ARCHIVIO ARTICOLI - 2009

 

 

 

 

 

Indice

Le radici della pedofilia ecclesiastica, 22/12/09                      

Gli Stati Uniti, un pericolo per l’umanità, 10/12/09                      

Riflessioni sulla “povera Italia”, 7/12/09                

Riflessioni sulla proposta di un partito islamico, 28/11/09

Il caso Marrazzo o della moralità del politico (20/11/09)

La lotta intorno al crocifisso, 16/11/09

Elezioni primarie, un fatto esemplare, 2/10/09         

Legge per la sicurezza contro l’immigrazione, 20/07/09                      

Ripensare al Socialismo, 11/04/09                       

La nuova disgraziata legge sul testamento biologico       

Un fatto nuovo: i vescovi censurano il papa

Obama, l’aborto, le cellule staminali, 16/03/09                

L’Italia degli scioperi, 10/3/09

Perché no all’energia nucleare?, 5/03/09             

L'ambigua vicenda del Partito Democratico             

Un testamento biologico corretto è ora possibile?, 19/02/09                 

Note ulteriori sul programma del presidente Obama, 9/02/09          

Note sul programma del presidente Obama, 26/01/09     

L’impotenza della legge, 20/01/09     

La polemica sulla formazione del cittadino, 12/01/09       

 

 

Le radici della pedofilia ecclesiastica

di Arrigo Colombo

 

         È un problema di cui non si parla mai nei giornali, soprattutto non se ne discute; compare solo qualche volta nella cronaca. Come, nelle scorse settimane, il caso dell’Irlanda; e in passato, in termini ancor più gravi, quello degli USA, e in particolare della diocesi di Boston.

Gli studiosi pensano ch’esso rientri nel più ampio problema del celibato sacerdotale, che è una peculiarità della chiesa cattolica; o della chiesa romana e occidentale; mentre la chiesa orientale, dell’Europa orientale, detta anche “ortodossa”, ha mantenuto il matrimonio dei preti, non dei vescovi. Pensano che sia connesso col premere della pulsione sessuale, repressa o sublimata ma sempre presente; connesso col grado in cui la sublimazione riesce o meno.

 

Ma il problema è ancora più ampio e coinvolge due punti, il sacerdozio e la sessualità.

Molti studiosi si chiedono se il progetto evangelico prevedesse davvero un sacerdozio; dal momento che nei vangeli mai se ne parla: non nei confronti del Cristo, non degli apostoli. Sacerdoti sono quelli dell’ebraismo, del tempio ebraico, del Testamento Antico; che poi sono feroci avversari del Cristo e artefici della sua morte. Solo la tardiva e apocrifa Lettera agli Ebrei introduce l’idea di un sacerdozio, ma soltanto per il Cristo, che offrendo il sacrificio del suo corpo, l’unico che veramente redime l’umanità, è divenuto sacerdote unico ed esclusivo, che offre ancor sempre nel santuario eterno l’unico sacrificio.

Allo stesso modo gli apostoli sono persone normalmente sposate; tranne Giovanni, probabilmente più giovane; e in seguito Paolo. Il Cristo, come persona divina, trascende ogni categoria di genere; questo è ovvio. L’ideale della perfetta castità è presentato una volta dal Cristo, ma cautamente, in metafora; e in termini un po’ brutali da Paolo (“sposarsi è bene, non sposarsi è meglio”).

È solo col formarsi di una chiesa gerarchica, in luogo del progetto evangelico di una comunità fraterna, alla fine del primo secolo; una gerarchia di vescovi, presbiteri, diaconi; che detiene i poteri, e che sente il bisogno di essere consacrata come tale; è solo allora, verso la fine del II secolo, che interviene il sacerdozio, quello gerarchico. E interviene il celibato, a contraddistinguere anzitutto i vescovi, poi anche i preti.

Come si vede, tutto questo impianto è problematico.

 

La concezione cristiana della sessualità si sviluppa più tardi, lungo la patristica, e viene teorizzata poi da Agostino; e secondo gli studiosi non è propriamente di matrice cristiana, ma di matrice stoica e gnostico-manichea. La sessualità è male, è “il vergognoso desiderio”, la “vergognosa passione”; ed è tollerata solo nel matrimonio in ordine alla procreazione; ma nel matrimonio stesso, se ad esempio il marito ama la moglie come un amante, se cerca il piacere per il piacere, è male, è peccato. Perché – si dice – qui la passione soverchia la ragione; nell’estasi amorosa la ragione è offuscata; si crea un disordine, che proviene dal peccato originale, e che viene in seguito chiamato “concupiscenza”. Perciò il sacerdote dev’essere estraneo a tutto questo.

Questa dottrina repressiva della sessualità percorre più o meno i due millenni della società cristiano-occidentale. Il processo di liberazione è recente, e ancora in corso. Da un lato i teologi demoliscono l’idea di peccato originale, sviluppata in seguito a certe riflessioni di Paolo, e a certi malintesi provocati dalla versione latina del testo greco. Preferiscono parlare di “peccato del mondo”, cioè di tutto quel male che nella storia dell’umanità si accumula, e si traduce in costume, istituzione, ideologia perversa; e che il bambino eredita nel senso che crescendovi lo assimila. Dall’altro, nel secondo dopoguerra, a cominciare dalla società americana, e poi con la Grande Contestazione degli anni ’60-70, si sviluppa un forte processo di liberazione sessuale che penetra il costume e il pensiero occidentale. E che anche la teologia assume; così nella ricerca condotta dalla società teologica statunitense per incarico dell’episcopato, da cui esce il volume, “La sessualità umana”. Mentre il Vaticano resiste, al punto che ancor oggi non abbiamo un documento innovativo in questo campo.

A questo processo si collega la forte diminuzione del clero, sia secolare che regolare. Così i gesuiti sono passati da 35.000 a 19.000; nelle nazioni dell’Europa Centrale le parrocchie sono spesso scoperte, o coperte con clero del Terzo Mondo; ma anche in Italia vi sono parrocchie scoperte o accorpate.

L’accentuarsi della pedofilia nel clero si collega ad una condizione di celibato che sta sotto la  pressione della sessualità liberata, e per di più in una società che anche la strumentalizza e ne abusa. Un celibato sentito come non autentico, come una forzatura del potere ecclesiastico. E insieme, certo, una tempra morale debole, e che diventa perversa, incurante del trauma che può causare nel bambino o nell’adolescente. Un fatto di estrema gravità, ma in cui intervengono anche e decisamente le contraddizioni secolari in cui la gerarchia ecclesiastica persiste.

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 22/12/09)

 

        

Gli Stati Uniti, un pericolo per l’umanità 

 di Arrigo Colombo        

 

         Oggi Barack Obama ha ricevuto il premio Nobel per la pace; o meglio per le sue intenzioni di pace; o per le sue supposte intenzioni. Perché, anche supponendo che queste intenzioni siano vere – e noi lo vogliamo supporre – la nazione che lui presiede si presenta oggi come la maggiore portatrice di guerra, la più pericolosa per l’umanità.

Ha due guerre in corso; guerre scatenate violando l’autonomia di stati sovrani, col pretesto di abbattervi regimi oppressivi, di esportarvi la democrazia (che non si può esportare, perché l’esercizio del potere popolare richiede una maturazione di coscienza e di costume); con l’altro pretesto di raggiungervi e demolirvi i covi del terrorismo islamico, pur sapendo che il terrorismo non si combatte con gli eserciti, ma con una serie di altri mezzi ben più raffinati; in realtà per il risentimento scatenatosi negli USA dopo che il terrorismo aveva infranto la loro tranquilla sicurezza.

Due guerre scatenate violando il patto dell’ONU che gli USA per primi avevano fortemente voluto; violando quel principio sacrosanto che vi è sancito, che i conflitti internazionali non si risolvono mai con la guerra ma con la trattativa. Perciò nello scatenare queste guerre l’ONU fu sempre obliata, quasi tutto ciò non esistesse.

Due guerre che si possono anche concludere; pur se è difficile capire come, perché vi è insorta la guerriglia, contro la quale gli eserciti sono impotenti; ciò che gli USA avevano già sperimentato in Vietnam. Ma oltre le guerre si tratta di bloccare gli armamenti, le tecnologie e le industrie di guerra che negli USA lavorano forte (ora stanno sperimentando il soldato-robot); e dietro le quali c’è l’enorme pressione, la lobby potentissima dei produttori e mercanti d’armi. Perché è stata dimostrata la falsità della famosa espressione “se vuoi la pace prepara la guerra” (che risale a Vegezio, autore latino del IV secolo); al contrario, “se prepari la guerra, prima o poi la farai”.

 

Si tratta anzitutto di distruggere l’arma nucleare, le migliaia di ogive che gli USA – così come i Russi – detengono; gli USA, i Russi e tutti gli altri membri del privilegiato Club nucleare, i quali poi invocano la non-proliferazione da parte degli altri. Così ora dell’Iran. Con quale diritto?. Comincino loro a distruggere i loro arsenali di morte; nucleari anzitutto, ma anche convenzionali. Pongano gli USA, i più ferocemente armati, il problema del disarmo universale; lo pongano con chiarezza, con decisione.

Ma per loro il problema è molto più grave perché hanno flotte sparse in tutti gli oceani e mari, hanno basi militari sparse in tutto il Pianeta (solo in Italia, tra caserme, depositi, radar ecc. si parla di 113 unità; un fatto enorme, ignoto ai più; una presenza assurda in un’Italia che per Costituzione rifiuta la guerra). Che ci stanno a fare queste flotte, queste migliaia di basi militari? sono forse gli USA il gendarme dell’umanità? Si rende conto il presidente Obama, lui che ha avuto il Nobel per la pace, di questa enorme macchina di morte che gli USA hanno montato nel mondo e cui egli presiede?

