ARCHIVIO ARTICOLI - 2010

 

 

 

Indice

Fini. Anatomia di un personaggio, 15/12/010

Monicelli: decisione per la morte ed eutanasia, 6/12/010

Preservativo e principio di persona, 29/11/010               

Quelli che vorrebbero un partito cattolico, 22/11/010

L’attacco alla magistratura, 18/10/010               

La follia della Regione Salento, 15/11/010                    

Questione Rom, la soluzione è solo europea, 27/09/010

Il ritorno dell’età dell’oro?, 20/09/010     

Lo stato italiano non sostiene la famiglia, 6/09/010

Guerra e pace in una società planetaria, 26/07/010                          

Il delitto di genere ovvero la mattanza delle donne, 19/07/010          

Riflessioni sulla manovra fiscale in corso                      

La discussione sulle tasse, 5/97/010

La Fiat Pomigliano e la robotizzazione del lavoro, 21/06/010           

L’inferno, un mito che ancora resiste, 14/06/010        

Elezioni primarie e sovranità popolare, 17/05/010            

Riflessioni sull’impresa, 10/05/010

Fini e la vicenda di Alleanza Nazionale, 26/04/010               

Obama e l’obiettivo del disarmo nucleare, 19/04/010             

Urgono misure contro la pedofilia ecclesiastica, 12/04/010

Gli USA non sono un paese modello, 26/03/010

Lo sciopero degl’immigrati, 5/03/010

Declino del matrimonio?, 22/03/010             

Finalmente uno sciopero degl’immigrati, 8/03/010    

Ci divora la corruzione, 25/02/09  

Continua la persecuzione degli omosessuali, 11/02/010

I fatti di Rosarno e il problema delle condizioni di lavoro, 21/01/010

L’uomo e la catastrofe, 18/01/010

Ancora il terrorismo islamico, 11/01/010                         

 

 

 

Fini. Anatomia di un personaggio

di Arrigo Colombo

 

        Un personaggio che diremmo alquanto amletico, anche se non ha la caratura drammatica della grande figura scespiriana. Inizia infatti con Almirante, il riorganizzatore del partito neofascista; un uomo di una certa tempra, anche se fuori dalla storia, rivolto al recupero di un fenomeno e di uno spirito erroneo e incidentale, nel processo democratico che impronta la modernità.

Fini però compie un grande passo in quanto porta il partito fuori dal fascismo per farne una Destra nazionalista; il che sarebbe pure in ritardo sulla storia, in quanto, per la maggioranza degli studiosi, lo stato-nazione é al tramonto, anche se ancora resiste; e l’Unione Europea ne è una prova, pur soffrendo di questa ambivalenza. Un passo che tuttavia potrebb’essere benefico per l’Italia, che non ha maturato abbastanza la sua identità e il suo orgoglio di nazione; al punto da soffrire di fenomeni secessionistici come la Lega lombarda (e prima ancora la Sicilia, l’Alto Adige; ciò che non avviene ad esempio in Francia per l’Alsazia-Lorena). E però lo spirito e l’azione nazionalista del nuovo partito si rivela debole, scarso. Fini s’impegna anche nel rifiuto del nazismo; fa un viaggio in Israele in cui condanna l’antisemitismo e l’olocausto come “male assoluto”.

 

Il suo primo errore è l’alleanza con Berlusconi e con la sua aggregazione qualunquistica chiamata “Forza Italia”. Un’alleanza incondizionata – si direbbe – un appiattimento sulla pseudo-politica di questo strano leader, volto anzitutto al suo personale interesse, a promuovere le sue imprese e a liberarsi dai numerosi processi in cui è irretito; strumentalizzando quel supremo organo della legge che è il Parlamento, portandolo a varare leggi inique come la legalizzazione del falso in bilancio o il ritardo delle rogatorie, e le numerose leggi ad personam che sospendono i processi o li ritardano mandandoli in prescrizione. Tutta una storia perversa, vergognosa per la nazione, per la democrazia italiana. Se si pensa al rigore che in questa materia vige nelle altre maggiori nazioni europee. Così in Germania il cancelliere Kohl, indiziato di illegale finanziamento di partito, subito di dimette; e lo stesso fa in Francia il ministro socialista Strauss-Kahn (ora Direttore del FMI), avvocato, accusato di collusione con imprese trasgressive.

Fini e il suo partito non battono ciglio, approvano senz’alcuna remora tutte quelle leggi; il loro principio e spirito nazionale non reagisce affatto. Reagisce invece la vedova di Almirante,  accusandolo di scarsa personalità e indipendenza nella guida del partito, di resa all’arbitrio berlusconiano. Un fatto certo significativo.

 

Ma Fini non reagisce e compie anzi un secondo e più grave errore, fonde il suo partito con l’eterogenea e qualunquistica aggregazione chiamata “Popolo della libertà”, e così lo annienta; dopo averlo creato lo distrugge. Un errore colossale. Da cui riceve il grosso e misero premio della Presidenza alla Camera dei Deputati; mentre i suoi maggiori adepti, i “colonnelli”, ricevono ministeri o altre cariche di prestigio.

Ovviamente, presiedendo la Camera, Fini s’ingolfa sempre più nell’approvazione di leggi inique, come il Lodo Alfano (rifiutato poi dalla Corte Costituzionale) o la leggina che libera Berlusconi da una pendenza di 340 milioni col fisco. Rivelando una totale assenza di senso etico e politico.

 

Il personaggio ha compiuto così la sua discesa agli Inferi e a questo punto si risveglia e inizia a tentare l’ascesa, il cammino della redenzione. Non giunge a rifiutarsi di far approvare certe leggi, non ha il coraggio del martire; ma inizia con esternazioni e pronunciamenti che si distanziano da Berlusconi, che si richiamano all’etica e alla retta politica per condannare affermazioni e decisioni del capo.  Poi matura in lui l’idea di liberarsi da quella morsa rifondando un suo partito, e ottiene il consenso di un piccolo gruppo – non certo dei colonnelli con le loro cariche di prestigio – col quale costituisce “Futuro e Libertà”; ma, stranamente, non cede la poltrona, la presidenza della Camera.

Quella piccola formazione è sufficiente per togliere alla coalizione berlusconiana la maggioranza in Parlamento, per sbalzare il grande capo dal suo posto di comando, tanto ambito, e proclamato indefettibile. Si giunge alla decisione di un voto di sfiducia, si decide la caduta di Berlusconi. Che però formalmente non riesce, per soli tre voti; in realtà per la diserzione di un gruppo di parlamentari incerti, deboli o voltagabbana.   Si parla di compravendita di parlamentari, si fanno nomi ed elenchi.

A questo punto Berlusconi è paralizzato; si sa che quei tre voti non servono a nulla. Fini in tutta questa fase ha oscillato, ha fatto strane proposte, come quella che se Berlusconi si fosse dimesso, gli avrebbe garantito la rielezione entro pochi giorni.

All’indomani della mancata sfiducia si forma il Polo per la Nazione, una federazione di Centro, moderata, che raccoglie oltre l’UDC di Casini e l’API di Rutelli, altre formazioni minori, e cui Fini aderisce; una federazione che dispone di circa cento parlamentari. Fini trova una nuova sponda, non si sa se abbandoni l’idea nazionale; perché Centro o moderati non dice nulla; mentre Casini e Rutelli raccolgono l’eredità democristiana. Si parla di malcontento trai suoi compagni di fuga per l’abbandono della Destra. Staremo a vedere.

A dire il vero tutta l’opposizione è incerta. Si pensa soprattutto ad una nuova legge elettorale, che sostituisca il famigerato “porcellum”. Mentre il paese ha bisogno di alcune misure urgenti: per il lavoro giovanile, per i salari, per l’aiuto alle famiglie, per l’equità fiscale. Ha bisogno di un governo di Centro-sinistra che lavori seriamente, e non di shock elettorali.

                                                                                       15/12/010

 

 

Monicelli: decisione per la morte ed eutanasi

di Arrigo Colombo

 

Monicelli dunque, il maestro della commedia italiana, comico-amara giustamente (oltre 60 film, 80 sceneggiature), da cinque anni sofferente e ormai malato terminale di cancro alla prostata, quasi cieco, sentiva che la sua vita era finita, che non valeva più la pena di vivere; e ha deciso di morire, gettandosi dal quinto piano dell’ospedale S. Giovanni di Roma, dove per l’ennesima volta era stato ricoverato. Era il lunedì 29 novembre, vi era entrato la domenica.

I commenti sono per lo più ispirati al rispetto di questa decisione; oltre che alla simpatia per l’uomo, all’ammirazione per il maestro. A cominciare dal Presidente Napolitano, che aveva vissuto nello stesso rione Monti, e gli era amico: “Se n’è andato con un ultima manifestazione forte della sua personalità, un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare”. Un’altra importante nota è aggiunta dalla moglie: “Viveva in modo non consono alla sua dignità di uomo e ha preso una decisione forte e coerente, come sempre da uomo coraggioso”.

Solo da parte cattolica, specie dai neocon tipo Binetti, nella commemorazione alla Camera dei deputati, è venuta la condanna, è uscita la parola scottante, l’eutanasia; il richiamo che nessuno ha diritto a decidere della propria vita (verissimo, in linea di principio). Dietro a cui c’era il ricordo di casi famosi, come Welby, e soprattutto Englaro, in cui i cattolici e la Destra avevano condannato e cercato d’impedire in molti modi la “buona” morte. Il ricordo di una legge che dovrebbe consentire la morte ai malati terminali, ai malati ormai ridotti allo stato vegetale; una legge che non si è voluto o non si è riusciti a fare. Un caso in cui diritto e pietà confliggono, in cui il vincolo etico che dovrebbe fondare la legge non è chiaro, non si riesce a chiarirlo.

 

Ora vediamo di riflettere alquanto. Nel caso del malato terminale la morte è già in corso, la decisione è già presa dalla natura, e dall’autore della natura. La decisione umana è solo accessoria,  secondaria, ed è inspirata dalla pietà; nel caso di Monicelli, dalla dignità, l’impossibilità ormai di vivere una vita dignitosamente umana, ma piuttosto inumana.  

Nel caso del malato ridotto allo stato vegetativo il livello umano, di coscienza e libertà, si è ormai estinto; qui la morte ha già compiuto il suo primo grande passo. La dignità della persona umana persiste certo in quel corpo che ne era portatore, ma quasi solo come potenzialità, il cui atto s’è perduto.

C’è poi la coscienza di ciascuno; sulla coscienza si fonda la responsabilità; dalla coscienza si deve giudicare in concreto l’azione. Il suicidio è in sé un atto gravemente illecito e trasgressivo: la soppressione della propria vita; di una vita che poi è propria solo in seconda istanza, ma in prima istanza è di Dio, opera e dono suo. Nessun essere umano o finito dà a sé la vita, né può darsela, perché prima di essere e vivere non è, è nulla. E però nella coscienza il suicidio ha le sue motivazioni che possono essere forti, insuperabili: l’impossibilità di vivere ulteriormente nella povertà estrema, nella malattia, nel disamore, nel disonore, nelle difficoltà del vivere. Perciò il Cristo dice “non giudicate”. Perciò Dio Padre amoroso accoglie e salva, perché conosce e comprende quelle ragioni.

 

Ma vaniamo alla legge. Legge che regola la decisione di morte, l’eutanasia, in quei casi di malattia terminale, di stato vegetativo irreversibile, in altri casi affini. Legge che i maggiori stati europei posseggono. e che di solito affida la decisione, se non al malato col medico, a medici e parenti. Che non esiste ancora da noi per la dura opposizione dei cattolici fondamentalisti e del Vaticano.

Penso che qui si proceda in analogia con la legge sull’aborto. Lo stato non è tenuto a perseguire ogni crimine o trasgressione, soprattutto quando v’intervengono fattori complessi, nella complessità dell’esistenza umana, e non si provoca d’altronde disordine sociale. Nel caso dell’aborto affida la decisione alla responsabilità della donna e stabilisce solo delle norme per evitarlo e per limitarlo. Nel caso dell’eutanasia l’affida alla responsabilità del soggetto, se ne è ancora capace, in accordo col medico; o altrimenti a medici e parenti; e solo stabilisce le condizioni che la possono consentire.

È un punto, questo, in cui la legge non sembra debba seguire criteri di rigore ma piuttosto di pietà. Per il cittadino che soffre non solo, ma è giunto alla sofferenza estrema, alla menomazione estrema; che già è entrato nella condizione estrema, “nelle tenebre e nell’ombra della morte”; che poi è il passaggio ad una nuova e più stupenda vita; ma un passaggio doloroso.

                                                                                          (Nuovo Quotidiano di Puglia, 6/12/010)

 

 

Preservativo e principio di persona

di Arrigo Colombo

 

         Sul preservativo, sul piccolo prezioso oggetto, sembra che le idee del Vaticano non siano molto chiare. Quando il papa fece il suo viaggio in Africa, alcuni mesi fa, se ne uscì a dire che non serviva per difendersi dall’Aids; e sollevò una marea di proteste, a cominciare dai governi. Ora, nel libro-intervista uscito in questi giorni, e che s’intitola “Luce del mondo”, se ne viene a dire che il preservativo potrebbe essere concesso alle prostitute: un’idea che ha fatto scalpore, certo. Concesso alle prostitute per un’attività profondamente immorale, la vendita del proprio corpo, la mercificazione della sessualità e dell’amore; e non concesso a tutti per difendersi da una malattia estremamente grave, e ancor meno per la pianificazione delle nascite.

 

Questa situazione paradossale ha alla sua base due principi che appartengono alla tradizione millenaria della chiesa cattolica; tradizione che è stata svecchiata e portata su posizioni più razionali, e anche più evangeliche, dalla ricerca teologica; ma sulla quale il Vaticano fatica, anche per il suo autoritarismo, fatica ad aggiornarsi.

Il primo è il principio di natura; dove la natura è vista nell’ottica della creazione, e quindi com’espressione della volontà e legge di Dio. Si dice che l’unione sessuale deve svolgersi secondo l’ordine di natura e che frapporvi un impedimento, quel piccolo oggetto del preservativo, romperebbe quell’ordine, che è divino, e infrangerebbe la legge di Dio. Un atto illecito, un atto peccaminoso, un grave peccato.

L’altro principio concerne la visione negativa dell’unione sessuale, la quale comporterebbe un disordine fisico ed etico, una passione così forte da accecare la ragione; e sarebbe quindi per se stesa peccaminosa, e concessa soltanto in ordine alla procreazione. Questo disordine sarebbe conseguenza del peccato originale, che avrebbe corrotto l’equilibrio umano.

V’è qui tutta una mitologia che è avversa alla sessualità (ed è quella che porta anche al celibato ecclesiastico), vista come qualcosa di sporco, di bestiale; le cui origini risalgono lontano, al disprezzo della materia, e quindi del corpo; una corrente che parte dal mazdeismo iraniano, passa attraverso Pitagora, poi Platone e Plotino, lo stoicismo, il manicheismo; e che la chiesa fa propria, soprattutto sotto l’influsso di Agostino.

Una mitologia, perché l’unione sessuale è un fatto di natura, e quindi di volontà e dono divino; ed è anzi un fatto mirabile già come unione amorosa, e ancor più come procreazione. E perché il peccato di origine, la sua trasmissione automatica anche nei bambini al loro nascere, è risultato alla ricerca teologica un mito, che non ha fondamento nella Scrittura se non al seguito di un malinteso. Tanto che oggi i teologi non parlano più di peccato originale ma di “peccato del mondo”; cioè di tutto quel cumulo di male che si è prodotto nel tempo e che informa il costume, il comportamento abituale umano, e l’ideologia che lo giustifica, e anche la legge che lo sancisce. Il bambino non contrae il peccato nascendo, ma può contrarre comportamenti peccaminosi che sono propri della società in cui cresce.

 

Ma torniamo al principio di natura, che renderebbe peccaminoso l’uso del preservativo. I teologi gli contrappongono oggi il principio di persona. Perché Dio ha creato la natura, ma in essa ha posto l’uomo e gli ha conferito sulla natura un dominio. L’uomo è persona, dotato di ragione, e secondo ragione gestisce le sue funzioni naturali in ordine al suo bene, al suo benessere e benvivere. Il preservativo è al riguardo un piccolo strumento prezioso in ordine alla gestione della sessualità e della procreazione.

Nell’unione sessuale i teologi distinguono appunto il momento amativo e il momento procreativo. Il primo è di sempre, appartiene all’amore come alla convivenza, serve a nutrire e cementare l’uno e l’altra. Il secondo, la procreazione, in una vita intera entra in gioco solo poche volte: quando si vuol avere un figlio. E avere un figlio, in una società economicamente e culturalmente avanzata, in una società responsabile, è un fatto complesso e costoso. Non per nulla i demografi hanno stabilito il principio povertà-natalità; e cioè che in una società povera il figlio costa poco e rende molto, per cui si hanno molti figli. Mentre in una società avanzata il figlio è costoso non solo in termini economici, ma anche in termini di tempo (la donna e madre ha una professione, ed è giusto che l’abbia; la coppia ha una sua vita da vivere), in termini di educazione e formazione, di crescita umana. Non possiamo entrare a fondo in questo tema, ma è chiaro che il momento procreativo nell’unione sessuale è raro.

Perciò la persona gestisce secondo ragione e giustizia l’unione sessuale e amorosa, stabilendo quando dovrà essere anche procreativa; mentre abitualmente non dovrà esserlo; e userà per questo il preservativo. Così come lo userà quando ci fosse pericolo d’infezione. È sempre la persona che gestisce razionalmente la natura.

                                                                   29/11/010

 

 

Quelli che vorrebbero un partito cattolico

di Arrigo Colombo

 

         Il cardinale Bagnasco chiede un partito cattolico; altri lo chiedono, o lo vorrebbero; altri cattolici, vescovi o notabili. Bagnasco è certo un’autorità nella chiesa italiana, presidente della CEI, la Conferenza episcopale, il sodalizio di tutti i vescovi del paese; e, in certo modo, esprime il pensiero dell’episcopato, o della sua  maggioranza.

