Archivio articoli 2014
Indice
La festa dell’Immacolata e il peccato originale, 14/12/2014
Il cognome della donna, un problema non ancora risolto, 25/11/2014
La fine del lavoro, un problema che incombe, 12/11/2014
Una campagna nazionale per l’energia solare, 5/11/2014
A proposito di ergastolo e di carcerazione, 28/10/2014
Il Sinodo dei Vescovi delude le attese, 20/10/2014
Il pericolo Russia e il pericolo delle egemonie, 3/10/2014
Il Jobs Act renziano e la riforma del lavoro, 26/10/2014
Il problema dei movimenti secessionisti in Europa, 10/09/2014
Il nuovo califfato arabo, una forma di brigantaggio, 10/09/2014
Alcune riflessioni sul governo Renzi, 30/06/2014
Una catastrofe che si annuncia per l’umanità, 21/06/2014
I giudici che sbagliano e l’errore del PD, 14/06/2014
Elezioni europee, masse erranti e sbandate, 7/06/2014
Basta con l’inerzia, si costruisca l’Europa, 31/05/2014
La corruzione che infuria in Italia, le sue cause, 14/05/2014
A Lecce si vuol rifare Piazza Mazzini, 8/05/2014
L’equità salariale, 4/05/2014
Putin e i pericoli dell’egemonia, 13/04/2014
Lavoro stabile e lavoro precario, un punto di arretratezza, 6/04/2014
Lavoro manuale e mentale, discriminazione e ignoranza, 21/03/2014
Basta con le delocalizzazioni, 14/03/2014
La caduta dell’Impero sovietico, 7/03/2014
Dov’è finita la Sinistra italiana?, 31/01/2014
Onorificenze e titoli nella Chiesa e fuori, 24/01/2014
La festa dell’Immacolata e il peccato originale
di Arrigo Colombo
La questione del peccato originale è, da qualche tempo, fortemente discussa tra i teologi.
A partire dal fatto che il racconto della creazione di Adamo ed Eva, come il racconto del loro peccato, non solo, ma tutto il racconto dei primi undici capitoli della Genesi, è oggi ritenuto non una storia, una successione di fatti storici, ma una mitostoria; che dunque non ha significato storico ma simbolico; dove non si tratta né di personaggi storici né di fatti realmente accaduti. .Al seguito delle ricerche paleoantropologiche del ‘900 è chiaro che Adamo non può essere il primo uomo, né con Eva la prima coppia; mentre le origini dell’umanità si proiettano a centinaia di migliaia di anni più lontano. Si tratta di antiche tradizioni popolari ebraiche che a certo momento sono state messe per iscritto: e che portano in sé una enorme ricchezza di senso: la creazione, il peccato, la lotta in cui il bene uscirà vittorioso, la divisione tra i popoli.
Il dato, o dogma, poi, del peccato originale; cioè di quel primo peccato che a tutti si trasmette, e si trasmetterebbe ancora ad ogni nuovo essere umano; e si troverebbe perciò già nel bambino al suo nascere; sì che, se morisse senza esserne purificato dal battesimo, non potrebbe salvarsi, ma sarebbe bloccato in un ipotetico Limbo, uno strano luogo di non sofferenza ma non di gaudio: tutto questo, a un certo momento, è apparso improbabile alla stessa autorità della Chiesa, sì che papa Wojtila formò una commissione che indagasse su questa materia, Commissione che si concluse poi con un verdetto appunto di salvezza di questi piccoli.
Anche perché l’espressione definitoria del Concilio Tridentino, che dice trattarsi di un “vero e proprio peccato”, è apparsa difficilmente sostenibile in quanto il peccato richiede una responsabilità personale, che non può trovarsi nel bambino.
Tutto questo discorso è estraneo alla tradizione biblica. Deriva da un parallelo condotto da Paolo nella Lettera ai Romani tra il Cristo come principio di vita che in tutti si trasmette dopo di lui, e Adamo principio di una morte che dopo di lui continua. A questo punto, però, interviene un errore nella traduzione latina dell’originale greco, che dice “per un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e col peccato la morte, e così la morte è passata in tutti, per il fatto che tutti hanno peccato”; e non “in lui tutti hanno peccato”. L’idea di Paolo è che il peccato passa in tutti in quanto tutti a loro volta peccano, come già Adamo; non in quanto in lui tutti hanno peccato; per cui Adamo sarebbe il progenitore che in sé contiene l’umanità intera, la quale tutta in lui pecca. Un concetto presente nella tradizione ebraica antica, ma che già i testi deuteronomici avevano superato, per la responsabilità personale. Non può il figlio esser responsabile della colpa del padre.
A questo punto cade dunque l’idea perversa di una umana natura corrotta, insuperabilmente macchiata di peccato; come di quel disordine tra passione e ragione che venne chiamato "concupiscenza"; che poi Lutero esaspera nell’idea di una natura ferita, malata, che non può se non peccare. No, la natura umana è intatta, questa visione negativa di fondo è estranea all’evangelo, alla sua sublime serenità. E non è neppure di Paolo, come si è visto; ma deve ritenersi di origine gnostico-manichea. Perciò oggi i teologi preferiscono non parlare più di peccata “originale”, ma di “peccato del mondo” (così Dubarle, nella sua opera): quell’immenso cumulo di male che si accumula nel mondo e nella sua storia; si sedimenta nel costume, nella legge ingiusta, nell’ideologia che giustifica il costume e la legge; e in cui il bambino crescendo s’immette, la fa sua, cade quindi nel peccato.
Come anche poi l’idea della sessualità come male, per la forte passionalità del momento amoroso, di quella che può dirsi l’estasi amorosa, e che oscurerebbe la ragione. La dottrina di Agostino, che diventa poi dottrina tradizionale della Chiesa, secondo cui la sessualità è un male, ed è tollerabile soltanto in ordine alla procreazione . L’estasi amorosa sarebbe lecita solo nel momento procreativo, cha può capitare anche una sola volta in vita; mentre il momento unitivo della coppia è di sempre. Quest’idea perseguita l’intera storia del cristianesimo, in particolare della sua parte più autoritaria e costrittiva, che è la gerarchia cattolica.
A questo punto ci si chiede che senso abbia ancora l’idea (e la festa) dell’Immacolata Concezione; l’idea che la madre del Cristo, per singolare privilegio, sia stata concepita senza peccato originale. A questo punto, in cui si è chiarita tutta una tradizione di malinteso e di errore, in cui il peccato originale non esiste – né mai è esistito – quell’idea e quella festa non hanno più senso.
14/12/2014
Il cognome della donna, un problema non ancora risolto
di Arrigo Colombo
Un discorso sul cognome della donna può sembrare futile; invece no: è legato alla posizione sociale della donna, a quella che la società umana, dominata dal maschio, le riconosce. È legata ad una lunga storia.
Questo dominio maschile si forma probabilmente nella preistoria, dal fatto che la donna è legata alla maternità, quindi alla gravidanza, all’allattamento, alle cure del piccolo figlio; al succedersi delle gravidanze secondo il principio povertà-fecondità; e cioè che nelle società povere – o nelle società di scarsità, quale è stata la condizione popolare fino a tempi recenti – il figlio è ritenuto un importante acquisto perché presto aiuterà la famiglia col suo lavoro. Mentre nella società del benessere – quale è quella che si forma attraverso la produzione industriale e la lotta operaia, congiunta con l’azione della Sinistra politica e quindi con lo Stato sociale, con la legislazione del lavoro, l’ascesa dei salari, l’assistenza e previdenza (lo Welfare State) – il figlio è ritenuto un carico non indifferente e una forte responsabilità, in quanto necessita di un corredo adeguato di abiti, alimenti, cure mediche; cui segue assai presto la scolarizzazione e la socializzazione.
Perciò nelle società primitive, e poi nelle civiltà antiche, si forma il legame della donna alla casa, che continua poi sempre; e quindi la sua soggezione al maschio che col lavoro si è fatto più forte, ed è presente nella vita sociale e politica, e come tale è riconosciuto e teorizzato. Da Aristotele, ad esempio, che attribuisce alla donna una facoltà deliberativa “debole”, per cui deve sottostare alle decisioni dell’uomo. Così per Tommaso d’Aquino, ritenuto il grande maestro del medioevo e di tutta la cattolicità, la donna è un «uomo mancato» (nel processo procreativo, dove si riteneva che la donna offrisse solo il terreno di crescita, mentre l’uomo dava il principio di vita, se questo terreno non era abbastanza ricco di umore e calore), soggetta all’uomo per la «debolezza della sua natura», per «l’insufficiente vigore mentale». Si ha così l’asservimento della donna all’uomo, che percorre l’intera storia umana fino a noi.
Perciò la donna porta il cognome del marito. Per legge. In certi Stati, come da noi, lo aggiungeva al suo; in altri, come in Francia e in Inghilterra, lo sostituiva con l’intero nome e cognome maritale, diventando così Madame Jean (non Jeanne, al femminile) Dupont.:
Da noi, col nuovo diritto di famiglia del 1975, il cognome del marito scompare, la donna ottiene anche nel nome un’autonomia maggiore. Ciò consegue al movimento femminile ch’era partito nel ’69 e proprio in quegli anni era forte. Il femminismo, l’uomo come nemico di classe. Le pari opportunità.
Restava il problema dei figli, che hanno sempre portato il solo cognome paterno. Nel settembre di quest’anno la Camera approva in proposito una legge. Il figlio può avere il cognome del padre o della madre o di ambedue in ordine alfabetico; la decisione sarà presa per il primo figlio e varrà poi per gli altri. Ma perché queste tre possibilità? non era meglio decidere senz’altro per il doppio cognome che rappresenta ambedue i genitori? Nella trasmissione successiva, poi, ognuno sceglierà per i suoi figli uno dei due cognomi che porta.
Siamo dunque a buon punto, anche se dobbiamo ancora attendere il voto del Senato, poi il conseguente regolamento del Governo. Speriamo bene.
Resta da fare una riflessione su questo lungo cammino. Un cammino di millenni, cammino di errore, di male. In realtà la storia umana è dominata da quello che è stato chiamato il “blocco della società ingiusta”. Cioè dispotismo monarchico, potere incondizionato di un solo che sta al disopra della legge, legibus solutus; e con lui dell’aristocrazia che possiede la terra; conquista di popoli, formazione d’imperi (che già Agostino chiamava “grandi brigantaggi”), guerra perenne (la guerra, il più crudele dei crimini, il macello umano: nessuna guerra è giusta). Poi schiavitù, asservimento della donna, povertà sfruttamento oppressione del popolo, in gran parte contadino.
Con le rivoluzioni moderne (l’inglese e la francese) cade il dispotismo, s’impone e poi si universalizza la democrazia, la sovranità popolare, l’unica forma di Stato giusta. Ci sono ancora dei monarchi, ma il potere sta nel Parlamento e nel Governo. Con la Rivoluzione Francese l’aristocrazia rinunzia ai suoi privilegi e poteri. Con le due guerre mondiali cadono gl’imperi, prima quelli continentali, poi quelli coloniali. La schiavitù è aboli6ta per la prima volta nella Rivoluzione Francese, nel 1793; poi, lungo l’800, da tutti i popoli. La povertà popolare inizia la sua redenzione lungo l’800. Restava l’asservimento della donna, la pretesa superiorità e il potere del maschio, il più duro a cedere. Lo si sta infine aggredendo; ma resiste ad oltranza, oggi ancora. Se solo si pensa ai femminicidi che ci affliggono quasi ogni settimana. O se si pensa al mondo islamico. 25/11/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 20/12/014)
La fine del lavoro, un problema che incombe
di Arrigo Colombo
Nota previa: parliamo del lavoro-professione; cui corrisponde un reddito, necessario per soddisfare i bisogni primari (vitto, vestito, abitazione) come quelli secondari e familiari. Non parliamo qui dei lavori domestici, né del lavoro elettivo in genere.
Qui la fine del lavoro umano, del lavoro manuale, di quello meccanico anzitutto; perché quello non meccanico si può già fin d’ora dire residuale; e come tale ci potrà essere sempre. Anzi alcuni autori – a cominciare da Thomas More per il lavoro agricolo – pensano di liberare l’uomo da questo lavoro manuale residuo attraverso un anno giovanile di servizio sociale; come avveniva fino a poco fa col servizio militare. Così Bellamy nel suo Guardando indietro, che è del 1888.
Il lavoro meccanico, dell’uomo alla macchina, ha dominato il ‘900 (negli anni ’60-80 ha realizzato la quasi-piena occupazione - in quella che Hobsbawm e altri chiamarono improvvidamente “età dell’oro”) ed occupa tuttora circa il 40% dei lavoratori (il settore terziario essendo già salito al 60%), le grandi medie piccole fabbriche, il settore secondario. Bene, queste fabbriche hanno incominciato da qualche tempo ad espellere lavoro umano, e ne espelleranno sempre di più. Perché la macchina ha per se stessa un carattere di autonomia che va sviluppando sempre ulteriormente (supposto che sia dotata di energia) fino alla fabbrica grande automa di un futuro non lontano; nella quale vi sarà solo una presenza marginale d’uomo, di poche unità umane, per funzioni di controllo, riparazione, migliorie ecc..; mentre la grande massa lavoratrice è espulsa, la massa operaia, il proletariato operaio che Marx vedeva come la classe che avrebbe compiuto la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento, precarietà, oppressione, abbattendo il capitale; e avrebbe instaurati il “regno della libertà”.
Nell’ultima fase del ‘900 questa autonomia si potenzia con l’informatizzazione. Non solo, ma l’informatizzazione invade anche il settore terziario – quello dei servizi – che si pensava avrebbe accolto quella massa, espandendosi, potenziandosi, anche e soprattutto per l’azione della Stato; lo Stato sociale, provvido, la cui funzione originaria è la tutela e promozione del cittadino. Perché, come Beccaria ha spiegato, lo Stato di diritto si forma per una cessione di diritto del cittadino, che appunto cede una “piccola parte” dei suoi diritti in ordine alla sua tutela e promozione. È il suo originario compito.
Ma ecco che anche il terziario espelle lavoro: impiegatizio anzitutto, lavoro di classificazione, di calcolo; ma anche di progettazione, lavoro creativo, con quella che viene chiamata la macchina intelligente.
Certo, ci sono settori che probabilmente non saranno intaccati. La scuola ad esempio, cioè la formazione personale, culturale, socio-politica del cittadino. Dovrebbe anzi espandersi: con classi di non oltre 15 allievi, ad esempio (come richiedono i pedagogisti); con l’espandersi del quadro culturale (lettere, scienze, arti, tecniche; la musica classica in particolare), con un tirocinio in grado di acculturare tutti (l’operaio oggi ignorante), fino ai diciott’anni e oltre, fino al primo biennio-triennio universitario. L’università si espanderebbe in questa presenza universale e popolare; inoltre dovrebbe generalizzarsi il metodo oxfordiano del tutorial, cioè del colloquio settimanale di un’ora con ogni allievo; per cui i corsi non possono avere più di dodici allievi. E ancora deve sempre espandersi e intensificarsi l’ambito della ricerca, che è l’anima dell’università.
Un altro ambito è quello delle arti. Così quelle forme che oggi sono di élite: il teatro, l’opera, il concerto di musica classica; che devono diventare popolari. Così, a Milano come a Roma, v’è un solo teatro d’opera; a Parigi, con i dodici milioni di abitanti della megalopoli, ce ne sono ora due: una situazione davvero ridicola, se non pietosa.
