; o fors’anche il suo animo si è staccato dal piacere, il suo spirito si è indurito.

Nel film i tempi s’intrecciano; ma quello suo definitivo è un autobus abbandonato nella campagna, strano relitto già adattato ad abitazione, con letto e stufa e tavolo, che diventa suo. In Alaska. Strano ch’egli si arresti; o forse l’arresto è inteso solo come temporaneo.

Ma è qui che lo sorprende la morte, per delle erbe velenose ch’egli ha mangiato avendole confuse con altre. Nessuno si aspetterebbe quest’esito estremo e improvviso; ci si attenderebbe piuttosto un gioioso-doloroso vagare senza fine. Invece sopravviene la morte, l’amarezza estrema in uno spirito amaro, amareggiato dalla sua pur giovane vita.

Il film non appaga pienamente, soprattutto per quel risentimento e quella rabbia che contrastano con la pace suprema della natura, quella pace in cui il ragazzo avrebbe dovuto trovare la sua pace. Ma forse gli mancavano le necessarie risorse interiori.

 

 

Wilma Labate – Signorinaeffe

Al Santa Lucia di Lecce, il 27/01/08.

Di Wilma Labate nel mio schedario solo Amici e vicini, del ’99, film notevole.

Qui essa affronta un forte episodio di storia della classe operaia italiana, il grande sciopero del 1980 alla Fiat di Torino, sotto la minaccia di 14.000 licenziamenti; 35 giorni di lotta, poi la sfilata dei 40.000 colletti bianchi, la protesta, la volontà di lavoro, la sconfitta. L’ultima grande lotta di una classe che si estingue, mentre la “società postindustriale” avanza.

La critica è stata per lo più negativa; le ha rimproverato di non aver saputo ricostruire proprio la grande lotta. Ma non era necessario; la lotta è stata impostata e di tempo in tempo ritorna, mentre al suo interno si svolge la storia di Emma e Sergio. Emma (Valeria Solarino) una delicata figura d’impiegata della stessa Fiat, di una bellezza fine, austera quasi, molto torinese anche se di famiglia meridionale; studente di matematica prossima alla laurea; legata ad un ingegnere vedovo con figlia. Sergio, un ragazzone barbuto, un leader della rivolta, che di lei s’innamora. E lei cede, strano si direbbe, forse più passionale di quanto abitualmente dimostri; e questa passione corre insieme al grande sciopero. E con lo sciopero si dissolve. Non poteva durare, troppo forte la differenza, troppo diversi i due mondi. Una passione venata di malinconia, destinata a non durare.

Nel finale siamo nel 2007 ed Emma monta su di un taxi che è guidato da Sergio. Un ricordo che s’accende e sul quale il film chiude.  

  

 

Ridley Scott – American Gangster

Al Massimo di Lecce, il 23/01/08.

Ritorno di un regista di valore, ma ineguale. Nel mio schedario Blade runner dell’85, Black rain dell’89, Thelma e Louise del 91, Soldato Jane del 94, forse i suoi film migliori.

L’interesse di questa storia di gangster sta nella peculiarità dei suoi protagonisti. Da un lato il nero Frank Lucas (un Denzel Washinton di cui conosciamo il talento e la simpatia), un giovane che ha degli scatti di crudeltà forse non del tutto appropriati al suo carattere (a cominciare da quello in apertura, il modo peggiore d’iniziare un film); un giovane soprattutto lineare, serio, forte nella decisioni; che costruisce una fortuna disonesta, certo, col traffico di droga, ma seguendo un suo progetto: acquisto diretto in Estremo Oriente sfruttando la presenza dell’esercito americano (e quindi la corruzione); vendita di droga d’alto livello a basso prezzo, coinvolgimento della famiglia (ha cinque fratelli, ognuno con una sua impresa che copre lo smercio; ha tutto un clan di parenti). Quindi lo stretto legame familiare, la madre, i fratelli, i parenti fatti venire dal SudCarolina, ch’egli accoglie in una splendida villa con parco, con una cena sontuosa preceduta dalla preghiera; e così il matrimonio in chiesa, e la partecipazione alla liturgia domenicale con la madre e la moglie. Questa in  fondo simpatica figura di onesto-disonesto buon figlio di famiglia, di trafficante serio e corruttore.