 

Smontare questa macchina è un problema gigantesco. Che ha contro di sé la lobby dei produttori d’armi, la loro forza – come si diceva –; ma ha contro di sé anche tutta la casta militare. E ha contro di sé la coscienza che gli USA si sono formati, specie lungo il ‘900, con le due guerre mondiali, con le guerre che si presentavano come una lotta del bene contro il male, il comunismo sovietico, la Corea e il Vietnam, guerre di redenzione, ideologicamente manipolate; perché la guerra, il massacro umano, è un fatto talmente atroce che non può mai essere lecito, e tanto meno redentivo. Non vi è mai il “bene” nella guerra, non vi è guerra “giusta”; neppure nel caso della liberazione da un ingiusto oppressore, liberazione che può e deve essere conseguita con mezzi pacifici. Ma negli USA il formarsi della falsa coscienza di grande potenza militare impegnata nel bene, nella difesa della democrazia, nella protezione dell’umanità dai dittatori, dalle ideologie malefiche, dal terrorismo. Perciò la demolizione di questa mostruosa macchina USA ha contro di sé anche la coscienza popolare.

Che potrà fare Obama, eroe di pace, premio Nobel per la pace? Già impegnato in un’impresa che a noi parrebbe semplice, dare l’assistenza sanitaria a tutto il popolo USA, a quei 45 milioni che ne sono privi; ma che è dura là dove i servizi che dovrebbero essere pubblici, e quindi aprofittuali, e disponibili per tutti, sono invece privati e servono al profitto dei padroni. E ora impegnato anche nella questione climatica, avendo contro di sé i molto potenti petrolieri (tra cui Bush che, da buon petroliere, aveva rifiutato la firma del protocollo di Kyoto) e le industrie inquinanti, e tutto il mondo dell’inquinamento? I giornalisti ci ripetono ogni giorno che Obama ha perso molto del suo carisma come del consenso popolare. Certo è che, se vuol davvero migliorare questa grande ma dissestata nazione, dovrà lottare anche contro quel popolo che ieri lo applaudiva.

 

 

 

Riflessioni sulla “povera Italia”

di Arrigo Colombo

 

         La lettera aperta  (attraverso il giornale “la Repubblica”) scritta da Pier Luigi Celli, manager dalla lunga e variegata carriera, ora Direttore Generale della Luiss, l’università della Confindustria; lettera scritta al figlio laureando per consigliarlo a lasciare l’Italia e proseguire altrove gli studi e la carriera, ha suscitato una quasi unanime ripulsa; anche se rifletteva una coscienza largamente diffusa e una situazione largamente deficitaria.

 

Quando dice “questo è un paese in cui non possiamo più vivere con orgoglio”, dice molto e insieme poco perché esprime la debolezza della coscienza identitaria italiana, che è probabilmente legata al tardivo formarsi della nostra nazione rispetto alle altre maggiori nazioni europee; le quali hanno per lo più dietro a sé secoli di unità e autonomia; e in questi secoli grandi imprese (anche se eticamente perverse), come gl’imperi coloniali, l’impero napoleonico, l’impero prussiano; mentre la proclamazione mussolininiana dell’impero, dopo la conquista d’Etiopia, cade nel ridicolo. E oggi, sul piano economico, hanno un corredo di grandi complessi imprenditoriali che all’Italia mancano. Un segno di questa scarsa coscienza, di questa unità non ancora consolidata, sono le tendenze secessionistiche, quella siciliana al termine della Seconda guerra mondiale; e, ancora più grave, quella della Lega lombarda. Un altro segno è il rapporto con lo stato, sentito come altro, come predatore quando chiede ai cittadini i necessari contributi (perciò l’ampiezza del lavoro nero e dell’evasione fiscale), come un padrone o un patrimonio anonimo di cui approfittare (così nel pubblico impiego, nel suo abuso del tempo, nella sua inettitudine; così l’abuso delle pensioni d’invalidità, proprio nel Sud; e tanti altri abusi). Un altro segno è la cosiddetta “esterofilia”, cioè la tendenza a considerare migliori le cose degli altri.

Nei maggiori stati europei la coscienza identitaria è molto forte; in Francia, Germania, Inghilterra; sì da confinare con lo sciovinismo.

 

Un punto che su questa coscienza incide sono gl’incidenti di cui la democrazia italiana ha sofferto. Il fascismo, che s’impone con facilità, dura vent’anni, porta alla catastrofe della Seconda guerra mondiale. Tangentopoli, in cui crolla una classe politica che aveva costruito la repubblica, le aveva dato una Costituzione di alto valore, l’aveva governata per quasi quarant’anni; una classe politica che s’ispirava ad alti principi e ideali, il cristianesimo, il socialismo, in cui il popolo aveva creduto. E ora il berlusconismo, con la sua immoralità profonda, le sue inique leggi ad personam, l’abuso e insieme la connivenza del parlamento che le approva; una forma di populismo legata all’ignoranza, se è vero che il suo maggior elettore è la “casalinga di Voghera” (come fu chiamata nelle analisi del voto del 2001).

 

Poi ci sono i molti e gravi mali di cui l’Italia soffre; ne soffre in misura forte, incomparabile con gli altri maggiori paesi europei. Le quattro mafie: cosa nostra, ndrangheta, camorra, SCU; una così vasta e così forte criminalità organizzata, e che gode di connivenze o anche di alleanze politiche. Il clientelismo, un elettorato acquisito non attraverso l’idea, l’ideale, l’impegno comune per la nazione; ma col favore, la concessione, il posto per un lavoro qualunque, per il quale non si ha né il titolo né l’esperienza; in cui si perverte l’elettore come l’eletto, si forma una classe politica mediocre e corrotta. Lo spreco della politica e dell’amministrazione, che a tutto questo è legato, e che porta ad un debito pubblico spaventoso: siamo al 118% del PIL; una voragine che inghiotte oltre 70 miliardi annui d’interessi, che quindi impoverisce ulteriormente il paese; mentre la media europea sta al 75% del PIL. Le condizioni dell’università, che le statistiche OCSE collocano puntualmente tra il 40° e il 50° posto, mentre la Francia ad esempio è al secondo; che maldestre riforme e controriforme nell’ultimo decennio hanno ripetutamente peggiorato; che un continuo taglio dei fondi hanno ridotto alla penuria, alla paralisi nell’acquisizione di nuove forze di ricerca e d’insegnamento, forze giovani che devono costruire il futuro. Così come alla scuola Tremonti ha tagliato otto miliardi in tre anni. Non c’è comprensione né rispetto per la cultura, per la ricerca scientifica, che poi sta alla base della formazione del cittadino come della crescita della nazione, della stessa crescita economica.

 

Considerando questi mali, che in certo modo ci caratterizzano, forse si può in certa misura capire lo stato d’animo di Celli, che è anche lo stato d’animo nostro e di molti. Il suo  errore sta nella fuga e nell’esortazione alla fuga; dove l’amor di patria totalmente si consuma, la nazione viene abbandonata a quello che si pensa sarà il suo triste destino. Mentre proprio di fronte a questi mali deve rafforzarsi la coscienza identitaria, la coscienza di appartenere ad una nazione che tanto ha contribuito alla formazione dell’Europa e dell’Occidente (si pensi a Beccarla e all’abolizione della pena di morte; al rifiuto della guerra nella Costituzione; alla piena autonomia della magistratura che in molte nazioni ancora manca, in Francia ad esempio; alla umanizzazione e liberazione della malattia mentale); e tanto maggiore dev’essere la volontà di restare, operare, lottare affinché la “povera Italia” (un’espressione molto presente in passato, ma tuttora valida), la gentile Italia, l’operosa Italia delle piccole e medie imprese si liberi da questi mali. Per la coscienza identitaria e per l’amor di patria (che il formarsi di una coscienza cosmopolitica non deve sminuire) molto può fare la scuola, oltre che la famiglia.                                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 7/12/09)

 

 

 

Riflessioni sulla proposta di un partito islamico

di Arrigo Colombo

 

        L’idea di un partito islamico, emersa nelle scorse settimane, ha subito incontrato resistenze varie, soprattutto da parte della Lega, la più avversa all’immigrazione. Nonostante appartenga al Nord industriale che dell’immigrazione si è avvalso più di ogni altro. Il Nord che rappresenta anche la maggior forza intellettuale, con le sue università, la sue case editrici, i suoi giornali. Di cui la Lega è tuttavia un’espressione mediocre, culturalmente debole o nulla. Strano, diremmo.

 

D’altra parte l’Islam è temuto da tutti, anche dalla Chiesa. E non solo né tanto per il terrorismo; e anche a prescindere dal fondamentalismo. È temuto perché si presenta con una forte identità culturale, con una forte fede, una religiosità sentita e vissuta. E certo anche perché questa identità è ostile all’Occidente, lo è stata sempre, ha tentato anzi di conquistare l’Occidente e soggiogarlo; ad ovest prima, arrivando fino a Poitiers, alla famosa battaglia in cui è stato sconfitto e poi lentamente scacciato; ad est poi, arrivando fino a Budapest e lasciando importanti insediamenti nella penisola balcanica.  Poi è decaduto e all’Occidente è dovuto sottostare non solo per la conquista coloniale, ma perché gli è mancato un processo di modernizzazione; quindi la democrazia, quindi la scienza-tecnologia e l’industria che dall’Occidente ha poi importato; quindi la giustizia sociale, quindi la società cosmopolitica: i modelli attraverso cui l’Occidente sta costruendo, sia pur tra tante difficoltà, una società di giustizia, di benessere, di pace. E però, caduti gl’imperi coloniali, affermatosi il principio di autonomia dei popoli, l’Islam ha ripreso la sua forte identità, e con essa l’avversione all’Occidente; e anche l’aggressività, sia pur solo nelle frange estremistiche tra le quali spicca Al Qaida: la folle idea che fu già del Profeta, Maometto, di sottomettere alla religione di Allah e al potere dei suoi profeti e califfi e ayatollah l’umanità intera.

Ma l’Islam è temuto anche per la sua etica arcaica, che tenacemente resiste perché sta nel Corano, il libero che raccoglie le parole del Profeta. L’etica delle tribù di Arabia del VII secolo passata nel Corano, e rimasta intatta fino ad oggi nella società islamica: quindi la poligamia, l’asservimento della donna (di cui il velo o l’osceno burqà è un segno), la legge del taglione praticata con devozione in Iran e altrove, la guerra santa.