Sono solo alcuni pochi esempi di un possibile quadro espansivo del lavoro. Resta tuttavia una massa di cittadini che ne saranno privi. Sui quali la comunità politica, cioè lo Stato, dovrà intervenire con quello che viene chiamato reddito di base o di cittadinanza, del quale si parla da qualche tempo; e che, per un principio di eguaglianza-solidarietà, è dovuto a tutti i cittadini; o almeno a tutti quelli che non hanno un reddito di lavoro. Dalla maggiore età in poi. Che però dovrebbe essere condizionato a un programma di volontariato, lavori sociali, sport, attività elettive. Perché il lavoro, oltre ad essere la basilare fonte del reddito, è, prima ancora, la forma in cui si attua e si esplica ulteriormente la persona umana, la professione; in cui essa s’impegna nella società, nella grande intrapresa umana. Ed è fonte di equilibrio personale e morale.
A questo punto, se la comunità statale diventa principio di reddito per la maggioranza dei cittadini, anche la fonte del reddito, in particolare la fabbrica autonoma, e con essa il capitale, le deve appartenere. S'impone perciò un processo di espropriazione delle imprese e quindi una generale appartenenza dei beni di produzione alla comunità strutturata nello Stato; e senza risarcimento, perché l’impresa è stata costruita dal lavoro associato e appartiene anzitutto di diritto al lavoro. Processo che potrebbe iniziare negli Stati dell’Unione Europea. La possibilità di avviare nuove imprese resta sempre aperta; la loro proprietà dev’essere però sociale, la gestione associata.
Gli studiosi prevedono l’inizio di questa fase del processo verso la metà del secolo.
(Nuovo Quotidiano di Puglia, 25/11/2014)
Una campagna nazionale per l’energia solare
di Arrigo Colombo
Si discute senza fine su dove può approdare il gasdotto che viene dal lontano Oriente, i gasdotti che arrivano a noi attraversando il fondo dei mari, attraverso i continenti, e si teme guastino le nostre spiagge; sui pozzi petroliferi che si vorrebbero scavare nel nostro mare inquinandolo, abbrutendolo.
Una nazione che dipende quasi interamente da queste imprese enormi e mostruose, imprese costosissime. Che in questa dipendenza quasi totale spreca il suo denaro, già scarso e troppo prezioso. In questa dipendenza dal petrolio, dal gas, dal carbone; o anche dalle centrali atomiche degli altri.
Liberarsi da questa dipendenza, da questo impegno e spreco di denaro con una campagna nazionale per l’energia solare. In cui deve impegnarsi anzitutto il Governo, e col Governo le banche; e però l’intero popolo, l’intera nazione italiana.
L’energia solare, i pannelli fotovoltaici che la catturano. Da collocarsi per prima cosa su tutti gli stabilimenti, i capannoni, i magazzini e depositi industriali e commerciali. Non nella campagna, come si sta facendo anche qui nel giardino del Salento, appena fuori Lecce; non tocchiamo la campagna, non le terre coltivate e feconde, non le macchie incolte e bellissime; ma quelle superfici grandi ed inerti che sono lì già pronte, disponibili; dove il nuovo impianto neppure si vede.
Da collocarsi su tutti gli edifici statali; diciamo così, in termini generalissimi; poi ci sarà la dovuta selezione.
Da collocarsi infine su tutti i grandi immobili abitati, specie nelle città e metropoli. E però, in linea di principio, su ogni abitazione.
Un punto, in ogni caso, dovrà essere garantito, un valore, quello estetico. Non si collocheranno certo pannelli sulla cupola di Michelangelo o su quello del Brunelleschi. Ma l’estetica dovrà essere garantita sempre, ogni volta che i pannelli sono visibili; non devono turbare in nulla la fisionomia delle nostre città e paesi, o la presenza della casa nella campagna..
L’impegno economico, il costo sarà coperto con interventi statali, con prestiti bancari che saranno rimborsati in tempi ragionevoli attraverso il risparmio di energia che l’impianto produrrà; o anche attraverso l’energia in sovrappiù che sarà immessa nella rete statale, e che servirà agli altri scopi. della nazione. E però diciamo che anche il riscaldamento, e anche l’uso domestico dovranno essere convertiti a questa energia autoprodotta.
Resteranno alcuni ambiti d’uso per ora non immediatamente convertibili, come il traffico e trasporto su strada, che ancora devono attendere un motore elettrico di universale impiego; che si sta solo sperimentando. Che lo Stato potrebbe sollecitare ed aiutare, ad esempio intervenendo sulla Fiat o FCA. E altri ambiti non convertibili ma, diciamo, marginali. Restando vero che il petrolio serve a produrre molte altre cose, oltre l’energia; che però rappresentano solo una piccola parte del suo attuale impiego.
Scompariranno allora le centrali elettriche, specie quelle a carbone, molto inquinanti. Come quella di Cerano, che ammorba tutto il territorio attorno, e rende persino difficile la coltivazione – e, si potrebbe dire, ammorba in certa misura tutto il Salento in quanto i venti spirano per lo più fa nord-est; e non è mai stata mai convertita al gas metano, meno inquinante, nonostante un referendum popolare lo avesse deciso (dove se ne va il principio di sovranità popolare?). Scompariranno le raffinerie, di cui l’Italia sembra sia superdotata, anch’esse inquinanti e pericolose. Diminuirà notevolmente l’effetto serra e il surriscaldamento dell’atmosfera; anche se è forse troppo avanzato per impedire le catastrofi locali previste.
La campagna nazionale italiana potrebb’essere esemplare per gli altri Stati membri dell’Unione, e provocare un processo globale europeo; l’Europa essendo tutta dipendente in fatto di energia, tranne, forse, che per le centrali atomiche; che però, oltre che pericolose, sono venefiche (entro un raggio di cinquanta chilometri, secondo una ricerca tedesca) per i bambini come per le gestanti. L’Europa aprirebbe la nuova era dell’energia pulita e a basso costo. Un esempio e una forza per il mondo intero.
5/10/2014
A proposito di ergastolo e di carcerazione
di Arrigo Colombo
Hanno suscitato una forte e larga attenzione le dichiarazioni di Papa Bergoglio nell’incontro con una delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale. In particolare l’espressione “l’ergastolo è una pena di morte nascosta”.
In realtà l’ergastolo è inumano e immorale perché contrasta col carattere medicinale della pena; carattere che si evidenzia nella coscienza moderna, dopo che aveva prevalso il carattere punitivo e vendicativo; e si collega col grande principio che l’umanità acquisisce con l’umanesimo del ‘400, e matura poi in seguito, la dignità e il diritto della persona umana. Il carcerato si è macchiato di un crimine, ha errato anche gravemente, ma la sua dignità di persona umana è intatta e dev’essere rispettata, e costituisce la base per il suo recupero. Il carcerato non può essere coperto di disprezzo, maltrattato, preso a pugni e calci, come ora accade e leggiamo nella stampa. Il Papa parla di tortura, e certo che fatti di tortura – magari fino all’uccisione – ci sono anche da noi, lo sappiamo bene; non solo in paesi culturalmente arretrati.
Scopo della pena, per cui il criminale viene segregato dalla società nel carcere, è dunque essenzialmente la sua rieducazione, qualunque sia il delitto in cui egli è incorso, anche gravissimo; il suo recupero e la sua reintroduzione nella società come membro sano e costruttivo, benefico per la società stessa.
Ne segue che l’ergastolo, la prigionia a vita, non è giuridicamente ammissibile; la legge che lo sancisce deve considerarsi ingiusta; dev’essere quindi abolita; come già è avvenuto in un certo numero di Stati; non però in Italia (dove c’è solo una proposta di legge del 2013) e in altri tra i maggiori Stati europei e negli USA (dove, del resto, vige ancora la pena di morte, fatto gravissimo). Deplorevole quest’arretratezza dell’Occidente in un punto di evidente incidenza giuridica. In ogni caso l’ergastolo dev’essere universalmente abolito.
Ne segue, inoltre, che deve cambiare radicalmente l’intero sistema carcerario, il quale è ancora impostato in termini punitivi. Mentre tutto ciò che di punitivo contiene deve scomparire: le celle, piccole, con scarsa luce (il finestrino in alto), scarsi arredi, talora coi letti a castello (il Papa accenna alla condizione inumana delle celle); l’uniforme carceraria, l’abito a righe, che non è ancora del tutto scomparso; il cibo cattivo; il disprezzo delle guardie.
La dignità della persona umana deve restare intatta e la pena dev’essere intesa essenzialmente come privazione della libertà; in tal senso il carcere dev’essere concepito e costruito come un sistema di sicurezza. Ma non altro, nulla di punitivo e afflittivo.
Perciò le celle devono scomparire, sostituite da buone camere. E il carcerato veste come sempre. E il cibo è buono, con possibilità di scelta (come del resto avviene nei migliori ospedali, dove più menu vengono offerti a scelta). Ma poi soprattutto il tempo, lo svolgimento della giornata; che dev’essere impegnata nel lavoro; non certo in un lavoro forzato, ma in un lavoro che corrisponda il più possibile alla normale attività del carcerato. Il sistema dell’ozio carcerario, del far nulla chiuso in cella con l’ora d’aria, deve scomparire. Il carcerato ha un lavoro come dovrebbe averlo ogni essere umano. Gli è necessario anzitutto per il suo stesso equilibrio fisico e morale. Non gli deve mancare; potrà essere dentro o fuori, non importa, l’organizzazione carceraria deve provvedere. Col lavoro le altre normali attività culturali e ricreative, la lettura dei giornali, la biblioteca, la scuola per i non acculturati, che non mancano, le conferenze, il bar, il teatro, il cinema. L’acculturazione può essere di grande aiuto, affinando la persona, accrescendone l’umanità.
C’è poi tutto il lavoro di recupero personale e morale. Il maggiore impegno del carcere dev’essere proprio questo; il suo personale, più che di guardie – che sembrano ora esaurire il corpo carcerario –, deve constare di un corpo di professionisti impegnati nell’azione formativa sia in senso culturale che morale, nell’azione correttiva e sanitaria, specie in fatto di tare, di nevrosi e psicosi, di abitudini viziose contratte. Un grosso lavoro, che deve costituire l’impegno maggiore della vita carceraria, il fattore più importante e decisivo per il recupero sociale del detenuto. Che deve anche conquistare la sua collaborazione, la sua buona volontà di recupero della sua piena dignità umana.
Il carcere è tutto da rifare; anche il Papa lo lasciava intendere. Un’opera colossale, un fondamentale impegno per la nazione, per l’umanità intera.
28/10/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 1/11/2014
di Arrigo Colombo
Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa cattolica si è tenuto nelle prime tre settimane di ottobre. E’ un’assemblea rappresentativa della Chiesa universale, che si tiene all’incirca ogni tre anni, ma ha formule e frequenze diverse. Nasce dalla tensione collegiale del Vaticano II e viene istituito da Papa Montini nel 1965, ed entra poi nel diritto canonico. Sta rigorosamente sotto il potere papale e ha carattere consultivo, può solo fare proposte al papa. Anche questa volta si è mantenuto nella rigida forma codificata, con solo due innovazioni accessorie, anche se importanti: l’ora di libera discussione giornaliera e la pubblicazione delle proposte ufficiali (che prima restavano segrete). Il passaggio determinante, nel senso della collegialità, sarebbe quello di farne un organo non più solo consultivo, un organo che nella Chiesa decide; ma questo significherebbe scalzare l’assolutismo papale, quel potere assoluto che l’umanità ha superato ovunque – può dirsi – ma che ha la sua estrema e potentissima roccaforte proprio in quella che per eccellenza dovrebb’essere una “società fraterna”; dove “tutti sono fratelli”, dove “nessuno è signore o maestro”; secondo il dettato evangelico.
Si può dire subito che il Sinodo ha universalmente deluso; nel senso che non ha dato apporti significativi né, tanto meno, innovativi. Ciò risulta chiaro dalla stampa, che lo ha seguito con attenzione; come dalla lettura del messaggio finale.
Tema era l’eucarestia, cioè anzitutto la cena eucaristica; che è poi la memoria della Cena e della Passione del Cristo; ed è insieme il principale e più intimo e vivo punto d’incontro della comunità cristiana. Che bisognerebbe sottrarre al rigido schematismo che vi perdura; anche dopo la riforma liturgica la quale, eliminando il latino, l’ha resa comprensibile a tutti; ha rivolto l’altare verso la gente, ha introdotto momenti di meditazione (sia pur brevissimi), e altre cose come la preghiera comune, il canto, l’offerta. Ma la partecipazione reale è ancora scarsa; non paragonabile con certe celebrazioni, ad esempio, delle comunità nere d’America. Si potrebbe dare la parola ai fedeli, sì che tutti riflettano insieme. Si potrebbe rendere la celebrazione più viva e festosa, con molta musica e canto, e anche danza (come David, che danzò davanti all’arca; la “danza sacra” ha una presenza forte nella storia religiosa, si veda il libro di Renato Torniai). Si potrebbe terminare con un sia pur piccolo banchetto fraterno (se è vero che l’eucarestia appartiene ad una vera cena), in cui rendere più profondi e caldi i rapporti. Su tutto questo il Sinodo non ha detto nulla; al contrario, ha insistito sulle rigide norme.
Ha soprattutto ribadito le interdizioni. Per la comunione dei divorziati risposati; per l’intercomunione tra le diverse confessioni cristiane; per i preti sposati che, nell’attuale penuria di clero, sarebbero necessari per presiedere alla riunione eucaristica; e, fatto nuovo, per i politici che col loro voto varano leggi “inique”, come divorzio, aborto, pacs. Posizione, quest’ultima, che accentua il solito vieto clericalismo; dimentica che, quando il parlamento vara una legge, la vara per tutta la nazione, dove ci può essere una maggioranza cattolica, ma c’è anche una minoranza acattolica (ebrea, protestante o altro), con milioni di persone; e per gli stessi cattolici vale il supremo principio della libertà di coscienza. Dimentica che il parlamento deve considerare la problematica d’insieme della nazione, e talvolta tollerare comportamenti trasgressivi, come l’aborto o la prostituzione, per tante ragioni (ma della prostituzione l’episcopato s’è sempre disinteressato; si diceva anzi che, nella Roma papale di un tempo, ci fossero le migliori prostitute d’Europa; si leggano, in proposito, i libri dei grandi viaggiatori romani). Il matrimonio indissolubile è norma solo per la chiesa cattolica; una norma che deve dirsi obsoleta, da quando s’è compreso che il matrimonio si fonda e persiste nell’amore (categoria ignota alla tradizione cattolica che teorizzava i tre fini: procreazione, aiuto reciproco, rimedio alla concupiscenza); venendo meno il quale, decade; salva l’attenzione dovuta ai figli. L’indissolubilità resta un obiettivo supremo, cui tendere; Kant la chiamerebbe un’ “idea regolativa”; ma non di più.
Nel messaggio finale v’è anche un ampio passaggio dedicato alle “sofferenze del mondo”: cioè guerra e terrorismo, calamità di natura, fame, dissesto ambientale. Che il Sinodo deplora, con partecipazione certo, ma in termini generici. Del resto non era quello il tema. Che dire? che questo Sinodo ha mancato le attese? Nella Germania cattolica, ad esempio, il problema dei divorziati è molto sentito, e molto forte la tendenza a risolverlo positivamente. La sanzione legale delle coppie di fatto c’è, in vario modo, in tutti i maggiori paesi d’Europa; i parlamenti e i governi la sentono come un preciso dovere verso i cittadini. Questo Sinodo ha dunque fallito? Attendiamo di leggere il testo ufficiale delle proposte avanzate.
