FILM DEL MESE - dicembre-agosto 2007

 

 

novembre

Jacques Becker - Il mio amico giardiniere

Emidio Greco - L'uomo privato

Mimmo Calopresti - L'abbuffata

                         La parola amore esiste

Fatih Akin - Ai confini del paradiso

Roberto Faenza - I Viceré

Carlo Mazzacurati - La giusta distanza

 

dicembre

Paul Haggis - Nella valle di Elah  

Gus Van Sant - Paranoid Park

Nadine Labaki - Caramel

Denis Arcand - L’età barbarica

David Cronenberg - La promessa dell’assassino

 

 

 

ottobre

Francis F. Coppola - Un'altra giovinezza

Silvio Soldini - Giorni e nuvole

François Ozon - Angel

Tony Gilroy - Michael Clayton

Julie Delpy - 2 giorni a Parigi

Neil Jordan - Il buio nell'anima  

Ken Loach - In questo mondo libero

 

 

settembre

Mohsen Makhmalbaf - Viaggio in India

Riccardo Milani - Piano, solo

Jonathan Kasdan - Il bacio che aspettavo

Vincenzo Marra - L'ora di punta

Andrea Porporati - Il dolce e l'amaro

agosto

Kim Ki-Duk - Soffio

Lucia Puenzo - XXY

Cristian Mungiu - 4 mesi, 3 settim., 2 giorni

Hans Horn - Alla deriva

 

 

                                          dicembre 07

David Cronenberg - La promessa dell’assassino

Al Santa Lucia di Lecce, il 27/12/07.

Cronenberg è regista di notevole spessore e di notevole continuità (si veda come Mike Newell, invece, diventi banale nell’Amore ai tempi del colera, sugli schermi in questi giorni). Nelle mie schede A history of violence  del 2005, Spider del 2002, Crash del 96, La mosca dell’87, La zona morta dell’84. Il titolo originale è Eastern promises, promesse d’Oriente, cioè Mosca?; ma qualcuno qui fa promesse?

Qui ha scelto un film di mafia, un soggetto che è sempre piuttosto penoso per l’estrema crudeltà di queste cosche, l’eccesso di crimine, di sangue. Anche Cronenberg ci cade almeno due volte: subito all’inizio, con quell’odioso insistere sul rasoio che strazia il collo, e quell’altro rasoio che taglia il collo di un ragazzo che pisciava su di una tomba (inutile, non c’entrava nulla con la storia). Per di più si tratta di una mafia russa a Londra, di quel particolare tipo che è il russo, e il suo ambiente; e parla russo, con l’inconveniente della sottotitolatura che disturba l’immagine. Certo molto russa la figura di Kirill, il figlio bonario, espansivo, e ubriacone; e anche quella del padre, bonario e feroce. Al centro Nicolai (Viggo Mortensen), forse il più perfetto tra questi mafiosi, scevro di parola e di gesto, enigmatico; prima autista, poi iniziato alla cosca; che nella sauna sostiene nudo l’assalto dei due sicari armati di coltello, la grande scena di violenza estrema ma fredda, non sanguinosa; la sostiene e la vince. Ma ci riesce incomprensibile che la polizia non s’interessi per nulla di lui, finito all’ospedale con gravi ferite. Una distrazione del regista. Qui e altrove la polizia interviene a crimine avvenuto, ma non s’interessa per nulla alla ricerca degli autori.

Nicolai è il criminale che ha conservato in sé un fondo oscuro di umanità. Mediata forse dal volto pulito e sensibile di Anna, la giovane infermiera (Naomi Watts, la ragazza limpida e gioiosa di Mulholland Drive, indimenticabile), dal suo amore per il piccolo la cui madre è morta di parto. Le salva lo zio, che il bonario e crudele  boss vorrebbe morto, lo spedisce in Scozia in un buon albergo (così dice; in realtà lo vediamo in casa verso la fine: un’altra distrazione?). Soprattutto le salva il piccolo che Kirill per ordine del padre sta per affogare; e però si attarda un poco a contemplarlo, a coccolarlo; molto nel suo carattere. Gli dice, prendendoglielo, “noi non uccidiamo i bambini”, forse la frase più significativa del film.

 

      

 

Denis Arcand - L’età barbarica

All’Odeon di Lecce, il 26/12/07.

Questo regista canadese ci aveva interessato con Le invasioni barbariche, una storia condotta con garbo e simpatia, dove barbarico è forse soprattutto il denaro; ma un denaro che fa anche cose buone.

E ora riprende il tema. E lo conduce bene; salvo quelle visioni immaginarie di Jean-Marc, il protagonista, che vorrebbero compensare la sua realtà triste; di belle donne più o meno discinte che lo assalgono, gli chiedono penetrazioni, e impacciano la storia; e sono da cancellare. O anche quel mondo medievale di tornei per la conquista della bella che apre già il film, e a certo punto v’irrompe insensatamente.

Dunque una società che scivola verso la barbarie. Attraverso la vita di un impiegatuccio, un tipico travèt. Una società dove il poveretto, un occhialuto dal volto triste, deve percorrere ogni giorno un tratto in macchina, poi in treno, poi con un terzo mezzo; e arriva sempre in ritardo, e deve subirsi la rampogna della caposervizio. Dove le strade sono congeste di traffico, lunghe file di macchine semiferme, di piloti nervosi e irosi. Dove i cittadini che si rivolgono all’ufficio reclami in cui lui lavora non approdano mai a nulla, le burocrazie sono incapaci, inette, inumane. Dove la moglie, che è un’immobiliarista in carriera, pensa solo a se stessa, e a un certo punto se ne va a Toronto (qui siamo nel Québec) in cerca di successo, e lo abbandona. Dove le due figlie vivono nel loro mondo di adolescenti, di video e di ipod, affatto insensibili al padre.

Un mondo da cui si può soltanto fuggire. E difatti il poveretto un bel giorno molla tutto e si ritira in una casetta che il padre gli ha lasciato in riva al mare. Dove però la desolazione è ancora più grande, e il poveretto, vissuto sempre tra cose meschine, non ha la capacità di godersi la  natura e la sua mirabile grandezza. Che farà dunque?

 

 

Nadine Labaki - Caramel

Al Cinema d’Essai dei Salesiani di Lecce, il 25/12/07.

Un film franco-libanese, film d’esordio della regista. Il titolo viene dal caramello usato nella depilazione.

Poiché la storia si svolge in un salone di bellezza di Beirut, dove lavorano tre ragazze e s’intrecciano le loro vicende. Che non sono superlative, non raggiungono alti livelli di vitalità e di passione. Così quella di Layale (impersonata dalla regista), che ha un rapporto amoroso con un uomo sposato, rapporto che si trascina e non conclude. O quella di Nisrine, vicina alle nozze col  problema della verginità perduta in altri rapporti – grosso problema in quella società – e che però rimedia con una ricostruzione chirurgica dell’imene. O altre storie minori e di minore rilievo.

Più sensibile quella che si svolge nella casa di una sarta, forse cinquantenne, che ha stabilito un rapporto di simpatia con un cliente, un signore che è  andato da lei per accomodare degli abiti, e si è sviluppato un feeling; anche se disturbato alquanto dall’anziana madre, un po’ fuori di senno. E però poi la donna non osa recarsi all’incontro fissato, e l’uomo l’attende invano nel caffè in cui dovevano incontrarsi. Forse la storia più sentita, e più dolorosa.

Il film ha un particolare significato per la donna libanese, o islamica in genere; sempre sotto gli occhi del maschio, del suo superiore giudizio; mentre nel salone di bellezza dove va a depilarsi si ritrova tra donne, libera di parlare come di essere ascoltata. Ma il film  non è ben costruito, spesso confuso. La critica lo ha sopravalutato. È ricco di colore e anche di spontaneità, di vitalità, ma abbisogna di rigore stilistico.

 

 

Gus Van Sant - Paranoid Park

All’Odeon di Lecce, il 16/12/07.

Van Sant ritorna con una storia di alienazione adolescenziale, come in Elephant del 2003, o anche in Will Hunting del ’98. Sempre con quel suo stile semplice, quasi povero, quei tratti allusivi, quella debolezza costruttiva.

Paranoid  Park è un campo di board  skating, che i ragazzi stessi hanno costruito, il cemento e le avallature dove si compiono le prodezze, i voli. In una periferia povera, marginale.