Ora il problema che subito si prospetta è quello famoso del rapporto tra religione e politica; quello che già si definisce con chiarezza quando il Cristo dice “il mio regno non è di questo mondo”, “date a Cesare ciò ch’è di Cesare e a Dio ciò ch’è di Dio”; le frasi più note, ma che toccano un tema diffuso nei vangeli.

 

In realtà un partito altro non è che un’organizzazione di cittadini per l’esercizio della sovranità popolare nella gestione dello stato. E un partito cristiano altro non sarebbe che l’organizzarsi di cittadini che sono cristiani per la gestione dello stato secondo i principi del cristianesimo; cioè i principi evangelici, che sono poi la giustizia e l’amore fraterno; con in più il rifiuto del potere per il servizio. Costruire quindi una società di giustizia, uno stato giusto, e insieme profondamente solidale e fraterno. Principi, poi, che nella modernità si sono anche secolarizzati e universalizzati, diventando principi universalmente umani – in misura maggiore o minore: alludo in particolare al principio fraterno che non è ancora penetrato nella coscienza storica se non nel senso di una solidarietà che si manifesta particolarmente nelle emergenze (terremoti, alluvioni ecc.); ma che, ad esempio, rifiuta l’immigrato, il quale tenta con difficoltà e sacrifici di sfuggire ad una società di scarsità  per entrare in una società del benessere; e chiede ai suoi fratelli benestanti di essere accolto tra loro.

Un partito cristiano, in cui militano persone autenticamente cristiane, la cui fede ha assimilato l’annunzio evangelico e ne ha fatto un principio di vita, di azione, d’impegno. Si può costruire un tale partito? si possono trovare abbastanza cittadini dalla fede viva e operosa, pronti all’impegno per la giustizia e l’amore fraterno? pronti al servizio? Qui comincia il dubbio.

 Si può trovare, e si è trovato e costruito un partito democristiano, che ha gestito per oltre quarant’anni lo stato italiano; dove c’era forse un piccolo nucleo autentico (De Gasperi, i “professorini”, che però poi hanno lasciato o si sono integrati); che ha salvato il paese dalla sovietizzazione (il modello sovietico, lo stalinismo, professato dal potente PCI; non il comunismo, che resta un progetto non ancora mai realizzato); e ha avuto la fortuna di gestire il paese in una fase di grande crescita economica e culturale, quella che alcuni studiosi chiamano l’“età dell’oro” (tra questi Hobsbawm, lo storico inglese del Novecento); e però lo ha gestito nel compromesso, nall’attaccamento al potere (si pensi ad Andreotti, al suo persistente governo della mediocrità), nella corruzione che infine ha dilagato e lo ha portato alla rovina.

Si può trovare un’UDC, che si professa cristiana, ma il cui leader ha fatto votare tutte le inique leggi volute da Berlusconi per sottrarsi a quella dozzina di processi che giustamente lo perseguivano nella scorsa legislatura.

Ma poi il partito cristiano e cattolico ha dietro a sé il Vaticano; e cioè non la comunità fraterna del progetto evangelico, ma una chiesa gerarchica e papale che è soggiaciuta al fascino e all’abbaglio dell’Impero Romano; e si è organizzata secondo un principio di potere, secondo un modello imperiale. E ha anche riorganizzato la società cristiana occidentale ristabilendovi l’impero, il Sacro Romano Impero. Dimenticando l’espressione famosa di Agostino, “che cos’è un impero se non un grande brigantaggio”?  E tale era certo l’Impero Romano, tanto ammirato ed esaltato, che si era costruito a furia di guerre di conquista, guerra perenne, schiavizzando altri popoli, depredandoli, annientandoli.  

In forza di questo principio di potere, questa chiesa afferma un dominio infallibile della verità, specie di quella teologica e filosofica; che è poi anche un dominio della ricerca; e soprattutto un dominio dell’etica, cioè di ciò che vincola il comportamento umano e fonda la legge positiva; e quindi un dominio (diretto o indiretto dello stato).  

Lo abbiamo visto in tanti casi, in questa Italia che contiene in sé il Vaticano, la presenza di quel potere imperiale che pretende vincolare le coscienze. Quando Prodi tentò di varare il patto civile di solidarietà (che esiste in Francia dal ’99; esiste in altre nazioni) per le coppie di fatto e le coppie omosessuali, per riconoscere loro dei diritti che loro competevano come cittadini. Quando lo stato decise di lasciare l’aborto alla responsabilità della donna. Quando la Destra varò la legge sulla procreazione assistita sulla falsariga di un documento vaticano. Nel caso delle malattie terminali. La chiesa, che pure ha sottoscritto un concordato il quale dice che stato e chiesa “sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, interferisce nell’attività del parlamento e del governo, ed è giunta a minacciare ai parlamentari di negare loro i sacramenti se avessero votato certe leggi.

In forza di questo principio ecclesiastico di potere un partito cattolico in Italia finisce per diventare una longa manus del Vaticano, il suo “braccio secolare”.   

                                                                                           22/11/010

 

 

L’attacco alla magistratura

di Arrigo Colombo

 

          L’attacco alla magistratura italiana, che s’è ormai molto diffuso, se ne sente parlare quasi ogni giorno, è un fatto relativamente recente. Inizia quando alcuni grossi esponenti politici (prima Craxi, poi Berlusconi), indiziati di reato e perseguiti processualmente, anziché accettare come ogni buon cittadino la legge e il suo rigore, si sentono forse colpiti nella loro superiore qualità di uomini eccellenti, di superuomini; oppure, raggiunto il potere, pensano di manipolare la legge e il parlamento in loro favore (come in realtà hanno fatto e fanno); e si rivoltano, e ritorcono l’accusa contro la magistratura stessa. La quale si accanirebbe contro di loro perché collusa con altre fazioni che sono state sconfitte e cercano una rivalsa (la Sinistra, in particolare, sono magistrati sinistrorsi, rossi); o addirittura per una volontà di potenza, la volontà di fare della magistratura un contropotere, un superpotere che condiziona l’esecutivo e il parlamento.

Si parla, a questo proposito, di giustizialismo, nel senso totalizzante dell’ “ismo”; di una giustizia che eccede la sua funzione e il suo potere, o addirittura mira a tutto condizionare, ad un potere totale. Siamo lontani dal senso originale e peronista della parola; che voleva indicare un regime di giustizia, anzitutto sociale; quale pretendeva essere quello argentino di Perón.

 

Bisogna qui notare che quella saggia, e per molti versi esemplare Costituzione che, dopo l’esperienza della dittatura, costruirono i nostri padri, prende molto sul serio il principio della distinzione dei poteri e conferisce alla magistratura piena autonomia; una misura di alto tenore democratico. L’esecutivo non può far nulla su di essa (a parte l’invio di un ispettore); non può entrare nell’azione penale o trasferire un giudice, come avviene in Francia. Questo dettato costituzionale, questa autonomia esaspera tutta quella gente di potere che ha pendenze giudiziarie; alle quali, in forza del potere che detiene, vorrebbe sfuggire; anche per presentarsi alla nazione con una fedina integra, pulita.

Questa gente, questi politici e amministratori, sono molti, sono una massa. A tutti i livelli: di parlamento, di governo, di amministrazione regionale, provinciale, comunale. La stampa ne parla spesso. Il presidente della Commissione antimafia Pisanu ne ha parlato proprio nei giorni scorsi: “Alle ultime elezioni amministrative è stata candidata gente indegna. Liste gremite di persone indegne”: una testimonianza agghiacciante. La situazione italiana è, sotto il profilo etico, molto degradata. C’è un diffuso degrado morale che il popolo – gli elettori – in parte non conosce, in parte subisce magari per paura, in parte condivide per motivi clientelari.

L’Italia ha bisogno di gente onesta, di un’amministrazione onesta a tutti i livelli. Perciò di una legge che escluda da ogni organo amministrativo – a cominciare dal parlamento fino all’ultimo piccolo comune – le persone comunque connesse col reato, a partire dall’avviso di garanzia. Le deve escludere tutte perché chi fa la legge, chi la fa eseguire, chi amministra gli altri cittadini dev’essere persona di provata onestà, persona intatta, che non ha con la legge nessuna pendenza.

Quando un politico, o un amministratore in carica, riceve un avviso di garanzia, si dimette, deve dimettersi, per legge. Altro che immunità parlamentare e politica; altro che lodo Schifani e lodo Alfano, e tutte le altre invenzioni fatte per mantenere la disonestà al potere. Altro che giustizialismo.

 

L’Italia deve risalire da questo degrado morale in cui giace e che la umilia di fronte alle altre nazioni. Sappiamo che altrove le cose vanno diversamente, che v’è un costume morale severo il quale non ha neppure bisogno di leggi. Così il cancelliere tedesco Helmut Kohl, che pure aveva fatto tanto per il suo paese, in particolare per la riunificazione, quando fu accusato di finanziamento illecito del suo partito, subito si dimise. Così in Francia il ministro Dominique Strauss-Kahn (oggi presidente del Fondo Monetario Internazionale), indagato per la sua attività di avvocato, si  dimise allo stesso modo.

L’Italia è una nazione in stragrande maggioranza cattolica. Dovrebbe essere moralissima, la più morale in Europa. La fede in Dio porta all’osservanza della sua legge, un’osservanza profonda, intensa, amorosa; perché poi l’intera legge – come ben sappiamo dal Vangelo – si riassume nell’amore: amore di Dio, amore dei fratelli, amore di patria, amore universale.  Dove la legge viene amata come volontà amorosa di quel Dio amore che attraverso la sua legge vuole il nostro bene, così come il bene dei nostri fratelli e di tutti i suoi piccoli figli gli uomini. O altrimenti che cos’è questo cattolicesimo italiano? è mera ritualità, è tradizione e abitudine, è finzione, incoerenza? non basta neppure a renderci onesti, mentre dovrebbe renderci “santi”, non da altare, ma in quel senso originario ed autentico in cui Paolo chiama “santi” tutti i credenti in quanto divinamente trasformati dalla grazia, dalla presenza interiore di Dio.

                                                                                                         18/10/010

    

 

La follia della Regione Salento

di Arrigo Colombo

 

        L’ambizione del Salento a diventare regione autonoma è tutt’altro che nuova perché il suo primo autore, nella repubblica italiana che si stava costituendo nel dopoguerra, fu Codacci Pisanelli, parlamentare e anche fondatore dell’Università di Lecce; personaggio senz’altro intraprendente, e non privo di ambizione, di volontà di potere. Poi nell’87 ci fu la legge Memmi-Meleleo; nel 2000 un disegno di legge che svanì per il cambio di legislatura. In tempi più recenti movimenti di minore risalto come “Bari non è il mio capoluogo” o “Salento libero”; finché non si arriva all’agosto 2010, all’azione capeggiata da un industriale mediatico, Paolo Pagliaro, cui aderiscono le tre province di Lecce, Brindisi, Taranto e 120 comuni; e si prepara un referendum. Una cosa seria, si direbbe; sennonché l’apparato politico-partitico non sembra consentire: Fitto, Vendola.

 

E però tutte queste ambizioni e divisioni e autonomie; e anche secessioni (la follia della incolta e cafona Lega Lombarda; ma già prima della Sicilia, dell’Alto Adige); e tutte queste nuove regioni (il Molise, con 320.000 abitanti), nuove province, nuovi comuni; tutto questo individualismo, questo voler dividere invece che unire, portano al voltastomaco. Insomma, vi preghiamo, vi supplichiamo, lasciate in pace questo povero paese già pieno di problemi, di grane; con tre o quattro mafie che lo tormentano; col populismo berlusconiano che tutti illude (a cominciare dalla casalinga di Voghera sua grande elettrice) e pensa solo ai suoi processi; con un parlamento che lavora poche ore la settimana; con un debito pubblico del 118% del PIL, un debito enorme; con un’evasione fiscale che raggiunge il 51% del reddito imponibile, e ci danneggia tutti..

 

L’individualismo tipico dell’italiano buon’anima, dell’italiano egoista che pensa solo a se stesso. Si dice l’italiano è buono; può darsi, ma manca di spirito di corpo, di solidarietà, di amor di patria. Il francese dicono sia sciovinista, cioè all’opposto, ma certo l’amor di patria ce l’ha forte. E così il tedesco, che ha un forte senso della comunità. E l’inglese.

Con l’individualismo, il campanilismo, che è una sua forma. Non ci basta la Puglia, ci dà fastidio il predominio di Bari, persino la squadra del Bari; quando viene a Lecce ci sono tafferugli, scontri, si mobilita la polizia. Ma insomma, siamo seri. Certo, anche Bari ha i suoi torti, come tutti: le si rimprovera di prendersi il 70% delle risorse regionali, lasciando solo il 30% agli altri; è un torto sacrosanto, che però non si rimedia creando divisioni ma ristabilendo solidarietà ed equità: Bari, che certo ha le spese dell’amministrazione regionale ecc., riconosca il peso delle altre province, che tra l’altro contano 2.400.000 abitanti, contro il suo 1.250.000.

 

Fa gola poi il denaro pubblico, i fondi regionali che confluirebbero nel Salento. Fa gola l’apparato politico-amministrativo, il presidente o governatore che sia, il Consiglio con le sue commissioni, consulenze, segretari, tirapiedi vari. Un mucchio di nuova burocrazia; cioè di quello che viene considerato uno dei flagelli d’Italia, la burocrazia di filiazione borbonica, complicata, lenta, parassitaria; burocrazia clientelare, dove ciascuno ci mette i suoi, un bel vantaggio per il Salento. Burocrazia che il Ministro Brunetta sembrava volesse rovesciare come un guanto, il Ministro chiacchierone e sboccato (ne abbiamo sentito delle belle); volesse ridurla, attivarla, toglierle il privilegio dell’orario unico di sei ore (che poi diventano cinque), privilegio esclusivo in Europa, e che risale agli sfollamenti della Seconda guerra mondiale. Ma sembra non abbia  concluso molto.

E però non bisogna dimenticare che col denaro pubblico arrivano anche le nuove tasse, L’Irap, l’addizionale Irpef, altri carichi. Ma soprattutto che il denaro pubblico scarseggia, che l’Italia – come già notavo – ha il più grosso debito pubblico dell’Unione, il 118% del PIL, cioè di tutto ciò che si produce in un anno; un debito enorme i cui interessi ammontano a 70 miliardi di euro l’anno.  Che ha bisogno di risparmiare, di non moltiplicare gli enti, e con essi gli sprechi. Si parla addirittura di abolire le province; una misura difficilmente condivisibile, di apparato amministrativo. La Francia ha i dipartimenti; l’Inghilterra e gli USA hanno le contee.

Interviene l’orgoglio: Lecce, la città bella, la Firenze del Sud, diventa anche una città potente, un capoluogo di regione; con tutto ciò che consegue. L’orgoglio meschino.

 

La Puglia è una regione che ha una fisionomia particolare, e colpisce chi viene da fuori. Con gli uliveti, i vigneti. È come un grande giardino. E il Salento ne è parte, non ha nulla che lo differenzi. E poi deve crescere, economicamente, culturalmente. Ha bisogno di unità, di solidarietà, non di divisione.

                                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 15/11/010)

 

 

Questione Rom, la soluzione è solo europea

di Arrigo Colombo

 

         Ritorna il problema di questi popoli nomadi permanenti, il cui nomadismo è eccentrico perché non legato al loro stesso lavoro, come può essere per altri popoli, i pastori mongoli ad esempio, legati alla presenza di pascoli. Diciamo Rom comprendendo anche altre etnie. Si parla di 6-8 milioni di persone in Europa, provenienti dalle regioni balcaniche; in particolare da Romania, Bulgaria, Ungheria, Slovacchia (sarebbero penetrati in Europa provenendo dall’India del Nord lungo il primo millennio d.C.). Nomadismo eccentrico perché non chiaramente motivato; nel Medioevo visto come maledizione divina; allora e anche in seguito non ben tollerato dai popoli ospiti, la cui cultura s’incentra nel lavoro e non sopporta il parassitismo. Per cui il misoneismo e la persecuzione dei Rom è un fatto endemico che ha quelle precise ragioni. A prescindere dalla politica nazista di annientamento.

 

Il problema in realtà esiste da sempre, ma si ripresenta ora in seguito all’azione sviluppata del governo francese negli ultimi mesi. I Rom, che appartengono all’UE,  possono entrare in Francia, ma il loro soggiorno diventa illegale dopo tre mesi; o anche prima per cause come la non-domiciliazione, l’occupazione irregolare di terreni. Allora vengono espulsi e riportati in patria via aerea. Si tratta però sempre di piccoli numeri perché, secondo recenti statistiche, i Rom in Francia sono 400.000, un numero alto e un grosso problema; rispetto a cui gl’interventi del governo, di espulsione come d’integrazione (v’è pure un programma integrativo) sono poca cosa. Il numero più alto è in Spagna, 725.000; in Inghilterra sono 300.000, in Italia 140.000, un Germania 105.000. A parte i grossi numeri delle regioni balcaniche di cui si parlava; la loro patria, se così si può dire.

 

Il problema è europeo, questo è chiaro, e deve affrontarlo anzitutto la Commissione, che finora ha latitato, ed è stata anche censurata dal Parlamento. La Commissione deve preparare un progetto in cui tutti i membri dell’Unione possono convenire; per risolvere il problema, e non solo per correggerlo in qualche misura, o rinviarlo.

La posizione di questi nomadi non è più tollerabile perché sono venute meno le condizioni di lavoro che li hanno resi autosufficienti in passato: l’allevamento e il commercio di cavalli, la stagnatura del pentolame, l’artigianato fine, la musica tzigana. Venuto meno il lavoro sono caduti per molta parte nella criminalità: furto, accattonaggio coatto di donne e bambini, di pseudomadri con bambino a prestito, prostituzione; oltre alla difficoltà della formazione dei figli, la scolarizzazione. Per cui anche l’ospitalità da parte dei comuni, i terreni, gli accampamenti – con le relative somme da stanziare – diventa problematica.