20/10/2014
Il pericolo Russia e il pericolo delle egemonie
di Arrigo Colombo
In questi mesi abbiamo assistito al dramma ucraino, che scoppia proprio quando il presidente Yanukovič si rifiuta di firmare l’accordo di associazione e di libero scambio con l’Unione Europea, e di liberare Julia Timoshenko, la leader politica ingiustamente imprigionata: condizione posta dall’Europa insieme con la firma. Scoppia allora quella forte insurrezione che porta il Parlamento a sfiduciare il governo, mentre Yanukovič si rifugia in Russia dal suo protettore Putin, e la Timošenko viene liberata.
A questo punto interviene la Russia; o meglio interviene Putin, il semidittatore che si è assicurato il potere; perché quando egli per legge non può essere presidente, diventa premier, col presidente ed amico Medvedev (così è presidente nel 2000-2004 e 2004-2008, poi premier nel 2008-12, poi di nuovo presidente). Il quale non vuole farsi sfuggire l’Ucraina. Il semidittatore che perseguita i dissidenti, che è ritenuto mandante dell’eliminazione della giornalista Politovskaja, grande vindice dei diritti umani da lui violati, grande critico della sua politica di potere; e di altri con lei. Sappiamo anche quello che ha fatto in Georgia, altro Stato in via di ammissione nell’UE.
Putin vorrebbe ricostruire il dissolto impero dell’Unione Sovietica. Per questo ha creato nel 2001 l’Unione Eurasiatica, in cui sono confluiti Russia, Bielorussia, Kazakistan, poi Kirghisistan e Tagikistan (l’Uzbekistan vi è entrato, poi ne è uscito); mentre Ucraina, Armenia, Moldavia erano invitate come osservatori. È vero che è solo un’Unione di libero scambio, ma ha certo mire più vaste; perlomeno quella di un’unione di stati sovrani con governo e parlamento centrale come dovrebb’essere l’Unione Europea; e sotto l'egemonia russo-putiniana..
Il personaggio è ambizioso e spregiudicato. Lo si è visto nel duro intervento in Cecenia, nell’interferenza in Georgia; in Siria ha impedito che quel popolo fosse liberato da un dittatore feroce che lo massacrava. In Ucraina ha avuto la via spianata dalla presenza di una minoranza russa (il 17%). Si sa che l’Unione Sovietica in tutto il dopoguerra ha cercato d’immettere popolazione russa negli Stati ch’erano caduti sotto la sua egemonia; per poi appropriarseli (lo stesso ha fatto la Cina in Tibet, lo sta facendo). Così nelle repubbliche baltiche, così in Ucraina. Perciò Putin ha occupato senza colpo ferire la Crimea e se l’è annessa; e ha avviato una serie d’infiltrazioni militari in uomini ed armi nelle zone abitate dalla minoranza russa, che si è sollevata entrando in lotta contro la madrepatria; lotta che dura tuttora, anche se sembra profilarsi una soluzione di autonomia interna. Ma ciò in seguito all’intervento dell’Occidente – Europa, Usa, Nato; a sanzioni, a presidi militari, ad una forte pressione morale.
Le egemonie rappresentano in questa fase un forte pericolo per l’umanità. Il principio di pace ecumenica non è ancora maturato nella coscienza planetaria; anche se costituisce il punto fondamentale dello Statuto delle Nazioni Unite: evitare ad ogni costo la guerra, risolvere i conflitti tra Stati con misure alternative.
A cominciare dagli Usa, che pure hanno fortemente voluto le Nazioni Unite e il loro Statuto; e che esercitano una forte presenza egemonica con le loro basi e flotte sparse in tutto il mondo. E che, in quello che era il secondo “dopoguerra”, hanno scatenato cinque guerre: Corea, Vietnam, del Golfo, Afghanistan, Iraq. Guerre che, salvo quella del Golfo, hanno sempre perduto. Guerre che pensavano – loro così potenti, loro che sviluppano sempre nuove armi – di vincere in pochi mesi; così, e in cui invece sono rimasti impantanati. Tipiche queste ultime, Iraq e Afghanistan, che durano da oltre dieci anni perché si sono trasformate in guerriglie; dove nulla può la loro forza, né la loro strategia. Proprio il continuo sviluppo di nuove armi è pericoloso; e con esso la pressione delle imprese che le fabbricano. E anche il fatto che l’uso delle armi è libero, tutti i cittadini ne hanno, possono averne, anche i bambini.
L’altro possibile Stato egemone è proprio la Russia – anche se non è talmente grande, 150 milioni di abitanti, la metà degli Usa – e proprio la Russia di Putin, con la sua ambizione e spregiudicatezza. Si spera di riuscire a contenerlo, ma non è certo.
La terza egemonia possibile è la Cina. L’enorme Cina. Per ora ancor troppo occupata nel suo sviluppo economico, ma pur sempre retta da un’oligarchia dispotica, l’incondizionato potere del partito comunista, o pseudo-comunista.
Oltre la coscienza di pace deve maturare nel mondo, e in particolare tra i maggiori popoli, la coscienza della dignità e diritto di ogni popolo, dell’eguale dignità e diritto, dell’insuperabile autonomia. E deve iniziare l’universale distruzione degli armamenti, a cominciare da quelli nucleari.
3/10/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 3/10/2014
Il Jobs Act renziano e la riforma del lavoro
di Arrigo Colombo
Sembra dunque che Renzi voglia fare una riforma del lavoro. Non è però chiaro in base a quali principi e quindi con quali obiettivi e risultati.
Intanto, per prima cosa, avrebbe dovuto consultarsi col sindacato, che rappresenta il lavoro ed è l’esperto in quel campo; invece, ecco che col sindacato si trova in conflitto, tanto che si minaccia lo sciopero. Inoltre una riforma del lavoro dovrebb’essere in favore del lavoro stesso, che nell’impresa è la parte più debole e insicura, di fronte al capitale. Dovrebbe anzitutto rafforzare il più possibile il lavoro “stabile”, l’unico che corrisponde alla dignità e diritto della persona, oltre che al suo bisogno, personale e familiare. Quello che da noi è chiamato lavoro “a tempo indeterminato” (un eufemismo, che lascia aperta la possibile scadenza). Bene, in Italia solo il 16.1% ha un lavoro stabile, a tempo indeterminato; tutto il resto è precario, in varia misura; e questa misura diminuisce di anno in anno. Un fatto ignominioso, inumano, un fatto scandaloso.
Rientra in quest’ambito il famoso art. 18, che tutela il lavoro in caso di licenziamento, e che Renzi vorrebbe abolire: vorrebbe cioè abolire il reintegro nel caso di licenziamento ingiusto (la “giusta causa” di cui parla lo Statuto dei lavoratori) attraverso la mediazione giudiziaria, sostituendolo con un compenso in denaro. Mentre invece dovrebbe osare il passo opposto, abolire la restrizione introdotta nel 1990, che limita la giusta causa alle aziende con più di 15 dipendenti. E perché poi? Forse che nelle piccole aziende è lecito essere ingiusti? è lecito offendere e danneggiare il lavoratore licenziandolo e precarizzandolo ingiustamente?
Renzi dice anche di voler abolire le forme di lavoro precario, riferendosi in particolare ai cococo o cocopro. Ma queste forme di lavoro, detto “flessibile” (altro eufemismo ingannatore), introdotte con la legge Biagi – che sotto l’offensiva del capitale, dopo il crollo del comunismo internazionale, intervenne a indebolire il lavoro precarizzandolo – sono addirittura 47. Che farà Renzi? A parte che nei contratti a termine da 12 a 36 mesi, concede otto proroghe invece di una, e sopprime la causale che prima era richiesta (si può fare comunque), e prevede che possano raggiungere il 20% dell’organico, mentre dovrebbero essere rara eccezione. E nell’apprendistato sopprime il contratto scritto; sopprime l’obbligo di una formazione anche teorica, sopprime l’obbligo di assunzione per almeno il 30%, che finora condizionava l’assunzione di altri apprendisti (quest’ultimo un fatto gravissimo). Il contrario di una lotta alla precarizzazione.
Si parla di soppressione dei contratti nazionali di categoria. Un discorso fatto già sempre dalla Destra, ma non mai attuato; l’obiettivo sempre perseguito dal capitale. Certo, se si arriva al contratto individuale si abolisce di fatto la classe lavoratrice e la sua forza. Il lavoratore si trova solo e debole di fronte al padronato, non ha praticamente nessuna forza di contrattazione, soccombe necessariamente. La sua dignità e diritto di persona umana, che è la stessa di quello del padrone, viene di fatto annientata. Un passaggio neppure ipotizzabile.
Altri punti sono meno incisivi, e però magari importanti. A cominciare dal salario minimo generalizzato e garantito, di cui si parla. È una vergogna che in Italia non ci sia ancora, in un paese in cui la classe operaia e i partiti operai erano talmente forti. C’era il punto unico di scala mobile, che adeguava automaticamente i salari all’inflazione; ma ad un certo momento il sindacato ci ha rinunziato: un errore gravissimo. Il salario minimo garantito c’è in Francia, dove viene aggiornato annualmente; c’è in altri settanta paesi. Si spera che arrivi al più presto anche in Italia.
Si parla del trattamento di fine rapporto (detto anche liquidazione), di pagarlo gradualmente, almeno per il 50%, in busta paga. Da un lato è vero che in molti altri paesi non c’è; e che per le imprese è un forte aggravio. È anche vero che i salari italiani sono sensibilmente più bassi di quelli dei maggiori stati europei (si ricordi la denunzia di Draghi di anni fa), e che il Tfr li compensa. L’idea di metterlo in busta paga, e quindi innalzare di fatto il salario, non è malvagia.
Si parla anche di una riforma della cassa integrazione, che tre l’altro non sarà più accessibile quando l’azienda chiude. E perché poi? forse che, in tal caso, cessa con l’azienda il bisogno del lavoratore? Si parla di revisione della durata, quasi certamente in meno. E l’indennità di disoccupazione sarà correlata alla “pregressa storia contributiva” del lavoratore. Speriamo bene.
Resta l’impressione già espressa all’inizio, e cioè di un insieme d’interventi disparati, e scarsamente migliorativi..
2/10/2014
Il problema dei movimenti secessionisti in Europa
di Arrigo Colombo
Il recente referendum per la secessione ed autonomia della Scozia ci ha portato a riflettere su questo problema. La secessione è stata sconfitta con un 55% contro il 45. Dieci punti: sono qualcosa, ma non molto. Anche se la Scozia può sembrare un caso a parte perché è stata un regno indipendente fino al ‘700; ha resistito a lungo ai tentativi di annessione da parte della nazione britannica.
La stampa ha citato molti altri casi di possibili tendenze secessioniste. Ma le veramente significative sono poche. Le spagnole anzitutto; dove però la lunga lotta del paese basco sembra essersi acquietata, dopo che si è chiarito che era condotta da una presuntuosa frangia cui mancava il sostegno popolare; mentre resta in campo la Catalogna che ha preparato un referendum. Si vedrà.
V?è poi il caso delle molte etnie russe, ma in particolare della Cecenia, che per la secessione ha duramente combattuto ma è stata anche fin troppo duramente schiacciata.
Ma ecco che anche noi abbiamo avuto un fenomeno secessionista, la Lega Lombarda, poi Lega Nord, che ad un certo momento associa tutte le regioni del Nord, con un’adesione anche toscana. Ma raccoglie sempre un consenso popolare modesto: in Lombardia, nelle politiche del 1999 il 14,10%, in Piemonte il 7,8, in Veneto il 17,7; nel 2009 rispettivamente il 12,33; il 6,47; il 15,37. A livello nazionale, nelle politiche del ‘96 il 10,22; in quelle del 2013 il 4,08. Anche se, attraverso coalizioni, col sostegno soprattutto del partito berlusconiano, raggiunge la presidenza di alcune regioni (la Lombardia prima con Formigoni, poi con Maroni; il Veneto con Zaia nel 2010, e così il Piemonte con Cota).
La Lega Lombarda, fondata nell’84, poi dall’87 lega Nord, è certo un fenomeno strano. A cominciare dal suo fondatore, Umberto Bossi, tipo rozzo e incolto; come un po’ tutto il gruppo dirigente, che raccoglie assai poco dell’intelligenza lombarda, o della stessa classe dominante. Strano anzitutto perché parte a poco più di sessant’anni da un processo di unificazione che è costato quasi un secolo, con almeno quattro guerre, e con grande partecipazione popolare (le rivolte, i plebisciti). Processo che riuniva finalmente una nazione, l’ultima che in Europa era rimasta ancora divisa, pur avendo una grande storia (si pensi anche solo all’Umanesimo del ‘400 che – col suo principio di «dignità» della persona umana, o anche dell’homo faber, del plastes et fictor – apre la modernità; o a Galilei che imposta la tecnologia); paese eccelso nelle arti e nella letteratura, nella musica. Che poi nella lotta per l’unità sbancava i principotti aristocratici (che già la Rivoluzione francese aveva annientato); sloggiava uno degl’imperi, l’Austro-Ungarico, destinato poi alla fine con la Prima guerra mondiale; e infine quel fenomeno assurdo dello Stato Pontificio che rinnegava il rifiuto evangelico del potere politico (le parole del Cristo, «il mio Regno non è di questo mondo»; e altri passi). Ed è vero che a capo del processo vi era una monarchia, la Sabauda, ma era costituzionale, parlamentare, democratica; e anch’essa sarebbe poi caduta con la Seconda guerra mondiale.
Di fronte alla grandiosità di questo processo, al suo carico di storia, la meschinità della,Lega, coi suoi ragazzotti. Che probabilmente raccoglievano un vecchio rancore lombardo contro la burocrazia che veniva tutta dal Centro-Sud, con la sua lentezza ed inutile complicazione cui certo lo sbrigativo spirito lombardo si ribellava. Un rancore, sì, ma in fondo un fenomeno marginale; d’altronde i lombardi preferivano lavorare nell’ industria e nell’indotto, non cercavano certo il posto di Stato. Quanto all’altra accusa, della ricchezza del Nord che, nell’equilibrio della Nazione, e nel principio di condivisione dei beni, andava al Centro-Sud, l’animo lombardo era tradizionalmente generoso; l’opposto delle rivendicazioni dei tipi della Lega.
Il fenomeno secessione ha anche un carattere di astoricità, di contrasto alla storia. La quale non va verso la scissione ma verso l’unione. In Europa, in particolare, dove si sta cercando di costruire l’Unione Europea, si sta riunendo un continente, si ha bisogno di spirito e d’impegno unitivo per riuscire a farlo. Sapendo quanto questa impresa, esemplare per l’umanità intera, sia benefica; e quanto insieme sia difficile perché deve superare il nazionalismo e lo sciovinismo di popoli la cui unità-identità dura da secoli, come anche il loro orgoglio d’imperialisti coloniali. Francia, Inghilterra col suo Commonwelth e la sua sterlina; Germania, con la sua ricchezza e potenza. Dove il processo unitivo si è come bloccato ed è urgente che sia ripreso.
Perciò spirito e impegno di unità; non inutili, e spesso anche ridicole velleità di secessione. Come di quelli che pensano che anche il Salento potrebbe staccarsi, rendersi autonomo. E perché mai? .