Il ragazzo Alex è un tipo scarso di parola, introverso, sofferente perché in quel momento i genitori stanno per separarsi (il padre vuol regalargli qualcosa, quasi per compensare la perdita: una proposta insensata). Lo vediamo ai bordi del campo con la sua tavola; lo vediamo percorrere i lunghi corridoi della scuola, percorrerli lentamente; quei corridoi lunghi e vuoti, carichi di solitudine e di alienazione che già avevamo visto in Elephant (ed era poi la scuola del massacro di Columbine). Lo vediamo con un compagno rincorrere un treno merci e salirvi; e però quasi non vediamo il gesto con cui la sua tavola colpisce alla testa il ferroviere che cade riverso sui binari mentre sopravviene un  treno che lo strazia. Il fatto lo sappiamo prima ancora dal poliziotto che indaga nella scuola e convoca i ragazzi che frequentano il campo. Forse un segno di rimozione, ch’egli aveva totalmente rimosso il fatto e solo allora lo rivede e rivive. Sempre nella sua alienazione, in quel vivere quasi sonnambulico; e però è anche vero che di tempo in tempo lo vediamo su di una panchina in un campo dove scrive, forse un  diario? un momento di riflessione? anche se per due volte leggiamo sul suo quaderno solo quella scritta Paranoid Park?

È preso dal rimorso, ma in che grado? Non sappiamo come e perché il fatto sia avvenuto, se voluto o casuale; e se voluto, perché? uno di quegli atti senza motivo? dove anche il male non prende risalto, e fare una cosa o l’altra è eguale, salvare o uccidere? Nell’alienazione. Interrogato due volte dalla polizia non dice nulla, ignora.

Così il film finisce nel non senso; non v’è catarsi; o forse nulla quanto una catarsi è lontana da questa desolata storia. Il film ha avuto a Cannes il premio speciale della regia; forse immeritato.  

 

 

Paul Haggis - Nella valle di Elah  ●

Al Santa Lucia di Lecce, il 2/12/07.

Haggis, sceneggiatore di origine canadese che ha lavorato molto per la televisione, ci ha sorpreso nel 2005 con Crash, un film sullo scontro e cozzo globale di una città come Los Angeles. E ora torna con quest’opera stilisticamente compiuta e spiritualmente lacerante. L’Iraq, l’orrore di una guerra, l’orrore dei giovani soldati americani dalla guerra e dal suo orrore lacerati, mostruosamente deformati. Si sa quale trauma questi giovani portino in sé al loro ritorno, quale dissesto esistenziale e spirituale, quanti suicidi ne seguano.

Il titolo lascia perplessi perché la Valle di Elah è quella in cui David incontra e sconfigge Golia – come l’anziano padre racconta al piccolo figlio della dottoressa che gli sta dando l’aiuto decisivo –; ma chi è qui Golia, il gigante mostruoso, il simbolo del male? e chi il piccolo David? o si vorrebbe forse insinuare che il gigante malefico è l’Iraq e l’America il piccolo David tuttavia vincitore? Ma chi mai potrebbe crederlo? O forse si vuol dire che qui siamo nella valle di Elah, in cui il bene e il male si scontrano; qui, in questa base militare d’America, dove sostano questi reduci dissestati, qui il bene e il male si scontrano, e non David ma Golia sembra piuttosto uscire vincitore.

Certo il delitto è orrendo, e stupisce come il commilitone e colpevole lo racconti, quasi non fosse commesso da lui e dai suoi compagni. Con totale incoscienza, “sentii che il mio pugnale lo penetrava”; e allora decidono di farlo a pezzi poi che uno di loro era macellaio, e così seppellirlo; ma invece tentano di bruciarlo, poi abbandonano i pezzi di quel povero corpo allo strazio degli animali notturni del deserto. Perché avevano fame.

La storia di un padre che cerca il figlio, un padre militare che ha prodotto due figli militari, di cui il primo già è morto, e ora è la volta del secondo. Un padre orgoglioso di quella milizia di cui deve infine  vergognarsi. Un padre che cerca instancabile nei meandri della burocrazia locale e dell’esercito, sempre sollecito di coprire le sue magagne, l’onore della grande armata d’America. E una dottoressa e psicologa della polizia come lui instancabile. Per trovare che il figlio non è  certo morto da eroe.

Giovani soldati dalla goffa divisa mimetica, i capelli corti a spazzola, i volti inespressivi, il desiderio brutale, droga alcol sesso violenza, desiderio bestiale. Qui è la guerra, qui come in Iraq, dove il ragazzo ha travolto un bambino e hanno detto è un cane; e qui l’hanno travolto lui peggio di un cane. Qui è l’orrore della guerra, in questi ragazzi che la guerra ha straziato, e ancora straziano, e non si sa dove e come finirà l’orrore, dove e quando Golia sarà vinto.     

 

 

                              novembre 07

Jacques Becker - Il mio amico giardiniere

all’Odeon di Lecce, il 25/11/07.

Regista di medio livello; nel mio schedario Casco d’oro, del ’52, film di ragazzi e bande nella Parigi di fine ‘800, valori elementari e solidi, costruzione sicura.

 Qui l’amicizia tra un pittore che si è ritirato nella vecchia casa di famiglia in campagna, dopo la separazione dalla moglie (è Daniel Auteuil, uno dei maggiori attori francesi oggi) e un contadino ch’egli ricerca per poter avere un orto, e quindi dei prodotti freschi; e che scopre essere un suo vecchio compagno di scuola. Ma quest’amicizia non convince. Innanzitutto è difficile credere che i due siano coetanei, anche se il contadino ha fatto una vita dura come ferroviere e pompiere, ed è quindi maggiormente invecchiato. In secondo luogo l’amicizia non è profonda, né forse lo può essere, dato il divario culturale tra i due.

Nel film poi non succede nulla, se non la crescita dell’orto. Becker non approfondisce le eventuali linee di storia che ha sottomano. Così, il rapporto con la moglie, che incontriamo un paio di volte, e sembra essere persona fine e sensibile; anche se lui ha amoreggiato talvolta con le sue modelle, cose passeggere e insignificanti. O il rapporto con la figlia, ch’egli incontra una sola volta e si aliena bruscamente perché non approva il suo rapporto con un uomo piùmaturo. O con la modella che viene ospite da lui per qualche giorno, e a stento la vediamo.

Il  film si approfondisce alquanto verso la fine quando compare il tema della morte, evocato dal contadino che la sente prossima, anche se non ne conosce la vera causa; evocata con naturalezza e malinconia.

Un film sull’amicizia? Si, ma che non si approfondisce, resta in superficie. La vera amicizia è ben altro.

 

 

Emidio Greco - L’uomo privato

All’Odeon di Lecce, il 18/11/07.

Di Greco ricordiamo Milonga, dal ’99, uno pseudopoliziesco, un mondo di persone sole e senza senso.

Qui il pregio maggiore è il rigore stilistico, senza sbavature; l’uso sapiente della musica classica, della sua trascendente bellezza; l’alternarsi di ampi dialoghi e lunghi silenzi. La costruzione convince meno, sbanda talora su filoni morti, diventa enigmatica. Anche il suicidio dello studente, così come le sue registrazioni di momenti di vita del professore, risultano immotivati. Specialmente il suicidio, se il suo rapporto amoroso con la ragazza è iniziato dopo che il professore aveva rotto con lei.

Il film si dipana intorno alla figura di questo professore universitario di diritto, di cui sentiamo anche dei brani di lezione che non ci dicono molto; pur nella loro sensatezza e coerenza. Figura austera, chiusa, introversa. D’uomo solo – si è separato da quindici anni, e conosciamo la moglie, persona dolce, benevola; si stacca dalla ragazza, che pur incontrava solo ogni quindici giorni, e nonostante che la ragazza voglia restare con lui e lo implori. Uomo solo, chiuso in se stesso, patologicamente chiuso, arido, alieno da passione. Su quest’uomo la vicenda si fissa e resta immobile; una volta lasciata la ragazza, all’inizio del film. Egli va, viene, incontra qualche persona per ragioni professionali o altro, ma nulla accade. Il suicidio dello studente è come un corpo estraneo. Né si riesce ad immaginare quali potessero essere i suoi rapporti amorosi.

Un destino di esasperata solitudine. Non “l’uomo privato”, espressione insignificante qui, ma l’uomo “solo”. Di una solitudine strutturale, che gli appartiene, che non si vuole, non si può colmare. Solitudine che dovrebbe assurgere a simbolo dell'intima solitudine umana.  

 

 

Mimmo Calopresti - L’abbuffata

Al Santa Lucia di Lecce il 17/11/07.

Ci aveva piacevolmente sorpreso nel ’98 con La parola amore esiste. Ma gran parte della sua produzione è notevole per finezza e intensità: così il suo debutto, La seconda volta, del ’95; Preferisco il rumore del mare, del 2000; La felicità non costa niente, del  2003.

Qui c’è una straordinaria presenza del mare di Calabria, che torna sempre, la sua musica, il suo silenzio musicalmente forte; quasi un leitmotiv. E il paese bianco e rosso che vi si affaccia, disteso sulla collina. C’è un amore profondo per questo mare e questa terra.