 

Il problema dell’integrazione dell’Islam, e in particolare di quello che sta tra noi, nella nostra Europa, e ha ormai assunto una visibile consistenza, non è certo semplice. Un’integrazione che non pretende certo l’assimilazione, la perdita d’identità; né la deve pretendere. Ma certo esige che l’immigrato islamico riconosca i principi universali che si sono affermati prima in Occidente, ma che sono universalmente umani; uscendo dalla sua arretratezza etica. Non si tratta soltanto di riconoscere  l’istituzione e la legge della nazione che lo ospita, di cui diventa poi parte in quanto ne assume la cittadinanza e i diritti di cittadino; ma, nel riconoscere questa legge, riconoscere ed assumere i principi etici che la informano, abbandonando quell’etica arcaica in cui è cresciuto. Il passo più difficile, ciò che lo fa fortemente diverso, e restio ad una reale integrazione.

Il velo femminile, ad esempio, che non è un contrassegno religioso, come taluni affermano a torto; né è imposto o previsto nel Corano; ma è il segno dell’asservimento della donna al maschio, entrato nel comportamento collettivo a tal punto che la donna lo rivendica.

 

La creazione di un partito islamico è vista dunque con timore, con avversione; fondata nella diversità, nell’ostilità, nell’aggressività dell’islamico. È tuttavia un diritto dei cittadini islamici, come degli altri cittadini: il diritto di ognuno di associarsi ad altri nell’esercizio della sua politicità.

Questo partito dovrà essere fedele alla Costituzione e alla legge; ma certo potrà anche cercare di modificarla in senso islamico; come la Lega ha cercato in un primo momento la secessione, cioè la divisione di quell’Italia che da non molto aveva raggiunto lottando, con una serie di guerre, la sospirata unità. Per dire quanto era folle il suo intento. O come Berlusconi, un sol uomo, ha modificato leggi in senso iniquo, ha reso lecito il falso in bilancio per legittimare le falsità delle sue imprese, ha accorciato la prescrizione dei reati par mandare in prescrizione i suoi, eccetera, eccetera. Un’attività legislativa che si estende a diciotto leggi le quali sono tutte, più o meno, inique. Leggi  che sono state votate dalla maggioranza del Parlamento, cioè non solo dai berlusconiani ma anche da Alleanza Nazionale, un partito che aveva nel suo programma il bene e la grandezza della nazione, e non la sua vergogna; dall’Unione di Centro, un partito che si dice cristiano e che dovrebbe perseguire una stretta giustizia.

Chi dunque dobbiamo temere? Il partito islamico, che certo è un diritto, che nessuno può legittimamente rifiutare; e che poi sarà piccolo e di piccola forza nella sua difesa della comunità islamica? Oppure questi grossi partiti che non temono di legiferare e governare nell’iniquità e nel male?  .

                                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 28/11/09)

 

 

 

Il caso Marrazzo o della moralità del politico

di Arrigo Colombo

 

         Ora che il caso Marrazzo si è consumato tristemente, com’era giusto, alcune considerazioni sembrano opportune.

Marrazzo dunque, presidente della Regione Lazio, si dilettava abitualmente di prostituzione, non solo, ma preferiva i transessuali; consumando anche cocaina durante l’incontro, o fors’anche fuori; usava per questo l’auto di servizio della Regione; e infine, individuato da certi carabinieri, cedeva al loro ricatto staccando assegni, e non denunciava il comportamento delittuoso di questi membri dell’Arma Benemerita, che certo non le hanno fatto onore, né il ricatto, sperando che l’intera sua anomala vicenda restasse segreta.

Si sa che la prostituzione è un fatto immorale, la mercificazione di un atto d’intimità che dovrebb’essere congiunto con l’amore, in misura anche debole, ma sempre nella dignità di un incontro personale. È insieme anche un atto che appartiene alla tradizione dell’asservimento e   sfruttamento della donna da parte del maschio. Ed è anche causa di disordine sociale, specie se si consuma per strada, dove provoca anche scandalo; per cui, fin dall’altra legislatura del Centrodestra, era stata preparata una legge (la Fini-Bossi-Prestigiacomo) che dalla strada la toglieva, una legge  saggia, che però non è stata mai varata.   

La presenza del transessuale non ha di per sé valenza etica, il transessuale avendo la stessa dignità di persona che va riconosciuta all’eterosessuale come all’omosessuale, come ad ogni essere umano. Ci si può chiedere tuttavia se non riveli un certo grado di perversione nell’atto già per se stesso immorale. Al di fuori del quale il trans è soggetto e oggetto di amore e di sessualità (nella misura in cui questa gli è possibile) come ogni altro.

L’uso personale di piccole quantità di droga non è proibito, ma se ripetuto può diventare vizioso e provocare dipendenza; e certo meraviglia in un uomo politico che ha forti responsabilità e dovrebbe sempre essere pienamente presente a se stesso.

Quanto all’anomalo intervento dei carabinieri, l’uomo politico avrebbe dovuto resistere al ricatto, e in ogni caso avrebbe dovuto denunziarlo, anche per la sua gravità in quanto compiuto da forze dell’ordine.

 

A questo punto insorge l’obiezione del “privato”, di ciò che appartiene alla sfera privata di ognuno e non ha rilevanza pubblica. Praticare la prostituzione apparterrebbe al privato, come praticare la sessualità o l’amore. Ma si è visto che non è così, la prostituzione avendo una valenza storica di  asservimento e sfruttamento della donna; ed essendo anche causa di disordine sociale. Quanto al ricatto, uno può anche subirlo e non denunziarlo, così come può non denunziare un’ingiustizia che subisce e che avrebbe rilevanza penale. Qui però era coinvolta la forza pubblica, la quale ricattava un pubblico ufficiale, anche se non nell’esercizio delle sue funzioni; un disordine pubblico su cui il pubblico ufficiale aveva il dovere d’intervenire.

 

V’è infine la responsabilità dell’uomo politico come tale, del presidente di regione che è stato eletto dal popolo per il bene, per il buon funzionamento della regione.  E analoga è la responsabilità del parlamentare, eletto al parlamento che è l’organo della legge; e dell’uomo di governo, che il parlamento ha designato per l’adempimento della legge stessa. L’uomo politico dev’essere esemplare, la sua moralità dev’essere intatta. Perché la legge si fonda sull’eticità. Prendiamo la sessualità, che di per sé appartiene al privato; anche la famiglia appartiene al privato; ma l’una e l’altra coinvolgono una pluralità di persone tra le quali può insorgere una molteplicità di conflitti, che la legge deve regolare. Il parlamentare è chiamato a legiferare sulla sessualità, come ancor più sulla famiglia. E dev’essere in grado di farlo in una condizione di rettitudine morale che garantisca  la rettitudine della legge.

Perciò all’uomo politico in particolare non è consentita la prostituzione, come non è consentita la droga; tutto ciò che intacca la sua moralità; e che, in certa misura, intacca anche l’ordine sociale e la legge; come si è visto. Il caso del divorzio è diverso perché l’indissolubilità del matrimonio è una prerogativa della sola chiesa cattolica; prerogativa sulla quale anche grandi teologi sono perplessi (Bernhard Häring ad esempio), in quanto pensano ch’essa debba essere un ideale, più che una norma. Pur restando sempre aperto il problema morale del mutuo rispetto dei coniugi, e quello anche più grave dell’equilibrio affettivo e psichico dei figli.

Se dunque dall’uomo politico è richiesta una moralità intatta, è chiaro che, se ha infranto gravemente la legge, se ha in corso procedimenti di giustizia, avvisi di garanzia, processi, condanne, non deve sedere in parlamento o al governo, o comunque in una carica pubblica. Se questo non avviene, è un male per la nazione, una vergogna presso le altre nazioni. Se non avviene abitualmente, è segno di degradazione e decadenza morale. Si parla talora di decadenza dell’Italia; si può discutere sulla decadenza economica o culturale; ma, stando a quanto accade da parte di eletti ed elettori, la decadenza morale è certa.                                                                        20/11/09

 

 

La lotta intorno al crocifisso

di Arrigo Colombo

 

         Una lotta che dura da tempo in Italia, la lotta intorno al crocifisso nelle scuole e nei pubblici uffici; ma che ora passa un momento cruciale in quanto la Corte suprema di giustizia dell’Unione Europea, sollecitata da una cittadina di origini finlandesi, ha sentenziato che il crocifisso dalle scuole lo si deve togliere in quanto lederebbe la libertà di educazione religiosa delle famiglie e la libertà religiosa degli allievi. Il Governo ha fatto ricorso al grado superiore  della Corte, la Grande Camera. Ma la signora finlandese non ha certo dato prova di comprensione e di tolleranza per la nazione che l’ha ospitata.

La sentenza è accolta con favore dalla minoranza atea ed agnostica che conta per un 10% circa, ma che tuttavia è potente, in quanto comprende una buona parte dell’intellighenzia intellettuale e mediatica, specie nel campo delle scienze umane. E con favore anche dalle correnti della contestazione cattolica, la quale pensa che il crocifisso debba stare nelle chiese, così come la religione di carattere catechetico che oggi s’insegna nelle scuole debba essere insegnata nelle chiese. È sollecita della laicità dello stato.

 

Veniamo dunque a discutere delle ragioni che sottendono il problema.

La prima è appunto la laicità dello stato. In Occidente, lungo la modernità (che del resto è tipicamente occidentale), lo stato si è liberato dalla tutela della chiesa; da quell’ideologia secolare che attribuiva alla chiesa la totalità del potere – religioso e politico –, che poi la chiesa conferiva in parte allo stato. Una dottrina che si affaccia già nel primo millennio, ma che domina il secondo almeno fino all’età delle rivoluzioni: si pensi al Dictatus Papae di Gregorio VII, alle lettere d’Innocenzo III, alla dottrina delle due spade di Bonifacio VIII. Una dottrina che contrasta apertamente il dettato evangelico, dove i due poteri sono sempre distinti; basta anche solo ricordare le espressioni famose, “date a Cesare ciò ch’è di Cesare e a Dio ciò ch’è di Dio”; “il mio regno non è di questo mondo”; o i passi in cui il Cristo parla, non senza sdegno, dei grandi e potenti del mondo.

Non è così, in genere, nel mondo antico, dove i re e gl’imperatori detengono anche il potere religioso. A Roma l’imperatore è anche Sommo Pontefice. E non è così nell’Islam, dove Maometto è insieme capo religioso e politico; e così il califfato e tutta la tradizione sunnita fino alla  recente modernizzazione; mentre nel mondo sciita sono i religiosi a detenere il potere politico.