26/09/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 26/09/2014
Il nuovo califfato arabo, una forma di brigantaggio
di Arrigo Colombo
Non senza stupore l’umanità ha appreso che il mondo arabo – o piuttosto un pugno di bande arroganti e presuntuose – aveva rigenerato la grande istituzione, il “califfato”. Quella dei “successori” (tale è il senso della parola) del profeta, che nel nome di Allah e del profeta stesso erano partiti alla conquista del mondo intero, alla sottomissione del mondo intero ad Allah; e, risalendo dall’Arabia, che il profeta stesso aveva conquistato, erano andati conquistando la Palestina, la Siria e tutto il Medio Oriente da un lato; mentre dall’altro avevano sottomesso l’intero Nordafrica, spingendosi poi in Spagna e Francia; fino alla battaglia di Poitiers e quindi alla riscossa occidentale che li cacciò dalla Francia e poi dalla Spagna; ma ci vollero secoli. Mentre poi essi tentavano di aggredire l’Europa dall’altro lato, ad Est, spingendosi fino a Vienna e a Budapest. Insomma la grande epopea che si conclude poi con l’impero ottomano e la sua fine nella Prima guerra mondiale, mentre tutto il glorioso mondo arabo ed islamico è finito nell’asservimento degl‘imperi coloniali.
Poi gl’imperi coloniali si dissolvono, ma non per un fatto di potere, bensì per un processo etico-politico che si sviluppa nella modernità, la costruzione di una società di giustizia, il principio della dignità e del diritto dei popoli, della loro insuperabile autonomia, i fondamentali principi di libertà e di eguaglianza, il formarsi su questa base di una comunità planetaria dei popoli, ancora molto imperfetta, ma in cui tutti i popoli convergono e si ritrovano insieme nella sovranità di ognuno, e sono oggi 193 (solo pochi sono esclusi: il Tibet, che sta sotto la dispotica oligarchia cinese; il Curdo, che sta diviso in almeno tre Stati – Turchia, Iraq, Iran –; il Palestinese, bloccato dall’arrogante ostilità d’Israele, che gode del sostegno americano.
In questo contesto etico-politico, la proclamazione di un califfato, e del suo scopo supremo dell’assoggettamento del mondo intero ad Allah e al suo profeta, risulta perlomeno estemporanea, fuori dalla storia umana e dal suo corso, arcaica. Come arcaica risulta tutta l’impostazione etico-politica dell’Islam. Rientra certo nel processo di recupero della sua identità dopo l’asservimento coloniale, della sua dignità di religione monoteistica, della dignità nell’esercizio dei principi della sua fede e disciplina di credente, i “cinque pilastri” coranici: della professione di fede, della preghiera rituale (le folle prostrate a terra che vediamo abitualmente), dell’elemosina legale, del digiuno di Ramadan, del pellegrinaggio alla Mecca. Cui se ne aggiunge un sesto che è appunto la jihad, la guerra santa, la sottomissione dei popoli ad Allah, il precetto che ritorna in molti passi del Corano: “Combattete fino a che la religione non sia quella di Allah”; “v’è prescritta la guerra”, “getteremo il terrore nel cuore degl’infedeli”. Talora con espressioni certo anomale, crudeli: “Coloro che combattono Allah e il suo Messaggero saranno massacrati o crocifissi, o amputati delle mani e dei piedi” (Corano, 2, 193, 216; 3, 151; 5, 33).
Ora la guerra è il più efferato dei crimini, il macello umano. Nulla la può rendere lecita; tanto meno un motivo religioso, in quanto la divinità esprime in sé la suprema perfezione morale. In passato si è parlato di “guerra giusta”: la guerra di liberazione dal dominio di un altro popolo o dal dominio di un tiranno; ma oggi se ne è riconosciuta la suprema ingiustizia.
Il discorso si porta così sull’arretratezza etica ed etico-politica dell’Islam, e del Corano che ne è il testo fondatore, e che viene abitualmente assunto dall’Islam come codice etico e giuridico. In molti punti, come l’asservimento della donna all’uomo (che porta alla sua clausura in casa e al velo anche totale quando esce), la poligamia, la liceità della schiavitù. Il Corano è un testo del secolo VII e riporta in sé punti dell’etica delle tribù arabe del tempo. Ma un’etica non molto diversa era diffusa anche in Occidente. Perciò gli studiosi parlano dell’assenza nell’Islam di un “processo di modernizzazione”; di quel processo che ha inizio con l’umanesimo del ’400, con l’affermazione della dignità della persona umana, dignità e diritto in seguito; e che con le Rivoluzioni moderne sviluppa il conseguente principio di sovranità popolare, e quindi il modello democratico, l’unica forma di Stato giusto; così come sviluppa il principio dell’autonomia dei popoli. Questi principi si affermano nelle Carte dei popoli, di cui la più nota è la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” nella Rivoluzione francese (ma nel 1948 la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” nell’ambito dell’Onu). Portano, lungo l’800, all’abolizione della schiavitù, ch’era durata per millenni; nel ‘900 al suffragio universale, alla caduta degl’imperi, prima di quelli continentali (asburgico, prussiano, russo, ottomano con la Prima guerra mondiale; cinese nel 1912; giapponese nel ’45), poi di quelli coloniali.
A questo punto il nuovo califfato compare piuttosto come una forma di brigantaggio; tanto più che è accompagnata da kamikaze, stupri, massacri. Totalmente estraneo alla storia umana. Già prima alcuni esponenti dell’Islam avevano dichiarato che non si poteva più usare del Corano come di un codice, per la sua pericolosa arretratezza.
10/09/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 10/09/2014
Alcune riflessioni sul governo Renzi
di Arrigo Colombo
Renzi entra in scena a un certo momento come il “rottamatore”, colui cioè che vuole svecchiare il suo partito, il Partito Democratico, eliminando quelli che stanno a posti di potere da anni ed anni, nei posti chiave del Partito stesso, al Parlamento, al Governo, ai vari enti di Stato; ci stanno magari da una vita o da una mezzavita. Il più tipico è forse Andreotti che entra in Parlamento a ventisett’anni e ne esce quando muore, a novantaquattro, essendosi fatto nominare senatore a vita.
Renzi forse non ci pensa, ma qui è in gioco un principio fondamentale della democrazia, dove il potere appartiene ai cittadini e non dev’essere appropriato da nessuno. Ad Atene, la democrazia più antica e più rigorosa nel metodo, all’assemblea legislativa appartengono i cittadini tutti, ma le magistrature della città possono essere coperte dai singoli solo per un anno (tirati a sorte) e solo una volta in vita; affinché la maggior parte dei cittadini, detentori del potere, possa parteciparvi.
Renzi si affaccia dunque come il rottamatore e come tale assume un compito importante, che però deve portare a compimento. Non solo nel suo partito. Così una decisione da prendere è che nessuno può restare in Parlamento più di una legislatura, o due al massimo, cioè dieci anni (che non è poco); anche i notabili dei partiti, tutti senza eccezione. I notabili, poi, continueranno a svolgere la loro attività politica nel partito e fuori, in molti modi; ma non potranno occupare cariche stabilmente.
Questo vale anche per gli Enti di Stato. Stabilire un tempo massimo sia per l’appartenenza ai Consigli di amministrazione, sia per le alte cariche: non oltre dieci anni. E così per la burocrazia di Stato, a cominciare dai Direttori generali; per questa in particolare, appartenendo alla gestione di quello Stato di cui il cittadino è sovrano.
Renzi si presenta come persona dinamica, che vuole riformare e risanare lo Stato; e lo vuole fare rapidamente.
C?è la famosa riforma del Senato che elimina la doppia camera e la doppia discussione della legge; ne elimina insieme i costi. Una riforma che i partiti avversano perché toglie loro posti di potere e di guadagno. Non dovrebbe essere elettivo, trattandosi di persone già elette. E però bisogna anche sfoltire la Camera coi suoi 630 deputati, un numero enorme; bisognerebbe dimezzarla.
C’è inoltre il gravissimo problema dei parlamentari imputati, sotto processo, condannati. In questo Parlamento sono la bellezza di 114; evviva la corruzione. Qui è necessario intervenire con forza perché il Parlamento è l’organo della legge, e i parlamentari devono essere ineccepibili di fronte alla legge. Perciò l’unica soluzione è che già l’inquisito (colui che ha ricevuto l’avviso di garanzia, cosiddetto) non può stare in Parlamento.
Sul lavoro produce un Jobs Act di scarso significato, piuttosto negativo. Non pensa alla prima indispensabile dote di cui il lavoro necessita, la stabilità, contro quella precarietà che rende precaria l’esistenza della persona come della famiglia. Ne aumenta anzi la precarietà nei contratti a termine e in quelli di formazione. Non apprezza la garanzia che dava l’art. 18, e che già era stata intaccata dalla Fornero.
Si è parlato finalmente di avere una legge per il salario minimo garantito; ma bisogna avere anche la pensione minima garantita, eliminando certe pensioni da fame oggi in atto. E bisogna ritornare al metodo retributivo che garantiva al lavoratore una pensione corrispondente ad una buona percentuale dell’ultimo salario; eliminando il metodo contributivo introdotto dalla Fornero.
Vuole diminuire la presenza sindacale, forse perché pensa che sia eccessiva e abusiva. Un punto da verificare.
Ha deciso di eliminare finalmente alcune leggi vergognose e nocivissime varate dalla Destra e che nessun governo di Centro-Sinistra ha mai toccato; né i due Prodi, né D’Alema o Amato o altri. Bell’esempio. Quella che legalizza il falso in bilancio; quella che riduce i tempi di prescrizione, facendo saltare i processi in corso. Sì che i colpevoli di corruzione e concussione se ne vanno impuniti e continuano a corrompere. Lo si è visto col famoso Gianstefano Frigerio; e con tutto il dilagare della corruzione emerso negli ultimi tempi. Bene. Resta però un’altra legge che tutti a parole hanno invocato in questi vent’anni, quella sul conflitto d’interessi; finora Renzi non ne ha parlato.
30/06/2014
Una catastrofe che si annuncia per l’umanità
di Arrigo Colombo
Il più grosso problema di politica ambientale che incombe sull’umanità è la riduzione dei gas serra (gas di carbonio, metano ed altri) che provocano il surriscaldamento dell’atmosfera – da cui derivano già ora i fenomeni meteorologi estremi, cioè cambiamento climatico, piogge torrenziali, esondazioni, alluvioni –, quindi lo scioglimento dei ghiacci, quindi l’elevarsi del livello dei mari, quindi la catastrofe planetaria delle grandi inondazioni.
Un tema poco presente alla coscienza dei popoli, poco sviluppato dalla stampa e dai media, avversato dal capitale e dalle grandi imprese, che hanno anche finanziato una controricerca; sottovalutato dalla mediocrità e dall’incuria degli Stati.
L’azione politica in proposito parte, già con grande ritardo, dal famoso Protocollo di Kyoto del 1997 (ma in vigore dal 2005) per una riduzione globale della emissione dei gas serra dell’8% entro il 2012. Obiettivo certo modesto. L’Europa va oltre il suo compito: dal 2000 al 2012 riduce del 14%; si propone per il 2020 i famosi tre 20, cioè 20% in meno di emissioni inquinanti, 20% di risparmio energetico, 20% in più di energia pulita e rinnovabile.
Ma i grandi inquinatori continuano la loro azione nefasta. Negli Stati Uniti il presidente Bush, petroliere e legato ai petrolieri, non firma il protocollo; e si sa che gli Usa inquinano per il 36% del totale; dal 2000 al 2012 aumentano di un 4%. Cina, India, Brasile, in quanto paesi emergenti, non vengono inclusi nel protocollo; e così in quel periodo di dodici anni la Cina aumenta le sue emissioni di gas serra del 171%, l’India del 173%, il Brasile del 94%. L’aumento mondiale è del 43% (Dati del Dossier Clima 2014). L’inquinamento calorico dell’atmosfera continua dunque a crescere, anziché diminuire in misura sensibile, in misura forte.
A questo punto il ritardo è eccessivo e non più recuperabile. Le osservazioni satellitari sono in proposito decisive. Gli studiosi calcolano che le catastrofi non potranno essere evitate. Catastrofi parziali, non globali; non si tratta di distruzione dell’umanità, della fine del mondo. Catastrofi però consistenti.
Il surriscaldamento atmosferico fa sciogliere i ghiacci. I ghiacciai delle catene montuose vanno arretrando di anno in anno. Con essi arretrano i grandi ghiacci polari: anzitutto il Polo Nord, che non ha sotto di sé un continente ma è pura massa ghiacciata. Già ora scompare con l’estate il permafrost, cioè il territorio circostante ch’era permanentemente ghiacciato; si apre il passaggio a Nord-Ovest, quello che immette dall’Atlantico nel Pacifico attraverso l’estremo Nord del Canada e che fa risparmiare alle navi 400 chilometri.(nel 2013 il primo passaggio di una nave commerciale). I ghiacci del Polo Nord arretrano di 100.000 km. all’anno, ma talora (come nel 2005-2007) di un milione di km. Si calcola che la riduzione attuale sia già intorno al 50% (rispetto al 1979) e che il Polo Nord scomparirà tra il 2030 e il 2050. Mentre continua lo scioglimento dell’Antartide. Tutto questo si traduce in un innalzamento delle acque dei mari.
Intanto, aumentando il prezzo del greggio, gli Usa decidono di passare allo sfruttamento degli scisti bituminosi siti tra lo Utah e il Colorado, per estrarne gas, aumentando così il combustibile fossile e quindi l’emanazione di carbonio. A sua volta il Canada decide di sfruttare le sabbie bituminose dell’Alberta, con grave danno ecologico già nell’estrazione, distruzione di foreste; e anzi nel 2011 decide di uscire dal protocollo di Kyoto. Altri Stati li seguono, l’inquinamento calorico, invece di diminuire, sale vertiginosamente.
Le previsioni. Dal 2040 ondate di calore enormi che portano alla desertificazione di regioni già ora soggette al gran caldo e alla scarsità d’acqua.
Cui conseguono grandi migrazioni di popoli sottoalimentati e disidratati.
Crescita esplosiva di popolazioni d’insetti, che porta alla distruzione d’intere foreste un po’ ovunque nel Pianeta, ma specialmente nelle zone tropicali; porta anche a grandi epidemie di tifo, colera, febbre gialla..
Ma la fase finale e decisiva di questa catastrofe è lo scioglimento delle grandi calotte di ghiaccio della Groenlandia e soprattutto dell’Antartide. Si calcola che il livello dei mari si alzerà dai quattro ai sei metri.. Tutte le grandi pianure saranno invase dall’acqua. Già ora compaiono delle cartine di come allora sarà la terra. Così il Salento in gran parte scomparirà: resteranno soltanto le Murge salentine.
Sarà certo una enorme catastrofe, la cui responsabilità deve attribuirsi alla criminale foga del capitalismo, pronto a tutto distruggere per tutto trasformare in profitto, in valore economico. E con esso alla classe politica che, nonostante le previsioni e gli ammonimenti della scienza, non ha mai affrontato con decisione l’enorme problema. E la decisione era necessaria, dato il ritardo in cui ci si trovava. Un ritardo che ormai non è più recuperabile.
Alcuni parlano di fine della Civiltà Occidentale, ma è gente che non conosce la storia. Sarà proprio la Civiltà Occidentale con i grandi mezzi che ha sviluppato lungo la Modernità, che potrà affrontare la crisi e superarla, pur tra enormi perdite. Anzi, forse sarà la volta in cui i popoli si sbarazzeranno del capitalismo, il grande distruttore; in cui la politica si farà seria, onesta, umana, dopo questa disgraziata fase di
corruzione, di velleità secessionistiche, di avidità, di privilegio. Forse allora un vero partito di popolo potrà portare l’umanità verso quella società di giustizia a cui in tutta la sua storia è protesa.