Dall'altro lato il poliziotto onestissimo, che consegna al distretto intatti i 100.000 dollari trovati nell’auto sospetta; li consegna nonostante i dubbi e lo scetticismo del compagno, l’obiezione che il suo gesto resterà incompreso e sarà anzi disapprovato dagli altri; da una polizia in cui la corruzione è forte. Figura bonaria e simpatica, distesa (Russell Crowe); anche se ha un divorzio in corso, per la solita ragione che la moglie non tollera più il suo tipo di vita. La sua onestà fa sì che sarà messo a capo di una squadra speciale per un deciso attacco al traffico di droga; un attacco forse lento, nel quale lentamente emerge la figura di Lucas, in quel mosaico di foto che tappezzano il muro della centrale. Con approcci parziali e infine l’assalto decisivo, e quel colloquio con Lucas prigioniero in cui compare ancora la sua inattaccabile onestà, e in cui si stabilisce una collaborazione feconda.

Siamo negli anni Settanta. Sullo sfondo una società in cui la droga dilaga brutale e insensata; anche nell’esercito; e con una polizia profondamente corrotta. Un’America che si autodistrugge nella droga. Robert accusa Lucas anzitutto di avere causato la rovina e la morte di tante persone.

Lo stile del film è spesso congesto e confuso, musiche fastidiose, troppo rumore. Si poteva fare un film stilisticamente più pulito e lineare.

  

 

Sam Garbarski – Irina Palm

Ai Salesiani di Lecce, il 20/01/07.

Un regista al suo secondo vero film. Un tedesco di origine polacca  (nato nel 1948) che ha lavorato a lungo nella pubblicità e nel ’97 è passato al cortometraggio.

Notevole, soprattutto la costruzione del personaggio di Maggie, in arte Irina Palm, con un’attrice di lunga esperienza come Marianne Faithfull. Una donna matura, vedova, un figlio, un nipotino malato cui va il suo più profondo amore materno, e per il quale si sacrifica accettando un mestiere atipico, di quelli che capitano nei locali porno, di masturbatrice anonima. Sull’avviso era scritto “hostess”, espressione eufemistica le spiega il boss del locale, figura anch’essa significativa, di una rude durezza che però è sensibile all’umanità della donna.

Maggie è donna semplice, modesta, che conosce solo la casa e il lavoro, scarsa di parola, decisa nell’azione.  In tutta la vicenda corre un grande dolore: povertà, impotenza di fronte alla malattia del piccolo che può essere curato soltanto a Melbourne, accettazione del mestiere che umilia profondamente la sua dignità e moralità ma è necessario al grande scopo di salvezza. E il figlio, che l’ha pedinata per scoprire la fonte del denaro, esplode in un attaccio furioso di collera in cui la chiama “puttana”. Grande scena; ma lei si difende, non lo sono.

Il suo doloroso viaggio di ogni giorno a Londra, il suo duro compito giornaliero. Avanti e indietro nel suo cappotto bordò in una Londra sempre grigia. Dove paradossalmente acquista fama: Irina Palm la migliore mano di Londra, la mano larga e morbida di una donna matura; che tutti vogliono.

Un film che si colloca nel filone proletario inglese, la grande sensibilità per i problemi e la dura vita del popolo.   

 

 

Ang Lee - Lussuria, seduzione, tradimento

Al Santa Lucia di Lecce, il 16/01/08.

Il titolo della distribuzione italiana è di una sfacciataggine inaudita; titolo originale Lust, caution; cautela nella voluttà. E però si pensa sia rivolto all’uomo, al rinnegato, poiché è lui che cerca la voluttà, e che in essa può facilmente perdersi; mentre così non è, il perverso ne esce indenne.