Ma con la Rivoluzione inglese, che abbatte la ierocrazia instaurata da Enrico VIII, lo stato si laicizza; e ancor più, e definitivamente, con la Rivoluzione francese. Si libera dalla tutela ecclesiastica, si afferma nella sua autonomia. Da noi, nella Costituzione, è detto con chiarezza che “lo stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” (art. 7); testo ripreso dal nuovo Concordato (art. 1).

 

Lo stato dunque è laico, pienamente autonomo dal religioso. Ma questo non vuol dire che sia totalmente alieno da esso. Perché lo stato è l’organizzarsi di una società civile, che – come spiega Beccarla tra i primi – cede una parte del suo diritto per costituire quello stato di diritto, quel potere anche coattivo della legge, che la tuteli e la promuova. E questa società in Occidente, in Italia in particolare, è cristiana, è questa la sua cultura, così come la sua storia e l’intera sua tradizione; ed è ancor oggi la sua vita. Perciò lo stato riconosce la domenica, il giorno della risurrezione di Cristo, come giorno festivo; e riconosce la altre grandi feste cristiane, a cominciare dal Natale (che si è poi generalizzato, come festa degli affetti, e festa dei bambini, e si celebra un po’ ovunque) e dalla Pasqua. Perciò riconosce le chiese – la casa del Dio, la casa dell’adorazione e della preghiera – e anche le sostiene e le sovvenziona; riconosce le parrocchie e comunità locali, che sono anche luogo di aggregazione sociale, di formazione etica, concorrono alla formazione del cittadino. Perciò sovvenziona, con una parte delle entrate (l’8 per mille) la chiesa cattolica, i suoi ministri, le sue opere di fede e di amore cristiano. Perciò colloca il crocifisso nelle scuole, luoghi di formazione, di cultura, come simbolo principe di questa cultura cristiana che sostanzia la nostra società; lo colloca negli uffici in cui questa società si amministra; e certo, se si amministrasse secondo lo spirito cristiano, sarebbe anche migliore.

L’ateo, l’agnostico, il musulmano, il fedele di ogni altra religione, devono rispettare la cultura di questa società, la sua storia e la sua tradizione. Cultura prevalente, della stragrande maggioranza di questo popolo. Così come il cristiano deve rispettare la loro coscienza e la loro religiosità; li deve anzi amare come fratelli, li deve amare nella loro peculiarità, nella loro diversità. Interviene qui la dignità e il diritto della persona; e, per il cristiano, la legge dell’amore fraterno.

Il crocifisso è un simbolo forte di amore e di sacrificio; guardarlo, contemplarlo, rifletterci è altamente educativo, è  benefico per tutti.     

                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 16/11/09)

 

 

 

Elezioni primarie, un fatto esemplare

di Arrigo Colombo

 

         Le elezioni primarie che si sono svolte circa una settimana fa per scegliere il segretario del Partito Democratico, rappresentano un fatto esemplare, anche se ancora incoativo; mentre resta oscuro se abbiano un’intenzione politica, se rappresentino il primo tratto di un progetto, verso una democrazia più autentica.

Resta infatti un singolare incongruo storico la vicenda del modello democratico moderno, che fu impostato nella Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, cioè verso la metà del ‘600, e ripreso poi dal nuovo stato delle colonie inglesi d’America e, soprattutto, dalla Rivoluzione francese; dopo la quale comincia ad universalizzarsi. Il modello di democrazia mediata o parlamentare, che in oltre tre secoli ha avuto una sola importante innovazione, cioè il suffragio universale. Era infatti stato concepito come potere di popolo, in cui tutti i cittadini, i detentori primi del potere, fossero presenti con la stessa dignità, la dignità e il diritto della persona umana; a prescindere da ogni altra condizione. Tutti elettori e tutti eleggibili (si vedano al riguardo i “Dibattiti di Putney” in seno all’esercito della Rivoluzione).

Il modello ha piuttosto subito un deterioramento, i “vizi della democrazia” di cui si discute. A cominciare dal presidenzialismo, che fu scelto negli Stati Uniti come fattore di unità per le colonie che avevano aderito, e la cui coesione non era ancora salda (nella Convenzione si parlò persino di monarchia). Poi fu voluto da De Gaulle per la Francia, per ovviare all’instabilità di governo dell’anteguerra; ma anche perché De Gaulle era un personaggio autoritario per temperamento e per formazione; limitò anche l’attività del Parlamento. Poi lo vorrebbe Berlusconi per motivi più frivoli, soprattutto per ambizione personale; vorrebbe anche ridurre l’attività del Parlamento alla semplice approvazione dei dispositivi del Governo, lo ha detto espressamente.

Ora il presidenzialismo è lesivo della democrazia, al cui vertice sta il Parlamento che è il corpo rappresentativo della compagine popolare; ed è l’autore della legge, la quale tutto regola; mentre il governo ne è l’esecutivo, e il premier è solo colui che coordina il governo. Il modello viene così rovesciato.

Un altro vizio è la cosiddetta “partitocrazia”, dove i partiti tendono ad elidere il Parlamento con decisioni previe, così come ad elidere la scelta popolare con liste elettorali chiuse. Altri vizi sono il clientelismo, molto forte in Italia; la suasione mediatica, televisiva in specie; il populismo, con leader che fanno appello alla volontà popolare, peraltro captata in vario modo, elidendo o manipolando gli altri poteri, il legislativo e il giudiziario, e instaurando forme larvate di dittatura. Il caso più famoso è quello di Perón in Argentina; ma il berlusconismo gli è affine.

 

Ritornando alla immobilità del modello democratico moderno, un punto chiave su cui dovrebbe premere l’innovazione è l’esercizio del potere popolare, ridotto ora al voto ogni quattro cinque anni; voto poi limitato e manipolato in modo molteplice. Un primo passo sarebbero proprio le elezioni primarie generalizzate. Dove i partiti propongono un’ampia lista e il popolo sceglie, dentro o fuori le liste, quelli che saranno i candidati del suo collegio elettorale. Escludendo, ovviamente, candidati estranei al collegio, candidati specchietto per attrarre voti ecc.

Un secondo passo è il “mandato imperativo”, che oggi la Costituzione esclude col motivo che l’eletto rappresenta la Nazione e non il collegio (art. 67). In verità rappresenta la Nazione attraverso il collegio e la volontà popolare del collegio, volontà concreta, con obiettivi concreti, e che comporta una responsabilità concreta; mentre il rappresentare la Nazione sottrae l’eletto ad ogni concreta responsabilità.

Mandato imperativo significa che l’eletto, che sarà membro del Parlamento, dovrà presentarsi prima al suo collegio e con esso discutere quella attività parlamentare di cui al collegio è responsabile. Deve presentargli un programma, deve ascoltarne e discuterne le proposte, deve prendere impegni. Deve anche discutere la sua posizione, se legato ad impegni professionali che dovrebbe lasciare, ad impegni molteplici; perché il parlamentare deve fare il parlamentare e basta, deve consacrarsi interamente a quella altissima funzione. Vuol dire un incontro almeno mensile in cui si discuteranno gli impegni presi, così come i problemi emergenti sia a livello nazionale che locale. Vuol dire un incontro al termine della legislatura in cui si tirerà un consuntivo dell’azione svolta: a cominciare dalla presenza assidua in Parlamento, dagl’interventi, dal lavoro di commissione, dal concreto affrontamento dei problemi, dagli esiti raggiunti. E si deciderà se il parlamentare è rieleggibile.

Con le elezioni primarie, e soprattutto col mandato imperativo, l’esercizio del potere popolare assume una reale consistenza; mentre oggi è poco più di una finzione. Ségolène Royal ne aveva parlato, durante la sua campagna elettorale; una voce isolata. S’impone invece la necessità di un’azione in proposito da parte dei movimenti della società civile. Il Partito Democratico potrebb’essere stimolato in tal senso. Le Sinistre sono orrendamente frammentate, e nella loro stoltezza rifiutano l’unità. Forse un personaggio come Fini potrebbe non esservi insensibile; anche se ha commesso l’errore di fondersi con l’eterogenea e confusa aggregazione berlusconiana.   

                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 2/10/09)

 

 

Legge per la sicurezza contro l’immigrazione 

di Arrigo Colombo

      

        Prevalgono oggi in Italia forze  distruttive, in quanto prive di una sicura base etica e di un progetto politico informato alla grande tensione occidentale moderna verso una società di giustizia. Così il berlusconismo, partito di un imprenditore che cerca anzitutto di promuovere le sue imprese e di sfuggire ai processi che la sua gestione spregiudicata e immorale ha provocato; non per nulla Saramago, premio Nobel per le lettere, lo chiama “un delinquente”. Così la Lega, che traduce la ricchezza e il dinamismo del Nord nell’egoismo e nella volontà di secessione; anziché in un beneficio per la nazione intera. La terza forza, cioè Alleanza Nazionale, è politicamente inerte e succube, com’ebbe a lamentare la vedova di Almirante; salvo certi pronunciamenti del suo leader, per lo più astratti.

 

Nei riguardi dell’immigrazione, fenomeno epocale di corsa dei popoli verso le società del benessere, queste forze distruttrici procedono con la durezza e rozzezza ch’è loro propria.; senz’alcuna seria premessa storica ed etico-politica.

Ignorano i fondamentali principi della tradizione cristiano-occidentale, ignorano le moderne Carte dei popoli e dichiarazioni dei diritti.

A cominciare dal “principio fraterno”, per cui l’immigrato dev’essere accolto come un fratello, e un fratello bisognoso, che è l’essenza dell’annunzio cristiano; ed è anche il punto più alto del progetto di liberazione ed elevazione dell’umanità: verso una società di giustizia e, appunto, una società fraterna. Per cui l’immigrato non dev’essere respinto ma accolto, aiutato a trovare una casa e un lavoro, inserito nella società italiana, che è anzitutto società umana.

Dal principio che la Terra è di tutti, per cui nessun popolo può rivendicarne una porzione  come esclusiva. Qui interviene quel passaggio della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 che dice: “Ogni persona ha diritto di circolare liberamente e di scegliere  la sua residenza all’interno di uno Stato” (art. 13). È un diritto fondamentale, uno di quei “diritti inviolabili dell’uomo” che la nostra Costituzione espressamente “riconosce e garantisce” (art. 2).