21/06/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 27/06/2014
I giudici che sbagliano e l’errore del PD
di Arrigo Colombo
Veniamo anzitutto al fatto. Si sa che la Destra cercava da tempo di varare una legge che rendesse il giudice personalmente responsabile di un errore commesso; che dovesse cioè pagare lui personalmente, nei termini di un’ammenda, di una pena. E si sa che questa legge era una vendetta di Berlusconi contro quei giudici che nel ventennio lo hanno “perseguitato” senza posa. I giudici “rossi” e comunistoidi lo hanno perseguitato, lui, l’innocente capro espiatorio, con i famosi 27+4 processi. Dai quali ha cercato di liberarsi facendo varare dai suoi amici della Destra le famose leggi: i vari “lodi” che, come uomo di Stato, uomo supremamente impegnato, lo dispensavano dalle beghe giudiziarie, sospendendo le procedure; la prescrizione breve, che annientava il processo in corso. Quella prescrizione breve di cui hanno beneficiato, insieme a Berlusconi, migliaia di altri processi. Per cui i corrotti, che in Italia abbondano, come si è visto da tutto ciò che emerso in queste settimane, e sta ancora emergendo (i corrotti dell’Expo di Milano, quelli del Mose di Venezia, quelli della Guardia di finanza); questi corrotti e corruttori si sono liberati dai processi e hanno continuato a corrompere. Un fatto estremamente grave, se si pensa che le condanne per corruzione che nel ’98 erano 1714, nel 2010 erano scese a 263.
Questa famosa legge, dunque, attraverso un emendamento apposto ad altra legge, è stata approvata dalla Camera mercoledì scorso, in una votazione a scrutinio segreto, con solo sette voti in più; un classico colpo di mano, 187 voti contro 180. In cui però erano implicati una cinquantina di deputati del Partito Democratico. E questo apre una questione gravissima a proposito del PD, cioè di ciò che all’Italia è rimasto della Sinistra; l’Italia che, dal dopoguerra, per quasi cinquant’anni ha goduto della Sinistra più forte d’Europa: un Partito Comunista che raccoglieva il 30% dell’elettorato; un Partito Socialista col 10%.
Che cosa è rimasto, ci si chiede? Se si pensa che, storicamente, la Sinistra è il partito del popolo lavoratore; il partito teso alla trasformazione della società ingiusta, alla costruzione di una società di giustizia: la società del lavoro stabile, del salario alto, dei sussidi alla famiglia ed ai figli; la società della ridistribuzione della ricchezza, dei servizi ad ampio raggio, del benessere per tutti. Fino al superamento del capitalismo e all’instaurarsi di una società solidale, in cui il principio della dignità e diritto della persona, e quindi della vita dignitosa per ogni persona; il principio dell’eguaglianza nella dignità e nel diritto, porti ad una fondamentale parificazione, sopprimendo le ineguaglianze abissali che ancora ci tormentano: nel profitto, nei salati altissimi dei manager, e nei bonus in sovrappiù; di contro agli otto milioni di poveri (abituali in Italia; ora, nella crisi, 12 milioni), cioè di persone (e famiglie) il cui reddito è inferiore ala metà del reddito medio di lavoro.
La Sinistra è il partito dell’innovazione nella giustizia e nella solidarietà; la Destra è il partito della conservazione dalla società ingiusta. E allora ci si chiede: annientato il Socialismo italiano nella corruzione di Tangentopoli; annientata la DC, il partito cristiano, nella stessa corruzione; crollato il PCI nel crollo dello pseudocomunismo sovietico, democratizzato e insieme fratto, e ammorbidito, che cosa resta nell’attuale PD? Che cosa ci si può attendere, che cosa si può sperare? Anche dopo questa votazione, questi cinquanta che votano con la Destra una legge di risentimento e di vendetta contro la Giustizia?
Ma veniamo al problema della responsabilità del giudice che sbaglia. Certo è difficile che ciò accada, dati i tre gradi del processo. E però può accadere. Questa l’obiezione.
La risposta è che il problema dev’essere risolto all’interno della magistratura, come oggi avviene; che il giudice non dev’essere esposto personalmente ad attacchi, rivalse, vendette, cui questa legge aprirebbe la via, sovvertendo non solo la persona del singolo ma l’intero sistema del processo. Se un giudice sbaglia, sarà giudicato all’interno della categoria, attraverso il CSM; lì riceverà la punizione, che può giungere fino all’espulsione, oltre che alle ammende e al carcere.
L’Italia ha un sistema giudiziario esemplare in cui nessuno può interferire; a differenza di altri paesi in cui ad esempio un ministro può trasferire un giudice, e così sottrargli il processo scottante; un’interferenza dell’esecutivo, che è contro il supremo principio della divisione dei poteri. Questo sistema dev’essere preservato. Renzi dice che l’errore commesso alla Camera sarà corretto al Senato. È quello che ci aspettiamo per il bene di un paese già tanto travagliato.
14/06/2014
Elezioni europee, masse erranti e sbandate
di Arrigo Colombo
Ai risultati delle recenti elezioni europee è seguita l’esultanza del Partito Democratico che ha superato il 40% dei voti; mentre l’avversario più temuto, il coacervo inerte ed insipido dei Cinquestelle è rimasto al 21; e il decadente assemblaggio berlusconiano è sceso al 16. Anche se, a ben rifletterci, restano sempre incomprensibili gli oltre cinque milioni di voti confluiti su quel coacervo che, da quando esiste, non ha dimostrato nessuna sensibilità politica, non ha fatto nulla che in qualche modo potesse aiutare la nazione ad affrontare i suoi problemi; è rimasto chiuso in se stesso, forse nella vana attesa e speranza dell’ascesa incontenibile, di diventare lui solo il partito egemone. Come restano incomprensibili i quattro milioni che hanno votato per il berlusconismo dopo vent’anni di malgoverno, di leggi inique, di malefatte e processi del suo pseudo-carismatico. e decadente leader.
Ma l’incognita maggiore resta la grande massa anonima dei non-votanti, quel 42% che ha rifiutato sdegnosamente il voto, o l’ha trascurato o l’ha disprezzato. In un paese che ha una grande tradizione d’interesse al voto, di partecipazione. Pur ammettendo che le elezioni del Parlamento europeo possano essere meno significative che non le nazionali.
Entriamo qui nel vespaio della situazione elettorale italiana, nelle incertezze in cui si dibatte l’elettore, nello smarrimento delle grandi masse politiche ed elettorali. Poiché in loro risiede originariamente il potere politico, la sovranità popolare; e questo è la democrazia. Ma non se ne rendono conto.
Le grandi masse elettorali italiane, che avevano costruito e gestito la Repubblica per cinquant’anni, sono state sconvolte dal terremoto politico dei primi anni novanta. Quando hanno perduto i loro punti di riferimento, i grandi partiti di quel cinquantennio. Democrazia cristiana e Socialismo anzitutto, i due grandi alleati, miseramente crollati nella vasta corruzione di Tangentopoli. Un fatto di enorme peso. Da un lato il partito cristiano, il figlio della Chiesa, in Italia potentissima, e anche grande protettrice; e non aliena dall’interferenza politica anche non lecita. Dall’altro il partito socialista con la sua grande tradizione, il martirio di Matteotti sotto il fascismo, la figura di Nenni pur con qualche errore. E poi il partito comunista ch’era entrato in campo nel dopoguerra assumendo una misura e una forza enorme, competitivo con la DC, rappresentando per eccellenza la classe operaia; legato al modello sovietico e al suo pseudocomunismo, al suo dispotismo e dogmatismo. La grande potenza che in quella stessa fase implode, crolla, privandolo del suo punto di riferimento. Non solo, ma provocando a livello mondiale quella violenta critica e demolizione del comunismo come tale che fa vacillare la coscienza di tutti coloro che nel comunismo hanno creduto; anche a prescindere dall’Unione Sovietica. Di fatto il PCI si era già in qualche misura staccato dalla grande madre. Tentava con Occhetto la democratizzazione, su cui incideva però la scissione di Rifondazione Comunista, poi di altri gruppi che ancor oggi costituiscono la diaspora della Sinistra estrema: diaspora fratta, di partitini impotenti.
Si può capire allora l’incertezza che sconvolge le masse elettorali, quando i tre partiti che portavano la nazione, che l’avevano portata per cinquant’anni, in parte crollano, in parte s’indeboliscono. L’incertezza che le porta a decisioni inconsulte. Come il successo di Berlusconi, che non rappresenta nulla per il popolo italiano, nulla di ciò che quei tre partiti portavano in sé d’ideali e di progetti. Al contrario, ha con sé la manovra mediatica: la sua,. poi anche quella statale; e quindi la suasione occulta e palese, e l’inganno. Cui si aggiunge, e con cui si allea il fatto obbrobrioso, la Lega, la pretesa della scissione, della rottura del Paese; di quel Paese che un secolo di guerre e di sacrifici avevano da poco faticosamente costruito.
Qui lo sbandamento totale dell’elettorato, qui quella che fu identificata come la “casalinga di Voghera”, e con essa “l’operaio del Sud”, i grandi elettori e grandi succubi del trombone berlusconiano e dell’arroganza leghista. Poi interviene Grillo, altra inconsistente sirena, che incanta soprattutto i giovani incerti e sprovveduti.
Nel frattempo si è formato il Partito Democratico, una fusione di residui democristiani sinistroidi e di ex-comunisti vacillanti. Ancora più debole. Renzi, il grande rottamatore, li porta per ora a questa vittoria. Che è solo provvisoria perché le masse che hanno votato PD sotto il fascino di Renzi sono masse d’accatto, cui manca l’idea, manca la fermezza.. E perché c’è poi quell’altro 42% che si è astenuto e che attende il prossimo passaggio. Ancora più incerto, ancora più temibile.
7/06/2014
Basta con l’inerzia, si costruisca l’Europa
di Arrigo Colombo
L’esito più o meno catastrofico delle elezioni europee, l’euroscetticismo che circola un po’ ovunque, l’avversione alla moneta unica e la velleità di uscirne, tutto questo ed altro è conseguenza dell’inerzia, del blocco che dura ormai da quasi dieci anni, dal 2005, dal negativo referendum francese ed olandese sul progetto di Costituzione. Di fronte al quale tutto si è stupidamente fermato. Se si pensa che già diciotto Stati l’avevano ratificata, e altri sette vi si apprestavano. Bisognava semmai chiedere ad olandesi e francesi quali fossero i punti del loro dissenso; a parte il fatto cha il popolo che ha votato, di questa Costituzione sapeva ben poco, il governo francese non si era per nulla preoccupato di far avere ai cittadini il testo. Un costo troppo alto, si dirà, un’operazione troppo macchinosa; e poi il testo era troppo lungo e nessuno l’avrebbe letto. Bella storia davvero.
Qui i nostri cari rappresentanti e Capi di Stato sono tutti colpevoli; loro che, dopo quei due no, hanno bloccato tutto. Forse per il pregiudizio dell’unanimità; ma quale unanimità? l’unanimità della gente su di un testo così complesso? L’unica decisione saggia era quella di lasciar votare tutti gli Stati membri, raccogliere i punti di dissenso, riprendere il testo della Costituzione e rielaborarlo. Chi può dire il contrario?
Certo, c’erano i vari sciovinismi, degli Stati timorosi di perdere anche solo una piccola parte del loro potere. Non parliamo degl’’inglesi, che si sono sempre tenuti in parte dentro e in parte fuori, per godere i vantaggi di una parte e dell’altra. E poi loro avevano avuto il più grande impero coloniale, e ancora oggi il Commonwealth, una mezza alleanza di facciata che a poco serve; a parte gl’interessi economici che ancora mantengono nelle ex-colonie, dopo averle sfruttate per bene; loro e i francesi.
Dimenticavano, quei signori, e anche gli olandesi, e tutti i più o meno intelligenti ed onesti Capi di Stato, che si sta costruendo un’opera grandiosa: lo Stato federale europeo, una comunità di Stati sovrani, oltre 500 milioni di abitanti; un enorme potenziale di cultura, di creatività, d’invenzione, di produzione; una comunità che può diventare un esempio per altre comunità da crearsi nel mondo; e che può equilibrare l’intera situazione del pianeta.
Anzitutto perché è una comunità di pace; proprio per questo è stata istituita; e, da teatro di guerre ch’era stata per secoli, è diventata una zona di pace. Il primo grande successo. Accompagnato tuttavia da grossi errori, come l’aver partecipato alle guerre scatenate dagli americani in Afghanistan e in Iraq: guerre stupide, senza motivo se non la rivalsa per lo smacco delle torri gemelle; guerre infinite e in perdita, perché interviene la guerriglia contro la quale i carriarmati e i grossi bombardieri a nulla servono. Ma come Stato di pace, l’Europa deve convincersi che non solo non può scatenare guerre, ma neppure partecipare alle guerre degli altri; può solo compiere missioni di pace, di pacificazione. E da essa deve partire un’azione planetaria per l’abbattimento delle armi, a cominciare dall’arma nucleare, per la riconversione delle fabbriche d’armi. Un’azione di enorme peso.
Un nuovo grande Stato che non vuol essere egemone e che non accetta nessuna egemonia nel Pianeta; non quella americana riaffermata proprio recentemente da Obama in termini forti, in termini sicuri; non quella cui aspira Putin, il presuntuoso semidittatore e aspirante egemone, col recente patto che coinvolge altre nazioni dell’Est. Nessuna egemonia perché l’egemonia è l’arrogante imporsi di un potere; mentre l’umanità si è già stretta da tempo in una comunità planetaria di Stati che è l’Onu, e lì sta l’unica autorità legittima, da tutti riconosciuta, che può imporsi nel mondo. Ovviamente non funziona ancora bene, anche perché è recente; ma è sul miglioramento e sulla reale forza, anzitutto morale, di questa autorità, che l’impegno di tutti deve concentrarsi.
Oltre che comunità di pace l’Europa deve diventare comunità di benessere per tutti i suoi popoli. E lo può diventare. Anche per questo urge che l’azione costruttiva sia ripresa, per un piano e un’azione continuativa di aiuto reciproco. Che la Costituzione sia rielaborata e varata, che attraverso una cessione di potere da parte di tutti, i cui termini li stabilirà la Costituzione stessa, sia stabilita la Federazione europea di Stati sovrani, con un vero Parlamento, un vero Governo come suo esecutivo, un’unica personalità giuridica che sviluppa una autentica attività politica. Nel mondo intero. Attività di pace, di riduzione e abbattimento degli armamenti. Attività antiegemonica, per un’autentica eguaglianza dei popoli nella dignità e del diritto. Attività di gestione dell’economia mondiale, contro l’esasperato liberismo americano, da cui si generano poi le crisi. Attività di superamento del gap che ancora intercede tra paesi ricchi e paesi poveri.
L’Unione europea nasce come un grande Stato benefico per l’umanità, e così dev’essere. Così deve diventare al più presto.
31/05/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 11/06/2014
La corruzione che infuria in Italia, le sue cause
di Arrigo Colombo
In queste ultime settimane nuovi focolai di corruzione hanno riempito le pagine dei giornali: con le loro gesta, i loro crimini. Frigerio e l’Expo milanese, l’ex-ministro Claudio Scaiola, Matacena e la ndrangheta calabrese. Mentre in Puglia infuria la Sacra corona unita, la quarta e ultima mafia. Addirittura si parla di una nuova Tangentopoli peggiore della prima; anche se è difficile raggiungere quel livello. E la presenza di quattro mafie costituisce un’anomalia unica.