La soluzione sembra essere la stanzialità, che d’altronde molti rom – e, diremmo, i più saggi – già hanno scelto. I comuni – specie i maggiori, le città, che già sempre hanno impegnato fondi per il loro soggiorno – devono presentare loro l’offerta stanziale: una casa, un lavoro, e col lavoro l’assistenza e la previdenza, la scuola per i figli. Dev’essere un’offerta generale, dell’Europa intera, che elabora un programma in proposito, ne valuta e ne stabilisce i fondi. Una grossa operazione che mira a redimere questa gente dalla loro precarietà estrema, mira ad introdurre questi cittadini marginali nella società che fino ad oggi li ha solo ospitati; ad introdurli nella società del benessere. Un’operazione non breve, che forse può durare un certo tempo; che dev’essere condotta con umanità, rispetto, pazienza. Un processo d’integrazione non piccolo in cui l’Unione si deve impegnare a fondo.

Se il Rom non accetta, viene rinviato al suo paese d’origine. Paese nel quale dev’essere in atto lo stesso processo. Perché molti degli espulsi dalla Francia non hanno trovato buona accoglienza in patria; la Romania, che ne è la patria maggiore, non si è impegnata in questa operazione, pur avendo ricevuto da Bruxelles fondi d’integrazione in misura non piccola; non ha collaborato con la Francia. Per cui gli espulsi, trovatisi senza casa e senza lavoro in un paese povero, hanno concluso che dovevano rimettersi in strada, ritornare in Francia o altrove.

In questa scelta offerta ai Rom, in cui v’è anche una componente forte, un richiamo alla coscienza e all’azione giusta, non v’è nessun disprezzo di questa etnia, nessun marchio d’inferiorità, di razzismo come taluni obbiettano. V’è invece una volontà seria di aiuto, un volontà di redenzione.

                                                                       

 

Il ritorno dell’età dell’oro?

di Arrigo Colombo

 

         L’età dell’oro di cui per primo parla Esiodo – così come l’Eden biblico – restano sempre un punto di riferimento, un oggetto del desiderio, per l’umanità; almeno per quella occidentale. Anche se non hanno carattere storico ma mitico. Secondo alcuni studiosi (già ad esempio Lattanzio nel quarto secolo) sono semplicemente una retroproiezione della tensione utopica umana, cioè della tensione verso una società di giustizia e di benessere – essendo questo il senso della parola  “utopia”, il non-luogo, la società che non c’è (in quanto le società esistenti sono ingiuste, perverse) ma verso cui l’umanità è protesa; e quindi la società che non c’è ancora ma che l’umanità sta costruendo.

 

Si è parlato di età dell’oro per il ventennio in cui culmina lo sviluppo economico del ‘900, si raggiunge quasi la piena occupazione, gli  anni 60-80; ne hanno parlato grandi storici come Hobsbawm. Ma l’espressione era azzardata perché l’Occidente stesso stava sotto il timore della “guerra fredda”, dell’armamento nucleare; e v’era poi il Terzo Mondo dove imperversavano i flagelli di sempre, la fame, la malattia, le guerre (ma anche le dittature, i genocidi).

L’espressione ritorna ora, da parte di alcuni studiosi, per l’ultimo decennio, il 2000-2010, di cui si parla come dei dieci migliori anni nella storia dell’umanità. Nella storia di finora, dunque? con questo senso relativo? I fattori indicati sono il cibo, mai tanta quantità di cibo è stata disponibile. Il reddito globale pro capite, mai prima così alto, 10.600 dollari l’anno, cioè circa 800 dollari al mese La salute, la lotta contro la malattia ha raggiunto esiti altissimi, pur essendovi ancora malattie largamente incurabili come l’Alzheimer (tralasciamo quelle dovute a comportamenti viziosi, quali il fumo e l’alcol); si va verso la vittoria sulla malattia. La durata della vita ha fatto grandi passi, i cent’anni sembrano alla portata di tutti  – almeno di tutti coloro che conducono una vita igienica e non hanno gravi tare genetiche (dove però si prospetta l’intervento sul patrimonio genetico) –; ma si parla di 120 anni per un futuro non lontano; o anche di 150 anni.

Durata della vita e insieme della vitalità, si riaffaccia anche il mito della giovinezza perenne, la scomparsa della vecchiaia per una terza giovinezza. Riappaiono qui le parole del profeta Isaia, “morire a cent’anni sarà morire giovani”; si pensa che quella profezia proprio ora si stia realizzando. L’alfabetizzazione ha raggiunto i quattro quinti dell’umanità; un grande passo. Si parla anche di una diminuita spesa per le armi, pur restando enorme, e totalmente insensata (se soltanto si pensa alle circa 22.00 testate nucleari in giro per il mondo, alla follia di  USA e Russia che dassoli ne detengono circa 20.000). E inoltre, proprio in questo decennio, abbiamo due guerre infinite (dovevano durare solo pochi mesi, si disse), scatenate dalla follia della Destra americana.

 

Ovviamente questa pretesa età dell’oro ha il suo rovescio. V’è abbondanza di cibo, ma gli affamati e malnutriti sono ancora un miliardo. Il reddito è mirabilmente salito, ma un miliardo e mezzo di persone vive con meno di un dollaro al giorno. L’alfabetizzazione si è allargata, ma deve ancora raggiungere oltre un miliardo di persone. La salute si afferma, ma in Africa vi sono 33 milioni di malati di AIDS, la terribile malattia.

Secondo quegli studiosi, poi, i dieci anni non sarebbero solo i migliori della storia di finora, ma dell’intera storia umana. In quanto tutta questa crescita è avvenuta ai danni dell’ecosistema, che ne è rimasto sconvolto; sì che un’età di penuria e di catastrofi starebbe davanti a noi. Si parla in particolare della riduzione del terreno agricolo, eroso continuamente dall’urbanizzazione, dalle fabbriche, dalle infrastrutture. Della riduzione dell’acqua potabile, che diventa scarsa per l’umanità intera. Ma il problema attualmente più grave è il riscaldamento globale dell’atmosfera dovuto all’effetto serra, cioè alla presenza di gas che trattengono le radiazioni solari. A questo riscaldamento atmosferico sono attribuiti i fenomeni meteorologici estremi di questi anni (ad es. le recenti catastrofiche inondazioni in Pakistan), lo scioglimento dei ghiacciai e più oltre lo scioglimento delle calotte polari che porterà all’innalzamento di mari, quindi a vaste zone d’inondazione e sommersione. Si prevede che sarà difficile evitare catastrofi locali, sommersione di città e di pianure. Anche per la scarsa saggezza degli stati (Bush, da buon petroliere legato alla gang dei petrolieri, si era rifiutato di ratificare il protocollo di Kyoto) il ritardo è forte.

 

Diversa è la visione macrostorica degli studiosi della “nuova utopia”, cioè del progetto dell’umanità. La scoperta che l’umanità ha un progetto di liberazione, di redenzione terrena, che è la costruzione di una società di giustizia e di una società fraterna. E che da tre secoli, cioè dalla prima delle rivoluzioni moderne, la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, sta di fatto costruendo una società di giustizia. Di cui ha impostato tre modelli: il modello democratico, che si è ormai generalizzato; il modello di giustizia sociale; il modello cosmopolitico, cioè la comunità planetaria dei popoli; dopo la caduta degl’imperi – continentali e coloniali – e la raggiunta autonomia dei popoli stessi. Questi modelli sono in costruzione, perciò sono ancora largamente difettosi.

Questa ricostruzione della storia umana apre la prospettiva di un processo che, per quanto complesso e difficile, avanza; anche perché ha una spinta etica, un dover essere, “uomo sii giusto”. La società di giustizia è necessariamente anche una società di benessere e di pace. Le catastrofi locali non fermano questo processo; anzi lo incentivano, in quanto incentivano la solidarietà umana.

                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 20/09/010)

 

 

Lo stato italiano non sostiene la famiglia

di Arrigo Colombo

 

         Una relazione del Ministero dell’economia sulla situazione economica del Paese nel 2009 rivela che lo stato italiano non sostiene la famiglia. Spende infatti soltanto l’1,2 del Prodotto interno lordo e si colloca così tra gli ultimi nell’Unione Europea; è l’ultimo dell’Europa dei 15, ed è il terz’ultimo dell’Europa dei 27 (insieme a Lettonia, Lituania, Spagna, Portogallo), non avendo dietro a sé che Malta e Polonia. Un vero sconcio, uno scandalo perché l’Italia è uno stato ricco, che sta al settimo posto nella graduatoria della ricchezza globale degli stati (dopo USA, Giappone, Cina, Germania Francia, Inghilterra); ma quanto alla famiglia è preceduto da stati notoriamente poveri, come Slovacchia, Bulgaria, Romania.

Spende solo l’1,2 del PIL; mentre la media europea è del 2,1; mentre la Francia spende il 2,5, l’Irlanda il 2,6; Germania, Austria, Ungheria il 2,8, gli stati scandinavi dal 3 in su.

 

L’Italia, il paese – si dice – in cui la famiglia è forte, il senso della famiglia, gli affetti familiari; in cui la famiglia è un valore. Ma un valore umano di cui non ci si cura. Perciò anche la natalità è bassa, 1,3, insufficiente alla riproduzione, alla vitalità storica del popolo italiano.

Alcune carenze sono ben visibili: gli asili nido una rarità, le scuole materne  poche, così come sono poche le scuole a tempo pieno (si veda la nostra città, Lecce, esemplare in tal senso). Le madri che lavorano sono solo il 45%. D’altronde quelle strutture sono indispensabili al lavoro della coppia, e quindi al doppio salario, al numero dei figli, al benessere familiare. Ma il fatidico tandem Tremonti-Gelmini lo ignora e, invece di promuovere quelle strutture e l’intera scuola, taglia grosso, 8 miliardi in tre anni, licenzia gl’insegnanti a migliaia. Ma Tremonti non taglia sugli stipendi e le indennità dei politici, sulle auto blu che battono ogni primato, sugli sprechi di un sistema di privilegio.

Basterebbe, tanto per cominciare, un piccolo espediente fiscale che tassasse divisi e non uniti i redditi della coppia: due redditi da 15.000 euro, anziché uno da 30.000; l’IRPEF sarebbe del 23% anziché del 38%; si parla di risparmi fino a 1800 euro all’anno. Un metodo che in Francia è in vigore da molto tempo. Ma il governo ha altre idee per la mente, altre preoccupazioni, che riguardano essenzialmente Berlusconi e i suoi affari, i suoi processi: il lodo Alfano, il legittimo impedimento, il processo breve con valore retroattivo per abolire i suoi, una leggina che annulla 350 milioni di debiti della Mondadori ecc. ecc. Che importa la famiglia? altre cose premono, più importanti. C’è da piangere.

 

Un caso esemplare è quello della Francia, dove la popolazione, in seguito alla diminuzione delle nascite, nel 1950 si era abbassata a 40 milioni. C’era di che preoccuparsi, la Francia è grande una volta e mezzo l’Italia. Il governo si preoccupò seriamente e introdusse via via una serie di misure di sostegno alla natalità e alla famiglia che hanno prodotto il miracolo, in quarant’anni una crescita di 20 milioni; crescita che ancora continua, la Francia ha oggi 65 milioni di abitanti.

Vogliamo vedere alcune di queste misure? vogliamo sottoporle ai nostri distratti politici, mettergliele sotto il naso?

Vi è anzitutto una Cassa allocazioni familiari (CAF), che presiede a tutta questa materia. Ed è competente non solo per i cittadini, ma per tutti coloro che risiedono stabilmente in Francia. Vi sono allocazioni:

per un bambino, sia proprio che adottato, da coniugati come da conviventi, dal sesto mese di gravidanza  al terzo anno (o per i primi  21 mesi dell’adottato);

a partire dal primo figlio, sia proprio che accolto, che resti privo del sostegno di uno dei genitori (anche se questo rifiuta, nel qual caso il CAF procede per via giudiziaria);

a partire dal primo figlio per una “assistente materna”, fino ai 6 anni;

a partire dal primo figlio di lavoratori per una baby sitter, fino ai 6 anni;

per la scuola, dai 6 ai 18 anni;  

per l’educazione speciale in caso di handicap, fino ai 20 anni; 

allocazione speciale a partire dal secondo figlio, fino ai 20 anni;

allocazione speciale a partire dal secondo figlio se si è ridotta l’attività professionale;

complemento familiare col terzo figlio;

allocazione di alloggio, per affitto o mutuo; per trasloco; per migliorie;

allocazione completiva in ordine al reddito minimo;

allocazioni sociali concernenti la vita quotidiana (per studi, per vacanze della famiglia; in caso d’indebitamento ecc.).

Certo da noi non si è mai sentito che lo stato intervenga per aiutare la famiglia ad andare in  vacanza; fatto davvero gustoso. O che l’aiuti quando deve traslocare. Certe finezze ci sembrano irreali.

                                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 6/09/010)

 

 

Guerra e pace in una società planetaria

di Arrigo Colombo

 

         Abbiamo buone ragioni  per pensare che l’umanità sia entrata in un’età di pace.

Anzitutto la scomparsa degl’imperi, che si formavano attraverso conquiste ed erano una causa continua di guerre. Scompaiono con le due guerre mondiali: con la prima gl’imperi continentali, l’asburgico, il prussiano, il russo, l’ottomano (il cinese era già caduto nel 1912 con la rivolta di Sun Yatsen; il giapponese cade nel 1945); con la seconda gl’imperi coloniali (v’è una certa resistenza, ad esempio da parte della Francia, che scatena due guerre per conservare l’Indocina e l’Algeria). I popoli riacquistano la loro autonomia; è un grande passo per l’umanità.

Poi la formazione della comunità planetaria dei popoli, l’ONU, il cui primo e fondamentale obiettivo è la pace. Lo Statuto dell’ONU enuncia il principio che i conflitti tra popoli non devono mai essere risolti con la guerra, ma solo con la trattativa. Un principio ch’era presente in Europa dal ‘600, dai molteplici progetti di pace che si erano succeduti e che puntavano tutti, più o meno apertamente, su questo principio; che però ora diventava una norma per il mondo intero.

L’altro evento è la formazione dell’Unione Europea, che elimina la guerra in una zona del pianeta che la guerra aveva devastato più di ogni altra. L’Unione si pone come comunità di pace e di solidarietà, e può rappresentare un modello per l’umanità intera. Dovrebbe però essere pienamente fedele ai suoi principi e partecipare – certamente – a missioni di pace, ma non a guerre aggressive di stati sovrani, con motivi pretestuosi di democratizzazione ecc.; com’è avvenuto per le due guerre infinite di Afghanistan ed Iraq, scatenate dalla potenza egemone, gli USA, per un risentimento e una rivalsa dopo l’attacco delle torri gemelle (non aveva mai subito un attacco all’interno). Guerre infinite perché, scatenate con l’idea di concluderle in pochi mesi,  e trasformatesi in guerriglie, non si vede come possano finire. Quanto alla democrazia è certo che non la si esporta, perché richiede la formazione di una coscienza e di un costume. Così come il terrorismo islamico non si sconfigge con gli eserciti ma con mezzi più raffinati e sottili, con alleanze, con rapporti più benevoli col mondo islamico.

Per la guerra d’Afghanistan non v’era una risoluzione ONU. La quale avrebbe dunque dovuto sanzionarla in quanto eversiva della fondamentale norma di cui si è detto, mentre la sostiene creando la missione ISAF cui partecipano 42 stati. Per la guerra d’Iraq non v’è un intervento ONU, ma v’è l’alleato inglese (Blair mente al suo popolo sulla presenza di basi di Al Qaeda e di armamenti atonici) e si forma poi una coalizione «dei volonterosi» che giunge a coinvolgere 48 nazioni.

 

Possiamo trascurare le molte piccole guerre e guerriglie che insorgono in questa fase. Le guerre che contano (a parte quella Iraq-Iran, voluta da un dittatore; e a parte le guerre coloniali, residuo di un’altra età) sono quelle scatenate dalla potenza egemone, gli USA, due delle quali in funzione anticomunista (Corea e Vietnam), la Guerra del Golfo con carattere di aiuto ad un paese invaso e depredato, il Dubai; e queste due ultime disastrose guerre infinite.

Abbiamo dunque una comunità planetaria dei popoli che ha come fondamentale obiettivo la pace, ma che è ancora debole, strumentalizzata dalle maggiori potenze. Abbiamo una potenza egemone, gli USA, che in questi quasi settant’anni ha sviluppato armamenti enormi, ha basi militari e flotte ovunque, ha scatenato una serie di guerre. L’altra potenza egemone, l’URSS, che aveva scatenato la prima guerra d’Afghanistan, è crollata; ma la Russia, che le è succeduta, non è estranea a tendenze egemoniche. Infine la Cina, la quale con Mao aveva rinunziato all’egemonia. L’Europa è un modello, ma dev’essere pienamente fedele alla sua volontà di pace; deve resistere all’alleato statunitense.

Le reali possibilità di pace sono dunque molto avanzate, la volontà di pace si è rafforzata. Il pericolo maggiore è rappresentato dai grandi stati egemoni, e anzitutto dagli USA; i quali pretendono alla leadership dell’umanità, e lo affermano esplicitamente nei discorsi e nei documenti presidenziali. L’umanità non ha bisogno di un leader, e tanto meno di un leader armato  fino ai denti, di un gendarme. Gli USA devono rinunziare alla loro pretesa egemonica (e un presidente saggio come Obama lo potrebbe fare), devono smantellare le loro basi e flotte ovunque nel mondo; insieme con l’Unione Europea devono prendere l’iniziativa di rinunzia all’arma atomica, per tutti quelli che la posseggono. Un ulteriore processo di pace nel quale possiamo sperare.

                                                                      (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26/07/010)

 

                                                      

Il delitto di genere ovvero la mattanza delle donne

di Arrigo Colombo

 

         Mattanza è forse parola forte, ma il fenomeno è comunque impressionante, almeno una donna uccisa ogni settimana; e però nell’ultimo mese le uccise son nove. Sì che questo delitto assume ormai una valenza sociale, diventa un fenomeno tipico, caratterizzante una società e un tempo.