Il regista cino-americano (Ang Li sarebbe meglio) crea finalmente un film cinese di grande respiro (due ore e mezzo), dopo film americani come Il banchetto di nozze del ‘93 Orso d’oro a Berlino, Ragione e sentimento del ’95, Tempesta di ghiaccio del ’97, il notevole Brokebeck Mountain del 2006 Leone d’oro a Venezia, una storia di amore omosessuale che finisce nell’emarginazione; e il classico La spada e il dragone del 2001. Ma ora costruisce un grande film nella Cina degli anni Quaranta oppressa dall’occupazione giapponese, e raggiunge il capolavoro. Perfetto, si direbbe, pur nella sua complessità.

Una storia di resistenza nella durezza crudele della presenza giapponese e del collaborazionismo. Una compagnia teatrale di giovani a Hong-Kong che si decide per la resistenza. C’è un collaborazionista deciso e duro; c’è una ragazza che viene infiltrata e diventa amica di famiglia. La ragazza che si offre al sacrifico e che lo porterà innanzi sino all’estremo, sino al martirio. Intanto, ancora a Hong-Kong, la grande terribile scena del ragazzo compagno di college del leader della compagnia, che lavora col collaborazionista e ha capito la loro azione, e li minaccia con la pistola ma è neutralizzato dal gruppo e assalito a colpi di coltello; ragazzone robusto duro a morire, in una lotta cruenta.

Il collaborazionista si sposta a Shangai, e anche il gruppo della resistenza; e così la giovane ragazza, che gode la fiducia della famiglia del traditore, ed è accolta in casa; ma persegue sempre la sua missione. Ragazza timida, silenziosa, ragazza prudente. Dovrà sedurlo, perché nella seduzione egli sarà più debole, più facile l’aggressione. Dovrà compiere questo sacrifico, unirsi sessualmente con la persona supremamente avversata. E qui si susseguono queste scene di sesso, eccessive si direbbe, si prolungano nelle posizioni che i cinesi come gl’indiani ricercano. Ma sono scene di strazio, che straziano l’anima della piccola come l’anima dello spettatore. L’uomo è cupo, terreo; è duro, aggressivo; sempre nel sospetto, nella fuga. Anche se le dona una pietra preziosa di dieci carati; anche se lei una volta gli canta una canzone con la sua voce flebile, percorsa dal timore.

Consumerà il suo sacrificio. I servizi segreti hanno seguito i suoi spostamenti e preso l’intero gruppo; e lei pure; e subito sono avviati alla morte. Mentre il traditore è salvo, lo rivediamo nella sua casa; anche se ha subito un forte contraccolpo morale, perché di nulla aveva dubitato.

Così il male si afferma. Non v’è catarsi, non v’è redenzione. Il buono, il giusto soccombe, i ragazzi che s’erano votati per la salvezza della loro terra.

Opera pervasa di cupezza, di paura, di dolore profondo. Dolore immenso e irredento.

 

 

Abdel Kechiche - Couscous

All’Odeon di Lecce, il 13/01/08.

Questo regista franco-tunisino si era fatto notare nel 2005 con La schivata, che raccontava un mondo di ragazzi in cui le differenze etniche non contano per nulla.

Qui Kechiche tenta un grande film di due ore e mezzo dove il famoso piatto arabo è in certo modo il protagonista, prima nella grande riunione di famiglia in cui tutti lo trovano eccellente, straordinario – è preparato dalla madre –; la grande riunione di una famiglia patriarcale araba immigrata in  Francia, anche se i genitori sono divorziati, ma ambedue presenti; dove si discorre amabilmente mangiando, si discorre e discorre di tutto e di nulla, nulla di particolare. Ciò che vale è l’incontro, lo stare insieme. Né il regista teme le lunghe scene insistenti, lo si vedrà in seguito: quella della figlia che vuol convincere la madre a partecipare alla grande cena in barca, e insiste e insiste, e alla fine ottiene; quella della moglie tradita – moglie russa, marito arabo – che sta “con la sua puttana”, come lei dice, e piange e grida e si dispera; e infine la grandiosa scena finale della danza del ventre.   