L’argomento che tradizionalmente adducono gli studiosi a questo fenomeno, a quest’anomalia del Bel Paese, è la sua cattolicità, o meglio una coscienza che si forma in alcuni caratteri della cattolicità come la confessione, e in essa la facile remissione del male. Il perdono del peccato come è andato evolvendo dal rigore della prima e più autentica fase, in cui i peccati gravi (che poi sono i veri peccati) potevano essere perdonati solo attraverso una penitenza pubblica: si entrava nel gruppo dei penitenti, si era collocati in fondo alla chiesa, si portava una veste dimessa ecc. Un metodo che in seguito viene considerato troppo severo, per cui s’introduce la confessione personale, regolata però da precise norme di espiazione, raccolte nei Libri penitenziali. Finché si arriva alla confessione di tipo attuale, con la penitenza a discrezione del confessore; magari le tre Avemaria o i tre Paternoster; s’introduce la confessione frequente dove non ci sono più veri peccati, e quindi non c’è vera penitenza; alcuni personaggi, indicati com’esemplari, praticano addirittura la confessione giornaliera – così Carlo Borromeo o Ignazio di Loyola –, per cui il carattere penitenziale svanisce sempre di più, e con esso il senso del peccato, del male, dello stesso crimine. È il formarsi di una coscienza storica e sociale in cui il male non ha più il rilievo che dovrebbe avere.
In questa nostra fase, però, interviene un particolare fattore, e cioè le inique leggi berlusconiane che hanno ridotto la prescrizione affinché i processi del capo (27+4 in questi vent’anni) non giungessero a termine e il capo ne uscisse immune. Ora però accade che non giungono a termine i processi di tutti i corrotti che infestano l’Italia; e qui le statistiche sono paurose, i corrotti non vengono più condannati, se la cavano e continuano a corrompere. Se nel 1998 le condanne per reati di corruzione e concussione erano 1714, già nel 2001 erano scese a 540, e nel 210 erano 263.
Il guaio è che i vari governi del Centro-Sinistra non se ne curano: i vari Prodi (per due volte), Amato, D’Alema, Letta. Nessuna di quelle leggi inique è stata finora toccata, neppure la più evidentemente ingiusta, la legalizzazione del falso in bilancio.
Ora Renzi, pur dichiarando la sua fedeltà a Forza Italia (davvero stranissima, e perversa, questa alleanza), dice che interverrà almeno su due punti: il falso in bilancio e, quello che qui c’interessa, la prescrizione. Si spera che lo faccia, che non si lasci condizionare dal suo alleato, che lo faccia presto.
Resta la causa più profonda, il lassismo penitenziale della Chiesa, e la falsa coscienza che ne deriva. Qui il rimedio è più difficile. Bisogna che anzitutto finisca l’abuso della confessione facile e della penitenza inconsistente. La confessione dev’essere limitata ai veri peccati, quelli cosiddetti mortali, che sono relativamente rari; ai piccoli errori quotidiani basta la “contrizione”, il pentimento interiore. Allo stesso modo la penitenza deve assumere un peso adeguato.
I fedeli dovrebbero essere ricatechizzati, nelle omelie, in apposite riunioni catechetiche; in modo che sappiano quali sono le azioni veramente peccaminose e che abbisognano della confessione. La quale, pur rimanendo un fatto privato per ovvie ragioni di discrezione, dovrebbe però assumere un carattere più significativo, quello di un colloquio abbastanza ampio col sacerdote in cui la colpa viene esaminata con la dovuta attenzione, la sua consistenza, le cause, le contingenze; in cui si esige non solo il pentimento ma la conversione, il cambiamento di vita, e la garanzia di questo. In cui si stabilisce una penitenza adeguata. Potrebbe svilupparsi in più incontri, anche di verifica della conversione stessa.
I confessionali nelle chiese, i luoghi della penitenza rapida, del rapporto impersonale, mediato da grate che impediscono la conoscenza mutua e il mutuo rapporto, dovrebbero scomparire. Anche l’obbligo di confessarsi una volta l’anno (obbligo oggi grave, sotto pena di vero peccato) deve scomparire. Quale peccato confessare, se il peccato, il vero, non c’è?
14/05/2014
A Lecce si vuol rifare Piazza Mazzini
di Arrigo Colombo
Dopo aver sistemato Piazza dei Partigiani, si vuol rifare Piazza Mazzini.
E perché poi? quale analogia tra le due piazze? Nessuna, perché la prima era rimasta piccola e informe, mentre la seconda è stata costruita con un disegno preciso, i tre grandi filari d’alberi che la recingono, la pavimentazione, le aiuole, la grande fontana. Un’opera di forte impegno.
E quale Comune mai si mette a smontare e rimontare un’opera di questa mole?
Qualcuno dice che è brutta. Non pare proprio. I tre filari d’alberi, i pini, e i lecci ormai cresciuti e folti, le danno un grande respiro, anche in senso fisico, di riossigenazione (semmai il Comune dovrebbe sostituire i pini che col tempo son caduti; e anche le grandi palme). La pavimentazione non segue un disegno speciale ma è più che decente; oppure si vuole ripavimentarla, sovvertirla tutta per fare un nuovo pavimento? un’operazione che lascia più che perplessi. Quanto alla fontana, è stata molto criticata, ma ha una sua bellezza: a parte la grandiosità, è disegnata su di un motivo ornamentale barocco, o anche rinascimentale, con la grande vasca al centro, a due piani. E un’opera simile dovrebb’essere distrutta per una vasca più piccola, come si vede in certe foto apparse sulla stampa?
Il problema maggiore è quello dell’impiego del denaro pubblico. Il Comune di Lecce non è nuovo a grandi opere costose e che già lasciano perplessi in fase di progetto, e si rivelano poi inutili o magari anche dannose alla città. Così quella che fu presentata come un metrò di superficie, in realtà una filovia; costruita proprio quando le maggiori città si sono liberate dalla propria perché a percorso obbligato che ostacola il traffico; mentre gli autobus sono più mobili e snelli. Al punto che ora ci si domanda se val la pena di conservarla, questa filovia che pur tanto è costata, oppure smontarla. Semmai c’era un’altra operazione da fare: sostituire i grandi autobus, che per lo più viaggiano con poche persone a bordo; sostituirli con dei minibus da sette-dieci posti, o con piccoli autobus da venti; dopo aver studiato davvero il traffico della città, il numero delle persone che usano il mezzo pubblico. Tra l’altro, coi minibus si potrebbe arrivare ad un traffico molto più capillare dell’attuale, e quindi molto più usufruibile dai cittadini.
Un altro punto sono i vari rondò sparsi per la città, con relativi marciapiedi, in zone anche di scarso traffico. A parte il fatto che in certi punti, come davanti alla questura, il rondò provoca un intasamento che non provocava il semaforo, il quale dà un passaggio certo e sicuro ad una parte come all’altra. Ciò che non fa il rondò. Tra l’altro i rondò.si sono diffusi anche in provincia, e forse in misura eccessiva: basti dire che, per andare da Lecce a Porto Cesareo, si devono passare dieci rondò; il che può anche togliere la voglia di andarci.
Ma anche l’opera di pavimentazione fatta a San Cataldo sembra davvero eccessiva, e certo molto costosa. Eccessiva perché ha riempito la zona di marciapiedi. Poteva essere molto più semplice e snella, lasciando anche più spazio ai parcheggi, necessari soprattutto in estate. E anche qui non mancano due rondò.
Al punto che ci si è chiesto se l’urbanistica o i lavori pubblici non avessero speciali fondi, per impostare e condurre a termine tutti questi interventi.
Il problema, dunque, dell’impiego del denaro pubblico. Perché è noto che in questa fase tutti i Comuni sono in difficoltà, hanno scarsità di fondi; da quando fu abolita l’ICI; cui poi subentrò l’IMU, col problema delle varie esenzioni; e poi le altre modulazioni di questa dolorosa tassa, un vero incubo per le famiglie italiane; fino all’attuale IUC. Insomma, ai Comuni i fondi scarseggiano. Quando, ad esempio, si chiedono contributi per sostenere iniziative di carattere culturale.di notevole spessore, che in passato sono state sostenute con forza e senza difficoltà, ci si trova di fronte alla solita risposta che i fondi mancano. In tutti questi anni. Non ci sono fondi, non c’è denaro. E però ci sono, e in ben altra misura, ben maggiore, per i marciapiedi e i problematici rondò. E ci sono per costruire una rete filoviaria di dubbia utilità e per far circolare grandi autobus che semivuoti ogni giorno attraversano la città o vanno anche fino a San Cataldo (ottimo servizio, del resto). E ci sono, infine, per dissestare Piazza Mazzini e poi ricostruirla, un dispendio certo enorme, per il quale già si sono fatti i concorsi e forse è prossimo l’inizio dei lavori. A parte il senso o nonsenso della cosa, e i disagi che subiranno i cittadini.
8/05/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 16/05/2014
L’equità salariale
di Arrigo Colombo
Si tratta di un problema ancora storicamente immaturo, che giace allo stato brado nella coscienza storica delle democrazie anche occidentali, anche europee; mentre gli Stati Uniti sono più arretrati nella costruzione dello Stato sociale.
Perciò ecco gli stipendi dei manager, che possono superare anche di mille volte il minimo salariale garantito (là dove c’è, non ancora in Italia, salve le buone intenzioni di Renzi); così il milione di dollari mensile del grande manager statunitense (magari in parte in stock options) contro i mille dollari dell’operaio. Così i bonus milionari in sovrappiù dei manager, anche quando non hanno raggiunto gli obiettivi fissati, o l’impresa è in perdita: fatti accaduti e narrati.
Perciò ecco che il nostro premier dichiara di voler mettere un tetto agli stipendi dei manager anzitutto pubblici, nel quadro di riduzioni della spesa statale e dell’abissale debito pubblico in cui la povera Italia si dibatte. Mettere un tetto che abbassi l’orrore dei 900.000 euro annui di un Ialongo o degli 870.000 euro di un Moretti; e delle altre centinaia che seguono.
Un tetto che poi sarebbero i 311.000 euro annui del Primo Presidente della Corte di Cassazione; o i 239.000 del Presidente della Repubblica, dei due il meno alto, ma pur sempre oltre 16 volte il reddito medio di lavoro.
Di fronte a queste cifre ci si chiede se l’umanità sia fatta di uomini soltanto, o se tra essi ci siano degli dei o semidei, come pensavano gli antichi. A tal punto è disprezzato il principio di eguaglianza nelle attuali democrazie, anche nelle più avanzate.
Poi che alla base di tutto c’è la dignità e il diritto della persona umana, che è in tutti eguale. C’è la sovranità popolare, di cui i vari eletti, su su fino al Presidente della Repubblica, altro non sono che rappresentanti al suo servizio. Altro che l’Onorevole o l’Eccellenza, o addirittura la Santità – come avviene per il Papa, attributo piuttosto blasfemo in quanto la santità, il sostantivo, sembra doversi attribuire solo a Dio. Sono servi del popolo, sono schiavi, com’è detto nel Vangelo.
Avviene invece il contrario. Il Presidente vive in un palazzo regale, è circondato da tutti gli onori, e in più si prende i 311.000 euro. Mentre l’operaio, che è il vero e unico detentore del potere, si prende i mille; quando non è precario o disoccupato o sottopagato.
Questa situazione è in atto da sempre: prima, e ancor peggio, nella società aristocratica; poi nella società borghese in cui viviamo; in cui la democrazia è menomata da una classe dominante che è appunto la borghesia, in senso stretto, la detentrice del capitale.
L’obiettivo verso cui l’umanità è avviata, nella costruzione di una società di giustizia, è la parità salariale; appunto sulla base dell’eguale dignità e diritto della persona umana. Parità con solo piccole oscillazioni dovute alla responsabilità, all’impegno e rendimento (ciò che viene di solito detto meritocrazia), all’anzianità come diritto acquisito nella costruzione e nello sviluppo dell’impresa. Piccole oscillazioni. È un grosso obiettivo il cui raggiungimento non è prossimo forse, ma a cui bisogna tendere. La Sinistra, il sindacato di Sinistra, la CGIL, deve impegnarvisi, anzitutto nel settore pubblico, e anzitutto promovendo una coscienza di eguaglianza e di giustizia. Ciò che finora non ha fatto, anche perché impregnata di materialismo storico, di marxismo.
Si fanno alcune obiezioni, o anche molte, all’equità salariale. Si dice che chi ha studiato di più deve anche avere un più alto compenso. Ma il più alto compenso è già lo studio, l’aver potuto studiare. E certo un obiettivo di giustizia è quello di portare tutti allo studio, ad un grado comprensivo della cultura umana; non solo alla scuola media e mediocre attuale. Perché mai l’operaio, che svolge un lavoro manuale (rispetto al privilegio del lavoro mentale) dev’essere anche ignorante?
La responsabilità dell’impresa, che però è un compito di lavoro come ogni altro. Nell’impresa ci sono compiti direttivi, progettuali, amministrativi, ma il grosso dell’impresa è portato proprio dal lavoro fisico e manuale: è lì che si costruisce, che si produce; e con grande sacrificio.
La Società di giustizia è in costruzione, quattro modelli sono stati impostati: il modello democratico, l’unica forma di Stato giusto; il modello di Stato sociale e del benessere; il modello cosmopolitico o comunità planetaria degli Stati, ormai tutti (o quasi) autonomi; la redenzione del lavoro, per ora il più difficile, fino a che sarà sotto l’impero del capitale.
3/05/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 8/05/2014
Putin e i pericoli dell’egemonia
di Arrigo Colombo
Si sa che Putin è personaggio di dubbia moralità, due volte accusato di riciclaggio di denaro sporco e di appropriazione indebita di beni pubblici. Uomo avido di potere con tendenze dittatoriali. Molto nota la sua campagna di rigido controllo della stampa, che culmina con l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja, a lui sempre attribuito. Ma una lista di giornalisti uccisi, con carattere di omicidio, conta dal 2000 al 2009, cioè in 10 anni, 98 omicidi, un numero enorme; cui corrispondono solo 36 processi, che abitualmente terminano con l’assoluzione (Journalists in Russia. An online database). Così come la campagna contro i dissidenti e nuovi magnati del potere economico. Eletto presidente nel 2000 e compiuti i due mandati, nel 2008 combina la staffetta con Mevdedev, divenendo con lui Primo ministro, e succedendogli poi di nuovo come Presidente nel 2012.
Ci interessa però qui la sua tendenza egemonica, che è per così dire ovvia. Avendo egli passato quindici anni nel KGB, il servizio segreto, ed essendo entrato nell’apparato politico proprio nel 1991, l’anno del crollo, dello scioglimento dell’Unione Sovietica, il grande impero. Di cui, come molti altri, è un nostalgico. Ed è proprio di questi giorni la notizia che cinque membri della Duma (di cui due del partito di Putin, due comunisti) hanno chiesto al procuratore generale di considerare la possibilità che Gorbaciov venga accusato di tradimento per aver portato, contro la volontà del popolo e con azione criminale, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica: una superpotenza globale di enorme prestigio, che così venne annientata.
Quest’intervento si collega di certo coi fatti dell’Ucraina di queste settimane, dove la tendenza egemonica è evidente. Quando viene infine sbancato il presidente legato a Putin, e che aveva perseguitato e imprigionato la sua rivale Julia Tymošenko, in un’Ucraina che da tempo gravitava verso l’Europa, Putin invade la Crimea e attraverso un referendum se l’annette. Anche se la Crimea è un caso particolare perché è russa, annessa all’Ucraina da Krusciov nel ’54; ed è forse anche giusto che alla Russia ritorni. Ma l’intento di Putin è di annettersi anche l’Ucraina, col pretesto dei russi che vi abitano (e però sono solo il 17%). Ed è fermato solo dall’opposizione dell’Occidente (Europa e Usa).