Talvolta è in gioco la gelosia, il vecchio movente; o il tradimento, per quanto questa parola piuttosto drammatica abbia perso molto del suo significato e della sua presenza. Talvolta l’odio, l’esasperarsi di un conflitto, specie se la donna è del tipo aggressivo, ha in particolare l’aggressività della parola. Talvolta con la donna viene ucciso anche il piccolo figlio, o i  figlioletti; il delitto tende alla follia, incrudelisce anche sui piccoli innocenti.

Ma il caso più frequente sembra essere l’abbandono: quando la donna decide lei e lascia il marito, e il giudice le assegna i figli. Lo lascia per precise ragioni, certo. Ma nel maschio subentra il risentimento, il senso di una dignità offesa; perché per tradizione le decisioni in famiglia le prende il maschio; perché il maschio si sente superiore, si sente umiliato. E perché per tradizione il rapporto è possessivo, la donna è sua, non nel senso alto dell’assimilazione amorosa; senso introdotto dal Romanticismo nella sua comprensione ed esaltazione storico-epocale dell’amore di coppia, che diventa l’amore per eccellenza; diventa anzi un momento di assoluto – accanto agli altri due momenti, quello religioso, l’amore divino nell’uomo, e quello artistico, il momento creativo dell’arte. Comprensione storico-epocale perché diventa definitiva per l’umanità, e noi oggi così lo viviamo.

Nella tradizione anche cristiana domina invece l’idea del possesso. La donna è cosa dell’uomo. Anche nel Decalogo biblico, che introduce il Codice dell’Alleanza, sta tra le cose possedute dall’uomo: “Non desidererai la casa del tuo prossimo, non desidererai la donna del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino”. Ma anche Paolo apostolo dice che la donna dev’essere soggetta all’uomo che ne è il capo; come l’uomo è soggetto al Cristo e il Cristo a Dio; e dice che nella chiesa deve tacere, e portare un velo. Quest’idea e questo rapporto percorre l’intera storia cristiano-occudentale.  Ma nell’Islam le cose stanno ancor peggio, come tutti sappiamo: la donna sta sotto la tutela del padre, poi del fratello, poi del marito; e il velo, che assume le forme estremo del burqa e del niqab, perché appartiene talmente al marito che solo lui la può vedere.

 

In questi delitti domina l’idea del possesso. La donna è del maschio e non può lasciarlo; semmai il maschio può lasciare lei. Se lo lascia ne offende la dignità, ne intacca il dominio. Un tempo veniva lapidata (e ancor ora nell’Islam), oggi comunque merita la morte.

Siamo – almeno in prevalenza – in una società mediterranea, col maschio latino che spesso le donne tanto stimano e desiderano. Ma un maschio pericoloso perché storicamente e culturalmente arretrato, non ha ancora assimilato la pari dignità e diritto d’uomo e donna, uno dei fondamentali principi che la coscienza moderna è andata acquisendo, e che ha stabilito nelle Carte dei popoli, nelle Costituzioni.

Certo, il processo di emancipazione della donna è recente; la donna inizia a reclamare la sua dignità e il suo diritto nelle rivoluzioni moderne. Nella Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, che è la prima, v’è già – si può dire – un movimento femminile, anche se le donne lottano più per i valori della Rivoluzione come tale, che non per se stesse. In quella francese, Olympe de Gouges presenta alla Convenzione una Dichiarazione dei diritti della donna, i cui principi però non vengono accolti nella famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.

Il vero e definitivo movimento di emancipazione parte durante la Grande Contestazione, nel 1970, pochi decenni fa. È  il femminismo, che molti non comprendono o disprezzano; ma è un movimento autentico di liberazione. E però è recente. Si può capire come il maschio latino – e con lui altri maschi – abbiano difficoltà a recepirlo, farlo proprio, tradurlo nella propria vita, nei propri rapporti. .La dignità e diritto della donna, la pari dignità e diritto d‘uomo e donna, di donna e uomo. Bisogna che la società, specialmente quella mediterranea, s’impegni più intensamente a farlo comprendere a farlo vivere. La famiglia anzitutto, la scuola di ogni grado. Più difficilmente la chiesa, la quale non riconosce alle donne la possibilità di accedere al sacerdozio e all’episcopato, e a tutta la gerarchia ecclesiastica: E lo fa con ragionamenti sofistici, che non reggono all’esame della ragione, né a quello della fede. Si leggano i documenti in proposito.

                                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19/07/010)

 

 

Riflessioni sulla manovra fiscale in corso

di Arrigo Colombo

 

        Una manovra da 24,9 miliardi che sta suscitando un enorme vespaio; Prodi ne aveva fatta una da 40 miliardi. Ma ci sono almeno due cose che colpiscono: la prima è una particolare grettezza nel reperimento dei fondi, o dei risparmi; la seconda è l’ennesima fiducia prevista sia dall’una che dall’altra Camera, che impedirà ogni discussione, impedirà al Parlamento di lavorare.

Si sa che con questo Governo il Parlamento lavora pochissimo (16 ore a settimana la Camera, 9 ore il Senato; dal 1° gennaio; lo dicono le statistiche, ne ha parlato più volte la stampa) perché non fa altro che approvare disegni di legge, e decreti governativi, e spesso col voto di fiducia che abolisce ogni discussione; mentre i suoi disegni di legge, quelli  parlamentari, giacciono inevasi.

Questo Governo ha rovesciato il sistema democratico, che pone al vertice il Parlamento, l’organo della legge; di cui il Governo è solo l’esecutivo, col compito di attuazione della legge stessa. Qui invece le leggi le fa il Governo, e il Parlamento ne è il servitorello, colui che le approva, per lo più senza neppur discuterle; e approva anche le inique leggi “ad personam” che servono a Berlusconi per evitare i processi in cui sta invischiato. Una situazione a dir poco vergognosa.

 

Ma veniamo all’altro punto, cioè al modo in cui il Ministro Tremonti, piccolo genio dell’economia, è andato racimolando i soldi di questa sua famosa manovra.

È andato anzitutto a colpire gli strati popolari e medi, e gl’invalidi : tagliando le tredicesime ad un certo numero di servitori dello stati, magistrati, professori, poliziotti, vigili del fuoco; bloccando per tre anni gli stipendi agli statali; togliendo l’indennità agl’invalidi o rendendola difficile (l’85%, portata poi al 74, una vera iniquità); togliendo l’accompagnatore agl’infermi, lasciandolo solo a quelli totalmente immobili (un’altra iniquità); abolendo lavori socialmente utili.

Alcune di queste folli misure sono poi cadute, ma rivelano il calibro di questo ministro. Che va a cercare il denaro dove già ce n’è poco, dove poco se ne può trovare. Che colpisce categorie marginali, diseredate e sofferenti.

A parte il fatto che uno dei criteri di una sana economia è che nelle operazioni cosiddette di austerità non si devono colpire salari e pensioni, in quanto ad essi è legata la grande massa dei consumi, e quindi il reggere della produzione.

Un’altra riflessione dovrebbe farsi sulla Difesa. La Costituzione italiana proibisce la guerra; ma ecco che per il 2010 si prevedono spese militari per 23 miliardi, oltre ai 13  per l’acquisto dei discussi caccia 131; mentre in un esercito di pace gli aerei da caccia non ci devono essere. Lì sì che il Ministro troverebbe pane per i suoi denti; altro che gl’invalidi.

Sugli sprechi della politica sembra essere calato il silenzio. Il Ministro aveva prima ipotizzato un 5% sulle indennità parlamentari, che ammontano a circa 13.000 euro al mese; poi si parlò di un 10%; gli si obiettò che dovevano calare almeno di un terzo, anche per un motivo esemplare. Ci sarebbero anche le 30.000 auto blu (le auto di pubblico servizio sono in tutto 90.000). Ci sono tutti i doppi stipendi, tutte le sontuose indennità di commissioni e consulenze varie.

 

Il denaro si deve cercare dove si trova. Colpendo anzitutto l’evasione fiscale in cui, secondo una recente inchiesta, l’Italia si conferma primatista europea con il 51,2% del reddito non dichiarato; un fatto enorme; si tratta di 144 miliardi di euro d’imposte annuali; altro che la manovra tremontiana.   Poi ci sono i grandi patrimoni, su cui urge una legge, che esiste in altre nazioni, ma di cui  ovviamente il Ministro, come il suo capo, non si preoccupano. Preferiscono infierire sulle spese regionali, che certo hanno bisogno di maggiori controlli perché proprio nelle regioni si verificano gravi sprechi; la stampa li ha spesso denunziati. Poi si devono modificare le aliquote fiscali, nel senso di ottenere maggiori contributi dai maggiori redditi; l’opposto di quanto vorrebbe fare Berlusconi. Insomma questa manovra si è rivelata talmente complicata e difficile proprio perché non è andata a colpire dove avrebbe dovuto: Perché la ricchezza qui sta al potere e non vuole essere toccata. Perché l’italiano manca di senso d’identità e di solidarietà, e deve quindi essere colpito e costretto là dove si sottrae al contributo che deve alla comunità. Perché la corruzione proprio in questa fase dilaga e ogni giorno insorgono nuovi casi, e altri ne insorgeranno; dilaga perché sta al potere e diventa per tutti un esempio.

 

 

La discussione sulle tasse

di Arrigo Colombo

 

         Si sa che le tasse sono un argomento indigesto ai cittadini, che le considerano come un’espropriazione, quasi un furto, un’appropriazione indebita dello stato. La parola stessa è odiosa, tassa, o peggio ancora imposta; bisognerebbe piuttosto  parlare di contributi; del contributo di ogni cittadino all’opera comune, ai complessi bisogni della comunità; dove ci stanno anche i nostri bisogni di ognuno; e non solo bisogno di strade e d’illuminazione notturna, ma bisogni più personali ed intimi, di salute, di assistenza.

Quest’avversione alle tasse, questa incomprensione del loro autentico significato, rientra  nuella diffusa alienazione del cittadino dallo stato: lo stato percepito come “altro”, come un’entità a sé stante, dominio semmai dei politici di professione, dei politici maneggioni e ingordi; cui il   cittadino è estraneo, da cui è vessato. E consegue anche alle condizioni attuali della democrazia rappresentativa in cui il cittadino si sente estraneo e impotente; perché, pur possedendo la “sovranità”, la famosa “sovranità popolare”, non la esercita, non può esercitarla se non in quel voto ogni quattro cinque anni; voto che è anche prevenuto e manipolato dai partiti.

L’avversione ha pure almeno un altro motivo: il cittadino sente che i criteri di tassazione sono ingiusti: il lavoratore dipendente è tassato alla fonte e neppure un centesimo sfugge; il lavoratore autonomo – gioielliere, ristoratore, barista; e ancor più avvocato, notaio ecc. – è tassato in base al reddito che dichiara, e che spesso è irrisorio. Si vedano le tabelle che escono periodicamente sulla stampa. E anche le aliquote Irpef favoriscono i redditi medio-alti e altissimi.

 

Ma veniamo alla discussione sulla tassazione globale. Che per l’Italia, si dice, è altissima: il 43,2 del Pil; ma è uguale a quella della Francia. Negli ultimi dieci anni è sempre stata sopra il 40%. Ma se si guardano gli stati scandinavi, sempre vantati per il loro benessere e la qualità dei servizi sociali, si trovano aliquote ancora più alte: la Danimarca al 49%, la Svezia al 47,8. E la media dell’Unione Europea è del 40,2.

Gli Stati Uniti hanno invece un’aliquota del 28%. Perché vi scarseggiano i servizi sociali. Fino a ieri non avevano neppure un servizio sanitario nazionale: avevano due limitati servizi, introdotti dal presidente Johnson nel 1965, medicare per gli anziani, medicaid per i bassi redditi. Gli altri provvedevano da sé, attraverso assicurazioni; ma si calcola che circa 50 milioni di persone restassero privi di ogni assistenza medica. Il presidente Obama ha dovuto faticare nel tentativo di generalizzare l’assistenza; ma sembra che ancora 12 milioni di persone siano rimaste fuori.

Si parla spesso di modello europeo rispetto a modello statunitense. Ciò che è in gioco è lo “stato dei servizi”, dei servizi sociali di ogni genere. Consideriamo le ferrovie. Negli USA tutti prendono l’aereo; tranne quelli che non sono in grado di prenderlo, che si accontentano di treni mediocri – in genere treni merci con un paio di carrozze per passeggeri –; perché le ferrovie sono private e i privati seguono il profitto. Questo è noto.

Ciò che manca negli USA, e li differenzia rispetto al modello europeo, è lo “stato dei servizi” (che viene anche chiamato welfare state; ma welfare  è il benessere, altra cosa). Ed è quel compito primario dello stato, che si genera per una cessione di diritto da parte del cittadino in ordine alla sua tutela e promozione; tutela e promozione che avvengono attraverso i servizi, i servizi sociali di ogni tipo. Che negli USA sono per lo più in mano ai privati. V’è questa radicata idea (e anche questo forte interesse, e profitto) del privato. Servizi  sociali che vanno dall’edilizia popolare all’assistenza sanitaria e previdenziale; a tutto l’ambito della formazione, del sapere, della scienza; all’ambito delle arti; alle infrastrutture (strade, condotte, acqua, energia); ai trasporti; alle comunicazioni (posta, telefono, telegrafo ecc.).

Servizi che competono allo stato e che allo stato devono restare perché devono poter essere aprofittuali; devono rispondere al bisogno di tutti, indistintamente, e non al profitto di alcuni. Perciò non devono essere privatizzati; lo stato non deve cedere il suo corredo di servizi, mirando al bene di tutti; non deve cedere all’avidità privata che vorrebbe trasformare il servizio in un guadagno; non deve cedere all’ideologia liberista che vorrebbe tutto privatizzare per di tutto profittare.

 

L’aliquota della tassazione è alta, ma i servizi sono altamente benefici. Certo, devono essere amministrati con onestà e competenza; poiché v’è il pericolo della burocratizzazione, l’eccesso di burocrazia o il parassitismo burocratico; in Italia, in particolare, il pericolo del clientelismo, dei politici che vi infilano i loro tirapiedi, senza badare ad altro. Se la nazione è corrotta il pericolo è maggiore. Confidiamo negli organi di controllo e nella magistratura.

                                                                                        (Nuovo Quotidiano di Puglia, 5/07/010)

 

La Fiat Pomigliano e la robotizzazione del lavoro

di Arrigo Colombo

 

         La situazione della Fiat di Pomigliano d’Arco si fa sempre più complessa. Vediamo di rifletterci un poco

La fabbrica ha un passato molto ambiguo. Si parla di assenteismo facile, di scioperi per vedere la partita importante di turno, di grosse perdite. Si parla di operai cui manca un’etica del lavoro, come un po’ in tutto il Sud; così come manca una coscienza di classe e una coscienza politica. Non per nulla l’ “operaio del Sud” fu indicato dagli analisti del 2001 come grande elettore di Berlusconi, accanto alla “casalinga di Voghera”; infatti erano andati a lui tutti i seggi della Sicilia e tutti i seggi della Puglia meno uno, quello di Vendola.

Ora Marchionne, ritenuto il genio della ricostruzione e promozione Fiat (ma con uno stipendio di 5 milioni l’anno; mentre il suo ingegnere progettista ne prende 300.000; bella somma comunque, ma il divario è abissale) viene ad imporre una disciplina di ferro, una robotizzazione del lavoro umano.  La fabbrica dev’essere produttiva fino allo spasimo. Con tre turni giornalieri di 8 ore ciascuno (che ovviamente sovvertono la giornata lavorativa e la giornata umana); con 80 ore di straordinario a testa (7,7 al mese); con tempi di lavoro computerizzati,  stretto controllo dei tempi di lavoro e dei movimenti dei lavoratori (questo controllo esasperato, che richiama la tradizionale figura dell’uomo-macchina). Con altre misure minori, come la punizione di chi sciopera nello straordinario del sabato notte (almeno il sabato notte si vorrebbe dormire, no?), la sospensione dell’indennità di malattia se le assenze superano una certa soglia (misura forse ragionevole, visto il passato).

Con queste misure Marchionne arretra rispetto all’evoluzione del lavoro industriale, specie meccanico, che andava superando il taylorismo e fordismo, la cosiddetta “razionalizzazione” del lavoro; così come la famosa catena di montaggio, il lavoro esasperatamente ripetitivo, quello criticato e ridicolizzato da Chaplin in “Tempi moderni”. Lo si superava con l’isola di montaggio, dove veniva raggruppata una serie di operazioni in cui il lavoratore sui muoveva con un cero agio; e più oltre con il “toyotismo”, la nuova strategia che addirittura riuniva le fasi della produzione – progettazione, costruzione, commercializzazione – , e aboliva le differenze (anche nell’uniforme e nella mensa), ma soprattutto unificava il processo costruttivo in un’opera e un’intesa comune, un alto grado di soddisfazione; raggiungendo così il dimezzamento dei tempi di produzione, e quindi dei costi.

Qui Marchionne arretra invece di avanzare. Forse pensa che una stretta disciplina sia indispensabile per l’operaio napoletano e la sua bonaria evasività, la sua estemporanea creatività, o fors’anche il suo parassitismo. Ma dimentica il principio umano, e la forza dell’educazione; o forse non ha nessuna voglia di educare. Forse pensa al modello polacco di Tichy, dove l’industrializzazione è recente, dove il più alto grado di bisogno rende gli operai remissivi, dove il salario è di  500 euro al mese, un bel risparmio per la Fiat, certo; e preferirebbe portare là le catene di montaggio napoletane.

 

La cosa strana, poi, è che il contratto è stipulato, accettato dai due sindacati meno importanti ma più facili all’accettazione (anche nei contratti nazionali, lo si è visto), la CISL e la UIl. Da notare che la CISL è di matrice cristiana e dovrebbe avere un alto senso della dignità umana del lavoratore, la dignità e il diritto della persona, l’uomo creato ad immagine di Dio. Me firmano, questi cristiani un po’ bastardi, non si curano dell’unità e solidarietà del sindacato, della sua forza nella contrattazione, sempre difficile, sempre pericolosa per i lavoratori.