Ma è il paese in cui nulla accade – lamento che più volte risuona –, da cui bisogna fuggire, cercare altrove, nel Nord. Soprattutto nulla accade qui, dove tre ragazzi velleitari e incapaci dicono di voler fare un film loro, su di uno spunto di storia locale, e cercano un attore, quasi che l’attore fosse tutto; prima in paese, poi a Roma, poi ancora in paese; dicono, dicono. E c’è una strana figura di regista il cui ruolo ci sfugge (Abatantuono, personaggio sempre simpatico nella sua semplicità), che probabilmente vive lì per una pausa, e contempla il mare. E alla fine compare il deus ex machina, Gérard Depardieu, caduto dal cielo non si sa come; ma la sua presenza si risolve in una grande cena popolare di  accoglienza, un’abbuffata che lo porta alla morte. Povero Gérard, così malamente strumentalizzato; l’attore che vuol fare tutto, accetta tutti i ruoli, e si lascia così maltrattare. Che poi lo si faccia anche morire, e non una figura che impersona come attore, ma lui stesso, è veramente di cattivo gusto.

Un paese dove la natura è bellissima, ma la gente incapace. Un film inesistente.

 

 

Fatih Akin - Ai confini del paradiso

Al Santa Lucia di Lecce, l’11/11/07.

Torna Fatih Akin, il regista turco-tedesco (in Germania c’è una colonia di almeno tre milioni di turchi, immigrati già dagli anni  Sessanta in poi, per supplire al bisogno di lavoro) che ci aveva sorpreso con La sposa turca del 2004, Orso d'oro a Berlino ( ma il vero titolo era  Gegen die Wand, contro il muro, battere la testa; ed esprimeva l’estrema alienazione di quel film, che pure si apriva ad una redenzione possibile). Ha avuto ora a Cannes il premio per la miglior sceneggiatura.

Anche qui siamo sempre tra Germania e Turchia, qui tra Brema ed Istambul. Siamo sempre nell’alienazione. Qui l’anziano padre vedovo e solo chiede ad una prostituta di vivere con lui, a pagamento, avendo lui come unico cliente; strano contratto, nel quale non entra in nessun modo l’amore o la benevolenza o la simpatia. Ne nasce una convivenza astiosa, e in un litigio con l’anziano la donna, percossa, batte la testa contro uno spigolo e muore. Casuale, certo, ma l’anziano finisce in prigione, e quando esce  deve lasciare la Germania e torna al suo paese, Trebisonda, dove ha una casa e un piccolo podere, e passa il tempo a pescare.

Il figlio è professore di letteratura tedesca all’università. Strano, diremmo, ma accade. Un tipo buono, un po’ rustico. Ha conosciuto la inusuale compagna del padre, ha saputo che lei faceva la vita per mantenere agli studi la figlia; parte per Istambul per cercarla; riempie la città di manifesti con la foto della madre.  Strano anche questo, poco verosimile; forse spera di trovare in lei una moglie o una compagna turca di un buon livello culturale.

Ma la ragazza fa parte di un gruppo sovversivo che la polizia sta stanando ed è costretta ad espatriare con un passaporto falso per la Germania, e giunge proprio a Brema, dove pensa viva la madre. È una ragazza forte, piuttosto dura; alla mensa universitaria incontra casualmente una studentessa tedesca, Lotte, e ne nasce un’amicizia intensa, un amore lesbico. Ma una sera la polizia le ferma, e la ragazza turca viene espulsa perché non ha il permesso di soggiorno, e finisce in prigione. E Lotte parte per Istambul, per ritrovarla, perché a lei è legata. Ma un ragazzo la uccide, dopo averle rubato la borsa con la pistola dell’amica che lei aveva recuperato.

Allora è la madre di Lotte che viene ad Istambul per capire cos’è accaduto alla figlia. Questa madre è Hanna Schygulla, grande attrice ora molto invecchiata e ingrossata.

Un film troppo complesso, dove le persone si perdono e si cercano senza fine. Dove nulla di serio, di forte può svilupparsi: amori, passioni. C’è un’umanità sofferente che il caso sbatte di qua e di là, in un’incoerenza totale. Forse questo voleva dirci il regista? Questa casualità dolorosa c’era già in Gegen die Wand. Ma perché ai confini del paradiso? quale speranza v’è mai qui?

Il film è diviso in tre episodi.

 

 

Roberto Faenza - I Viceré

Al Santa Lucia di Lecce, il 10/11/07

Faenza è regista di valore, anche se non sempre raggiunge il suo scopo. Nel mio schedario tre film, Prendimi l’anima del 2003; I giorni dell’abbandono del 2005, cioè di una donna abbandonata dall’uomo; Alla luce del sole del 2005, la storia di un parroco ucciso dalla mafia. Ma bisognerebbe parlarne, per non cadere nella banalità.

Qui Faenza riprende il famoso romanzo di Federico De Roberto e costruisce un grande affresco sulla Sicilia dell’800, su di una famiglia aristocratica discendente dai viceré spagnoli, sulle figure, le pretese, le bassezze, l’avidità, l’orgoglio insensato. Il film ha una forte tensione morale nel ricostruire questa società e il suo vizio. Campeggia anzitutto la figura del padre (forte interpretazione di Lando Buzzanca), figura che si esalta di orgoglio aristocratico, autoritaria, avida di possesso (riesce ad impadronirsi dell’intera eredità, sfruttando la debolezza del fratello libertino), e che raggiunge il parossismo della sua folle esaltazione nel teorizzare l’odio; non l’amore, è l’odio che fa forti, fa grandi. Punto alto del film.

Di fronte a lui cresce il figlio, che ha sofferto del suo autoritarismo, della sua follia repressiva; che ha lasciato la famiglia e vi ritorna quando la Sicilia è stata liberata da Garibaldi e la democrazia sta per costituirvisi. Il padre muore. Il figlio aderisce al nuovo sistema ed entra in campagna elettorale. Figura forte, di giovane ardente e volitivo. Ma non si è liberato interiormente. “La proprietà è un furto”, il famoso principio proudhoniano, è ripetuto da lui come uno slogan che non deve toccare la proprietà reale, la sua innanzitutto; e il suo programma politico è un ibrido furbesco in cui tutto si mescola, il popolo, il re, il papa. Il programma del qualunquismo, in cui Sinistra e Destra non differiscono, sono la stessa cosa. Dove si risente l’eco di certo qualunquismo attuale, quando la Sinistra, o almeno una sua parte importante, l’erede del grande PCI, ha rinunziato a molti dei grandi ideali.

 

 

Carlo Mazzacurati - La giusta distanza

Al Santa Lucia di Lecce il 4/11/07

Dopo L’amore ritrovato, del 2004, un altro film di livello, rispetto alle incertezze del passato. Un regista che forse ha maturato la sua personalità.

La «giusta distanza» compare come suggerimento del direttore al giovane cronista, che non deve lasciarsi coinvolgere dai fatti. Ma la giusta distanza è forse ancor più quella che la giovane maestra (Valentina Lodovini), giunta dalla Toscana, dovrebbe osservare nel piccolo paese del delta padano, pieno d’uomini che guardano e cupidi desiderano, d’immigrati dal carattere oscuro. Bello il suo tipo di ragazza aperta e franca, luminosa. Ma strana quella casa con le pareti a vetrata e senza tende, dove la sera si vede tutto quello che la ragazza fa, anche in camicia da notte; spiata da occhi d’uomini nel buio. Non ci sono in Italia case simili; in Olanda forse, in America. L'italiano è molto più geloso della sua intimità.

Anche il cedere della ragazza alla profferta del tunisino dalla parola scarsa e scabra, è troppo rapido. Irreale. La cortesia è altra cosa, ed è bella e nobile in  lei; la cortesia con gli uomini che oscuramente la desiderano; e il sapersi destreggiare. Ma il legame col meccanico tunisino è certo inteso da quegli uomini rudi come di donna facile. Della scuola non si vede quasi nulla; la vicenda è tutta in quell’intrecciarsi di amicizie maschili, e nel legame col tunisino, uomo serio peraltro, ma troppo da lei diverso, che può spiegarsi soltanto col bisogno d’uomo della donna, con la sensualità di un tipo peraltro spirituale.

La tragedia giunge non inattesa; ma la si penserebbe provocata dall’amore del tunisino, tenebroso, e risentito della partenza di lei (va in Brasile, in un programma di cooperazione). E infatti lui è accusato e processato, e in carcere si suicida.  Era un amore vero il suo. Risulta invece scarsamente credibile che sia stata uccisa dal ragazzo dell’autobus, ragazzo gentile e scarsamente presente alla sua vita.

Il film s’apre sulla visione bellissima del grande fiume, il  Po verso la foce, e i grandi campi verdi, la natura, la campagna che si distende vicina e lontana; mentre scorrono i titoli. Presente sempre. Campeggia nel grande schermo. La storia è costruita con sapienza; buone e forti le caratterizzazioni, gli uomini rudi del paese sperduto nella campagna immensa.   

 

 

                               ottobre 07

Francis Ford Coppola - Un’altra giovinezza

Al Santa Lucia di Lecce, il 28/10/07.