L’altro caso recente è la Siria; dove un tiranno che il popolo rifiuta, che massacra quel popolo, non può esser rimosso perché sta sotto la protezione di Putin. Si sa che i tiranni si aiutano tra loro: asinus asinum fricat.
Queste vicende recenti riportano in evidenza il problema dell’egemonia., il suo pericolo. Da parte di Stati più grandi e potenti sugli altri, sul mondo intero. Che poi sono tre: Stati Uniti, Cina, Russia. Gli Usa con 300 milioni di abitanti, la Russia con 150 milioni. Gli Usa, dal secondo dopoguerra sono un’egemonia reale; sono e si ritengono i padroni del mondo. Con le loro basi militari sparse ovunque, le loro flotte in tutti i mari e gli oceani; con le guerre che scatenano, cinque nel solo secondo dopoguerra: Corea, Vietnam, Guerra del Golfo, Afghanistan, Iraq. Guerre tutte perdute (tranne quella del Golfo), guerre infinite perché vi subentra la guerriglia che nessuno può battere. Certo una umiliazione per loro; ma ci ricadono e forse pensano che l’umiliazione sia comunque compensata dalla loro presenza e potenza.
La Cina ha potenzialità enormi, che deve ancora sviluppare; e allora potrà diventare un pericolo.
Di mezzo c’è ora l’Europa, coi suoi 450 milioni di abitanti, e che potrebbe, in condizioni diverse, accogliere in sé anche la Russia, elidendo così uno degli Stati egemoni. L’Europa come grande federazione che persegue una politica di pace e di solidarietà. Certo non deve più commettere l’errore di accodarsi alle guerre Usa, come ha fatto con le due ultime. Un gravissimo errore. E deve maturare come Federazione di Stati sovrani con un vero Parlamento e un vero Governo, con una vera politica. Di pace, si diceva, di soppressione degli armamenti, a cominciare da quelli nucleari.
Infine sia chiaro che nessuna egemonia può essere accettata. Contrasta la raggiunta autonomia dei popoli, la dignità e il diritto di ognuno, la pari dignità e diritto, l’eguaglianza di ogni Stato di diritto. Gli Stati Uniti, invece di sprecare enormi fondi in armamenti, in quelle basi e flotte sparse per il mondo,.vedano di migliorare la loro precaria condizione sociale: i 50 milioni di poveri (cioè di individui e famiglie il cui reddito è meno della metà del reddito medio di lavoro), il servizio sanitario di recente istituito e ancora da completare, tutto lo Stato dei servizi che è carente, nelle mani del privato che ne fa strumento di profitto, anziché di servizio. Si vedano le ferrovie Amtrak, ad esempio. Non presumano di essere un modello, e tanto meno un caporale dell’umanità.
13/04/2014
Lavoro stabile e lavoro precario, un punto di arretratezza
di Arrigo Colombo
Una premessa: nel linguaggio tecnico del lavoro non si parla mai di lavoro “stabile” ma di lavoro “a tempo indeterminato”, la cui durata perciò non è certa ma affidata alla sorte, o piuttosto alla vicenda del mondo economico che nel capitalismo non accetta alcuna norma, il libero mercato, per la stabilità del quale Smith, il grande maestro, invocava la mitica “mano invisibile”.
Perché per il capitale il lavoro è un fattore strumentale – non una persona viva, magari con famiglia e figli –, molto meno valido di una macchina, di un pacchetto azionario, di uno stock di materiali o di merci: la mercificazione del lavoro di cui parlava il buon Marx (o il cattivo. ma chi ormai se ne ricorda?) e tutta la”perversa” tradizione socialcomunista.
Si deve invece parlare di lavoro “stabile”, e si deve dire che esso è l’unico che corrisponde alla dignità e al diritto della persona umana, l’unico che può consentire all’uomo una vita dignitosa al livello storico del bisogno e della cultura, così come una sicurezza del vivere e convivere, e del costruire la propria vita.
Il capitale, invece, nella sua visione strumentale, lo vuole instabile, il più possibile instabile; da prendere e lasciare in ragione dell’andamento dell’impresa, dei capricci del mercato, e soprattutto in ragione del profitto. Perché, diciamola chiara, qual è la condizione del lavoro sotto il capitale? una condizione di dipendenza, sfruttamento, precarietà, povertà. Sì, povertà. Quando ad esempio non c’è neppure il salario minimo garantito, come da noi in Italia; e furoreggia il lavoro in nero. Secondo le statistiche in Italia vi sono abitualmente circa otto milioni di poveri, cioè di gente il cui reddito è meno della metà del reddito medio. Otto milioni che, in questa fase di crisi, sono saliti a dodici.
Il capitale poi, dopo gli anni novanta, quando col crollo del modello sovietico (modello di comunismo spurio, sia chiaro!) tutto l’impianto ideale ed etico della Sinistra, partiti e sindacati, si è indebolito, ha lanciato una vera offensiva contro il lavoro stabile per ridurre il lavoro a sua totale discrezione, totale strumentalità. Offensiva che si è istituzionalizzata nella legge Biagi, la legge che consacra il lavoro cosiddetto “flessibile”, un bell’eufemismo, in realtà lavoro precario, profondamente lesivo della persona umana, della sua dignità e diritto, del suo umano vivere e convivere. Cosi i reiterati contratti di formazione, contratti a tempo, a progetto, lavoro part time, assunzione per agenzia ecc.
A sua volta, proprio in queste settimane, il famoso Jobs Act di Renzi entra ed avanza su questa linea: porta i contratti a termine da 12 a 36 mesi, nel cui ambito concede otto proroghe invece di una, e sopprime la causale che prima era richiesta (si può fare comunque), e prevede che possano raggiungere il 20% dell’organico, mentre dovrebbero essere rara eccezione. Per l’apprendistato sopprime il contratto scritto; sopprime l’obbligo di una formazione anche teorica, e sopprime l’obbligo di assunzione per almeno il 30%, che finora condizionava l’assunzione di altri apprendisti (fatto gravissimo).
Arriviamo così, proprio in Italia, ad una situazione di gravità estrema, l’opposto di un rapporto di lavoro giusto, di una società giusta. Dove solo il 16,1 % ha un lavoro stabile, quel lavoro che corrisponde alla dignità e al diritto della persona, alla sua vita dignitosa; mentre il 67,9 ha un lavoro a tempo determinato, cioè non duraturo, instabile; e c’è infine un 16% con forme ancora più precarie. Sembra quasi che il lavoro stabile ce l’abbiano solo gli statali, che l’hanno raggiunto per concorso o per perverse vie clientelari, molto diffuse specialmente nel Sud, si dice. Che per di più si sono espansi in forma ipertrofica, sovrabbondante, con grave spreco di denaro pubblico, che poi va ad aumentare il famoso debito pubblico a livelli astronomici, che non si sa come e quanto si potrà redimere.
Sembra che il principio del lavoro “stabile” non abbia ancora penetrato la coscienza collettiva e storica.; non sia percepito come un diritto. La Costituzione italiana dice, all’art. 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». Certo non si dice espressamente lavoro “stabile” ma certo lo si sottende; si può dire vi sia implicito; da esplicitare. E però, sulla base di questo articolo la legge Biagi e il Jobs Act si dovrebbero impugnare come incostituzionali.
6/04/20\4 - (Nuovo Quotidiano di Puglia, 11/04/2014
Lavoro manuale e mentale, discriminazione e ignoranza
di Arrigo Colombo
I problemi del lavoro umano sono molti. In questo periodo di crisi preme anzitutto la necessità di averlo un lavoro, e con esso una possibilità di sussistenza, possibilmente discreta, o buona. V’è però un problema di fondo che riguarda la distinzione tra lavoro manuale e mentale, distinzione che corre lungo l’intera storia dell’umanità fino a noi, a cominciare dalle grandi civiltà monumentali; dunque lungo oltre quattro millenni.
Non si può dire che il lavoro manuale sia indegno della persona umana, la quale ha un corpo, ha delle forze fisiche che hanno anche bisogno di espletarsi. Si può anzi dire che il composto umano sia più a suo agio nel lavoro dei campi, nella bellezza e grandiosità della natura; specie se la sa comprendere e godere. E però, se il lavoro manuale si fa pesante e duro, o anche sporco, in condizioni difficili e pericolose, la cosa cambia. Così in miniera, di carbone, di ferro, di altri metalli o minerali; così in certi stabilimenti siderurgici o chimici, o nel trattamento dei rifiuti; o laddove si scavano gallerie o condotte varie. Lavori pesanti e/o sordidi, oppressivi della persona umana e della sua dignità.
Interviene in ogni caso, tra lavoro manuale e mentale, una discriminazione in quanto l’uno impiega prevalentemente il corpo, l’altro lo spirito cioè la parte più nobile dell’uomo; non solo, ma suppone una evoluzione e formazione più avanzata ed alta dello spirito stesso.
Entriamo così nel campo della cultura in senso distintivo ed alto (per cui si dice “una persona colta”); cioè di questo patrimonio che l’umanità ha sviluppato e che all’umanità appartiene; in cui si forma e si sviluppa l’uomo; l’homo humanus, come dissero gli umanisti del ‘400, le humanitates, le humanae litterae.
Quindi le lettere, le arti, le scienze. La cui acquisizione richiede un tirocinio formativo che è oggi principalmente la scuola; anzitutto la scuola obbligatoria e gratuita, che viene acquisita per la prima volta con la Rivoluzione Francese, cioè assai tardi per l’umanità. Scuola obbligatoria e gratuita (o magari in parte pagata) che col tempo si estende: dalla primaria alla media: e che più oltre deve estendersi alla superiore, all’universitaria.
Qui si presenta appunto la discriminazione. In quanto tutto l’ambito del lavoro manuale si ferma alla scuola primaria e media, o per certuni alla professionale, che però ha un quoziente di cultura generale più basso in quanto orientata a certe professioni. E non acquisisce quindi la cultura colta, la più alta, la più esplicativa e formativa delle attitudini dello spirito (o dello spirito-corpo) e della sua creatività: le lettere, le arti, le scienze. Resta prigioniero di un analfabetismo che ignora questo immenso ed altissimo patrimonio umano. Non conoscendo la letteratura gli restano ignoti i grandi poemi epici, la poesia lirica e la sua sublimazione del discorso umano, il grande romanzo, il teatro; nella musica si limita alla canzone, gli è ignoto tutto il quadro della grande musica; gli mancano i canoni dell’arte, della sua evoluzione. Non conoscendo la filosofia e la storia, non può penetrare i grandi problemi umani. Gli resta ignoto il quadro delle scienze.
Si consuma qui un grande sperpero di umanità, una grande discriminazione, una grande ingiustizia. L’operaio bloccato in questo fondamentale analfabetismo, in questo blocco delle sue energie spirituali, della sua crescita personale; quindi della sua dignità e diritto di persona umana. Il suo diritto fondamentale, quello di essere pienamente uomo. Che è insieme un enorme sperpero di umanità, oltre che una minorazione e una discriminazione; e che avviene proprio nell’ambito delle nazioni più economicamente e culturalmente avanzate, a cominciare dall’Occidente..
L’ignoranza dell’operaio. Che fare? Anzitutto portare subito la scuola fino ai diciott’anni per tutti, come già avviene in Germania e negli Usa. Poi portarla fino al primo biennio-triennio universitario. Una formazione completa, adeguata per tutti.
I lavori pesanti e sordidi, come in seguito tutto il manuale, che si va sempre più restringendo per il subentrare della macchina (la visione del futuro della fabbrica come grande automa, con solo una piccola marginalità di lavoro umano), tutto l’ambito del manuale potrebb’essere riservato ad uno o due anni di “servizio sociale” che tutti compiono in età giovanile, come prima il servizio militare. Del resto già Thomas More assegnava il lavoro agricolo a stage di questo tipo, anche perché disperso nelle fattorie lontano dalla città e dalla sua fervida vitalità .
L’ignoranza operaia, come menomazione della persona nella sua dignità e nel suo diritto, come discriminazione, come supremo spreco di umanità deve scomparire; lungo il crescere della società di giustizia in atto da tre secoli, lungo la sua crescita ulteriore, la società deve assumere questo impegno.
21/03/2014
Basta con le delocalizzazioni
di Arrigo Colombo
Per delocalizzazione s’intende il trasferimento di una fabbrica in un paese in cui i salari sono più bassi, la tassazione è più bassa, la legge protettiva del lavoro è assente o carente. Un fenomeno in atto in Europa e altrove da qualche decennio.
Un fenomeno profondamente ingiusto, a tutto vantaggio del capitale e a tutto svantaggio del lavoro; ma si sa che il capitale non si cura della giustizia; mira al profitto. Ingiusto certamente per il paese da cui la fabbrica delocalizza; una fabbrica magari di grande prestigio e di grande storia, come la Zoppas qualche anno fa, per i frigoriferi e gli elettrodomestici in genere. Che pianta in asso centinaia o migliaia di lavoratori; i quali poi – i lavoratori intesi come l’intero corpo del lavoro, manuale e mentale – sono loro che hanno cresciuto e sviluppato la fabbrica, o l’impresa; l’hanno fatta grande, con la ricerca, la progettazione, l’esperienza, l’impegno, e anche con lo sfruttamento e spesso la precarietà di cui hanno sofferto. Legalmente la fabbrica e l’impresa appartengono al padrone, al capitale e a chi lo detiene; in realtà appartengono – e diremmo anzitutto – a coloro che vi hanno operato e vi operano.
È questo un principio che non ha ancora trovato un’espressione e sanzione giuridica, ma che è presente nella teorizzazione, in particolare nel filone social-comunista. Che proprio per questo – oltre che per un principio di parità, di pari dignità; e per superare lo sfruttamento, la condizione di precarietà, o anche di oppressione in cui si trova il lavoro soprattutto manuale – introduce il principio di socializzazione dell’impresa, di autopossesso e autogestione da parte della comunità di lavoro; il principio che l’impresa deve appartenere al lavoro e dal lavoro essere gestita; così come il suo reddito dev’essere attribuito al lavoro.
Ma la delocalizzazione presenta altri problemi. Perché ha spesso usufruito d’interventi dell’ente locale in fatto di strade, condotte di energia ed acqua, illuminazione notturna ecc. E ha usufruito di contributi e di facilitazioni fiscali da parte dello Stato.
Perciò la decisione di andarsene in un altro paese, di quel tipo che s’è detto; in Romania, in Albania; o in Estremo Oriente (come in realtà avviene); si presenta come un fatto abnorme. L’impresa dovrebbe rimborsare all’ente locale le spese sostenute; dovrebbe restituire allo Stato i contributi e l’equivalente delle facilitazioni fiscali. Ma soprattutto si trova di fronte ad un debito difficilmente quantificabile in quanto contiene valori umani ed etici nei confronti della comunità di lavoro; alla quale poi provoca un danno economico e morale che non ha prezzo, in quanto le sottrae non solo una condizione di lavoro, un insostituibile reddito, ma una condizione di vita e soprattutto un’appartenenza globale dell’impresa.
A questo punto l’intervento della legge si rivela indispensabile; anche se, perdurando il sistema capitalistico, nel quale siamo immersi, perdurando l’ideologia capitalistica e ancor più il, suo potere di fatto, gl’interventi possono essere soltanto parziali.