L’altra cosa strana, e insieme disumana, è il referendum dei lavoratori, che si terrà il 22 giugno. E che – tutti ne sono convinti – sarà favorevole alla Fiat perché Marchionne ha posto l’aut aut: o si accettano le sue condizioni, o la produzione  sarà trasferita in Polonia; non vi saranno alternative, anche se di alternative ce ne sarebbero molte in tutto il nuovo settore dell’energia pulita; ma per la quale mancano in questo momento le condizioni. Sarà favorevole perché gli operai hanno un bisogno esasperato di lavoro e di salario, e con loro le famiglie, e tutta l’economia della zona. Dunque il passo criminoso si compirà. La Fiat, l’impresa gloriosa, l’unica grande impresa in Italia, realizzerà il suo progetto. I poveri dovranno ancora una volta soccombere.

 

 

 L’inferno, un mito che ancora resiste

di Arrigo Colombo

 

         Nella scorsa settimana il prelato Charles Scicluna, Provveditore di giustizia nella Congregazione per la dottrina della fede, è intervenuto affermando la dannazione e le pene più terribili dell’inferno per i pedofili. Un’affermazione che ha stupito alquanto perché dell’inferno si parla assai poco e le statistiche dicono che circa il 60% dei credenti non lo ritiene possibile. Un 60% che esprime la fede del popolo di Dio, la quale è spesso più saggia di quella della gerarchia ecclesiastica.

L’esistenza dell’inferno non è sostenibile perché contrasta con il punto più essenziale ed alto dell’annunzio cristiano, che è la dottrina dell’amore. Col Dio padre infinitamente amoroso, che infinitamente ama il suo piccolo figlio l’uomo, e non può dunque condannarlo per una colpa che è sempre finita; che non ha proporzione col suo infinito amore. Anche la più grave, anche la più orrenda, anche i crimini dei boia del secolo, Hitler, Stalin, non sono nulla di fronte all’amore infinito; sono come una pagliuzza nella fornace di fuoco del sole o un atomo sperduto nell’immenso del cosmo; e sono ancor meno. La parabola del figlio prodigo, del resto, lo esprime con suggestiva chiarezza: il figlio ritorna e vorrebbe chiedere perdono al padre; ma il padre già da prima lo attendeva e gli getta le braccia al collo prima ancora ch’egli possa parlare, e ordina per lui la festa; non gl’importa quali colpe il figlio abbia commesso, né gl’importa se sia pentito o meno; il suo amore trascende tutto questo.

L’inferno contrasta con la legge evangelica dell’amore fraterno, ogni uomo essendo fratello all’uomo; per cui dev’essere amato sempre, qualunque colpa egli commetta, qualunque offesa; dev’essere perdonato sempre. Un amore che in certa misura si assimila all’amore del Padre, «il quale fa splendere il suo sole sui buoni e sui malvagi, e piove sui giusti e sugl’ingiusti». Dunque anche il Padre perdona sempre, e in modo sommo.  

 

Resta da spiegare la presenza dell’inferno nei testi evangelici, che certo risulta contraddittoria. La tradizione l’ha sempre accettata – anche se la sua presenza è scarsa nei simboli di fede (solo in quelli di Atanasio e di Damaso, ambedue del V secolo) e tardiva nei concili (nel Lionese I e II, e nel Fiorentino, tra il 1245 e il 1442) – per una lettura ingenua della Bibbia; la stessa che credeva che Adamo ed Eva fossero davvero la prima coppia umana, e che il loro fosse davvero il primo peccato; lettura che è durata fino a tempi recenti, quando si è sviluppata la scienza esegetica, insieme alle altre scienze; ma nella Chiesa cattolica ancora più tardiva per il forte autoritarismo che le è proprio.

Nel Testamento Antico non v’è certo l’inferno; prevale l’incertezza sulla sorte umana nell’oltretomba; la credenza antica in un regno sotterraneo d’ombre, lo sheòl, in tutto simile all’arallu mesopotamico e all’ade ellenico. Solo con la letteratura apocalittica, l’ultima delle letterature bibliche, il cui capostipite è il Libro di Enoch, apparso nella prima metà del II secolo a.C., compare l’abisso di fuoco destinato agli empi, così come il diavolo; nell’episodio degli angeli caduti, degradatisi nell’amore e nell’unione con le figlie degli uomini, che è chiaramente mitico.

La letteratura apocalittica penetra fortemente la coscienza ebraica di quei secoli e dell’era cristiana: lo vediamo dalla forte presenza del diavolo, dall’attribuzione a lui di molte malattie, dal fatto che i farisei accusino il Cristo di essere indemoniato. Lo vediamo dalla penetrazione nei testi evangelici dell’escatologia, cioè degli avvenimenti che si presume accompagneranno la fine dei tempi; fine che si ritiene imminente, che lo stesso Paolo apostolo ritiene tale. Escatologia che proviene anch’essa dalla letteratura apocalittica.  

L’inferno – come il diavolo – è un male che resiste al sommo bene Dio, che nulla può redimere. Tra l’altro l’idea di una persona condannata ad una pena che non finirà mai, è un’idea di una crudeltà incomparabile; l’idea, poi, di un inferno “eterno” è assurda perché l’uomo, come tutto ciò che è finito, esiste nel tempo; mentre l’eterno trascende il tempo e può dirsi solo di Dio. L’idea di un male che resista all’onnipotenza divina contrasta con tutta la tradizione biblica; la sua origine può trovarsi solo nella rivelazione persiana di Zarathustra; in quella Persia con cui Israele, dopo la liberazione dalla schiavitù di Babilonia, ebbe due secoli di rapporti cordiali che comportarono anche un vivace scambio culturale. Da lì proviene l’inferno, come il diavolo, come tutta l’escatologia; è come un masso erratico che nel tempo è scivolato e penetrato nella coscienza e nel costume ebraico, poi cristiano; è penetrato nei testi evangelici coi quali era in profondo contrasto.

                                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 14/06/010)

 

 

Elezioni primarie e sovranità popolare

di Arrigo Colombo

 

         La discussione sulle elezioni primarie si svolge all’interno del  Partito Democratico e non è motivata da ragioni di democrazia, ma piuttosto da rivalità interne. È questo un punto che nemmeno in quel partito è stato adeguatamente compreso.

Si tratta in realtà di un importante problema di democrazia, cioè di esercizio della sovranità popolare. Nel modello che ha prevalso lungo la modernità, dalla Rivoluzione inglese in poi, modello di democrazia mediata cioè parlamentare, e più oltre di partitocrazia, l’esercizio della sovranità popolare è ridotto al voto ogni quattro cinque anni; voto ristretto a candidati scelti dai partiti, o anche a liste bloccate in cui neppure il candidato può essere scelto, ma solo il partito che lo impone. Vi sono poi delle elezioni amministrative e, in alcune nazioni, v’è il referendum, che in Italia si è squalificato per l’abuso che ne hanno fatto i radicali.

Ma consideriamo le elezioni politiche, in cui viene eletto il parlamento che ha il potere della legge, che gestisce così il fondamentale diritto in cui si genera e opera lo stato, e che proviene da una cessione di diritto dei cittadini; come spiega Beccarla. Sta in questo il potere sovrano dei cittadini.

Ora un primo passo per incrementare l’esercizio di questo potere sovrano sarebbero proprio le elezioni primarie, cioè quelle in cui i cittadini scelgono essi stessi i candidati al parlamento. I partiti propongono delle liste, i cittadini scelgono dentro e fuori quelle liste; scelgono le persone che ritengono più atte a concorrere al fatto elettorale. Tra le quali sceglieranno poi i parlamentari. Le elezioni primarie devono generalizzarsi, diventare un fatto nazionale.

 

V’è però un secondo passo che segue a questo primo ed è il “mandato imperativo”, cioè il fatto che il cittadino, il collegio elettorale, non solo elegge un candidato ma lo fa responsabile e in certa misura lo controlla.. Il mandato imperativo esisteva già nei parlamenti prerivoluzionari, inteso però in senso stretto, di rappresentanza di un collegio e dei suoi interessi; e fu la Rivoluzione francese, la Costituzione del 1791 ad abolirlo, istituendo la rappresentanza nazionale. Ciò che fa anche la nostra Costituzione (art. 87).

Ne segue però un grosso inconveniente, e cioè l’irresponsabilità. Il parlamentare non è concretamente responsabile a nessuno del suo operato; donde anche l’assenteismo, la scarsa attività di molti, i cosiddetti peones, il comportamento parassitario. La soluzione sta nel conciliare le due responsabilità, alla nazione e al collegio: il parlamentare persegue anzitutto i problemi e gl’interessi della nazione, e però anche quelli del suo collegio; ma degli uni e degli altri risponde al collegio stesso, ai suoi elettori.

In pratica all’elezione segue una serie d’incontri tra i candidati e i loro elettori, in cui viene concordato il programma del parlamentare, sia in rapporto a problemi nazionali che i cittadini ben conoscono, sia in rapporto a problemi locali. In seguito, in riunioni mensili, egli rende conto della sua attività, discute coi suoi elettori i problemi emergenti, ne accoglie le proposte. S’instaura così una forma di collaborazione che lo segue lungo tutto il suo mandato; collaborazione che è anche controllo; è responsabilità di fronte a coloro che l’hanno eletto. E costituisce per gli elettori, per i cittadini, un concreto esercizio della loro sovranità, un fattore d’interesse, di partecipazione alla vita e ai problemi della nazione, una scuola di politicità.

Si lamenta tanto la scarsa attenzione politica della gente nella sua maggioranza, il senso di estraneità come se la politica fosse cosa a loro aliena, il disinteresse, la sfiducia. Un comportamento che è ampiamente motivato dalla condizione apolitica in cui il cittadino è costretto; in cui non ha voce, non ha responsabilità, non ha possibilità d’intervento. Il mandato imperativo nel senso detto rimedierebbe largamente a questa condizione, attivando il cittadino.

E probabilmente rimedierebbe anche all’altro flagello della nostra politica italiana, il clientelismo; che consegue alla mancanza di coscienza politica, all’ignoranza e alla disinformazione. E difatti è più forte la dove la coscienza politica è debole o addirittura assente. Più forte nel Sud che nel Nord. Anche se il Nord è ora caduto in un’altra forma di alienazione, altrettanto o anche più grave: non cede all’interesse del singolo politico, ai suoi favori, alle sue raccomandazioni, ma cede all’interrese di una parte della nazione a danno della nazione intera, della solidarietà nazionale. Rinnegando quel principio di solidarietà che è uno dei più alti nella costruzione della stessa società di giustizia; in quanto colma i divari, riconosce il diritto del povero, del meno dotato, del meno fortunato. Così il principio della ridistribuzione dei beni è insieme un principio di giustizia e di solidarietà.

 

 

Riflessioni sull’impresa

di Arrigo Colombo

 

         Ha suscitato stupore e apprensione la notizia che in questi mesi di crisi 14 imprenditori del nostro NordEst si erano suicidati. Di solito le notizie di morte riguardano gli operai che soccombono ad incidenti di fabbrica; purtroppo ancora troppo frequenti; e gl’imprenditori compaiono in veste di accusati. Qui l’accusa va anzitutto alla crisi, e alla speculazione che l’ha provocata, all’ingordigia di quei burattinai che a colpi di telefono muovono capitali e mettono in difficoltà le imprese e la borsa stessa. Ma l’accusa va anche in particolare alle banche e alla loro renitenza a concedere prestiti specialmente ai piccoli, che sono i più bisognosi, e sono anche la maggiore forza dell’imprenditoria italiana. In Italia scarseggiano le grandi imprese; eppure ciò non ci impedisce di essere sesti nella produzione globale (il PIL famoso) e quarti nell’export (dopo Cina, Germania, Stati Uniti; e prima della Francia).

Perciò ai piccoli e medi imprenditori va un’attenzione speciale; all’intelligenza, alla tenacia, alla fatica con cui hanno avviato la loro attività produttiva, e con cui la sostengono. Se si percorre la superstrada Lecce-Maglie s’incontrano tanti di questi capannoni in cui si lavora e si produce, e che rappresentano per la Puglia una speranza grande, di autosufficienza produttiva, di uscita dal sottosviluppo e dalla precarietà. L’auspicio è che questi capannoni si moltiplichino a dismisura e portino benessere a tutti.

 

Certo il problema resta sempre lo sfruttamento, e più oltre il lavoro in nero. Il più grosso problema che l’umanità abbia dinnanzi a sé nella costruzione di una società di giustizia. Il problema che animò la Rivoluzione russa, la terza delle rivoluzioni moderne, il superamento del capitalismo; e che la Rivoluzione mancò introducendo un capitalismo di stato, e con esso una dittatura di partito che divenne poi dittature personale, divenne lo stalinismo, un regime dogmatico e dispotico, regime oppressivo, che in tutta la costellazione del comunismo sovietico ha prodotto cento milioni di morti (è il calcolo fatto nel famoso Libro nero del comunismo, scritto da intellettuali della Sinistra francese).

Ma già nella Rivoluzione francese il problema era presente, soprattutto nel movimento popolare che confluiva nelle sezioni del Comune di Parigi (quelli che, con termine dispregiativo, furono chiamati sanculotti); il quale stabilì come modello imprenditoriale la bottega artigiana, sopprimendo le imprese, che vedeva come soggetti di dipendenza e di sfruttamento massivo. Certo non poteva prevedere che e come si sarebbe sviluppata l’industria, con la sua capacità produttiva universale (il modello univoco indefinitamente riproducibile per identità). E però lungo l’800 la corrente socialista sviluppò il modello di autogestione, l’impresa autoposseduta e autogestite dalla comunità di lavoro. La cui prima forma fu la cooperativa (quella autentica, non le ibride cooperative che anche noi conosciamo), che però non riuscì a svilupparsi ed imporsi in concorrenza con l’impresa capitalistica. La cui forma più evoluta fu studiata dagli economisti della “primavera di Praga”, e sarebbe diventata realtà, se non fosse stata schiacciata dai carriarmati sovietici. Questo studio e questa progettazione continua, quegli studiosi essendo in gran parte emigrati negli Stati Uniti; ma nessuna esperienza significativa finora è stata fatta. Si attendono tempi migliori, si attende che maturi ulteriormente il processo di costruzione di una società di giustizia – in atto da tre secoli, di cui noi già godiamo i frutti, la democrazia, la società del benessere, la costruzione della pace – l’annientamento definitivo del capitalismo e dei suoi vizi: dipendenza, sfruttamento, precarietà del lavoro; divario di povertà e ricchezza.

 

Nulla dev’essere tolto al merito dell’imprenditore; specie del piccolo che con grandi sacrifici costruisce un’impresa, apportando alla società lavoro e benessere. Ma bisogna andare oltre, nella giustizia anzitutto, riconoscendo ad ognuno la sua dignità di persona, la sua essenziale autonomia, il principio di libertà e di eguaglianza. E più oltre nella solidarietà, nel principio e spirito fraterno che rappresenta il grado più alto della socialità umana. Che è stato annunziato definitivamente dal Cristo, da lui definitivamente introdotto nella storia; ma non è un principio soltanto cristiano, che solo nella fede cristiana può affermarsi, perché già lo stoicismo lo aveva intuito. Se solo ricordiamo il famoso passo di Epitteto, che pur parla degli schiavi (quindi del superamento della schiavitù antica): “tuoi parenti, tuoi fratelli, discendenti di Zeus”.    

                                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 10/05/010)

 

Fini e la vicenda di Alleanza Nazionale

di Arrigo Colombo

 

        In questi giorni Gianfranco Fini, leader storico di quell’importante partito che fu Alleanza Nazionale, ha tentato di recuperare uno spazio di autonomia e di azione politica in quel conglomerato che è il PDL, il cosiddetto Popolo della libertà. Recuperarlo per sé e per quello che fu il suo partito. Ci è riuscito solo in parte, nel senso che la prima riunione e dichiarazione è stata sottoscritta da 52 persone, 13 senatori e 39 deputati;  mentre la dichiarazione del gruppo che non lo ha seguito (tra cui i cosiddetti colonnelli: La Russa, Gasparri, Alemanno, Matteoli) ne raccoglieva 75. E tuttavia le 52 persone erano significative perché per condizionare la maggioranza in parlamento bastano 13 senatori e 25 deputati.

Da tempo Fini aveva condotto una campagna d’idee, campagna di dissenso rispetto ad affermazioni anche importanti del gran capo Berlusconi e degli altri esponenti a lui ligi; campagna saggia, illuminata, che costituiva per il PDL l’invito ad una dialettica interna, la quale non poteva non essere feconda. Come sempre, in quanto nella discussione le posizioni si correggono, si affinano, si migliorano, un partito  diventa più vitale e più produttivo. È questa un’esperienza universale, ovvia diremmo.

 

Dietro la vicenda di questi giorni, dietro questo passo per recuperare autonomia e azione politica, ci sta quello che possiamo chiamare un grosso errore commesso dallo stesso Fini e da tutti i suoi, ed è la soppressione di Alleanza Nazionale. L’adesione alla proposta lanciata da Berlusconi nel 2007 e realizzata nel febbraio 2008, di raccogliere le forze della coalizione di Centrodestra in un unico partito; Alleanza Nazionale aderì e vi confluì sciogliendosi. Era l’unico importante partito storico a fare questo; gli altri erano piuttosto residui di partiti storici, il socialista, il liberale, il repubblicano ecc., partiti che la vicenda di tangentopoli aveva portato a dissoluzione. L’Unione di Centro, che pure vi confluì e poi ne uscì, non era propriamente un partito storico.

Si sa che Alleanza Nazionale proveniva dal fascismo attraverso il neofascismo del MSI; e però proprio con Fini aveva compiuto il grande passo della democratizzazione; e che rappresentava il grande ideale della “nazione”, della sua dignità, della sua grandezza storica, del suo compito rispetto alle altre nazioni anzitutto europee. Un ideale di cui la gente italiana aveva particolarmente bisogno in quanto la sua identità nazionale è scarsa; lo è tuttora. Un grosso problema legato probabilmente alla sua recente riunificazione, processo che si era compiuto solo con la Prima guerra mondiale. Certo non paragonabile col retroterra storico di altre nazioni come Francia e Inghilterra; con la stessa Germania, che pure aveva avuto un’unificazione tardiva, ma aveva recuperato una forte identità.