Ma il titolo originale era più significativo, Youth without youth, Giovinezza senza giovinezza; e così è.

Coppola, l’autore del Padrino, di Apocalipse now, di Rusty il selvaggio, riprende il lavoro dopo un’interruzione di dieci anni, ispirandosi ad un romanzo di Mircea Eliade, uno dei maggiori studiosi del fenomeno religioso ed esoterico, rumeno ma attivo in Francia.

Al centro sembra porsi l’aspirazione umana verso la perenne giovinezza, che compare nell’antichità come un mito o un sogno; ma che diventa nella modernità un’utopia concreta, cioè un progetto-processo che si va attuando e si attuerà sempre più. Qui lo studioso settantenne di lingue antiche, colpito da un fulmine, si ritrova quarantenne. Si dice che la potenza della scarica elettrica ha rigenerato e potenziato il suo sistema neuronale e l’intero sistema psico-somatico. Ma la sua nuova vita è presa prima dagli studi che si fanno su di lui, poi dalla fuga dalla Romania nazista; e solo l’incontro con Veronica, la ragazza colpita anch’essa dal fulmine, gli ridarà una breve intensa vita amorosa.

Inoltre  il ringiovanimento ha creato in lui un doppio: punto oscuro, perché l’altro è uguale a lui, non è l’anziano che ha lasciato, con solo punti di dialettica interiore. Fosse l’anziano, la storia acquisterebbe maggiore unità, in quanto l’anziano rispunterà alla fine. E però questo ritorno, che poi è decisivo e finale, perché Dominic si ritroverà alla fine improvvisamente il settantenne dell’inizio (e lo raccoglieranno morto nella neve); questo ritorno farà ripiombare l’esperienza di giovinezza nel sogno, nell’irrealtà totale.

La vicenda della ragazza è un altro punto oscuro. V’è probabilmente anche qui un mito, quello del dominio del tempo: il fulmine la riporta nella conoscenza di lingue sempre più antiche (il sanscrito, il sumero); un po’ come nella Macchina del tempo di Wells; ma nel suo retrocedere, essa rapidamente invecchia; e quindi soggiace ancor di più al tempo.

La storia sembra condannare queste aspirazioni umane all’irrealtà, al mito. Ma è contraddittoria e oscura. L’uomo, Dominic (Tim Roth), è figura che risente d’irrealtà; freddo, quasi impersonale, quasi irreale anch’esso, la breve parentesi di passione non lo muta.

Nel film si sente l’esperienza di Coppola, a tratti, la sua abilità nel trattare l’immagine, nel metamorfosarla. Ma v’è anche una patina di vetusto. Il film non convince; Coppola non ha saputo correggere le contraddizioni; inoltre è arido, manca di vitalità, di forza vitale.

 

 

Silvio Soldini - Giorni e nuvole

Al Massimo di Lecce, il 27/10/07.

Soldini torna con un film maturo, ben costruito, nella sua produzione un po’ ineguale. Gli ultimi tre, Agata e la tempesta del 2004, Brucio nel vento del 2002, Pane e tulipani del 2000, erano in parte pregevoli, e bisognerebbe parlarne, se possibile.

Qui la storia della decadenza di una coppia (e piccola famiglia, c’è una figlia) per la perdita del lavoro. Veramente non è proprio questo il tema, che sarebbe di un’attualità bruciante; perché l’uomo è un imprenditore che è stato estromesso dai suoi soci (ma non è chiaro come mai non abbia  ottenuto la sua parte del capitale d’impresa, che ne avrebbe compensato la situazione economica); la donna è una restauratrice dilettante, che presta la sua opera gratuitamente. Antonio Albanese e Margherita Buy, molto bene. C’è semmai realissima la difficoltà di trovare un lavoro per un quarantenne, questo sì, un problema vero e molto sofferto. O per una quarantenne. Salvo occupazioni brevi e precarie.

Qui è soprattutto il ridursi dello status  e del tenore di vita: vendere l’appartamento e andare in affitto in una casa più piccola, vendere la macchina, il denaro che scarseggia, la ricerca affannosa di un posto. E quindi i conflitti che insorgono, in una coppia tuttavia di persone equilibrate e molto affiatate; conflitti fuggevoli, come nuvole, che passano in cielo. Quel cielo grande che spesso compare. Molto presente la città, Genova, che spesso compare sul grande schermo, si distende, i suoi palazzi e uffici dove si pensa ci sia tanto lavoro, le sua case arrampicate sulla collina, la lanterna, il mare. Presenza della città, bellezza, anche se il cielo è burrascoso.

Un film sull’amore vero, concreto, forte; una coppia che si ama profondamente; e nell’amore si ritrova come nel tesoro più grande della vita; più grande e più forte delle avversità che sulla vita si abbattono.

 

 

François Ozon - Angel

all’Odeon di Lecce il 21/10/07.

Ozon è regista francese di medio calibro, che però ha fatto per lo più film decorosi; in particolare Sotto la sabbia, del 2001, storia di un uomo che scompare in mare, e della sua donna che non accetta la sparizione e lo sente vivo.

Qui costruisce una specie di sontuoso feuilleton, un romanzo popolare su di un’autrice inglese di romanzi popolari, di cui è uscita la biografia (anche in italiano, da Neri Pozza), Maria Corelli.

Una scrittrice spontanea, che non ha preparazione culturale o letteraria, che ha letto solo qualcosa di Shakespeare; ma ha questo dono della facile e rapida scrittura di sentimento e cuore, la quale  subito tocca l’animo della gente, anche se solo in superficie; e raggiunge così un grande successo di vendite e di popolarità, e anche di denaro. Successo effimero perché alla fine, quando già è morta, giovane ancora,  un signore dirà «nessuno legge più i suoi romanzi; le mode passano».

Una figura di grande vitalità e vivacità (Romola Garai la impersona). Che però spicca nel film come personaggio egocentrico, narcisista, teso solo all’affermazione di sé, vede solo se stessa. Dura anche, come sempre l’egoismo. Già al primo romanzo non consente che neanche una parola venga toccata; fatto improbabile, ma rivelatore. Megalomane, vive in un castello immenso, che fin da adolescente aveva invidiato e desiderato; a un grande party in suo onore giunge come un’apparizione dall’alto, e ostenta il suo ritratto.

S’impadronisce dell’uomo di cui s’infatua, e lo fa suo, lo sposa senz’altro. Mentre quell’uomo non è certo adatto a lei; è un pittore bohémien di cui lei non capisce neppure l’arte; ha altri gusti, altro stile di vita. Inoltre è legato a un’altra donna da cui avrà un figlio. E però è anch’egli egocentrico e narciso, e disonesto nell’accettare; e parte subito per la guerra forse per liberarsi di lei; e torna privo di una gamba,  non resiste alla terribile prova e s’impicca. D’altronde in questa storia di grande melodramma si doveva giungere alla tragedia; ad una prima, cui seguirà la morte dell’eroina, colpita dalla desolazione e dalla malattia.

La storia è dunque dominata da due figure egocentriche ed egoiste, che finiranno per fare e farsi del male; in contrasto coi grandi amori del romanzo popolare che ne è lo sfondo.

C’è una figura generosa e buona, ed è la segretaria e amica del cuore; ma è marginale.  

 

 

Tony Gilroy - Michael Clayton

al Massimo di Lecce il 14/10/07

Un film di cui la critica in genere ha parlato bene, forse per la presenza di un attore come Gorge Clooney. In realtà Gilroy è uno sceneggiatore alla sua opera prima, con forti difficoltà nel costruirla. Dimostra una certa finezza nell’immagine, in certe inquadrature, ma non sa costruire la storia, non sa montarla in modo coerente, per cui ne viene una storia oscura, dispersiva, spesso anche banale.

Clayton è una figura singolare. Un perdente, che ha perso la moglie e vive in solitudine, cercando di curare un po’ il piccolo figlio; la moglie s’intravede appena. Si era fatto un bar con ristorante, e anche quello l’ha perso. Ha il vizio del gioco, e lo vediamo al tavolo verde clandestino in uno scantinato. Sarebbe un avvocato che lavora in un grande studio legale, ma fa un mestiere più misero e sporco, di tessere trame, o disfare quelle in cui lo studio s'impiglia. Qui il processo di una grossa impresa che ha avvelenato qualche centinaio di persone con un diserbante.

Il clou sembra essere uno dei soci dello studio che non si capisce bene se è un drogato o un depresso in cura o un pazzoide; o se finge tutto questo perché in realtà ha in mano il documento che mette a k.o. l’impresa disonesta, e vuole giocarlo senza che nessuno lo possa fermare; tanto meno il suo socio e boss dello studio (ne ha preparato un centinaio di copie; ed è attraverso la ricevuta della copisteria che Clayton lo scopre). Ma è spiato da professionisti dell’impresa e ucciso con una di quelle iniezioni che non lasciano traccia; e quindi creduto suicida.