Un primo esempio ci viene dalla Francia, dove il presidente Hollande già in fase elettorale aveva prospettato un intervento. Una legge che, si dice, è stata riscritta più volte, e resa più blanda in seguito alle pressioni della confindustria francese, e che è stata varata dal parlamento in febbraio. E però già Sarkozy si era opposto al trasferimento in Turchia della produzione della Clio 4 e aveva salvato una fabbrica.
La legge concerne solo le imprese con più di mille dipendenti (mentre l’85% delle imprese che delocalizzano ne hanno meno di mille). La fabbrica non può essere chiusa e trasferita ma dev’essere venduta, sì che la produzione possa continuare; nel paese ospite se ne aprirà un’altra. Le penalità, per le imprese che contravvengono, sono modeste: una multa non oltre il 2% del fatturato e la restituzione degli aiuti di Stato.
Questa legge è solo un primo passo, importante tuttavia. Deve accrescersi la coscienza che l’impresa, la fabbrica è un bene sociale; non è proprietà esclusiva del capitale, degli azionisti; sì che la loro maggioranza può farne quello che vuole. Anche in un regime capitalistico appartiene sì al capitale ma pure al lavoro, alla comunità di lavoro, all’intera comunità di Stato; appartiene soprattutto alla comunità. La delocalizzazione può avvenire solo con il consenso ed il risarcimento della comunità di lavoro, e delle comunità locale e statale...
14/03/2014 - Quotidiano di Puglia, 17/03/2014
La caduta dell’Impero sovietico
di Arrigo Colombo
Si celebra quest’anno il venticinquennio della caduta del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, il giorno della grande irruzione (autorizzata) delle folle di Berlino Est nell’Ovest. Che è poi l’inizio della fine dell’Impero sovietico, che si completerà nel dicembre del 1991.
Una strana storia quella dell’Impero sovietico, che incomincia nel febbraio 1917 con una rivoluzione popolare, quella dei soviet, cioè dei consigli di fabbrica, di azienda agricola, di città; su cui poco dopo interviene la presa di potere del partito bolscevico, nell’ottobre dello stesso anno, e quindi poi la sanguinosa lotta per l’abbattimento della classe aristocratica e borghese, e degli stessi soviet, fino all’insurrezione di Kronstadt del 1921.
A questo punto il partito diventa il detentore unico del potere economico-politico, si forma cioè una oligarchia. La richiesta di una corrente interna, l’Opposizione operaia, di restituire il potere al popolo, ristabilire quindi una democrazia (che significa appunto “potere di popolo”, il cui principio base è la sovranità popolare), e certo in un nuovo modello, di tipo autogestionale, in cui cioè il corpo dei lavoratori detiene in solido il possesso-potere dell’impresa (il capitalismo essendo stato annientato); questa richiesta viene respinta: Ed è questo il grande errore di Lenin, che invece d’instaurare un nuovo e più ampio modello democratico in cui il popolo detiene non solo il potere politico ma anche quello economico, ricade nel vecchio modello dell’oligarchia, sia pure di partito. Falsando così anche il progetto marxista, che prevedeva sì l’accentramento dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato (ma l’espressione è “degl’individui associati”, il “potere politico” essendo visto come potere oppressivo di una classe dominante), ma solo come fatto provvisorio, nella fase rivoluzionaria e di abbattimento del capitalismo e della classe borghese.
Con Stalin l’oligarchia diventa dittatura, e così resterà poi sempre fino a Gorbaciov, il grande liberatore. Che riprende il nuovo modello, perestrojka=democrazia=autogestione, e vara anche una prima legge per la trasformazione delle imprese. Ma ha contro di sé la resistenza dell’enorme macchina del partito che a un certo momento gli si rivolterà contro. La rivolta sarà sedata, ma Gorbaciov dovrà rinunciare alla presidenza della nuova federazione in cui doveva tradursi l’impero, l’Unione di Stati Indipendenti, che non si farà. La Russia stabilirà, con l’Ucraina e la Bielorussia, la sua autonomia e assumerà il modello capitalista occidentale.
Così la terza delle rivoluzioni moderne, dopo la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento (1950-1963) e la Rivoluzione francese, fallisce: una tragedia per l’umanità. Poiché la Rivoluzione inglese aveva introdotto il principio di sovranità popolare e il modello democratico, sia pure nella forma rappresentativa e parlamentare; e la Rivoluzione francese lo aveva allargato e rafforzato; e col 1848 il modello aveva cominciato ad universalizzarsi; ecco che la Rivoluzione russa avrebbe dovuto allargarlo al potere economico, alla socializzazione del capitale d’impresa, della gestione, del profitto, eliminando il capitalismo, il più forte fattore d’ineguaglianza, di sfruttamento, di precarietà del popolo lavoratore. Il più forte fattore d’ingiustizia nella costruzione di una società di giustizia in atto appunto dalla Rivoluzione inglese in poi.
La Rivoluzione russa fallisce al suo inizio, nel modo detto; e fallisce alla fine, alla caduta dell’Impero sovietico, quando non accoglie il progetto della perestrojka ma ottusamente preferisce il modello occidentale e capitalistico. Quando, essendo tutti i beni di produzione già socializzati, sia pur nelle mani della comunità statale (chiamiamola così), non sarebbe stato poi tanto difficile suddividerli nelle comunità d’impresa come proprietà in solido e gestione e profitto di ogni singola comunità di lavoro. Annientando così tutto il processo rivoluzionario russo, processo enorme, sacrificio enorme di vite, enormità di dolore; e il processo che si era diffuso a livello planetario: in Cina, la più grande nazione del mondo, in Viet Nam, a Cuba, nei partiti comunisti e nella classe lavoratrice sparsa nel mondo intero.
Noi, il Centro interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia dell’Università di Lecce, in quella fase di trasformazione, inviammo un documento a tutti i maggiori responsabili delle nazioni comuniste dell’Europa Orientale, chiedendo proprio questo: che uscendo dallo pseudo-comunismo sovietico, sviluppassero il modello autogestionale della perestrojka, evitando l’ingiusto modello capitalistico occidentale. Ci fu risposto, purtroppo, che già avevano deciso in quel senso, in una errata solidarietà con l’Occidente.
7/03/2014 - Nuovo Quotidiano di Puglia, 4/03/2014
Dov’è finita la Sinistra italiana?
di Arrigo Colombo
La Sinistra è la forza politica di liberazione, di costruzione di una società di giustizia; che è poi il progetto dell’umanità, il grande progetto possiamo dire. Si forma al seguito delle prime due rivoluzioni moderne, l’inglese e la francese, e si concreta anzitutto nella prima metà dell’800 in due grandi partiti, il socialista e il comunista. Partiti che perseguono un progetto avanzatissimo rispetto alla situazione in cui noi ci troviamo ancor oggi, e cioè la socializzazione o comunione dei beni anzitutto di produzione, cioè del capitale, e quindi del profitto che ne viene, il possesso e la gestione dell’impresa da parte della comunità di lavoro; possesso e gestione in solido. Cui consegue la socializzazione e comunione della ricchezza, equamente distribuita, quindi una società in cui il lavoro è sicuro, autonomo e non dipendente; e una società del benessere.
Questo progetto non è fantomatico – come molti penseranno leggendo – semplicemente corrisponde alla dignità e diritto della persona, alla pari dignità e diritto, alla vita dignitosa. Quella persona che è stata creata ad immagine di Dio, com’è detto nel libro della Genesi; “lo hai fatto di poco inferiore a un dio, lo hai coronato di gloria e di splendore”, dice il Salmo.
Questo progetto non ha nulla a che vedere col modello sovietico – come molti penseranno – che è quello di un capitalismo di stato, in cui tutto il potere, politico ed economico, sta nelle mani del partito, dei suoi capi, a cominciare dal carissimo segretario compagno Stalin, grande despota e grande carnefice; e poi la burocrazia di partito con tutti i suoi gradi e la sua rete. Il modello sovietico è un modello oligarchico e dispotico, un falso socialcomunismo, che segna la fine della Rivoluzione russa.
Il progetto autentico di una società economicamente autogestita è stato particolarmente studiato, anche nella sua fattispecie economica, dagli autori della Primavera di Praga, ed era in corso di attuazione; come poi nella perestrojka gorbacioviana (perestrojka=autogestione, come Gorbaciov spiegava), se non fosse intervenuta la sorda resistenza (e anche rivolta) del partito che rese prima inefficaci le nuove leggi approvate e provocò poi l’esautoramento di Gorbaciov. Sì che a quel punto il modello e impero sovietico era crollato, ma la nuova democrazia autogestita era abortita: la nuova Russia assunse tranquillamente il vecchio modello occidentale.
Ne segue in Italia la progressiva degradazione della Sinistra. Il partito socialista viene annientato dalla sua stessa cattiva gestione. Il partito comunista si democratizza, ma perde una parte importante che assume il nome di “Rifondazione comunista” e che finisce poi per frammentarsi in cinque-sei partitelli insignificanti, sull’1-2% dei voti. La Sinistra democratica viene egemonizzata dalla corrente prodiana cui manca il grande progetto (ma lo stesso faranno Amato e D’Alema succedendogli) e che non realizza nessuna riforma, nessuna legge significativa. Anche solo una legge elettorale democratica, comprensiva di elezioni primarie nazionali in cui i cittadini scelgono essi i candidati anziché farseli imporre dai partiti, magari con liste chiuse; e scelgono poi gli eletti attraverso la preferenza. Così la legge sul conflitto d’interessi, che ancora manca. Come manca una legge sul salario minimo garantito e, ancor più, sulla pensione minima garantita. Poteva essere abolita la legge Biagi, che favorisce la precarietà del lavoro. Sono misure elementari che però il Centrosinistra, quando ha avuto la maggioranza non si è curato di realizzare.
A quanto pare l’Italia, ch’era stata nei decenni del dopoguerra la nazione occidentale con la Sinistra più forte, ora non ha più un vero e autentico partito comunista, né un autentico partito socialista o socialdemocratico. Come ce l’hanno Francia e Germania; come l’Inghilterra col partito laburista. Chi dunque farà le necessarie riforme? chi condurrà la lotta per una società di giustizia? la lotta per la redenzione della povertà, che invece è in continuo aumento?
Anche il nuovo segretario Renzi non promette nulla di buono. Attivo sì, ma inesperto e per di più presuntuoso. Gli mancano le grandi idee, gli manca il progetto storico. Era molto meglio Bersani. Ma poi il problema non sta in una persona come tale. È l’intero tessuto del partito che non risponde. Che fare? che farà la povera Italia? Il problema più urgente è sganciarsi dalla Destra, ma per far ciò occorre un elettorato forte, mentre le masse elettorali italiane non si sono ancora riprese dalla crisi di vent’anni fa. E, per ottenere l’elettorato, ci vogliono alcune buone leggi e un’azione capillare a livello di popolo. Cose che certo si possono fare; ma non si è in grado di farle: manca l'idea, manca la tensione etica e politica.
31/01/2014
Onorificenze e titoli nella Chiesa e fuori
di Arrigo Colombo
Una notizia di stampa ci annunziava che il Vescovo di Roma Bergoglio – così egli preferisce chiamarsi; non sappiamo se questo preluda ad un’innovazione circa la condizione papale – aveva abolito il titolo di Monsignore, sia pur senza effetto retroattivo (quelli che ce l’hanno lo conservano), ma solo fino ai 65 anni. A partire da questa età esso resta in vigore come Cappellano di Sua Santità – che è poi il primo dei gradi dello stesso titolo di Monsignore dopo la riforma di papa Montini che ridusse i gradi da quattordici a tre (Cappellano di Sua Santità appunto, Prelato d’onore, Protonotario Apostolico). Onorificenza che può essere concessa a un sacerdote su proposta del Vescovo come riconoscimento dei servizi prestati.
Già questo punto lascia perplessi perché contrasta col dettato evangelico, che per la Chiesa è norma, e lo dev’essere; in particolare nel passo «quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: Siamo servi inutili, abbiamo solo fatto ciò che dovevamo fare» (Luca 17, 10). Un passo molto forte. Dove ogni riconoscimento al servizio prestato, e tanto più l’onorificenza, appare come qualcosa di affatto estraneo all’autentico spirito cristiano. Passo che poi si collega a quegli altri in cui si dice che chi tra voi vuol essere grande, vuol essere primo, deve piuttosto essere il vostro servo.
Stupisce inoltre che l’intervento bergogliano non tocchi per nulla i titoli in auge da secoli, e ancor oggi, nella Chiesa: l’Eccellenza dei Vescovi, l’Eminenza dei Cardinali, il Santità del papa, e i molti altri. titoli oltremodo pomposi. In particolare proprio quello di Santità che, sostantivizzando un appellativo divino, sembra doversi riservare solo alla divinità. Un papa che si attribuisce un appellativo divino.
Anche qui il dettato evangelico è perentorio: l’unico titolo riconosciuto è quello di fratello. V’è in proposito il passo di Matteo 23, 8-9, «Voi non fatevi chiamare maestro: uno è infatti il vostro maestro, mentre voi tutti siete fratelli. E non chiamate alcuno di voi padre sulla terra: uno è infatti il padre vostro, quello celeste».
Su questo punto si era mosso già il Concilio Vaticano II col famoso Schema XIV, una proposta che affrontava tutta questa materia – titoli, abiti sontuosi, palazzi – e che era stata condivisa da alcune centinaia di Vescovi, ma che non giunse nemmeno ad essere discussa in quanto la maggioranza le si oppose. A questo proposito lo Schema XIV chiedeva di evitare «nomi e titoli che esprimono concetti di grandezza e di potenza, come eminenza, eccellenza, monsignore». Molto chiaro, dunque.
La Chiesa è dunque consapevole – in una parte consistente – dell’inopportunità di questi titoli. I quali, tra l’altro, appartengono ad una fase pre-democratica della storia; potremmo anche dire premoderna in quanto la modernità inizia proprio con il riconoscimento della dignità della persona umana, nell’Umanesimo del ‘400, nei molteplici trattati De digitate hominis. Quella dignità che sta in ogni persona umana in quanto dotata di coscienza, creatività, autonomia, diritto; in quanto creata ad immagine di Dio, come è detto nella Genesi, nel primo racconto della creazione. Questa dignità, in cui tutti si ritrovano eguali e fratelli, è l’unico e supremo onore. Il resto, quello legato ad un compito nella società o nella Chiesa, è solo un dovere, che dev’essere adempito il meglio possibile, e che certo nessun essere umano, per la sua stessa finitudine e fragilità, riesce ad adempiere in modo adeguato. Lì la verità del dettato evangelico, il servo inutile, che non ha fatto se non quello che doveva fare, che neppure lo ha fatto nel modo migliore.
Perciò nella modernità i titoli decadono. Quelli dell’aristocrazia, anzitutto, che decade da struttura di potere (a cominciare dalla famosa rinunzia nella notte del 4 agosto 1789, nella Rivoluzione francese; la notte che segna la fine storica dell’aristocrazia). Ma anche quelli della democrazia: a cominciare dall’Onorevole di cui si fregiano i parlamentari, caduto sempre più in disuso; o dall’Eccellenza di cui si fregiano certe altre cariche dello Stato. Sì che ognuno sia chiamato col suo nome o col nome della sua carica e incarico, e servizio, cui sempre è impari: Deputato, Senatore, Presidente. Per la Chiesa si proponeva l’unico titolo di Padre; dimenticando che invece l’unico titolo evangelico è Fratello; come si è visto.
Attendiamo dunque che il Vescovo di Roma Bergoglio intervenga con più decisione e forza a sbarazzare la Chiesa dai pomposi quanto inutili e dannosi titoli.
24/01/2014 - (Nuovo Quotidiano di Puglia, 25/01/2014
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