Il fascismo si era identificato con questo ideale, ma aveva fallito sia perché lo aveva eccessivamente forzato, cadendo anche nel ridicolo; sia perché lo aveva distorto nella dittatura e nell’aggressione ad uno stato sovrano, l’Etiopia, in una fase in cui il colonialismo volgeva verso la fine, l’autonomia dei popoli si stava affermando (ricordiamo che la Carta Atlantica è del 1941). Alla caduta del fascismo subentravano partiti fortemente internazionalisti come il Comunista e il Socialista; e la stessa Democrazia Cristiana risente molto dell’universalismo cattolico. E certamente la coscienza nazionale ha sofferto anche di incidenti  e di fattori di malessere del secolo: oltre al fascismo, tangentopoli, la debolezza economica e culturale del Sud, il clientelismo, la burocrazia parassitaria, le quattro mafie. Ne viene un complesso d’inferiorità rispetto alle altre nazioni, un’esterofilia che tende a ritenere meno significativo ciò che si fa e si produce in Italia. Nonostante la forte ascesa economica che l’Italia ha avuto nella seconda metà del secolo, per cui è la sesta per la produzione e la quarta per l’export. Restando però debole la scuola e l’università.

Si obietterà che lo stato-nazione si sta consumando, che si è già entrati nella cosmopoli come nella globalizzazione. Ma si entra bene nella cosmopoli solo con una buona identità nazionale.

 

Alleanza Nazionale ha rappresentato dunque questo ideale e questo compito. La coalizione con Forza Italia, e quindi la partecipazione alla maggioranza parlamentare e al governo, l’aveva già indebolita perché l’aveva portata a seguire linee politiche e a votare leggi che non conferivano alla dignità e al decoro alla nazione. C’era stato per questo un ripetuto intervento di donna Assunta Almirante, la vedova del fondatore del neofascismo, la quale rimproverava alla gestione Fini proprio questo, un eccessivo appiattimento sulla linea berlusconiana, che contrastava coi principi del partito.

Perciò il passo ora compiuto è benefico per la nazione; e il passo ulteriore dovrebb’essere la rinascita del partito e l’esplicita riaffermazione dei suoi principi e ideali. Ma è un problema delicato, vista la scissione che si è prodotta, i 75 che firmano per restare con Berlusconi, i colonnelli che non mollano; ci sono questioni di potere, ministeri ecc. Un cammino ulteriore, se sarà possibile, dovrà essere percorso con molta prudenza.

                                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26/04/010)

 

Obama e l’obiettivo del disarmo nucleare

di Arrigo Colombo

 

        Obama un po’ ci delude. Nelle ultime settimane ha compiuto due passi. Ha concluso con la Russia il trattato Start 2 per l’abbattimento di 1550 testate nucleari strategiche; ma di testate, strategiche o no, i due ne hanno 9.400 gli USA e 12.000 la Russia; una vera follia, se si pensa quale potenziale di distruzione e di morte questi due stati hanno accumulato nel tempo; quale minaccia per l’umanità e quale spreco per l’economia dei loro popoli. Ha concluso, con altri 48 stati, una Convenzione sulla protezione dei materiali nucleari: entro quattro anni questi stati s’impegnano ad una mappatura e ad una messa in sicurezza di tutti i materiali di uranio e plutonio; ad impedirne il trafugamento, il commercio clandestino, la caduta in mano di folli o di terroristi.

Ma non si è parlato dello strano privilegio del club degli stati nucleari, privilegio ingiusto e pericoloso; cui qualcun altro, che ritiene quel privilegio indebito, di tempo in tempo si aggiunge; o si sta per aggiungere, l’Iran ad esempio. Anche se i privilegiati hanno provveduto ad un trattato di non-proliferazione; per gli altri, si capisce. Insomma una situazione di estrema ambiguità e confusione, in una materia talmente scottante.

Tutti, a cominciare da Obama, si accaniscono sull’Iran; il quale però può obiettare “si isti et istae cur non ego?”, l’adagio antico, “se questi e quelli perché non io?” È vero che il suo rude presidente ha dichiarato che vuole annientare Israele; ma si sa che il suo potere è più nominale che reale; che il reale potere sta nel consiglio degli ayatollah, dai quali ci si può attendere una maggiore saggezza. E perché poi Obama non preme congiuntamente su Israele, il grande protetto degli USA,  per ottenere l’autonomia dello stato palestinese? ché l’arroganza d’Israele è la causa prima del risentimento islamico. Altra situazione ambigua in cui Obama potrebbe fare chiarezza.

 

E però il vero obiettivo cui puntare è il disarmo nucleare. L’arma estremamente distruttiva, la cui esistenza è già un crimine contro l’umanità; e insieme l’arma inutile, perché nessuno osa impiegarla; che si accumula in migliaia di testate, nei silos, nei vari vettori; è lì da anni, da decenni, ben curata, ben protetta. E però il fatto che ci sia, costituisce già un estremo pericolo, perché può sempre insorgere il folle che la userà; e oltre la follia v’è il sospetto che la impieghi uno degli stati egemoni per sbarazzarsi dai concorrenti. Gli stati egemoni, cioè USA, Russia, Cina, i grandi, i mastodonti, già pericolosi per se stessi; che bisognerebbe dividere, sminuzzare, se fosse possibile. Se non fossero talmente ingordi: come la Cina col Tibet, la Russia con la Cecenia.

È chiaro che di follia ce n’è già una buona dose nel mondo; oggi, non solo quando spadroneggiavano Hitler e Stalin; o magari Pol Pot. Gente come i grandi capi cinesi, che già tengono sotto schiavitù il loro popolo; che con una nazione talmente vasta s’impadroniscono del Tibet e minacciano Taiwan. O come Putin e certi strani casi avvenuti in Russia. Per non parlare di  Bush, che avrebbe voluto scatenare quattro o cinque guerre contro i pretesi “stati canaglia”, e da poco è uscito di scena. Con tutta questa gente al potere, gente che dispone dell’arma nucleare a centinaia e migliaia, l’umanità ha poco da stare tranquilla.

 

Se veramente si vuole la pace, il primo obiettivo cui mirare è il disarmo nucleare. L’iniziativa  dovrebbe partire dall’ONU, la comunità planetaria dei popoli, nel cui Statuto il punto principale è la pace. Ma l’ONU è debole, con quel Consiglio di sicurezza in cui siedono cinque  membri del club nucleare.

L’iniziativa potrebbe allora partire da Obama, che sembra essere un politico saggio, uno dei pochi; che ha inoltre il prestigio della grande nazione, del grande stato egemone; che ha fatto quei primi due passi. Bisognerebbe premere su di lui: premere da ogni parte, movimenti, associazioni, gruppi da ogni parte del mondo. Tutti coloro che amano la pace, che sinceramente la cercano. Che amano l’umanità.

Ci si chiede se l’Europa potrebbe farlo, poi che è divenuta una zona di pace, dopo essere stata per circa due millenni il più grosso focolaio di guerra. Ma il dubbio è forte. Anzitutto non ha un governo, un organo che veramente la rappresenti nel mondo. Poi ha in sé due membri del club nucleare, che sono anche – insieme ad altri stati, tra cui l’Italia – grandi fabbricanti e venditori di armi in giro per il mondo. E inoltre ha partecipato, e partecipa, alle folli guerre scatenate da Bush; l’Inghilterra ne è stata anzi il principale alleato, e il suo premier Blair, insieme con Bush, ha mentito al suo popolo e al mondo sulla presenza di armi di distruzione di massa in Iraq; per poter scatenare quella guerra. Si veda il film di Greengrass, nelle sale in questi giorni, “Green Zone”. Anche i film hanno talora qualcosa da insegnare.  

                                                                                          (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19/04/010)

 

Urgono misure contro la pedofilia ecclesiastica

di Arrigo Colombo

 

        Le rivelazioni che si sono succedute nelle ultime settimane sulla pedofilia ecclesiastica, il crimine che si aggira “come uno spettro” sulla chiesa cattolica, hanno  fomentato una discussione che non ha portato ad esiti fecondi. Si tratta di un crimine gravissimo, che può anche rovinare l’intera vita di un bambino.

Da parte vaticana c’è stata la lettera papale al clero irlandese, la quale riconosce il crimine e la sua gravità, ma non fa proposte utili a combatterlo. I rilievi, poi, della stampa americana circa una responsabilità di Ratzinger quando era arcivescovo di Monaco, sono stati considerati un attacco perverso alla persona del Papa e il Vaticano s’è attestato in una difesa oltranzista e piuttosto insensata: col francescano Cantalamessa, predicatore della Casa Apostolica, che pone queste accuse sul piano dell’antisemitismo; col Card. Sodano che le appaia alle accuse fatte a Pio XII per il suo silenzio sull’olocausto ebraico. Pura esagerazione.

Il Papa tace: dovrebbe invece spiegare il suo comportamento e, se errore ci fu, dovrebbe riconoscerlo. Questo vuole lo spirito cristiano, che il Papa dovrebbe possedere in sommo grado: chiarezza, umiltà, riconoscimento dei propri errori.

 

Veniamo alle proposte. Ciò cui va il lamento universale è l’occultamento, l’insabbiamento: il fatto che i colpevoli di questo crimine non sono stati denunziati alla comunità, alla pubblica opinione; come avviene per ogni crimine, che costituisce una lesione alla compagine sociale; da cui la società deve anche potersi difendere per il futuro. Per lo più non sono stati neppure puniti, alla colpa non è seguita una pena, col suo carattere medicinale. Non sono stati estromessi dall’ordine sacerdotale, sì da non poter più abusare della fiducia dei fedeli. Sono stati semplicemente trasferiti e, nella nuova mansione, hanno continuato a delinquere. Se sono passati davanti ad un tribunale ecclesiastico, che ha emesso una sentenza, tutto questo è rimasto occulto perché coperto dal segreto, il “segreto papale”  prescritto dalla lettera De delictis gravioribus del 2001 in cui rientra appunto la pedofilia. Lettera varata proprio da Ratzinger.

La proposta è che questo segreto sia tolto; e non solo per questo crimine ma in tutta la prassi ecclesiastica, la quale ha fatto del segreto un suo carattere precipuo. Carattere in contrasto con lo spirito evangelico, che è spirito di chiarezza, di linguaggio semplice e limpido, “si si, no no”, di apertura e conoscenza, “gridatelo dai tetti”; in contrasto col principio fraterno che è la summa dell’annunzio evangelico. Carattere che è offensivo per la comunità cristiana,  lasciata all’oscuro di decisioni, eventi, crimini che la riguardano, ma che sono riservati ai pochi che hanno il potere. E che è profondamente dannoso per la Chiesa stessa, in quanto non consente che le cose si chiariscano con l’apporto di tutti.

In realtà questo segreto è stato sempre un carattere dei regimi dispotici; oggi è un carattere delle dittature (anche di partito, come in Cina), dei regimi militari o teocratici; che censurano la stampa, perseguitano i dissidenti. Così la Chiesa ha per secoli perseguitato gli “eretici” fino alla tortura e al rogo; non riconoscendo la libertà di coscienza, di opinione, di parola, di associazione. Sino al 1964 aveva un “Indice dei libri proibiti” (in cui, tra l’altro c’erano autori come Descartes, Spinoza, Kant), anche qui contro la libertà di coscienza e di formazione dei fedeli, considerati sempre come dei minorenni.

 

Una seconda proposta si collega alla prima. E cioè che questo crimine la Chiesa lo deve denunziare alla magistratura statale. Lo giudichi pure nei suoi tribunali ecclesiastici; ma è solo portandolo davanti ai tribunali laici che lo può colpire e compensare in modo adeguato. Trattandosi di un crimine gravissimo che coinvolge bambini e adolescenti, e le loro famiglie; e trattandosi di un disordine sociale che alla società non dev’essere sottratto ma denunziato. Perché poi la Chiesa non ha carceri, non ha penitenziari; e perché non basta che colpisca il delinquente ma deve risarcire la vittima, la deve risarcire sia in termini materiali che morali.

La Chiesa è ricorsa per secoli al “braccio secolare” per colpire gli eretici, colpirli con la tortura e il rogo; per un’azione ingiusta – come già si diceva –, contraria alla  libertà di coscienza; contraria anche al principio fraterno per il quale nessuno è nemico. Ci ricorra ora per ottenere una più adeguata giustizia.

 

Una terza proposta è rendere facoltativo il celibato. Pochi ne parlano, poche persone illuminate, il Card Martini ad esempio. Certo che quando un uomo ha generato un figlio, l’ha cresciuto, ne ha vissuto la stupenda età dell’infanzia e dell’adolescenza, ha sofferto e tremato per lui, con lui identificandosi; è difficile che quest’uomo possa cadere nella perversione pedofila. Anche a prescindere dalla nobile ed alta soddisfazione della pulsione sessuale e amorosa, ch’egli ha raggiunto e nella quale vive. Si vedano ad esempio i pastori protestanti.    

                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 12/04/010)

 

Gli USA non sono un paese modello

di Arrigo Colombo

 

        È idea comune che gli USA siano il paese modello, in ogni senso. Idea errata. Sono forse il paese più ricco del mondo, almeno considerando il prodotto globale (PIL, dove l’Italia è sesta, dopo USA, Giappone, Germania, Cina, Francia); mentre per il prodotto pro capite sono solo quinti.

Sono anche ritenuti un esemplare di democrazia, ed essi stessi si ritengono tali, e pensano di poter esportare la democrazia altrove (motivo addotto per giustificare la guerra in Afghanistan e in Iraq) mentre il loro modello democratico è molto difettoso; anche perché è stato uno dei primi a costituirsi, dopo quello inglese. Il sistema presidenziale, ad esempio, fu introdotto perché si pensava avrebbe dato unità alle 13 colonie che si erano ribellate alla madrepatria e avevano formato il nuovo stato (durante i lavori dell’Assemblea costituente si pensò persino alla monarchia). In realtà il sistema presidenziale USA squilibra la democrazia mettendovi al centro il presidente; mentre al centro deve stare il parlamento che ha il potere della legge; e ogni altro organo sta sotto la legge, il governo come suo esecutivo, il presidente della repubblica come suo tutore, e tutore della costituzione che è la legge fondamentale, e la magistratura come giudice della trasgressione.

 

Ma veniamo a quell’ambito e compito dello stato che sono i pubblici servizi. In tutti questi mesi si è molto parlato del servizio sanitario che negli USA era carente: v’era soltanto quel “madicaid” e “madicare”, introdotti recentemente, sotto il presidente Johnson, per i poveri e gli anziani; mentre circa 50 milioni di cittadini risultavano privi di assistenza sanitaria. Ma anche gli altri non stavano proprio bene, se non erano ricchi; la classe lavoratrice, la classe media ecc. Perché erano nelle mani di società assicurative tese al profitto e si vedevano rifiutare la cura o l’intervento se erano ritenuti troppo costosi. Davvero un bell’esempio dal paese più ricco del mondo.

Ora Obama è riuscito con grande fatica  a far approvare una legge sanitaria più equa, ma non proprio quella giusta; ha dovuto cedere in più punti perché lo stesso suo partito non lo sosteneva. Ha dovuto rinunziare al servizio pubblico, l’assistenza è tuttora in mano alle assicurazioni private, che però la devono garantire, non possono più rifiutare la cura costosa e abbandonare il malato ad un destino di morte, come cinicamente facevano fino a ieri. Inoltre una dozzina di milioni di persone sono rimaste fuori in quanto non hanno i mezzi sufficienti per l’assicurazione; anche se non sono poveri.

Ciò che più sorprende è la tenacia con cui il partito repubblicano, e anche una parte dei democratici, hanno osteggiato la riforma. Ci si chiede perché. Tutti legati ai potentati assicurativi? anche; ma soprattutto il pregiudizio che i servizi devono restare privati, che Obama sconfinava nel socialismo, gli USA correvano il pericolo di diventare socialisti. Il socialismo tanto odiato.

Ora sembra chiaro che questi repubblicani confondano il socialismo col sociale. Che soprattutto, nonostante siano politici di professione, non abbiamo una conveniente idea dello stato. Il quale stato si genera da una cessione di diritto dei cittadini per la loro tutela e promozione. Da questa cessione di diritto nasce lo stato di diritto, nasce il potere statale, la legge. O altrimenti da che cosa? I monarchi di un tempo pensavano che il loro potere discendesse direttamente da Dio su di loro, e anche la chiesa lo pensava. Ma perché proprio su di loro? su di un solo? che poi tiranneggiava la nazione?

Si rilegga Beccarla. I cittadini cedono una parte del loro diritto per essere protetti, tutelati, assistiti, aiutati dallo stato; il quale stato deve organizzarsi in ordine a tale tutela. Ecco i pubblici servizi come suo compito originario. Non dei privati. Perché devono essere assicurati a tutti, in ogni condizione; e devono quindi prescindere dalla profittualità, e anche esercitarsi in perdita. Mentre il privato, particolarmente nel sistema capitalista in cui viviamo, e ancor più nell’ipercapitalismo statunitense, mira al profitto, al più alto possibile; e con l’avidità del profitto diventa anche cinico e crudele, e abbandona il povero alla morte. Come s’è visto.

Si dirà che il pubblico ha lo svantaggio della burocratizzazione, del clientelismo, delle mafie; lo svantaggio dell’inefficienza, della lentezza, del parassitismo. Ma attenti a non proiettare ovunque quelli che sono tipici vizi italiani. C’è burocrazia e burocrazia; quella tedesca, ad esempio, ha un alto senso dello stato e di ciò che allo stato appartiene; in quanto non appartiene a nessuno (come spesso da noi si pensa, il concetto alienativo dello stato), ma appartiene alla comunità, è di tutti, è il bene comune che tutti coinvolge, di cui ognuno dev’essere sollecito. E anche i vizi italiani, o i vizi del Sud, possono essere corretti, nel tempo. Devono essere corretti, ognuno di noi per la sua parte ci si deve impegnare.