Il couscous domina appunto la seconda parte del film, la grande cena.

Nonostante il tema conviviale il film è drammatico. Il padre ha divorziato, ma ora ha anche perso il suo lavoro di sempre in un cantiere navale; ha 61 anni, c’è il solito discorso dell’eccesso di mano d’opera, del lavoro flessibile ecc. Un uomo che il lavoro e la vita hanno precocemente invecchiato; tipo silenzioso, tenace. Forse è proprio quel couscous della ex-moglie che gl’insinua l’idea di comprare una vecchia barca che sta abbandonata nel porto e farne un ristorante che avrà l’attrazione  di quello straordinario piatto – lo preparerà la ex-moglie, donna musulmana sempre sottomessa al maschio e pronta a servirlo –; il couscous e la cucina araba. E lì, fatti i necessari lavori, organizza una grande cena invitando, oltre alla famiglia e agli amici, soprattutto i personaggi della pubblica amministrazione che devono favorire l’impresa; e la moglie ha preparato tutto.

Ma all’ultimo momento, quando la barca è piena di gente e la cena è in corso, ecco che proprio il couscous manca, il piatto forte; che il figlio libertino ha dimenticato nel baule della macchina per correre dalla “sua puttana”. Ma nessuno della famiglia lo sa. Il padre, sul suo motorino (il figlio libertino ha invece l’auto), corre in cerca della moglie per averne un altro, ma non la trova; il motorino gli è sottratto da tre ragazzi che scorrazzano nelle strade adiacenti beffandosi di lui che cammina e corre, e infine si accascia sfinito. Il cuore.

Sulla barca, dove si attende e si attende, irrompe la figlia della nuova compagna, che gli è affezionata, con una danza del ventre che distrae ed entusiasma la gente in attesa. La danza si prolunga e prolunga, sul ritmo di quelle musiche orientali che sanno d’incantesimo e di malinconia; si prolunga nell’attesa, nell’ansia della ragazza danzatrice; e su di essa il film si chiude.

Intanto la madre, e nuova compagna dell’uomo, ha preparato lei un couscous: forse il dramma della cena si risolverà allegramente. Mentre l’uomo accasciato lungo la strada si riprenderà, o forse soccomberà nella notte.

Quale il senso di questa storia? la solidarietà di una grande famiglia araba? le sue risorse nelle difficoltà della vita e dell’immigrazione? la coralità del vivere in cui prevale la fiducia e la gioia? Forse. Ma proprio questa solidarietà il figlio libertino tradisce.

Un film fatto di gente comune, di parenti ed amici; Kechiche dice di non amare gli attori professionisti, troppo presuntuosi, troppo presi da tante cose.Ha avuto a Venezia il premio speciale della giuria.

 

 

Cristina Comencini - Bianco e nero

Al Massimo di Lecce, il 12/01/08.

Una regista nota per un suo itinerario decoroso: nelle mie schede I divertimenti della vita privata del ’91, Matrimoni del ’98, Il più bel giorno della mia vita del 2002, La bestia nel cuore del 2006.

Qui affronta, forse per la prima volta in Italia, il rapporto tra bianchi e neri. Partendo da un’associazione che aiuta l’Africa ed è presieduta da un africano; e con lui lavora Elena, un’Ambra Angiolini un po’ dissituata, marginale, ancora sempre la ragazzina del piccolo programma pomeridiano dal titolo presuntuoso ("Non è la RAI"); anche se ha qualche momento di forza. E però nella sua famiglia paterna v’è una cameriera nera; e loro stessi, col marito e la figlia, non hanno amici neri; e il suo presidente africano lo incontra per la prima volta fuori del lavoro, a bere un bicchiere insieme, solo dopo che è intervenuta la rottura. Per dire come anche coloro che operano per gli africani non stabiliscono con loro rapporti di amicizia, di convivenza. E anche nel terreno di gioco dove si ritrovano le famiglie africane coi loro figli, non vi sono bianchi; e in un ricevimento all’ambasciata del Senegal, dove lavora Nadine, la donna da cui nasce il conflitto, bianchi sono solo i camerieri della ditta che organizza il party. Si registra dunque una forte assenza d’integrazione.