Clayton però sospetta e ne penetra l’appartamento in cerca di prove; e trova in un libro quella ricevuta, e quindi il documento. E lo sbatte in faccia all’avvocatessa dell’impresa (Tilda Swinton, qui donna dura, aggressiva), che sta tenendo la riunione decisiva, certa di vincere. Allora tentano di sopprimere anche lui con l’esplosivo in macchina, manovrato da un’altra macchina che lo segue; che egli semina, forse involontariamente in quanto ha lasciato il gioco ch’era quasi mattino e va a prender aria, e sale un pendio dove ci sono dei cavalli. Lo raggiungono, la macchina salta, ma egli è salvo sul pendio. Si è redento, ha compiuto il passo coraggioso che redime una vita.

La scena dello scoppio si ripete due volte, all’inizio e alla fine, non priva di suggestione. Clooney risulta sempre attore di grande appeal, grande statura, grande stile.

 

 

Julie Delpy - 2 giorni a Parigi

al Santa Lucia di Lecce il 7/10/07.

Julie Delpy, l’attrice scelta da Kieslowski per il film Bianco, il primo della sua trilogia dai colori della bandiera francese; e che ha vissuto e lavorato in America con Linklater nei due film Prima del tramonto e Prima dell'alba; e con altri registi. Un tipo di giovane donna che colpì al suo primo apparire ma non riuscì ad imporsi nel cinema francese, e che ricompare ora come sceneggiatrice (aveva già praticato la sceneggiatura) e regista, e anche protagonista di questo film  accolto dalla critica con una certa attenzione; che però non merita.

Un’opera scialba, divagante, senza storia e senza senso.

La ragazza Marion e il suo ragazzo Jack, un ragazzo americano che avrebbe ucciso d’impeto a 19 anni; incredibile che non si trovi ancora in qualche prigione USA. Un tipo debole, timoroso di raffreddori e allergie e fobie varie; un carattere informe. Marion, ragazza vivace ma contraddittoria e inconcludente.

In questi due giorni non accade nulla. C’è un falso compiacimento in particolari morbosi, quasi dovessero avvivare il film; e uno sbandare nel macchiettistico, come la figura del padre, o anche della madre; e in certi tassisti del loro vagare per Parigi.

Il film per oltre la metà è parlato in francese, con quei sottotitoli che il cinema dovrebbe sempre evitare perché rovinano l’immagine.

 

 

Neil Jordan - Il buio nell’anima  

al Massimo di Lecce il 6/10/07.

Neil Jordan ritorna con un film forte, persino atroce, che riprende il tema del giustiziere, ma in un modo suo particolarissimo. E però il titolo originale, The brave one, che vorrà dire? La coraggiosa?  Ma sfida e coraggio non sembrano essere categorie adatte per Erika  (Jodie Foster) e la condizione in cui si trova.

Qui dunque una  donna, con un programma radiofonico particolare su aspetti inediti di New York, la metropoli dove tanti delitti avvengono. Una donna  piccola, minuta, tutta nervi. Legata ad un medico nero, si amano davvero molto, pensano di sposarsi presto, e una sola volta in vita, lei dice. E vanno a passeggiare la sera nel Central Park, forse tranquilli perché hanno con sé il cane; ma i criminali sono riusciti a legarlo e li assalgono poi con violenza e li percuotono a morte. E infatti l’uomo amato muore in ospedale, mentre lei resta in coma per tre settimane; e quando si riprende lo hanno già sepolto, purtroppo.

Il dolore è atroce, nulla più è come prima, lei si sente un’altra; si sente abitata da un’altra persona abbandonata a una desolazione insuperabile, fors’anche ad una inconsapevole volontà di giustizia,  di vendetta. Riprende, sia pure con difficoltà, le sue conversazioni, che il pubblico ama.

Compra al mercato nero una pistola; non può comprarla legalmente perché ci vorrebbe tempo e lei ne ha subito bisogno, non si sente sicura. Ed esce la sera dassola, in luoghi anche solitari e pericolosi, giardini oscuri, metropolitane notturne. Forse cerca, ancora inconsciamente, i criminali che le hanno ucciso l’uomo amato; cerca forse la vendetta.

Si  succedono i tre episodi. Nel piccolo supermercato colpisce l’uomo che aveva ucciso la moglie o amante, e che avrebbe ucciso anche lei come teste. Nella metropolitana notturna colpisce i due balordi che vorrebbero violentarla e seviziarla. Nel parco colpisce l’anziano puttaniere che avrebbe voluto investire lei e la ragazza che gli aveva sottratto. È sempre quell’altra persona che si è impadronita di lei a colpire; mentre lei vive in un’alienazione quasi totale; alienazione e disperazione. Lo rivela il volto,  tensione e dolore, l’insonnia notturna.

Intanto la polizia ha individuato la pistola, sempre la stessa; ha individuato la presenza probabile di un “giustiziere”. E lei incontra casualmente, mentre raccoglie voci per il suo lavoro, il poliziotto che segue questi casi; un nero onesto e simpatico che a lei s’interessa (Terence Howard); e un certo rapporto si stabilisce. E anche il sospetto. Intanto la vicenda precipita: lei ha individuato i colpevoli, e li sorprende e li uccide; ma anche il poliziotto ha individuato il luogo e accorre e la coglie mentre sta per colpire il terzo, e decide che lo colpirà; perché è giusto, e perché sarà la sua liberazione.

 

Opera inusuale, condotta con finezza, coerenza. Il male che assedia la città e resta per lo più impunito; un bisogno di giustizia che si adempie per una forza sua, per una necessità insieme aliena e dolorosissima, quasi a prescindere dalla persona; una sofferenza insuperabile che forse si placherà. Opera di dolore grande. Il dolore di vivere, di certe vite, di ogni vita.

 

 

Ken Loach - In questo mondo libero

all’Odeon di Lecce il 3/10/07.

Il caposcuola del nuovo film proletario inglese ritorna con un’opera di grande forza, grande tensione, grande significato sociale.

In questo mondo libero avvengono queste cose. Siamo in un paese libero, dice Angie, la trentenne che, licenziata da un’agenzia di lavoro, ne organizza una sua, con l’amica Rose, che ha delle perplessità, anche in seguito sempre, ma tuttavia resta; complice preziosa. La trentenne spregiudicata, cinica, avida di denaro. Sfruttare gl’immigrati affamati di lavoro ma senza possibilità di averne uno regolare, tutelato dalla legge; perciò alla mercé di queste agenzie anch’esse illegali che si prendono laute provvigioni, e dei padroni che li sfruttano atrocemente; o anche della malavita. Ma accorrono come mosche in quel cortiletto in cui giorno per giorno si decide la loro sorte; e pregano, implorano. La trentenne fredda spietata che percorre in moto le periferie squallide, fatiscenti; sfreccia da un posto all’altro.

Ma dov’è il governo inglese, il governo laburista, il supposto governo dei lavoratori? dov’è la polizia di quartiere, che di queste cose dovrebbe accorgersi? che fa l’Europa per questi lavoratori di cui pure ha bisogno? perché non dà loro una casa e un lavoro certo?  Dov’è il rispetto per la persona umana, per la sua dignità e il suo diritto? mentre a questa gente nessun diritto è riconosciuto.

Tutto sembra andare liscio per le due sfruttatrici, ma a un certo punto l’incidente le sorprende; quando uno  di questi pseudopadroni, che lavora per la malavita, non solo non riceve il prezzo pattuito ma viene preso a botte. E i lavoratori restano senza compenso, 40.000 sterline. La ragazza ha del denaro, potrebbe dar loro un acconto, essere generosa. Ma resiste dura. E così è presa a botte per la strada; poi due uomini mascherati la sorprendono in casa, la legano e incerottano, e le prendono quell’acconto di 10.000 sterline ch’era stato loro negato.

Ma tutto prosegue. Ora ha trovato una nuova sede e pensa di pagarla arruolando lavoratori ucraini; e giunge persino a telefonare alla polizia per far sloggiare degli abusivi onde metterci i suoi. Davvero ripugnante. E la troviamo alla fine in Ucraina, mentre sta arruolando delle povere donne che per il lavoro promesso pagano un acconto.

Il crimine dunque continua. Non v’è castigo, non catarsi, solo amarezza.

 

 

                            settembre 07

Mohsen Makhmalbaf - Viaggio in India

All'Odeon di Lecce, il 23/09/07.

Il grande maestro iraniano ritorna con questo film che è come una continua ricerca su Dio e sulle contraddizioni che tormentano il mondo, la sua creazione. Un viaggio di nozze, di per sé, dove la donna è credente e vorrebbe raggiungere quello ch'essa chiama "l'uomo perfetto", un profeta o un saggio indù; mentre l'uomo è comunista e agnostico. Un viaggio che spazia su grandi distese deserte, su città e villaggi pieni di poveri, di bambini e mamme che dormono sulla strada, e giunge infine al Gange, il fiume sacro. Un viaggio e una discussione continua.