                                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19/04//010)

 

Declino del matrimonio?

di Arrigo Colombo

 

         La parola “declino” compare quando una statistica rivela che il numero delle coppie sposate negli Usa è sceso al 57%; non è ancora minoritario; ma uno studio statistico recente, lo U.S. Marriage Index, mette in luce un trend, una tendenza in atto, in quanto nel 1970 le coppie regolarmente sposate erano il 79%; in quarant’anni v’è stato un calo di oltre il 20%. Gli Usa sono considerati nazione leader nel costume; e, stranamente, sono anche una nazione molto religiosa.

In realtà questo trend è in atto anche in Europa. Qualche anno fa, quando si cominciò da noi a parlare del “Patto civile di  solidarietà” come di una misura necessaria affinché le coppie di fatto (e anche le coppie omosessuali) potessero godere di certi diritti, oltre ad essere in certa misura consolidate,  si trovò che nel Nordeuropea le coppie di fatto erano già oltre il 50%, e nel Centro sul 30%; mentre in Italia e in Spagna sul 10.

Si disse allora che sul numero delle coppie di fatto bisognava porre una certa tara; nel senso che le giovani coppie spesso passano poi al matrimonio; e le coppie anziane non si sposano per altri morivi, ad esempio per non perdere la pensione di reversibilità o l’appartamento.

Alcuni studiosi, tuttavia, parlano apertamente di declino, processo di estinzione del matrimonio; di una società, quella occidentale per ora, in cui il matrimonio, che sia religioso o civile, è un’istituzione condannata.

 

Si adducono diverse cause. L’edonismo, anzitutto, una società edonista che ricerca il piacere e rifugge la responsabilità. Edonismo che matura dall’individualismo, consumismo, mediatismo proprio della società capitalistica; dal prevalere del materiale sullo spirito (si sa che per il capitale l’unico valore è il profitto; donde il paradosso costruttivo-distruttivo del capitale, che è un bene di produzione ma è pronto a tutto distruggere per il profitto, a trasmutare ogni valore in valore economico).

L’ascesa della sessualità, dopo la sua emancipazione dall’etica repressiva che aveva dominato nell’Occidente cristiano; per cui ogni atto sessuale al di fuori del matrimonio e non intenzionato alla procreazione era grave peccato. Etica che gli studiosi ritengono di matrice stoica e gnostico-manichea, piuttosto che evangelica; ma che comunque ha dominato la società cristiana. Ascesa che porta  ad una libertà sessuale che rifiuta il vincolo coniugale, o lo infrange con la trasgressione e le sue conseguenze.

L’emancipazione della donna, che da un lato non tollera, e giustamente, la tradizionale trasgressività del maschio; dall’altro vuol godere di una pari libertà.

Il circolo vizioso che instaura il divorzio, il quale provoca nei figli un trauma affettivo profondo, e insieme una sfiducia nel vincolo coniugale; quindi una riluttanza ad assumerlo.

 

Si dice di solito che il matrimonio è un vincolo che rafforza l’unione; la rafforza nelle difficoltà che dovrà poi affrontare; nei conflitti, nelle incomprensioni; nella routine che può succedere alla  fase amorosa. Un vincolo giuridico che bisognerà affrontare e sciogliere. Soprattutto un vincolo religioso in una persona di fede, consapevole di un’unione sancita davanti a Dio e di un dono di grazia che la pervade e la nutre. La chiesa cattolica poi, sempre fortemente repressiva, vi aggiunge l’indissolubilità; che però grandi teologi (Häring ad esempio, il più grande moralista del ‘900) ritengono proposta dal Cristo come ideale, più che come norma.

Senza il matrimonio la coppia è unita solo dal vincolo amoroso, di per sé instabile, di per sé destinato ad allentarsi nel tempo e tradursi in vincolo affettivo; la cui forza non è da sottovalutare, tutt’altro: l’amore sessuale ha la forza e l’impeto della passione e del piacere, dell’estasi nell’unione; ma l’affetto ha una forza profonda, più pacata e durevole. V’è poi l’altro affetto, ancora più profondo, legato ad un’appartenenza fisica, di natura, che è quello dei figli. Che però non basta ad infrenare l’insorgere di un’altra passione amorosa; in particolare perché v’è una scarsa consapevolezza o una scarsa attenzione agli effetti deleteri che la rottura potrà avere sui figli.

 

Sta qui la maggiore preoccupazione degli studiosi di fronte all’avanzare di questo trend antimatrimoniale, di queste unioni non sancite da un vincolo, di questa facilità di rottura (un divorzio ogni due matrimoni, negli Usa): il rapporto tra instabilità della coppia e sofferenza dei figli; la prospettiva di una società nevrotica. Poiché il trauma della divisione dei genitori, profondamente ed egualmente amati, degenera facilmente nella nevrosi, quindi nel vuoto interiore che la nevrosi produce, cui conseguono tendenze autodistruttive, consegue la droga, la decadenza fisica e spirituale, la fragilità della vita, l’infelicità. A questo dovrebbe pensare seriamente la coppia già prima, nell’euforia amorosa; e ancor più dopo, nella responsabilità che l’unione amorosa e insieme procreativa porta con sé; responsabilità di una vita, di più vite. Si cerca egoisticamente la propria felicità, una egoistica felicità rinnovata; si provoca egoisticamente l’infelicità dei figli, di queste giovani, incolpevoli creature.

Da noi, nel Sud, la famiglia è ancora solida; ma non credo ci si possa illudere: questi trend sono universali, penetrano via via le società. Un appello può essere rivolto alla persona, alla coppia: un appello alla responsabilità verso queste giovani vite. L’euforia amorosa nessuno vuol togliervela, ma siate gioiosi e insieme seri, responsabili, determinati.

                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 22/03/010)

  

 

Finalmente uno sciopero degl’immigrati

di Arrigo Colombo

       

         Ecco che finalmente il popolo dell’immigrazione si è mosso. Si è mossa una piccola parte dei 4,3 milioni che risiedono da noi, presso di noi; che noi ignoriamo, evitiamo, disprezziamo; molti di noi certo lo fanno. Contro cui emettiamo leggi e decreti. Li rifiutiamo, li chiudiamo nei CPT, li espelliamo. Li consideriamo dei criminali. Si sono mossi il 1° di marzo, hanno fatto uno sciopero nazionale, sciopero dal lavoro, sciopero dagli acquisti; si sono mossi infine, forse diventeranno un movimento permanente di protesta, di rivendicazione, di autoaffermazione.

 

Hanno rivendicato la loro dignità e il loro diritto di persone umane. Poiché non sono dei subuomini, come molti pensano; dei ritardati mentali, dei rozzi, dei barbari. “Siamo uomini e donne come voi”.

Hanno rivendicato il diritto di essere trattati come gli altri lavoratori. Nel tempo di lavoro, nella giornata lavorativa che è di otto ore, non di dieci o dodici o quattordici. Nelle condizioni di lavoro. Nel salario, che non può essere per loro dimezzato o ridotto ad un quarto; non è possibile continuare ad essere bestialmente sfruttati; il salario dev’essere quello che il contratto nazionale prevede per la categoria.

Hanno rivendicato una casa come tutti noi l’abbiamo, non un locale dove una decina di persone s’ammucchiano, in condizioni inumane. E perché l’appartamento, quando loro l‘ottengono, subito diminuisce di valore, e i vicini traslocano, vanno altrove come se loro fossero degli appestati, e si forma un ghetto? perché mai la gente li fugge, anziché rallegrarsi della loro vicinanza? Sono tutti criminali, sfruttatori di prostituzione, procacciatori di droga?

Hanno rivendicato di essere trattati come gli altri cittadini e non caricati di divieti, di angherie, come avviene in molto città, specie del Nord; quel Nord che vanta non solo un più alto benessere, ma anche una più avanzata cultura e civiltà.

Hanno rivendicato il diritto alla cittadinanza, se immigrati da dieci anni, se nati in Italia; il diritto al voto amministrativo, al voto politico.

 

Ecco dunque l’Italia, che per un secolo ha fruito dell’immigrazione in altri paesi, negli USA, in America Latina, in Australia (si calcola che in USA, Argentina, Brasile, in questi tre stati vi siano oggi 67 milioni di discendenza italiana); poi in Francia, in Svizzera, in Belgio, in Germania; l’Italia povera, che ha cercato in altri paesi lavoro e benessere, ora che si è fatta ricca, che siede tra i potenti del G8, che occupa il quarto posto nelle esportazioni (dopo Cina, Germania, USA), rifiuta ad altri poveri ciò che lei ha cercato e ottenuto. È stata aiutata nel bisogno ma a sua volta non vuole aiutare. L’Italia gentile, l’Italia civile.

Ecco che l’Italia credente, dalla grande tradizione cristiana, e che cristiana in grande maggioranza si professa, rifiuta i principi del cristianesimo, il sommo principio che è il “principio fraterno”, “voi tutti siete fratelli”, figli dello stesso Padre amoroso; e come fratelli vi dovete trattare ed amare. Ecco che neppure il Vaticano o l’Episcopato s’impegna su questo sommo principio, né lo proclama, sia pur nelle chiese, o nei sermoni diretti ai fedeli, nelle lettere; di fronte allo squallore del comportamento xenofobo o razzista dell’Italia pseudocristiana non chiede ai suoi fedeli la fedeltà al principio fraterno, e quindi il “principio di accoglienza”. Che quando il migrante sbarca povero, senza lavoro, senza casa, senza mezzi, il popolo cristiano lo accolga, gli predisponga la casa, gli trovi il lavoro, gli assicuri l’assistenza, gli garantisca i rapporti e le amicizie di cui la vita si nutre.

Ma il principio fraterno è anche un principio universalmente umano, che il Cristo ha rivelato all’umanità ma che all’umanità appartiene, alla grande famiglia che è l’umanità. Un principio che vale per i credenti come per i non credenti; in modo analogo al principio di giustizia, anche se più alto.

E però il fatto più paradossale è che l’Italia abbisogna di questi immigrati; che senza di loro molti lavori restano scoperti, che gl’imprenditori reclamano questi lavoratori. C’è sì la disoccupazione, che è salita non di poco in seguito alla grande crisi; ma certi lavori restano negletti, rifiutati dall’italiano. Avviene così dappertutto nelle società del benessere; e avviene così in Italia, avviene nel Sud, che pure ha il più alto tasso di disoccupazione.

Quali le radici di questa situazione incresciosa e paradossale? di uomini poco umani, di cristiani che sdegnano il cristianesimo, di un’Italia gentile che invece è rude e sdegnosa? Colpa della Lega Padana, del governo di Destra, del Ministro degl’Interni Maroni sempre pronto a colpire ed espellere? del Papa che si preoccupa molto di aborti, di omosessuali, di procreazioni assistite ma poco dei poveri fratelli immigrati, i più poveri, i più sofferenti? E però è troppo facile addossare la colpa alle autorità quando è un intero popolo che si rivela insensibile ed egoista.

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 8/03/010)

 

 

Ci divora la corruzione

di Arrigo Colombo

 

          Che l’Italia sia una nazione corrotta lo si sa da tempo, se non da sempre; più corrotta delle altre maggiori nazioni europee. E si adducono perlomeno due ragioni.

La prima è la sua cattolicità, rispetto all’area protestante. Dove il senso luterano del peccato irredimibile, il senso profondo della colpa, ha indotto una severità di costumi, un’austerità che permea tuta una tradizione e una storia. È vero che anche la Francia è cattolica, ma ha ricevuto iniezioni di austerità dal protestantesimo ugonotto e dal giansenismo. E poi in Italia c’è il papato, c’è la curia romana con tutto il suo corteggio di cardinali e prelati; e la Roma dello Stato Pontificio era famosa per la sua corruzione, le sue prostitute erano le migliori; lo raccontano i viaggiatori nelle loro memorie.

La seconda è la formazione tardiva dello stato italiano, la scarsa identità del cittadino, scarso senso dello stato, assenza di un orgoglio italiano rispetto all’orgoglio francese o tedesco; o anche al loro sciovinismo. Lo stato percepito com’estraneo; le tasse come rapina, non come contributo al comune benessere; i servizi come da sfruttare, la cosa pubblica come cosa di nessuno.

 

C’è anzitutto una corruzione permanente e gravissima. A cominciare dalla quattro mafie che inquinano il Sud e l’intera nazione; un problema di estrema gravità, mai affrontato seriamente dopo il fascismo, favorito semmai da connivenze politiche che affiorano anche in questi giorni.

L’ampiezza del lavoro in nero e dell’evasione fiscale, legata all’idea di uno stato estraneo e rapinatore, e al forte individualismo ed egoismo, allo scarso spirito comunitario; che invece altrove è molto alto; in Germania ad esempio.

La burocrazia ipertrofica e insieme lenta, parassitaria, irresponsabile; se si pensa alla teorizzazione weberiana del funzionario e servitore dello stato. Fa ridere il ministro Brunetta quando parla della “sua” riforma della burocrazia.

Le false pensioni d’invalidità, un caso endemico nel Sud, un tipico caso di sfruttamento dello stato.attraverso ampie connivenze di burocrazia e magistratura.

 

Arriviamo così alla situazione attuale, al berlusconismo, cioè alla corruzione istituzionale.

Dove un capo del governo introduce, tra le prime sue leggi, la legittimazione del falso in bilancio; e il falso diventa lecito, le imprese possono falsificare a piacere i loro introiti, la corruzione diventa legale. Questo capo del governo è carico di processi, una dozzina; anche processi per corruzione di magistrati. Ma ecco che con varie leggi e leggine, diminuendo i tempi di prescrizione, invocando l’immunità parlamentare o per le carche supreme (immunità che ha sempre valso per eventuali trasgressioni commesse nell’adempimento di funzioni istituzionali; non per reati comuni, per reati commessi in passato), egli riesce a scansare tutti i processi. La corruzione entra nella legge, nel sacrario della legge, quel sacrario per cui Socrate si rifiuta di fuggire dal carcere e va incontro alla morte. La legge viene manipolata per coprire il reato, diventa iniqua, perversa.

La corruzione entra in parlamento, nel corpo dei cittadini eletti per elaborare e custodire la legge. Il parlamento approva tutte queste leggi inique; il ministro della giustizia prepara e fa approvare leggi ingiuste. Alleanza Nazionale, il partito che ha come principio e ideale la nazione, la sua dignità, la sua grandezza, il suo onore tra le nazioni, vota queste leggi inique che la disonorano, vota le leggi della vergogna.

Perché in casi analoghi le maggiori nazioni europee si sono comportate secondo giustizia: quando Helmut Kohl, il premier tedesco della riunificazione, è stato accusato di finanziamento illecito del suo partito ha subito dimissionato; quando Dominique Strauss-Kahn, ministro dell’economia nel governo Jospin, viene accusato di trascorsi nella sua precedente attività di avvocato, subito dimissiona.

A questo punto la corruzione dilaga nella nazione senza più ostacolo alcuno, sospinta dal governo e dal parlamento; dal loro esempio, dal loro comportamento, dalle leggi da essi varate; e altre leggi del genere sono previste. I magistrati che la perseguono, che cercano di ristabilire la giustizia nel paese, vengono quotidianamente aggrediti, accusati di partitismo (sono toghe rosse, alleate della Sinistra, sono polticizzate; il che è falso), accusati di montare processi farsa, processi persecutori, dietro ai quali non v’è nessun reato. Si preparano altre leggi inique per renderli impotenti.

A questo punto la nazione ha toccato il suo fondo, moralmente e giuridicamente disastrata, disonorata di fronte a tutti. Ci si chiede se e come si potrà salvare da questa catastrofe.

 

 

Continua la persecuzione degli omosessuali

di Arrigo  Colombo

 

La scorsa settimana il vescovo Statizzi, emerito di Pistoia, se ne uscì con una tirata contro l’omosessualità come disordine morale, un fatto indiscutibile a suo parere, e quindi cob la negazione dei sacramenti ecc. Una dichiarazione analoga aveva fatto in gennaio l’emerito di Grosseto Giacomo Babini, e prima ancora il vescovo di Lucera e Troia Francesco Zerrillo. Insomma, questi attacchi si ripetono di tempo in tempo, e spesso anche da parte del Vaticano. Sull’omosessualità, sull’unione omosessuale che in altri paesi avviene nel “patto civile di solidarietà” ed è molto benefica in quanto li sottrae al randagismo, oltre che riconoscere loro alcuni diritti essenziali a persone legate da vincoli amorosi anche profondi. Questa ostinata persecuzione contrasta con lo spirito di una chiesa che dovrebbe avere come principio supremo l’amore fraterno; col comportamento del Cristo verso le forme di emarginazione, ad esempio verso la prostituzione. Ma contrasta soprattutto con le posizioni più avanzate della ricerca in questo campo.

 

È infatti sulla valenza morale dell’omosessualità che si pone il problema. La dottrina tradizionale parte dal principio di natura e considera l’amore e l’unione omosessuale come un atto e peccato contro natura, peccato gravissimo. In quanto la natura umana è di per sé divisa nei due sessi, uomo e donna, e nei due sessi si integra e diventa feconda. A questa condanna è seguita nei due millenni di società cristiana l’emarginazione, il disprezzo, e la condanna più feroce, il rogo. Questo viene soprattutto rimproverato alla chiesa; ma soprattutto il fatto che l’emarginazione continui ancora, che il Vaticano e l’episcopato italiano si siano opposti alla legge per il “patto civile”; si siano opposti aspramente, anche alla forma ridotta che Prodi aveva escogitato per superare l’ostacolo, e che si chiamò “dico” o diritto di convivenza; sino a minacciare di escludere dai sacramenti i parlamentari cattolici che la votassero.

 

Il Vaticano è arretrato su posizioni che la ricerca degli ultimi decenni ha superato. Anche nella “procreazione assistita” l’errore del Vaticano sta nel seguire il principio di natura (che cioè la procreazione debba avvenire attraverso la congiunzione dei due sessi), anziché il principio di persona che trascende la natura. Il principio che la persona umana ha il dominio dei suoi atti e, nel caso in cui la natura sia difettosa, realizza il fatto procreativo in altro modo, col sussidio della scienza e della tecnologia, che sono sempre prerogative sue. Il Vaticano asserisce che nella natura si esprime la volontà del Creatore, quindi la legge di Dio; ma questa volontà si esprime anche e soprattutto nella persona e nei doni di conoscenza e di scienza, oltre che di libertà, ch’essa ha ricevuto da Dio.