Allora il “reato di immigrazione clandestina”, cioè di chi non ha già la sicurezza di un lavoro, come stabilisce la legge Bossi-Fini, non ha senso; contrasta direttamente con quel diritto fondamentale che l’umanità riconosce a tutti. E così le punizioni per chi favorisce l’ingresso di un cosiddetto clandestino, o per chi gli affitta la casa. E tutte le altre angherie che questa legge ignorante e rozza, forse barbara, introduce contro i cosiddetti clandestini. “Cosiddetti” perché non stanno nascosti nei boschi, no; stanno in mezzo a noi, e ci sono spesso anche necessari; ma non possiedono quel pezzo di carta che è il permesso di soggiorno.  “Sans papiers”, li chiamarono i francese, cioè appunto senza le preziose dannate carte.

 

Ma l’uomo non si può identificare con una carta; l’uomo, la dignità della persona umana, il suo diritto che è fonte di ogni altro; se è vero che il diritto dello Stato si genera da una cessione di diritto dei cittadini, delle persone appunto.

Intanto questa rozza inumana  legge non dovrebbe passare né il giudizio del Presidente né quello della Corte Costituzionale. E però resta aperto il problema della formazione popolare a quei principi che il nostro popolo possiede, almeno implicitamente, per la sua stessa formazione cristiana, e che in lui devono essere ridestati; principi che devono superare il rifiuto del diverso, la paura del crimine dell’immigrato che non è altro da quello del concittadino; a parte il fatto che l’immigrato vi è anche sospinto dal rifiuto e dall’emarginazione da parte nostra. Superare l’idea dell’immigrato come ladro di lavoro, superare tutti questi  stereotipi di cui si serve la Destra per aizzare la gente e insieme strapparle il consenso.

Resta tuttavia aperto il problema europeo, l’attivazione di una politica unitaria verso l’immigrazione; che dev’essere una politica di accoglienza dell’Unione, quindi un monitoraggio; quindi una ridistribuzione degl’immigrati tra tutti gli Stati membri; quindi anche un intervento sui paesi di partenza per lo sviluppo della loro economia, per progetti, iniziative che consentano a quelle forze giovanili di non partire; la risoluzione del problema in fonte. Ma l’Italia la finisca di offrire il peggiore esempio; la “gentile Italia” di rivelarsi la più crudele.

                                                                          (Nuovo Quotidiano di Puglia, 20/07/09)

 

                           

Ripensare al Socialismo

di Arrigo Colombo

 

        Dario Franceschini, il nuovo segretario del Partito Democratico, che pure ha assunto un interessante atteggiamento propositivo di fronte alla maggioranza, va in giro per il mondo a dire che il Socialismo è una zavorra del secolo scorso, un fatto obsoleto, incapace di raccogliere consenso; che il modello vincente è quello aggregativo di centro-sinistra, modello moderato che raccoglie il consenso delle casalinghe, dei ceti medi a posto fisso, e magari anche del capitale. Dice che la stessa Internazionale Socialista dovrebbe sciogliersi per far posto a questo nuovo modello aggregativo..

Non si accorge di parlare a partiti socialisti e socialdemocratici forti, come in Francia, o che sono al potere, come in Spagna, in Inghilterra, in Germania con la grande coalizione. In paesi che sono poi tra i maggiori dell’Unione Europea.

Non si accorge che il modello ch’egli propone è un modello ibrido, conflittuale, quindi spesso bloccato e impotente. Perché contiene una componente di matrice democristiana (che è poi la sua), che non ha un chiaro progetto politico, e che è fortemente condizionata dal Vaticano e dall’episcopato. Lo si è visto col governo Prodi, col tentativo fallito di varare il “patto civile”, che doveva riconoscere alle coppie di fatto (e anche alle coppie omosessuali) i loro diritti di cittadini. Bloccato da una gerarchia cattolica che quanto a democrazia e a diritti civili è piuttosto analfabeta, essendo sempre vissuta in un regime autoritario, un regime anzi di tipo imperiale, com’è il papato.

 

Tra l’altro ha sempre odiato e condannato il Socialismo. Il quale, poi, ha avuto la sventura di essere appropriato dal regime sovietico, che si diceva l’unico “socialismo reale”; mentre era l’opposto, un regime totalitario e dittatoriale, regime perverso, feroce, che aveva soppresso ogni libertà, così come sopprimeva i dissidenti, li annientava nei campi di concentramento dell’Arcipelago Gulag denunziato da Solženicyn. Regime mutuato poi dall’intera costellazione degli stati comunisti, e che ha prodotto cento milioni di morti.

Ma il Socialismo è altra cosa, il progetto socialista è il progetto di una società di giustizia. Come il nome stesso lo dice, è il progetto di una società fortemente associata (l’opposto dell’individualismo imperante); in cui i lavoratori di ogni tipo sono “associati” nella proprietà e nella gestione dell’impresa, di ogni genere d’impresa; e nel godimento dei suoi utili. I quali non vengono più espropriati dal capitale per costituire la ricchezza dei pochi, mentre i molti sono poveri, o vivono in un benessere modesto e però precario; specie in questa fase in cui il capitalismo s’è fatto arrogante, e preme per avere il lavoro a sua discrezione, per abolire il lavoro stabile e sostituirlo con forme di lavoro precario, che rende poi precaria l’esistenza, e la condizione familiare.

Fino a che permane il capitalismo non vi può essere una società di giustizia. Perché il capitalismo comporta sfruttamento del lavoro (talora uno sfruttamento feroce: si pensi al lavoro nero, al lavoro immigrato e sottopagato); comporta la dipendenza del contratto salariale che contrasta con la dignità della persona; comporta la discriminazione di ricchi e poveri che contrasta col principio di eguaglianza e con quella stessa dignità.

 

Ci si chiede se il partito Democratico, e in esso in particolare la Sinistra, che proviene dal comunismo di tipo sovietico ma si è democratizzata; se dunque questo partito persegua ancora il progetto socialista, grande e irrinunciabile progetto dell’umanità per la sua liberazione, per la redenzione del povero; il progetto di una società di giustizia; oppure se l’ha abbandonato per il “moderatismo”, per i piccoli arrangiamenti che non cambiano nulla. Ci si chiede se la componente cristiana di questo partito persegua ancora il progetto evangelico di una “società fraterna”, dove l’accumulo di ricchezza è “iniquo”, mentre i beni devono essere condivisi tra tutti e così l’indigenza può essere redenta. Se perseguono quella redenzione dell’umanità che il Cristo ha annunziato e per la quale ha dato la vita, e ogni vero credente dev’essere pronto a darla.

                                                                            (Il Corsivo, 11/04/09)

  

 

La nuova disgraziata legge sul testamento biologico

di Arrigo Colombo

 

         La nuova legge è stata approvata dal Senato e deve ancora passare alla Camera; ma non ci si aspettano variazioni significative perché già al Senato il testo era blindato, non ammetteva emendamenti sostanziali.

Il suo vizio di fondo è l’eredità del caso Englaro, del tentativo fatto allora in extremis per bloccare il trattamento in corso che sospendeva la nutrizione e respirazione artificiale, al seguito del responso della Corte suprema; il decreto legge, escluso dal presidente Napolitano; la legge di un solo articolo da approvarsi in un giorno. Tentativo che fallì perché intervenne la sospirata morte della donna che governo e parlamento volevano ad ogni costo mantenere in vita.

 

La nuova legge s’incentra proprio su questo punto, è  una specie di rivalsa dallo smacco di allora. Vieta che si sospenda nutrizione e respirazione artificiale, e ogni altro trattamento alla cui sospensione possa seguire la morte. Ma proprio qui  sta l’errore perché questo è il punto cui deve andare la valutazione dell’équipe medica, ed eventualmente la disposizione del testamento. Cioè quando il trattamento medico di ogni tipo, che sia strettamente terapeutico o meno (perché qui è intervenuto il sofisma, che cioè nutrizione e respirazione non erano terapie), diventa puro artificio in quanto non vi sono più funzioni vitali autonome, autonoma capacità di vita; ma è in corso il processo mortale. Un puro artificio che va anche contro la dignità della persona, trattata come cosa; dove interviene la Costituzione che dice «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32).  

Dove i casi probabili sono la morte cerebrale, lo stato vegetativo accertato, la fase terminale di gravi malattie; e anche la paralisi totale che blocca ogni attività personale, cioè il caso Welby, dove è in gioco ancor sempre la dignità della persona; e anche la pietà verso di essa. Pietà che dovrebb’essere presente sempre, pietà della persona verso la persona, che è poi la legge dell’amore fraterno, cioè la legge suprema. Il grande annunzio evangelico e cristiano che la gerarchia cattolica mette spesso in un canto per affermare il rigore di una pretesa legge divino-naturale; rigore e crudeltà, crudeltà teologica ed ecclesiastica. Chi può negare che fu crudele l’accanimento contro la povera figlia Englaro, ridotta da tempo a vegetale, come contro il suo povero padre, ostacolato in tutti i modi nel suo amore per la figlia, e infine chiamato assassino?

 

Il valore poi del testamento biologico non può essere perentorio, deve sempre sottostare alla valutazione dell’équipe medica, all’accertamento delle condizioni oggettive; perché sono queste che rendono legittima la sospensione del trattamento artificioso. Anche altre leggi si esprimono in tal senso. Così quella francese del 2005, o il responso della Corte Suprema inglese del ’93. La decisione viene presa dall’équipe medica, tenuto conto della volontà espressa dal paziente, in particolare della volontà scritta, e del parere dei familiari.

Resta però ambiguo l’emendamento proposto dall’Unione di Centro, e passato nella legge; che la volontà espressa dal paziente non sarà vincolante per i medici; quasi che i medici possano decidere in base alle loro convinzioni ideologiche (legate ad esempio alla gerarchia cattolica, che interferisce sempre nella legislazione italiana, contravvenendo all’autonomia del legislatore) e non in base alle condizioni oggettive. In realtà non v’è dubbio che l’emendamento si riferisca proprio alle convinzioni ideologiche, e quindi al dettato della gerarchia; come del resto al dettato della gerarchia cattolica si riferisce l’interdizione di sospendere ogni trattamento quando segua la morte; un emendamento ha persino soppresso un comma che si riferiva all’accanimento terapeutico. Perciò la gerarchia s’è detta soddisfatta della legge.

 

La quale è però viziata proprio da questa interdizione che prescinde da quelle condizioni obiettive, mantiene l’artificio contrastando la natura, e ledendo la dignità della persona; ciò che altre leggi ovviamente non fanno.