Dove il primo episodio è quello del taumaturgo che con gli occhi ferma il treno. Ma il taumaturgo confessa che il treno viene fermato dal conduttore che lo scorge tra i binari a braccia alzate; e lui vorrebbe tornare a casa sua e alla sua famiglia, ma è prigioniero di questa gente che crede nel miracolo e lo vuol vedere rinnovarsi ad ogni passaggio di treno. Prigioniero della superstizione.

E giungono in città e villaggi pieni di poveri, addirittura il 90% della popolazione indiana vivrebbe nella povertà; e pullulano di bambini scalzi e sporchi che chiedono denaro, vivono e dormono sulla strada. E si pone il problema di un Dio che ama i poveri e però li  abbandona nella povertà, mentre i ricchi li riempie di beni; perché anche questi beni, questa ricchezza proviene da Dio. E dunque? come si sostiene il principio evangelico? (in realtà il suo senso è altro, e più complesso).

E giungono al Gange, il fiume sacro, dove tutti vorrebbero morire ed essere inceneriti e le le ceneri disperse nel fiume; per sfuggire alla reincarnazione, al rinnovarsi di una vita dominata dal dolore. Perché questa è la visione della vita umana; nel buddismo ("tutto è dolore"), come nell'induismo su cui il buddismo si è edificato. Che anzi il monaco di origine tedesca, che ha abbandonato l'Occidente per la saggezza indiana, sviluppa un lungo conversare in cui tutto è immerdato e la merda piove dal cielo sugli uomini. Nel mentre lungo il fiume bruciano i cadaveri, e nel fiume avvengono le immersioni purificatrici (grotteschi questi uomini che si denudano, s'immergono nudi, le lunghe barbe scolorite scomposte); cui la donna partecipa, con insistenza, con devozione. La credenza nella reincarnazione è vista come infausta, ingiustamente afflittiva per questo popolo. 

Conclude il detto che l'uomo perfetto aveva scritto con succo di cipolla e che solo al calore del fuoco poteva leggersi: che lui ha percorso monti e vallate, e ha però  compreso che l'universo si raccoglie anche solo in una goccia d'acqua su di una foglia. Che dunque era inutile viaggiare e ricercare lontano; bastava raccogliersi sull'essere-non essere di quella goccia, in cui si svelava il mistero di Dio e del mondo.

Che cos'è questo film? una critica della cultura indiana? Sembrerebbe, ma in termini di grandi problemi umani. Forse un'opera meno composta e armoniosa rispetto ad altre.

Makhmalbaf ama le grandi immense distese in cui l'uomo si perde nella sua piccolezza e nel suo nulla; e ama il colore, in questi suoi film popolati di povertà e di miseria, ma anche di speranza.

 

 

Riccardo Milani - Piano, solo

al Massimo di Lecce, il 22/09/07.

Il quarto film di questo regista quasi cinquantenne, romano, che ha lavorato anche in serie televisive, ma raggiunge qui la sua piena maturità, il pieno dominio dei mezzi costruttivi ed espressivi, raggiunge l'arte. Tra i precedenti il più significativo è forse il terzo, Il posto dell'anima, del 2003, il posto di lavoro minacciato dalla multinazionale americana che vuol chiudere; la lotta operaia, tenace e disperata.

Piano, solo è la storia vera di Luca Flores, un pianista di jazz, già raccolta da Walter Veltroni nel libro Il disco del mondo.

Il nodo tragico che tormenta questa storia è l'incidente in cui muore la madre, proprio mentre scambiava sguardo e sorriso col piccolo Luca. Una madre prosperosa, traboccante di sentimento e di affetto (Sandra Ceccarelli). Guidava, e quegli sguardi amorosi l'hanno sviata e portata alla morte; mentre i bambini, che stavano dietro, si sono salvati.

Questo nodo tragico ha spezzato l'infanzia di Luca, l'età felice, ha infranto il "nido d'amore" in cui era immerso, ha segnato la sua vita per sempre.

 

Lo troviamo subito adulto, alla prova finale di conservatorio; con quel piano su cui aveva battuto le prime note insieme alla madre. Il piano che è tutta la sua vita. Col quale percorre una carriera nel jazz, casuale quasi, per l'invito di due jazzisti che avevano assistito alla sua prova. Ma il tormento l'accompagna sempre e noi lo leggiamo sul viso scavato, doloroso, drammatico di Kim Rossi Stuart. Qualcuno ha detto che quel viso è monocorde, fissato in quella maschera drammatica; ma penso che così doveva essere.

Il tracollo a quel suo tanto amato e sofferto impegno pianistico è dato da un'altra morte tragica, quella di Chat Baker, che lo aveva voluto con sé in una tournée europea. Inizia il distacco, inizia lo squilibrio; poi l'abbandono, il lungo viaggio in Africa in moto; il ritorno, incapace ormai di suonare. Avrebbe forse potuto salvarlo l'amore; se quella ragazza cui era legato, Cinzia, e che di lui era incinta, non fosse stata così rapida a provocare l'aborto in seguito alla apparente indifferenza di lui; se fosse stata un pochino più perspicua, più saggia e paziente. Perché quel momento in cui egli le dice "ti sposo, facciamo una famiglia", può essere il momento della sua risalita, della salvezza; rivivendo in quella "famiglia" il rapporto materno-paterno, e il nido d'amore. Ma il figlio non c'è più, la ragazza ha abortito, e il suo diniego segna il punto del non ritorno.

Dolorosissima la fase finale, l'ascesa della follia, fino al suicidio, che giustamente non si vede; ma s'intravede l'ombra di un cappio.

Il pianoforte, col suo suono intenso, pregnante, alternandosi col silenzio, vibra luminoso-tenebroso lungo questa storia bellissima. Bellezza nel dolore.

 

 

Andrea Molaioli - La ragazza del lago

al Massimo di Lecce il 16/09/07.

Opera prima di un collaboratore di Nanni Moretti e di altri registi. Romano, quarant’anni. Ha la mano sicura; ma dietro c’è il romanzo della norvegese Karin Fossum. E però uno stile sicuro, essenziale, forse un po’ freddo, che costruisce con sicurezza la dolorosa vicenda; con sicurezza conduce il dolore e l’ansia che la pervade.

Un thriller, un giallo, uno dei temi più sfruttati dai film come dai telefilm; in genere scarsi di senso e di passione, e carichi di violenza. La televisione, in particolare, ne fa grande uso; e questo è male perché diffonde violenza. Pensiamo a quanto si siano ripetuti, negli ultimi anni, i "delitti  di famiglia".

Qui c’è anzitutto un prologo, o un inizio deviante, la bambina che incauta sale sul furgone rosso (strano, perché le madri insegnano ai bambini a non montare mai su di un mezzo estraneo, e neanche a parlare con persona estranea) e la ritroviamo poi nella rude casa del matto (buono, si dice) e la seguiamo ansiosi sino a che non viene recuperata dal commissario.

Toni Servillo, il commissario pensoso e tormentato di questo film; il commissario che lavora fine, instancabile, quasi una rete intesse; fino a che la soluzione balza da sé, da uno dei soggetti possibili ma non direttamente sospettati. In realtà egli aveva fermato il fidanzato della ragazza uccisa, soffocata nelle acque del lago; nel cui rustico si era trovato lo zainetto di lei. La ragazza, Anna, studentessa ed atleta, giocatrice di hockey su ghiaccio.

 

Famiglie tormentate sullo sfondo. Quella stessa del commissario, la cui moglie è colpita da una malattia degenerativa, una forma di follia, e ricoverata; mentre la figlia, provata negli affetti, è chiusa e sdegnosa. La coppia di cui la ragazza uccisa curava il piccolo, e molto lo amava, Angelo (è in seguito a questo dramma ch’essa si ritira dall’hockey), morto tragicamente, soffocato da un biscotto; donde poi i sensi di colpa, le accuse, i conflitti, che portano la coppia a dividersi.

Ed è proprio col giovane marito diviso che la ragazza uccisa aveva un rapporto amoroso; forse mediato dall’amore per il piccolo. Ma questo lo scopriamo solo alla fine (e però come mai nessuno se n’era accorto?); quando l’uomo in modo inopinato e inatteso confessa al commissario il delitto; e  non è credibile, non ha precedenti né motivazioni; e non sembra essere un raptus. Racconta ciò ch'è spaventoso senza spavento né angoscia, senza dolore né rimorso, come un fatto qualunque. Un delitto facile troppo. E però facilitato anche dal fatto che la ragazza probabilmente voleva morire perché colpita da una malattia mortale, un tumore al cervello. Confessione decisa e fredda, quasi cinica. Anche qui manca ogni catarsi.

Compare a tratti la bellezza di una natura intatta, la montagna, i pendii boscosi, il lago. Il Friuli, una zona di persone perbene; una cittadina piccola, belle villette in cui stanno chiuse le famiglie, nessuno per strada. Il dolore sta chiuso in quelle case, belle ma desolate.