 

Perciò, sull’omosessualità, le posizioni della chiesa olandese, che hanno almeno cinquant’anni. La ricerca che i vescovi della chiesa statunitense affidano ad una commissione teologica per poter affrontare meglio i problemi della sessualità; negli anni Settanta, dopo la “rivoluzione sessuale”, i profondi cambiamenti che la Grande contestazione degli anni Sessanta aveva portato nel costume e nella coscienza. Dove si ritiene che l’omosessualità per se stessa non abbia valenza morale: è un’attitudine che si produce nel tempo, la cui genesi è per lo più di origine psicologica, e muta in modo irreversibile il carattere della pulsione sessuale e della funzione integratrice, dirigendola verso lo stesso sesso. Ed è qui che la persona compie la sua integrazione, che è il punto essenziale della sessualità, il più alto e profondo; e in essa l’amore e l’intimità, e tutto il mondo degli affetti, che si allarga nella convivenza. Tutto ciò è altamente positivo per la persona come per la società; e tanto più quanto più perdura e apporta amore nel mondo. Non è un male per il mondo, per la società, come molti pensano; è un bene, e tanto grande quanto grande è la capacità di amore. E in tal senso dev’essere compresa e fraternamente amata da tutti. Ma la chiesa cattolica vi si oppone, e semina odio; l’opposto di quanto dovrebbe fare.

L’omosessualità, dunque, non è contro natura, ma è una mutazione sopravvenuta nella natura; che la persona gestisce in ordine alla sua integrazione, al suo bisogno di amore e di dono, alla costruzione del suo mondo affettivo; e alla sua funzione sessuale. La quale è forte, la più forte nel giovane; meno nell’adulto, meno ancora nella vita intera; ma non è mai principale.

La coppia omosessuale non può procreare ma non si vede perché non possa adottare un figlio; il quale ha bisogno anzitutto di quel nido d’amore che lì può certo trovare; e ha bisogno di modelli formativi che la coppia gli può dare. Dipende poi dalla sua saggezza. Tante volte il figlio o la figlia sono allevati ed educati dalla sola madre o dal solo padre, e in modo splendido, come ognuno di noi ha potuto esperire.  

 

 

 

I fatti di Rosarno e il problema delle condizioni di lavoro

di Arrigo Colombo

 

          I fatti di Rosario rendono necessarie alcune considerazioni più ampie sulla situazione del lavoro in Italia. Si sa che gl’immigrati lavoravano a Rosarno per un euro all’ora, in una giornata lavorativa che poteva raggiungere le venti ore. Ma si sa che qualcosa di analogo avviene in Puglia, nella zona del tavoliere, nel periodo della raccolta del pomodoro, ed è stato anche ampiamente denunziato; e che avviene altrove per altri lavori; e che il lavoro immigrato in genere è largamente e indegnamente sfruttato.

Una prima considerazione concerne i controlli. Nessuno controlla questi comportamenti inumani delle imprese; questo capitalismo insieme primordiale ed esasperato che si avventa sul lavoro immigrato per sfruttarlo nella misura più ingiusta ed odiosa. Il Ministero dell’interno, che gestisce  l’immigrazione, non dovrebbe occuparsi solo di Centri di permanenza temporanea, che sono poi strutture di tipo carcerario, né della rapida espulsione di gente che aveva fatto viaggi inimmaginabili, lunghi, faticosi, dolorosi, costosi (ciò che gli è stato rimproverato anche dalla Corte europea dei diritti in quanto non veniva verificata la presenza di rifugiati e il loro diritto all’accoglienza); dovrebbe occuparsi anche della destinazione finale di questi lavoratori. Il Ministero del lavoro ha certamente tra i suoi compiti la verifica delle condizioni di lavoro; con gl’ispettorati del lavoro, con la guardia di finanza, con le stesse forze di polizia. E infine v’è il sindacato, che in Italia ha sempre rappresentato una grande forza sociale, con forte potere di pressione anche politica; e che ha negl’immigrati una forza lavoro di cui non può disinteressarsi; una forza lavoro che ha bisogno di essere formata, resa consapevole dei suoi diritti, oltre che di essere tutelata e difesa; e che può diventare una forza d’urto contro il capitale.

 

Tra l’altro in Italia non v’è ancora il “salario minimo garantito”, il che davvero stupisce. Se si pensa che v’è in almeno venti paesi, tra cui Francia, Inghilterra e USA, i paesi anglosassoni fortemente capitalisti e liberisti; e anche in paesi relativamente poveri come Romania, Slovacchia, Polonia. Se si pensa che in Francia viene aggiornato ogni anno, e per il 1010 è di 8,86 euro lordi all’ora. Il salario minimo garantito sarebbe una solida base per il lavoratore di ogni tipo.

Si capisce allora quell’altra situazione, denunziata dal Governatore della Banca d’Italia Draghi due anni fa; ed era anche strano che proprio un tale personaggio facesse questa denunzia, mentre il sindacato taceva; e cioè che il salario italiano era in media inferiore del 30% ai salari dei maggiori stati europei; e anzi del 50% rispetto all’Inghilterra. Mentre l’economia italiana è tutt’altro che arretrata, se si pensa che una statistica recente la metteva al quarto posto nelle esportazioni: dopo Cina, Germania e Usa, e prima della Francia. Ma Cina e USA sono due colossi, e anche la Germania ha 80 milioni di abitanti, contro i 60 dell’Italia.

Tutto questo denaro, dunque, che è frutto soprattutto del lavoro, va ad ingrossare il capitale, ad ingrassare i padroni.

Si capisce allora anche quell’altro fenomeno dei circa dieci milioni di italiani poveri, di povertà relativa, che non riescono a tirare la fine del mese, mancando loro una settimana, mancando dieci giorni. Un fatto tristissimo e che però ha la sua chiara spiegazione nella decadenza dei salari al seguito di quel gesto infelice che fu l’abolizione della “scala mobile”. Mancano le garanzie per mantenere l’equilibrio dei salari, manca la scala mobile, manca il salario minimo garantito, e così il salario subisce una continua erosione che porta il malessere nella società italiana. Malessere concreto, che intacca la sussistenza, l’esistenza quotidiana di milioni di persone.

 

In questa generale situazione del lavoro gl’immigrati sono coloro che più duramente soffrono. Qui c’è anche la latitanza della chiesa. Non dimentichiamo che i fatti di Rosarno coinvolgono l’intera popolazione, coinvolgono il buon popolo cristiano. Mentre la chiesa, con la sua presenza capillare di vescovi, di parroci, di frati e suore, di opere innumerevoli, potrebbe svolgere una forte azione di verità e di luce proprio a livello popolare; un’azione incomparabilmente più forte di quella che può svolgere la Lega lombarda con la sua propaganda e le sue iniziative razziste. La chiesa potrebbe sviluppare un’ampia missione in cui proporre ai suoi fedeli quelli che altro non sono che i sommi principi del vangelo: il principio fraterno, che l’immigrato altri non è che un fratello bisognoso, che ognuno di noi ha il dovere di accogliere, aiutare, soccorrere: nella ricerca del lavoro, dell’alloggio, di quelli che sono i beni primari della vita. Il principio fraterno, la legge dell’amore fraterno, che rappresentano l’essenza dell’annunzio evangelico e del cristianesimo.

Ma la gerarchia ecclesiastica, a cominciare dal Vaticano, preferisce attaccare gli omosessuali come pubblici peccatori; attaccare il Patto civile che regolerebbe le unioni di fatto e anche le unioni omosessuali, riconoscendo loro alcuni importanti diritti, come avviene in altri paesi; intervenire sui pretesi diritti dell’embrione. Punti, tra l’altro, che i maggiori teologi hanno da tempo superato.

 

 

 

L’uomo e la catastrofe

di Arrigo Colombo

 

         l terremoto di Haiti, coi suoi centomila morti, c’induce a riflettere su queste catastrofi di natura che ancor sempre si abbattono sull’umanità. Così come gli uragani che ogni anno flagellano il mar dei Caraibi abbattendosi poi sulla costa statunitense, e i tifoni che si abbattono sulla costa cinese.

Anche se il terremoto può essere in certa misura ovviato attraverso quelle costruzioni flessibili che oscillano senza crollare; per cui un’opera di ristrutturazione s’impone in tutte le zone sismiche, che ormai l’uomo conosce; così da noi in Italia, un quesito mai ancora affrontato con una chiara programmazione e decisione; pur restando il problema dei centri storici e di quanto essi contengono di umano e di artistico. Più difficile da affrontare in paesi poveri come Haiti; dove dovrebbe intervenire l’ONU con una mappatura e poi con una ristrutturazione globale; sostenuta dal contributo di tutti. Il maremoto o tsunami è altra cosa; lì sopravviene un’onda anomala, altissima, contro la quale si pensa non si possa fare nulla.

Per gli uragani si parla di farli deviare; ma sono interventi d’ingegneria planetaria che non si sa bene se riusciranno mai.

 

Qualcuno vi vede intaccato l’ottimismo biblico: “E vide ch’era buono”, la frase che ritorna ad ogni versetto del racconto della creazione. Ma questa espressione ha un significato globale, che non coinvolge la perfezione. La Terra è certo una creatura meravigliosa che ogni giorno c’incanta, la sua bellezza, la sua grandiosità; è stupendamente accogliente per l’uomo. Ma sta pur sempre nella finitudine, nel limite; come tutto ciò che non è divino. E, del resto, quella che noi chiamiamo catastrofe di natura è tale per noi umani, perché distrugge le nostre case e cose, e talora la nostra stessa vita. Ma nella natura è semplicemente un fenomeno, che rientra nel suo ordine e nelle sue leggi.

 

Poi ci sono le catastrofi causate dall’uomo stesso, dalla sua avidità, dalla sua incuria. Così i torrenti e fiumi che straripano perché il loro letto è stato riempito di costruzioni varie, o di scarichi e rifiuti; e le colline che discendono in colate fangose perché dissennatamente disboscate. E più oltre l’inquinamento e surriscaldamento dell’atmosfera che porta con sé lo sciogliersi dei ghiacci e l’innalzarsi del livello dei mari; dove, al punto in cui siamo, sarà difficile per l’umanità evitare catastrofi parziali; e già compaiono mappe in cui sono indicate le città e i tratti di pianura che saranno sommersi; così Venezia, che già oggi è tormentata dall’alta marea, l’ “acqua alta”, e probabilmente sarà inghiottita; e con essa molte altre città.

 

Qui compare il richiamo al peccato, il «peccato del mondo», com’è detto nell’evangelo. E certo il capitalismo, con la sua smodata avidità, pronto a tutto distruggere per tutto trasformare in profitto; a distruggere non solo la natura ma l’uomo stesso, il lavoratore, il povero, è un grande enorme peccato. A parte che nell’inquinamento e riscaldamento anomalo abbiamo anche noi la nostra porzione di colpa, col nostro eccesso di consumi, i nostri sprechi, di energia ad esempio. Le luminarie di Natale sono belle, esprimono e comunicano gioia, ma potrebbero essere più sobrie; non parliamo delle luminarie di sagra, come sant’Oronzo, dove centinaia di migliaia di lampadine risplendono, e potrebbero certo ridursi. Ma anche l’illuminazione a giorno delle città di notte dovrebbe studiarsi meglio e ridursi. Alcune città lo hanno già fatto, altre lo stanno facendo. E anche in questo nostro spreco, che ci è tanto abituale da sembrarci naturale, sta il «peccato del mondo».

 

La catastrofe irrompe a turbare quella che l’uomo sta costruendo da qualche tempo, da non molto, la società del benessere. Preziosa certo, un benessere non solo dei pochi, come sempre in passato, ma dei molti, una condizione di benessere popolare. L’ha costruita anzitutto in Occidente, dove è nata la scienza-tecnologia, quindi l’industria; cioè la produzione in termini universali, la sola capace di soddisfare l’universale bisogno umano. E però in questa società del benessere, preziosa certo, v’è sempre una zona di malessere, quella della povertà, una zona consistente, tra l’8 e il 10%; otto milioni in Italia, trenta milioni negli USA, la nazione più ricca; dove anche 45 milioni non avevano l’assistenza medica; ora, con la riforma, saranno meno, ma lo stesso Obama non è riuscito ad avere l’assistenza per tutti, a costruire un sistema sanitario nazionale.

Dunque la società del benessere non è turbata solo dalla catastrofe di natura; v’è anche, e forte, una catastrofe morale che la turba. La società del benessere non potrà essere costruita veramente se non nella giustizia.

                                                                       (Nuovo Quotidiano di Puglia, 18/01/010)

 

 

Ancora il terrorismo islamico 

 di Arrigo Colombo        

 

         In queste settimane, dopo il tentativo di terrorismo islamico sull’aereo da Amsterdam a Detroit, fallito per l’intervento di passeggeri e per l’imperizia dell’attentatore, il pericolo si è rifatto sentire e il panico ha ripercorso l’Occidente. Si stanno prendendo più severe misure di controllo, ma si sa che in questo caso le misure non bastano mai.

 

Il terrorismo islamico ha caratteri molto peculiari. Vediamo di esaminarli e capirli. E anche di capire come mai, pur essendo un movimento marginale, goda di un notevole sostegno popolare.

V’è innanzitutto il risentimento e la ritrovata identità. Risentimento contro il colonialismo occidentale che, in una certa fase, aveva asservito l’intera costellazione islamica, salvo l’impero ottomano che però era in decadenza, e con la Prima guerra mondiale s’era dissolto per dar luogo, sotto l’impulso riformatore di Kemal Atatürk, alla moderna Turchia, laica e democratica. Ma il risentimento era forte, poiché si trattava di popoli che avevano dominato una parte importante dell’Eurasia e dell’Africa, creando un impero che aveva resistito per un millennio e mezzo. Si sa che gl’imperi, come dice Agostino, sono «grandi brigantaggi» perché si formano asservendo e depredando popoli; ma la coscienza etica islamica non era sensibile al riguardo; come non vi era sensibile la coscienza occidentale e cristiana che aveva creato imperi continentali e coloniali con forme anche dure di dominio, forme di massacro, annientamento di popoli e di civiltà.

In ogni caso il risentimento islamico contro l’Occidente è forte, specie a livello popolare, anche perché si accompagna ad una forte identità, alla coscienza di essere una grande religione planetaria non ancora intaccata dal laicismo, e ala coscienza di un grande passato.

 

Un altro punto è il martirio, di cui già parla il Corano come di “una delle grazie più belle”; l’idea di un sacrificio totale per Allah, il Dio “clemente e misericordioso”, che sarà premiato nel paradiso islamico, un giardino di acque, verdi piante, e fanciulle bellissime di cui godere. Il cui significato è probabilmente simbolico, ma che il popolo – e anche i mullah – prende alla lettera,  sacrificando volentieri i propri figli, e venerandoli poi come eroi e santi.

Questa immolazione di sé nell’azione distruttiva conferisce al terrorismo islamico una forza, e insieme una capacità di penetrazione, di sorpresa incomparabile; un espediente totalmente  estraneo alla coscienza occidentale e cristiana per la quale la vita è sacra e dev’essere il più possibile salvaguardata. Inoltre il concetto islamico di martirio è totalmente distorto rispetto al nostro in cui il sacrificio di sé non deve coinvolgere gli altri, non deve causare nessun male, tanto meno il massacro di persone innocenti.

 

Interviene qui un altro punto dell’etica islamica, che nel suo arcaismo non possiede il principio di dignità della persona, dignità e diritto. Principio che si ritiene abbia la sua prima  formulazione nella Genesi, nell’uomo creato “ad immagine di Dio”; che il Siracide sviluppa “nel    cuore per pensare, nella conoscenza, […] li riempì di scienza e d’intelligenza e fece loro conoscere il bene e il male”. In queste supreme prerogative di ragione e libertà, di coscienza e responsabilità della persona. Per cui l’immolazione di sé per un grande e nobile scopo non deve mai coinvolgere il sacrificio degli altri, e tanto meno il massacro; soprattutto dell’inerme, dell’innocente, della folla inconsapevole. Che diventa somma crudeltà, diventa crimine. La guerra ammetteva anche nell’Occidente cristiano il massacro, ma del nemico armato, del soldato. Quando, con i bombardamenti delle città, iniziò il massacro indiscriminato, si parlò di armi di distruzione di massa, di guerra totale; e iniziò la condanna. Oggi la coscienza di quel fatto mostruoso che è la guerra, il macello umano, il massacro intenzionale e scientifico, si è talmente approfondita da giungere ad una condanna incondizionata; non vi è “guerra giusta”, i conflitti tra popoli devono sempre esser risolti con la trattativa, mai con la guerra. Che è poi  il principio sancito nel Trattato dell’Onu; che Bush, nello scatenare le sue pretese guerre di liberazione, ha dovuto ignorare; ha ignorato l’Onu e quel Trattato che pure gli Usa avevano fortemente voluto, e firmato.

 

L’ultimo punto è la “guerra santa”, è il grande obiettivo previsto e voluto dal Corano, di sottomettere tutti i popoli ad Allah, portarli tutti all’adorazione di Allah. Dove subentra – stranamente diremmo – un supremo machiavellismo, in quanto tutto diventa lecito per raggiungere il grande scopo. È il grandioso obiettivo che Osama Bin Laden si è prefisso, riprendendolo dalla tradizione islamica e dal Corano; obiettivo certo difficile da raggiungere  nelle attuali condizioni dell’umanità, obiettivo folle, diremmo. Ma dietro al quale sta una fede incrollabile.

Perciò questo terrorismo è il più pericoloso che si sia mai presentato nella storia umana. E gli americani ci si sono impantanati nelle due guerre che nel mondo islamico hanno intrapreso. Ma nessuno è esente dalla minaccia.

                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 11/01/010)