Il conflitto nasce perché Carlo, il giovane marito di Elena, s’innamora di Nadine, impiegata all’ambasciata senegalese, impersonata da Aïssa Maiga, di gran lunga il personaggio più vivo e forte del film, oltre che il più passionale. Mentre il Carlo di Fabio Volo è piuttosto rigido ed atono; è vero che da lui parte la passione, ma non è appassionato.

Avvenuto l’incontro amoroso tra i due, subito c’è quella sconsiderata reazione, abbastanza abituale nei film americani, e anche italiani, che il coniuge offeso mette fuori casa l’offensore; non v’è spiegazione, non ragione, non tolleranza. E questo rafforza il rapporto dei due fedifraghi, che s’incontrano abitualmente; anche se già si capisce che non durerà, che il Carlo debole e piuttosto insipido è stato preso dalla bellezza corposa e dall’intensa passione della donna nera. E infatti le coppie si ricompongono. Non c’è un vero incontro umano, in parità piena, in pieno riconoscimento della dignità e anche della superiore personalità della donna nera, il personaggio più forte e più degno di questa vicenda, il più intensamente umano. Altro che superiorità del bianco. Tra l’altro Nadine è figlia di un medico e ha avuto un’educazione superiore.

La vicenda resta tuttavia aperta? perché i due si reincontrano là dove hanno accompagnato i figli, e ancora si abbandonano all’abbraccio e al bacio? Ma la differenza umana è troppo grande, il bianco troppo insulso e insignificante.

Eccessiva la scena della festa per il compleanno della bambina. Eccessiva la musica, che anche disturba; mancano le pause, i momenti pensosi e fecondi del silenzio.   

  

 

Robert Redford - Leoni per agnelli

Al Santa Lucia di Lecce, l’1/01/08.

Redford è ben conosciuto come un attore che da parecchi anni si è dato alla regia, con alterna vicenda. Nelle mie schede Quiz show del ’95. L’interesse maggiore di questo film è la disastrosa guerra americana in Medio Oriente.

Il film è diviso in tre quadri che scorrono contemporaneamente. Una giornalista importante convocata da un senatore repubblicano; una Meryl Streep un po’ confusa, forse per l’inattesa convocazione da parte di un politico col quale non è d’accordo, e che le rivela una nuova strategia d’attacco contro i talebani sulle montagne dell’Afghanistan; attacco compiuto da piccoli nuclei nelle roccaforti del nemico; quella che sarebbe la strategia vincente.

Un professore di college che convoca un suo studente per un colloquio non ben chiaro, un giovane apolitico ch’egli forse vorrebbe convertire all’interesse politico, o pure all’impegno, anche attraverso la storia di due suoi compagni che hanno scelto di partire volontari per un’esperienza che permetterà loro di operare per una nuova America. Ma come, combattendo una guerra ingiusta, scatenata da un guerrafondaio rozzo e folle come il giovane Bush? 

Il comando militare della nuova e innovativa strategia, che si dispiega, e l’avventura notturna di uno degli aerei che portano i piccoli nuclei d’attacco, nella notte, sopra montagne nevose; e nell’aereo proprio quei due studenti che un attacco talebano sbalza fuori, e cadono feriti sul pendio nevoso e vengono uccisi.

Chi sono qui gli agnelli, forse gli americani che scatenano guerre contro pretesi popoli “canaglia”? e chi sono i leoni feroci se non loro? o forse i due ragazzi erano agnelli mandati al macello? E il senso del film è quello del giovane politico orgoglioso del suo successo, e del suo apparato guerrafondaio, che con la sua pretesa strategia, impotente nella guerriglia, manda i giovani al macello mentr’egli si pavoneggia nel suo studio? Poiché è sempre il popolo, e i giovani figli del popolo, che fanno la guerra decisa dai pretesi “grandi”, i quali sono tanto presuntuosi quanto meschini.