 

 

Jonathan Kasdan - Il bacio che aspettavo

al  Massimo di Lecce il 13/09/07.

 Titolo italiano stupido; allude forse ad una risposta più calda che le due donne si attendevano; ma il vero titolo è  In the Land of Women, in un mondo di donne. Jonathan è figlio di Lawrence Kasdan, regista di buon livello (nel mio schedario Turista per caso, dell’89, un film tormentato).

 

Questo invece un film fine e semplice, di vita quotidiana, diremmo; di quella quotidianità che può contenere momenti tragici come la morte, la malattia tumorale, il tradimento.

Nucleo poetico è la figura del ragazzo, Carter, ragazzo semplice e saggio, diverso dagli altri; che ad esempio sceglie di andare ad assistere la nonna, anziana e un po’ demente, per avere un periodo di  calma e silenzio  in cui riflettere, dopo l’abbandono della ragazza che amava; riflettere e scrivere.

Qui il suo fascino. Sulla vicina più matura di lui, madre di due figlie, donna che sente la malattia incombere, che il marito tradisce; donna non priva di bellezza e gusto (Meg Ryan); che gli si abbandona e cui egli risponde ma più nel senso dell’affetto, e con un distacco di fondo. Così come alla figlia che ne ha ammirato il comportamento e ne sente la superiore forza d’animo, e lo assale di baci. E anche la piccola gli si dichiara ingenuamente.

Quest’incanto affettuoso si scioglie: da un lato la morte improvvisa della nonna; dall’altro la malattia della donna, il tumore al seno, l’intervento, la chemioterapia. Lui le ha scritto una lettera di pacata affettuosità.

Musiche troppo forti e inadatte disturbano la parte iniziale.   

 

 

Vincenzo Marra - L’ora di punta

all’Odeon di Lecce il 909/07.

Un altro film presentato quest'anno a Venezia; di un regista che è alla sua terza opera, dopo Tornando a casa e Vento di terra; film che mi sono sfuggiti. Ma che significa qui "l'ora di punta"?

 

L’ascesa spregiudicata del giovane Filippo, entrato nella guardia di finanza come spesso accade ai giovani del Sud dove il lavoro è scarso; ma anche seguendo le orme del padre. Una guardia di finanzia spregiudicata e corrotta, dove tutti sono d’accordo nell’usare le inchieste come mezzo per far denaro, per intascare mazzette; investendo poi in imprese in difficoltà, che si svendono. I giovani, come l’anziano ufficiale da cui dipendono. Siamo a Roma.

Il Filippo pronto a strumentalizzare anche la signora di mezza età, ma non priva di bellezza e di fascino (Fanny Ardant); la quale s’illude di aver trovato in lui un nuovo amore; e lo introduce nelle sue conoscenze, nella società romana, la politica, la banca; gli offre la bella casa che non aveva più aperto da quando il marito era morto; la casa in cui il nuovo “dottore” insedia il suo studio, il suo centro di luridi affari. La vediamo con gli occhi angosciati nella scena finale, occhi dolorosi e delusi, che ormai più non credono.

Così strumentalizza la ragazza giovane che cede al suo millantato prestigio e ai suoi regali; la ragazza che vuole l’amore vero, il rapporto vero ed esclusivo; e ch’egli abbandona nella desolata strada di periferia.

E infine, con un unico colpo di pistola uccide l’imprenditore cui aveva estorto denaro, e che ora minacciava di ricattarlo col documento imprudentemente lasciato nelle sue mani. Il delitto, l’estremo dell’abiezione.

A questo punto il film improvvisamente finisce. Inopinatamente. Mentre è chiaro che la carriera del disonesto rampante doveva raggiungere il suo apice per trionfare, o piuttosto per crollare; ristabilendo l’ordine delle cose, la giustizia. Come in Barry Lindon di Kubrick, che pur non aveva usato né l’inganno né il delitto.

Un film notevole nella storia, nella costruzione del personaggio, nello stile: l’uso del primo piano, l’insistere sul volto; l’uso sapiente del silenzio e della musica. Ma resta monco, e in questa incompiutezza disperde il suo senso.

 

 

Andrea Porporati - Il dolce e l’amaro

al Massimo di Lecce, l'8/09/07.

Il regista si era mosso  nel delitto già nel suo film del 2001, Il sole negli occhi. Il dolce e l’amaro è una frase che ricorre due volte, quasi sentenza di saggezza, di ciò che nella vita accade.

 

Ma qui di dolce non v’è proprio nulla; solo l’amaro di una storia di mafia amarissima e anche amorale, di un mondo in cui il crimine è ovvio. Una mafia rappresentata forse con forte realismo, com’è davvero, nella sua orrida spietatezza. Un film costruito con mano sicura. Ma i film di mafia abbondano fin troppo, e sono carichi di perfida violenza.

Sarebbe la storia di un picciotto, Saro, Luigi Lo Cascio, attore serio, e simpatico ma non qui; l'occhio, il volto teso esprimono la paura, un mondo di paura, lungo tutto il film; una paura inconsapevole, e tanto più profonda. Una storia  raccontata da lui stesso – poiché c’è la sua voce recitante –; il picciotto che cresce nella mafia come nel suo ovvio spazio d’esistenza. Violento anche con la donna che vorrebbe fosse sua, ma che proprio per il crimine non lo accetta; violento con un ragazzo che vede assieme a lei, lo riempie di botte, lo pesta a sangue. Fa le sue brave trasferte omicide al Nord, i delitti commissionati, comandati; le trasferte di rapina, dove le commesse  neanche riescono a capire gli ordini di questi siciliani mascherati e armati.

E però l’uccisione dei due bambini accusati di aver scippato la madre di un boss doveva esserci risparmiata. Che fanno questi registi sanguinari? quale rispetto per il pubblico? Ricordare anche Saro che uccide nell'ascensore appoggiato alla vittima e ne ha il volto, il petto tutto insanguinato, tutto quel sangue. Troppo.

Infine, quando l’ordine è di uccidere il suo padrino, l’uomo che è stato un padre per lui, che glielo ricorda mentre lui gli ha già puntato al collo la pistola, allora non osa; e però lo fa scendere dalla macchina, sapendo che dietro ci stanno due sicari di rinforzo, e sarà subito ucciso.

Poi fugge, consapevole che ormai è condannato. Preso dalla polizia, è salvato dal  giudice compagno d'infanzia, che gli offre un programma di protezione (la duplice linea di vita dei due compagni avrebbe potuto essere il filo di un film diverso, più significativo, più positivo). Si rifugia nel Nord, dove ritrova la ragazza che amava, e che ora l’accetta; e gestisce un’edicola. E il film finisce in quella risata nervosa convulsa che lo prende quando è coinvolto in una rapina in banca e il siciliano mascherato gli punta il mitra gridando; il grottesco genera il riso. Non male concludere il film con questa risata isterica, che però non purifica l'uomo, né lo muta.

Saro non muta; non v’è segno di coscienza, di ravvedimento; non v’è catarsi. V’è alla fine una vita diversa in cui il crimine è di necessità assente. Ma l’animo resta quello di sempre, indurito in un male di cui neppure s'accorge.

Questo film ha rappresentato l’Italia al festival veneziano; le scelte di Marco Muller non sono sempre felici.

 

 

                        agosto 07

Kim Ki-Duk - Soffio

al Santa Lucia di Lecce, il 31/08/07.

Il regista coreano, l’autore di Ferro 3 – La casa vuota 1994, Primavera, autunno, inverno…e ancora primavera 2003, La samaritana  2004, ci offre un’altra opera di stile e di suggestione; anche se il suo mondo e il suo particolare procedere ci risultano sempre, a differenza di altri asiatici, ellittici ed enigmatici, e dunque ermetici.

 

Qui una giovane donna, alla notizia che un condannato a morte ha tentato di suicidarsi (lo aveva già tentato un’altra volta), prende un taxi e va alla prigione e, dicendo di essere la sua ragazza, riesce ad avere un colloquio; ma il vetro li divide; e il prigioniero è muto, essendosi colpito al collo. E la decisione è inopinata e incomprensibile; per noi come per il giovane marito e la piccola figlia.

E però si sono baciati. E lei ritorna altre tre volte, e s’incontrano in una stanza di cui lei ha decorato interamente le pareti (con quella carta autoadesiva stampata) in un paesaggio di primavera, poi di estate, poi di autunno (carta che poi distacca e brucia); e lei – pur essendo inverno – ha indossato un vestito di primavera, poi di estate, poi di autunno. Infine è inverno e la neve è caduta, e l’attrazione tra loro è cresciuta, e si baciano con passione e si uniscono. Ma è l’ultimo incontro. Lei è un'artista, una scultrice, e sta lavorando ad una terracotta, una figura alata, che cuoce e poi fa a pezzi. Ma quale il senso di questo gesto?