 

 

Un fatto nuovo: i vescovi censurano il papa

di Arrigo Colombo

 

        Veramente due sono i fatti nuovi, concernenti il papato, accaduti in queste settimane. Il primo, verso la metà di marzo, l’aperto dissenso di un gruppo di episcopati nazionali per la remissione della scomunica a quattro vescovi dissidenti proprio quando uno di essi nega l’Olocausto ebraico, un’enorme insensatezza. Il secondo in questi giorni, quando Ratzinger condanna il “preservativo”, dicendolo inutile e anzi dannoso (sta partendo per l’Africa, dove ci sono 22 milioni di malati di AIDS), e un gruppo di governi lo smentisce con indignazione.

 

Vediamo di comprendere anzitutto il primo. Che c’interessa perché vi accade un fatto di aperto dissenso dell’episcopato dal papa; per la prima volta nel contemporaneo, e dopo che il Concilio Vaticano II ha definitamene sancito il primato e l’infallibilità papale; ha sancito quello che è il modello gerarchico e imperiale della chiesa cattolica; modello autoritario, di potere assoluto in quanto nulla può condizionare l’attività del papa; neppure il concilio ecumenico, che ha valore solo dopo la sua approvazione; mentre il papa ha la pienezza totale del potere. Il Vaticano II viene sempre citato come momento di grande apertura mentale, di grande innovazione; ma su questo punto ha messo la chiesa in catene.

Assistiamo infatti ad un grande silenzio, ad un mutismo completo. Non solo tace il laicato, il “popolo di Dio” lo chiama il Concilio; che ormai non conta nulla, è ridotto alla pura esecuzione e ripetizione del dettato gerarchico. Quando in Italia si apre un referendum sulla legge per la procreazione assistita, invece di sviluppare una discussione affinché la gente possa penetrare il problema, si decide che debba astenersi e quindi disinteressarsene. Viene disapprovato Prodi,  personaggio autorevole, il quale dice che voterà, perché è un cattolico adulto.

Tace dunque il laicato, ma tace ancor più l’episcopato. Mai che nella chiesa s’apra una discussione, una diversità di pareri, e meno che mai un dissenso dal Vaticano. In particolare nella chiesa italiana. Su problemi aperti e impellenti come il “patto sociale”, che deve riconoscere alla coppia di fatto certi diritti che appartengono a tutti i cittadini; sull’unione omosessuale;  sulla personalità dell’embrione; sul modo in cui la chiesa impiega i suoi fondi. Nessuno dei vescovi osa discutere il dettato vaticano. E questo è un fatto abnorme perché al papa è attribuita l’infallibilità solo quando pronunzia una solenne dichiarazione “ex cathedra”; solo in questi momenti eccezionali che finora si sono verificati due volte in centotrentanni; e per questioni marginali alla stessa fede, come l’immacolata concezione e l’assunzione della Madonna.

 

Perciò il fatto nuovo, straordinario. Alcune conferenze episcopali, direttamente o attraverso il loro presidente, si sono espresse contro quella remissione di scomunica cui erano seguite le infelici dichiarazioni negazioniste; così in Germania, Francia, Austria, Svizzera. Oltre ad un vasto malcontento, all’intervento di governanti e parlamentari cattolici contro il vescovo insensato. Al punto che il papa è stato costretto a fare qualcosa che nessun papa contemporaneo aveva mai fatta nella chiesa: inviare all’episcopato mondiale una lettera di scusa; lettera in cui riconosce di aver commesso due errori, “di cui si rammarica sinceramente”: non aver spiegato prima le ragioni per la remissione della scomunica; non aver fatto attenzioni alle infelici dichiarazioni. Lettera in cui accusa il colpo: “l’accusa aperta”, “l’ostilità pronta all’attacco”, “ trattato con odio senza timore e riserbo”.

Ora si tratta di capire se da un fatto nuovo può nascere un comportamento nuovo; nascere o avanzare, sia pur lentamente. Un comportamento in cui la chiesa gerarchica capisca che il possesso della verità evangelica e divina, il cosiddetto dogma – parola peraltro infelice, almeno nel senso perentorio in cui viene assunta – non significa blocco del pensiero e della ricerca, ma semmai una ricerca continua ancora più complessa e difficile, in quanto il divino è aperto ad una penetrazione senza limite. Comprenda che l’infallibilità ecclesiale e papale – altra definizione infelice, legata ad una tradizione autoritaria, quella dell’assolutismo monarchico, se non quella del dispotismo – è semmai un punto di arrivo, che si raggiunge attraverso una continua e sofferta ricerca; ed è sempre aperto a nuovi sviluppi, per la finitudine della comprensione umana di sempre, così come per la storicità che alla finitudine consegue, e quindi l’evolvere della mente e della conoscenza; e infine per la creatività che è propria dello spirito d’uomo. Così per l’etica si tratta di un edificio che l’umanità è andata via via costruendo, di cui il Decalogo biblico costituiva solo un primo abbozzo. Che lo stesso categorico precetto “non uccidere”, solo dal ‘700 in poi fu compreso anche come “stato non uccidere il cittadino” (l’illiceità della pena di morte, che molti tuttavia praticano ancora), e sta maturando ora alla comprensione più avanzata di “non fare la guerra”, in nessun caso, per l’atrocità del fatto, il macello umano, l’omicidio collettivo sistematicamente e scientificamente cercato, il crimine più atroce.  

 

 

 

Obama, l’aborto, le cellule staminali

di Arrigo Colombo

 

        Il presidente Obama continua sollecitamente la sua politica di libertà coraggiosa. Già nei primi giorni dopo la sua elezione, aveva firmato un’ordinanza in cui toglieva le restrizioni  poste da Bush al finanziamento federale delle associazioni che sostengono l’aborto, anche all’estero, specie nei paesi poveri. Lo aveva fatto dicendo che lo stato non deve entrare con interdizioni nell’intimo dei problemi della famiglia. Che è l’argomento giusto. L’aborto sarà un fatto eticamente trasgressivo, lo è in realtà; ma è un problema intimo e complesso, e lo stato lo lascia alla responsabilità della famiglia, della donna in particolare. Questo è il punto che l’episcopato – anche quello statunitense – non vuol capire, nella sua polemica quotidiana, ossessiva contro l’aborto.

 Il punto su cui premere è invece l’offerta alternativa alla donna che abortisce: l’offerta della coppia che adotta il figlio. Un’intesa che i  medici cui la donna si rivolge, e i  consultori familiari, devono preparare per tempo, in modo da portare la gravidanza della donna al parto, e quindi all’adozione. Come avviene nel film “Juno”, profondamente educativo, dove la ragazza stessa, attraverso un’inserzione, cerca i genitori per il piccolo che ha in seno. Perché la chiesa non s’impegna affinché questa procedura sia attuata il più possibile nelle sue cliniche? perché non fa una campagna in proposito? Ovviamente la donna non dev’essere sottoposta ad indebite pressioni, questa  soluzione dev’essere delicatamente offerta alla sua libera scelta.

 

La stessa cosa Obama ha fatto nei giorni scorsi per le cellule staminali, togliendo le restrizioni che Bush aveva posto al finanziamento federale della ricerca su queste cellule, e invitando il Congresso a sospendere una legge nello stesso senso che viene rinnovata ogni anno. Queste famose cellule totipotenti o multipotenti, che si prevede possano intervenire nella cura di molti fatti morbosi: dal midollo spinale al cuore, alle malattie degenerative come l’Alzheimer e il Parkinson. Se ne parla da alcuni anni, ma la ricerca è ancora arretrata. Obama non entra nel fatto etico, giustamente, perché le staminali possono essere ricavate, oltre che dal cordone ombelicale, da molti organi adulti; il fatto etico si presenterebbe solo con l’uso dell’embrione, in particolare delle migliaia – decine, centinaia di migliaia – di embrioni ottenuti per la fecondazione assistita e abbandonati nei frigoriferi delle cliniche; il metodo Dulbecco ad esempio, elaborato apposto per superare l’obiezione etica, non utilizza l’embrione. E anche l’obiezione etica è tutt’altro che decisiva. Perciò Obama ritiene che lo stato non debba entrare nel merito, ma debba sostenere e sollecitare la ricerca scientifica per alleviare la sofferenza. Ciò che espressamente esclude è la clonazione, la produzione artificiale di esseri umani.

 

Dicevo che l’obiezione etica non è decisiva. Riguarda infatti il carattere personale dell’embrione; se possa dirsi o no persona. Perché la persona è soggetto di diritto, e quindi è “fine” – secondo l’espressione kantiana –, non può diventare mezzo, non può essere usata per un qualunque altro fine, anche nobile, come ricavarne cellule staminali per curare persone malate e sofferenti. Ma la concezione prevalente ritiene che l’embrione non possa dirsi persona se non in potenza, non in atto; è in corso di diventare persona ma non lo è ancora. E questo senz’altro nei primi quattordici giorni, quando è costituito da cellule indifferenziate che, ad esempio, possono dividersi e dar luogo a gemelli. Il che costituisce una riprova decisiva perché, se ci fosse già la persona, non potrebbe certo dividersi e dar luogo a più persone.

Su questo insistono teologi cattolici anche tra i maggiori del ‘900: come Rahner, il maggior teoretico, Hähring, il maggior moralista. Ma il Vaticano ritiene di essere lui la fonte della verità e non ascolta i teologi, gli esperti della ricerca; anzi spesso li perseguita, quando non li scomunica. Ma in particolare, nei riguardi dello stato, dovrebbe capire due cose: che lo stato non è tenuto a perseguire ogni fatto eticamente trasgressivo; la trasgressione sessuale, ad esempio; la prostituzione quando non causa disordine sociale; può lasciarli alla responsabilità della persona e della famiglia. La seconda cosa è che la chiesa non deve interferire nella gestione del potere statale. «A Cesare ciò ch’è di Cesare, a Dio ciò ch’è di Dio».

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 16/03/09)

 

 

L’Italia degli scioperi

di Arrigo Colombo

 

        Sembra che il governo voglia regolamentare lo sciopero. Finalmente, si dovrebbe dire; purché questo non rientri nell’offensiva del capitale contro il lavoro, in corso ormai da oltre un decennio.