Ogni volta il condannato ritorna nella sua cella, occupata da un tavolato dove dormono in quattro, all’uso orientale; cella spoglia squallida; e lei gli ha lasciato una foto di sé che ogni volta egli appende al muro e gli altri gli sottraggono, e ne nasce una rissa.

Resta un enigma perché la donna faccia questo, mancando anche la parola; se forse ci sia una volontà di rivalsa per il marito che la tradisce (com’egli a un certo punto confessa, col proposito di non più farlo in futuro); poiché non sembra ci sia davvero amore, passionale o compassionevole. E il gesto è troppo abrupto e immotivato, e meccanico nel suo ripetersi; anche se luminosa l’idea di far rivivere al condannato le stagioni della luce e del colore (ma i colori sono un po’ troppo commerciali in quelle carte). E dopo l’ultima visita, cui il marito stesso l’ha portata, con la figlia, esce e con loro giocano a palle di neve, immemore lei della sorte che attende il condannato, del suo estremo dolore.

Kim ci sorprende sempre con la sua pulizia d’immagine, con la sua estrosa invenzione. Ma qui non sembra abbia raggiunto un esito convincente.      

 

 

Lucia Puenzo - XXY

al Santa Lucia di Lecce, il 26/08/07.

Opera prima della figlia di un regista argentino, Luis Puenzo. XX é la coppia di cromosomi che determina il sesso maschile, XY il sesso femminile, XXY introduce il tema del film, l'ambiguità o relativa ambivalenza sessuale, l'ermafrodito.

 

Un film che fa molto soffrire, ma di un dolore buono, di condivisione della sofferenza, comprensione e amore per quelli che soffrono senza colpa, per un errore di natura. Soffre la ragazza adolescente che sente in sé crescere l'uomo; di cui si ammira tuttavia il tipo, il carattere fiero. Soffrono il padre e la madre che ancor prima che nascesse seppero della sua ambigua conformazione ma non vollero che fosse operata, perché troppo piccola, e perché volevano che fosse lei a decidere. Che hanno lasciato Buenos Aires, la loro casa e il loro quartiere per salvare la figlia e loro stessi dalla chiacchiera e dalla persecuzione, e si sono rifugiati dall'altra parte del Mar del Plata, in Uruguay. Amano profondamente quella figlia, pronti a difenderla sempre, a consolarla nei momenti del dolore.

Un'opera prima, ma quasi perfetta. L'ambiente, la macchia, il lungomare selvaggio forte che hanno scelto, lontano dal paese, sprofondati nella natura aspra e accogliente, grandiosa sempre, in cui la ragazza ama immergersi. La parola parca, misurata, nel grande silenzio. Il senso di misura nel condurre la vicenda. I caratteri, il padre rude e dolce, protettivo sempre; ma dovrà essere la figlia a decidere, poiché ha ormai 15 anni, e il tempo dell'intervento è vicino. La madre dolce, pronta sempre ad accoglierla tra le sue braccia quando il dolore l'opprime; così, quando i tre ragazzi giunti in barca l'hanno assalita perché volevano vedere com'era fatta ("non ti facciamo nulla di male". Come? mentre la costringevano con la violenza, mentre calpestavano la sua libertà e dignità).

Non accade nulla, quasi. Il padre ha chiamato dall'Argentina un amico chirurgo per averne un parere; e una sera va dal benzinaio che ha percorso proprio quello stesso cammino dall'ambiguità alla virilità, avendo scelto di essere uomo, e poi s'è sposato, hanno adottato un figlio, attendono l'adozione di una figlia. Si prepara il momento della liberazione.

Con un film come questo s'impara a comprendere e ad amare i nostri fratelli "diversi", amarli ed essere solidali con loro. Di film come questo abbiamo bisogno, allargano la mente, il cuore.   

 

 

Cristian Mungiu - 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni

al Santa Lucia di Lecce, il 25/08/07.

La cinematografia rumena: si parla di una serie di film sulla desolata età ceauseschiana, la feroce e squallida dittatura del comunismo dispotico: "Tales from the golden age". A Cannes quest'anno palma d'oro per il miglior film; decisione coraggiosa. Il titolo allude al tempo di gravidanza della ragazza.

 

Storia costruita sulla squallore. Tutto è squallido, i corridoi della Casa dello studente dove condividono la stanza le due ragazze, Otilia e Gabrita, gli alberghi, la reception degli alberghi con quelle receptionist antipatiche e indisponenti, le stanze degli alberghi (che però sono spesso squallide anche da noi), le vie fangose, i tram e autobus semideserti, gli alti anonimi palazzoni proletari come fantasmi notturni, i sobborghi luridi. Il cielo è cupo, la notte oscura senza luci.

Vita squallida, vita in cui la paura incombe, i controlli, la polizia. L'interruzione di gravidanza è severamente punita, cinque, dieci anni, dice il praticone che le due ragazze hanno scelto per risparmiare; e però vuole 5.000 lei (speravano 3.000); e anche una prestazione di Otilia; che non si vede ma si capisce, il turbamento, il "porco" lo chiama. Gabrita è incinta e vuole abortire.

Un'atmosfera drammatica incombe; anche perché Otilia si allontana per partecipare alla festa di compleanno della madre del suo ragazzo; ed è nervosa, convinta che non avrebbe dovuto farlo perché l'amica è minacciata dall'emorragia. È nervosa, più assente che presente alla festa semplice e bonaria di quel gruppo di amici di famiglia in regime di scarsità. E litiga anche col ragazzo, un ragazzo saggio, buono. E corre via nella notte tenebrosa per ritrovare l'amica.

Qui il dramma inizia a sciogliersi, inatteso. Gabrita si è liberata dal feto  (ma il regista poteva evitare di mostrarcelo, sanguinante) e Otilia corre di nuovo per la città tenebrosa per disfarsene come ha indicato il praticone. Ma quando ritorna, ancora affannata, trova l'amica nel ristorante, tranquilla, ha avuto fame e mangia. I pericoli dell'emorragia cadono nell'oblio, e il film inopinatamente si conclude, il dramma incombente e atteso si sgonfia.

Si ha un senso d'incompiutezza.

Certo si apprezza l'essenzialità, la coerenza dell'affresco e dello squallore, un personaggio come quello di Otilia con le sue asprezze e la sua generosità, la sua sofferenza, sofferente partecipazione; è sua la tensione e la sofferenza maggiore. Un'opera artigianale, alquanto rude e scabra. Ma ciò che un po' delude è il finale.

 

 

Hans Horn - Alla deriva (Adrift)

al Santa Lucia di Lecce, il 19 agosto 2007.

La storia (vera) di tre coppie che escono in mare sulla barca di uno di loro e quando sono al largo si gettano gioiosamente in mare e gioiosamente nuotano e scherzano, ma poi s’accorgono di non aver calato la scaletta e di non poter risalire; la barca è alta.

Iniziano allora i tentativi (montando l’uno sulle spalle dell’altro; aggrappandosi alla bandiera, che si strappa; legando l’uno all’altro slip e bikini come una fune che viene gettata e s’impiglia nel parapetto di metallo, ma poi non regge…) e inizia la paura, la disperazione; i tentativi infelici o che portano a rissa. Così muoiono due ragazzi, mentre la ragazza più debole si abbandona alle acque profonde; avendo prima pregato, recitando il Padre nostro, tutto intero, scandendolo con calma partecipazione. C’è una forte tensione sempre. Una causa tanto banale e un effetto tanto tragico.

Quando sono rimasti solo in tre, una ragazza decide di tentar di raggiungere a nuoto la riva, anche se lontana; e stupisce che quest’idea non sia venuta subito a tutti, di raggiungere insieme la riva, comunque lontana, ma con la forza della solidarietà di tutti. E però spesso la tensione e la paura offuscano la mente.

Anche l’appiglio che sta a prua, e che alla fine salverà proprio la ragazza che temeva il mare per un’esperienza sofferta da piccola (e che ritorna molte volte lungo il film); e la ragazza salverà poi Dan, il ragazzo della barca; anche questa via era stata sempre trascurata prima.

La giornata trascorre splendida, splendente, il mare, il cielo; la natura resta intatta implacabile di fronte alla tragedia umana. Un mare bellissimo, la barca anch’essa bianca splendente nel mare. E però la notte, quando due soli restano, la natura si scatena con un temporale rabbioso di acque ed onde; quasi contro di loro, ad annientarli quando già sono sfiniti. Ma proprio allora essi si salveranno.

Il film è semplice e insieme forte; i caratteri sono appena accennati, quanto basta, la tragicità sta nella situazione, e tutto trascende. Le donne, tranne una, resistono meglio; e proprio la più timorosa si salva.

La critica ha richiamato il film di Chris Kentis, Open water, la storia di una coppia di subacquei abbandonata  in mare per errore dalla barca che  aveva portato al largo il gruppo. Un’opera certo analoga, che possiede però un’intensità diversa.