La Costituzione parla chiaro: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano” (art. 40). Ma queste leggi non furono mai fatte: perché il PCI non le voleva, ed era forte; mentre il governo democristiano era debole, cambiava ogni anno. E così L’Italia divenne il paese degli scioperi, famoso in tutta Europa, paese poco affidabile perché non vi si lavora seriamente.

Scioperi politici, scioperi dei trasporti i più insensati perché nelle ferrovie un giorno scioperano i macchinisti, un giorno i controllori, un giorno i casellanti; e negli aerei un giorno scioperano i piloti, un giorno le hostess, un giorno il personale di terra; e via dicendo. Senza riguardo alcuno per il cittadino, le urgenze del viaggio, gli appuntamenti, la perdita di tempo, le giornate e le notti passate in aeroporto.

Con la totale noncuranza del politico come del sindacalista. Per la perdita economica che questi scioperi provocano; per il disagio dei cittadini, per il prestigio della nazione. Con la caduta del potere sovietico e con la democratizzazione del PCI la mania dello sciopero si è un po’ calmata, ma nessuno ha pensato alla legge, alla regolamentazione. Anche solo stabilendo che nei trasporti lo sciopero fosse ammesso solo per l’intero servizio ferroviario o aereo; nessuno si è preoccupato dello scempio di Alitalia nella fase del trapasso. Salvo poi a constatare che i salari italiani erano del 30% inferiori a quelli delle maggiori nazioni europee (la notizia data due anni fa dal governatore Draghi); ma allora a che erano servite tutte queste rivendicazioni, questi scioperi senza fine? e in sindacato che ci stava a fare?

 

Ora si realizza la legge. Ma sia chiaro che la legge non deve piovere dall’alto, deve formarsi nella contrattazione con le parti sociali. Inoltre non dev’esere quella “legge delega” di cui si parla; la materia essendo troppo delicata; dev’essere una legge ordinaria, quella appunto che esce dalla contrattazione.

Il governo pensa anzitutto ai trasporti. Dove il primo proveddimento da prendere è la globalità: sciopera, e può scioperare, solo l’intero servizio: ferroviario, aereo, metropolitana, tramvia comunale, autobus regionali. Resta però dubbio che possa scioperare l’intero ambito nazionale dei trasporti, paralizzando così la nazione. Il diritto dello scioperante dev’essere contemperato col diritto del cittadino

Il secondo, che il sindacato che indice lo sciopero debba rappresentare la maggioranza dei lavoratori di quel servizio, è un principio equo. Anche il principio che lo sciopero possa essere indetto dal sindacato ma necessiti dell’esplicita adesione della maggioranza dei lavoratori, che quindi debba essere votato – come avviene in Germania – , è un principio equo. Che perciò i piccoli sindacati possano indire scioperi solo in unione coi grandi, o raccogliendo comunque una maggioranza di voti: la legge che si accontenta del 30% raccolto da sindacati che rappresentano solo il 20% dei lavoratori interessati, non sembra essere equa.

Per certi servizi di particolare necessità si parla di sciopero “virtuale”: nel senso che il lavoratore proclama lo sciopero ma non sospende il lavoro né perde il salario; oppure lo perde, devolvendolo a fini sociali. Dove però manca il danno inferto all’impresa, che è punto essenziale dello sciopero.

Gli scioperi selvaggi vengono proibiti e puniti con un’ammenda; e questo è giusto. Quanto alle manifestazioni di protesta che occupano ferrovie, strade, piste aeroportuali, sono spesso la conseguenza di situazioni esasperate, magari anche profondamente ingiuste; dovrebbero forse essere affidate al giudizio del magistrato.

Il punto più importante è che questa legge che, per quanto richiesta dalla Costituzione, ha atteso più di mezzo secolo, con conseguenze anche gravissime per la nazione, sia ora pensata, discussa e varata al meglio. Nessuna fretta, nessuna prevaricazione governativa. Si deve solo mirare ad una buona legge.

                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 10/03/09)

 

 

Perché no all’energia nucleare?

di Arrigo Colombo

 

        Il problema dell’energia nucleare ci si ripresenta dopo l’accordo franco-italiano per quattro centrali da costruirsi da noi al più presto (la prima entro il 2020), e per un’ampia collaborazione in campo energetico.

Se si guarda una cartina d’Europa, si resta stupiti della solitudine italiana in questo campo. Se si guardano anzitutto le maggiori nazioni, cui l’Italia con la sua popolazione (60 milioni) e con la sua produzione appartiene: Francia (59 centrali), Inghilterra (19), Germania (17), Spagna (8); ma anche le piccole. Solitudine, dunque, dipendenza quasi totale, con un’energia che costa il doppio, con una perdita tecnologica in un settore di punta, con una corrispondente perdita di prestigio.

Certo, si può essere soli anche in decisioni virtuose che altri popoli non hanno avuto la forza di raggiungere; come il rifiuto della guerra che sta nella nostra Costituzione. Ma questa dell’energia nucleare era una decisione virtuosa?

Perché il rifiuto del nucleare? quali le ragioni? Si parlò di pericolo, ragione che si rivelò falsa. Si parlò di scorie che in Italia non potevano essere stoccate perché zona sismica; ragione anch’essa falsa, perché l’Italia è sismica solo lungo il percorso della faglia che l’attraversa. Si disse che era più conveniente sviluppare l’energia solare o eolica o marina; ma non si sviluppò nulla. In compenso si costruirono – o si mantennero – centrali a carbone fortemente inquinanti che, almeno quelle, avrebbero potuto essere convertite al metano; o al cosiddetto carbone “pulito”. Una di queste sta a Cerano, con effetti disastrosi sull’agricoltura del territorio, e fumi che inquinano tutto il Salento; me nessuno se ne cura, non l’Enel che preferisce spendere i suoi profitti altrove, in Spagna, in Slovacchia; non la regione Puglia, non i Comuni, e neppure gli ambientalisti.

Perché dunque il rifiuto? perché il governo era debole e irresponsabile, uno di quei governi democristiani che duravano un anno; perché gli ambientalisti, che pure erano pochi (tra l’1 e il 2%), hanno gridato forte; perché la gente è ignorante, non legge i giornali, si accontenta dei telegiornali e delle loro notiziole, è facilmente influenzabile (e il trionfo del berlusconismo, con la casalinga di Voghera grande elettrice, ne è una riprova).

 

Intanto sembra ovvio che, con questa “povera” Italia, con la sua miseria energetica, qualcosa si debba fare; bisogna prendere delle decisioni, e urgenti, e drastiche. Una legge potrebbe disporre che tutte le coperture (o i tetti) dei capannoni di tutte le industrie, magazzini, depositi, di tutte le chiese, conventi, collegi, scuole, università, siano convertiti al fotovoltaico. Ma potrebbero bastare anche i soli capannoni. Coi dovuti interventi dello stato, col denaro che si dovrà spendere per il nucleare. Coi dovuti progetti, coi dovuti riguardi per gli edifici di culto e d’arte, con le dovute previsioni di costi, con la dovuta velocità di decisione e di realizzazione (se pur possibile, con la nostra pigra burocrazia borbonica).

Ma il governo pensa ad altro, ha deciso per il nucleare. Riuscirà a realizzare questa sua decisione? riusciranno i nostri eroi? Se non riescono neppure ad ottenere i siti per le discariche dei rifiuti, e ogni volta v’è una battaglia da combattere, con la gente, i sindaci, i parroci. Se non riescono a far passare la nuova ferrovia in Val di Susa, e da anni va avanti la disputa. Certo la battaglia per ottenere i siti per il nucleare sarà dura; anche se sono soltanto quattro.

Ma qui rispuntano i radicali difetti della “povera” Italia, degl’italiani. L’individualismo, l’egoismo individualistico; per cui tutti vogliono l’energia, la luce e la forza per gli elettromestici la cui progenie è immensa, la città illuminata a giorno; ma nessuno vuole la centrale che la produce. L’ignoranza di cui si è detto, che moltiplica i timori, e quindi i rifiuti. Forse Berlusconi, che gode del 60% dei consensi, che è adorato dalle casalinghe ignare dei suoi misfatti (il telegiornale non ha parlato della condanna di Mills, il corrotto), dei fantomatici pericoli delle centrali, otterrà i sospirati siti; e così finalmente l’Italia entrerà nel nucleare, egoisticamente godrà delle tecnologie che altri hanno sviluppato con la loro assidua ricerca; beneficerà dei reattori “autofertilizzanti”, cioè senza scorie, che si spera arriveranno presto, che l’assidua ricerca degli altri sta sviluppando. L’ignoranza e furbizia italiana trionferà infine.    

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 5/03/09)

 

 

L'ambigua vicenda del Partito Democratico

di Arrigo Colombo

 

        La tormentosa vita che ha avuto finora il Partito Democratico, sfociata poi nelle dimissioni di Veltroni, ci porta ad una serie di riflessioni che riprendono quelle già fatte quando si cominciò a parlarne, e il cui senso era che “questo partito non s’ha da fare”.

Il PD nasceva come partito di Prodi al suo rientro in Italia, dopo la presidenza della Commissione Europea. Un Prodi che si presentava come il leader naturale di quello ch’era stato l’Ulivo; l’uomo estraneo al quadro partitico che aveva compiuto l’impresa in cui l’Ulivo era nato, l’azione solitaria che per la prima volta aveva percorso l’Italia in autobus parlando alla gente e annunziando una fase politica nuova. Pur restando sempre incerto quale fosse il suo progetto politico-utopico, e come s’inserisse nel grande processo che, dalla Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, cioè dalla metà del ‘600, andava costruendo una società di giustizia. Prima col modello democratico, di sovranità popolare sia pur mediata dal parlamento; divenuto un modello universale. Poi col modello di giustizia sociale, di ridistribuzione dei beni e della ricchezza, che s’era imposto verso la metà dell’800 col socialismo e con la leadership del movimento operaio, il grande movimento portatore storico del processo.

Prodi apparteneva all’intelligenza cattolica che non era riuscita ad assimilare quel modello per la sua ostilità al socialismo; l’ostilità dei papi e dell’apparato gerarchico. Modello ch’era stato assunto dalla Rivoluzione Russa e dal bolscevismo nel grande tentativo di annientare il capitalismo; e però distorto nella dittatura del partito e nel dispotismo, col suo regime oppressivo, coi massacri e i campi di concentramento; e quindi rifiutato dall’umanità, e infine imploso.

Intanto s’erano formati in Europa partiti socialisti-socialdemocratici di grande portata; che tuttora sono presenti e forti: in Francia, in Germania, in Spagna, in Inghilterra. Mentre in Italia la leadership della Sinistra era assunta dal PCI, il grande e perverso PCI che perseguiva il modello dispotico sovietico; e aveva quasi annientato il socialismo italiano. Il quale s’era poi in certa misura ripreso negli anni Ottanta ma era stato distrutto da Tangentopoli; mentre l’implosione sovietica portava il PCI ad un processo di democratizzazione, il PDS, poi DS; da cui si staccava  a più riprese una Sinistra che sempre più si frammentava perdendo consenso, fino a restare esclusa dal parlamento.

La formazione di un forte partito socialdemocratico non riusciva. È questo il fatto tragico che apre la via al populismo berlusconiano, cioè ad un partito personale che non ha alcun progetto politico; che è fuori dal processo storico di liberazione; e con cui si coalizza la Destra.

A questo punto nasce l’Ulivo, poi il PD, come coalizione del residuo socialdemocratico e di un gruppo sinistroide cristiano, fortemente condizionato dal potere ecclesiastico. Il PD è questo ibrido, che non persegue più il processo di liberazione, la costruzione di una società di giustizia; se non attraverso modeste riforme. Si è formato puntando a quella che sembra essere oggi la grande massa elettorale, i moderati: quel ceto medio, e quella parte della classe operaia che ha raggiunto un discreto benessere, e che al ceto medio si assimila. Ha scelto il “moderatismo”. Ha accettato il capitalismo e la sua radicale ingiustizia: lo sfruttamento insito nel capitale, l’accumulo di ricchezza, la discriminazione. In Italia non v’è, come in Francia, una particolare tassa sulle “grandi fortune”, che segua il principio di ridistribuzione dei beni; e la proposta fatta dalla CGIL di tassare i redditi oltre i 150.000 euro è stata considerata una follia dagli stessi sindacati moderati, CISL e UIL; che hanno anche infranto l’unità del popolo lavoratore firmando separatamente contratti ingiusti.

Il CD, come partito in cui confluiscono due corpi e due anime, quella cattolico-papista della Margherita, e quella socialdemocratica dei DS, è un partito in gran parte bloccato da opposte tensioni, incapace di decidere: in questioni come il patto sociale o la procreazione assistita; come la tassazione delle grandi fortune di cui si è detto, o la lotta contro la precarizzazione del lavoro. Un partito contrastato, diviso. Una soluzione almeno parziale ci potrebb’essere se le forze realmente riformatrici, quelle che “cercano la giustizia”, si unissero, a prescindere della fazione di provenienza, a formare uno zoccolo duro, una maggioranza viva e creativa, maggioranza popolare vicina alla gente; tesa a perseguire la giustizia, a costruire una società di giustizia.

 

 

Un testamento biologico corretto è ora possibile?

di Arrigo Colombo

 

        Il caso Englaro finalmente si è chiuso, la donna che era l’oggetto del contendere di un’intera nazione finalmente si è spenta. Ma ciò che più ha stupito è l’accanimento del governo, che voleva ad ogni costo impedirlo, con un decreto legge, con una leggina di un solo articolo da approvare a tutta velocità, inseguendo la morte. Ha stupito l’accanimento del Vaticano, della gerarchia, dei cattolici che gridavano all’assassinio; che intervenivano a sindacare un atto del presidente Napolitano – il rifiuto del decreto legge – che semplicemente adempiva il dettato costituzionale, senza esprimere nessun parere, né pro né contro; il Vaticano che si arrogava il potere di censurare un atto istituzionale dello stato. Una ingerenza inaudita.

 

Ora il governo, avendo mancato quell’obiettivo, che gli premeva quanto gli preme il sostegno ecclesiastico, sostegno politico, sostegno soprattutto elettorale, vuol varare al più presto una legge più comprensiva, che però deve contenere quella leggina, il divieto di sospendere alimentazione e respirazione indotta. Sarebbe il “testamento biologico” che tutti invocano, a cominciare da Napolitano. Che però sarebbe più opportuno varare con calma, distanziandosi dalle malvage passioni che ancora fremono nell’animo dei contendenti; riprendendo i disegni di legge presentati nel tempo, ascoltando i pareri degli esperti ecc. Una buona legge sul testamento biologico, la quale in Italia manca; mentre altri stati l’hanno varata a suo tempo senza tanto contendere.

Così in Francia una legge del 2005 disciplina la facoltà di sospendere quelle terapie che hanno come unico effetto il mantenimento di una vita artificiale. La decisione è presa dal medico curante, sentita un’équipe di medici, o almeno un altro medico se ciò non è possibile; tenuto conto delle volontà espresse dal paziente per iscritto, od oralmente ai familiari, o affidate ad un fiduciario. In Inghilterra una disciplina analoga è regolata da una decisione della Corte Suprema del ‘93, sostenuta da un’ampia giurisprudenza; anche qui decidono i medici dopo aver discusso coi familiari, e tenuto conto della volontà espressa dal paziente, in particolare della volontà scritta. Leggi simili esistono in Spagna, in Belgio, in Danimarca (v’è persino una banca dati per i testamenti biologici), in molti stati della federazione americana.

 

Veniamo ora a noi. C’è anzitutto il dettato della Costituzione che dice “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”; c’è poi  la convenzione di Oviedo del ‘97, cui l’Italia ha aderito, la quale stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico, da parte di un paziente che al momento dell'intervento non è in grado di esprimere la propria volontà, siano tenuti in considerazione”.

Il testamento biologico esprime questa volontà. Ma quali sono i casi cui può applicarsi? Se si guarda a quanto disposto in quei paesi si tratta dei casi di morte cerebrale, riduzione a stato vegetativo, paralisi totale che blocca ogni attività della persona, fase terminale di gravi malattie. Più o meno questo; a parte l’Olanda che ha una specifica legge sull’eutanasia, della quale si già è discusso a suo tempo. La persona redige e deposita un documento in cui dichiara che in quei casi vuole che l’artificio che prolunga la vita sia sospeso, e la natura faccia il suo corso. E può anche nominare un rappresentante fiduciario che curi l’adempimento delle sue volontà.

 

Il punto di divaricazione è sempre lo stesso: da un lato l’artificio, dall’altro la natura. Quando il trattamento medico, complesso o meno, con o senza macchine, non può più raggiungere il suo scopo che è quello di risanare, o di consentire una vita autenticamente umana, diventa un artificio, e un artificio inutile, e anzi dannoso alla dignità della persona; la quale magari è già scomparsa, se allo spirito viene a mancare il supporto fisico in cui s’incarna; se resta solo un vegetale. Se la natura d’uomo già si è dissolta o è talmente prossima alla dissoluzione, non è giusto bloccarla artificiosamente in quello stato, ma conviene lasciare alla natura il suo corso; a quella natura d’uomo che per se stessa è caduca e mortale. Talvolta i parenti preferiscono avere comunque con sé la persona amata; cosa che si può tollerare per un tempo breve, sennò diventa abusiva.

Si eccepisce sempre sull’accanimento terapeutico, che tutti rifiutano, almeno a parole; ma l’accanimento si ha proprio quando la cura diventa mero artificio a sostenere una parvenza di vita e di umanità; quando non compensa più la natura ma apertamente la contrasta.

 

Fatte queste considerazioni, ci si chiede se un siffatto testamento sia possibile nell’attuale situazione italiana. Può anche darsi: come furono varate, in età democristiana, le leggi sul divorzio e sull’aborto, così potrebb’essere varata quest’altra legge. E però in età democristiana l’intervento vaticano e gerarchico era meno pressante, meno ingombrante; forse perché la gerarchia vedeva in quel partito una sua forza vicaria, che governava in suo nome. La situazione sembra essere ora più difficile: lo si è visto col patto civile, il PACS, che nemmeno un parlamento a maggioranza di Centrosinistra, e con una Sinistra forte, è riuscito a realizzare. Lo si è visto con la legge per la procreazione assistita, che ha seguito in tutto il dettato vaticano, il decreto prodotto a suo tempo proprio da Ratzinger; a cominciare dalla personalità e dal diritto dell’embrione. Se il governo parte dal principio che alimentazione e respirazione forzata non possono essere toccate, ha già pregiudicato la soluzione, si è già precluso la via ad una impostazione razionale del problema.

                                                                       (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19/02/09)

 

 

 

Note ulteriori sul programma del presidente Obama

di Arrigo Colombo

 

       Il discorso fatto la scorsa settimana richiamava Obama ad un insieme di provvedimenti già di per sé grandioso: rifiuto della guerra (suo stretto dovere, in quanto sta nel Trattato dell’ONU che gli USA hanno firmato); riduzione concordata e diffusa delle armi, riduzione rapida, con un coinvolgimento ampio, universale, che lasci il posto al solo esercito dell’ONU (esso stesso transitorio, finché ce ne sarà bisogno); rinunzia alle armi nucleari, da parte di tutto il privilegiato club che le detiene; chiusura delle basi militari sparse nel mondo. Poiché ha detto “l’America deve giocare il suo ruolo per far entrare il mondo in una nuova era di pace”. E questa è la pace, questa è l’era di pace, questo è il ruolo da giocare con decisione, con forza.

La pace, dunque, il primo e più alto compito. Il secondo è il riassetto ambientale del pianeta, che gli USA inquinano per il 30%: riduzione progressiva dell’inquinamento, sviluppo delle energie dolci (Obama ha condizionato gli aiuti al settore auto a nuovi tipi di motore; ha detto che gli USA non devono più importare petrolio). E bisognerà anche sollecitare e aiutare la Cina, ch’è divenuta il primo e più grave inquinatore.

Problemi del lavoro. Si sa che gli USA hanno una settimana di lavoro troppo lunga, oltre le 50 ore; che vi si sono diffuse quelle forme di lavoro cosiddette flessibile o di agenzia, che abbandonano persona e famiglia alla precarietà, e le sottraggono assistenza e previdenza; anche perché il sindacato è debole. Obama ha compiuto un primo passo, ha firmato una legge (la sua prima) che promuove la parità salariale tra uomo e donna; un punto dolente di tutte le legislazioni, la discriminazione femminile nel lavoro, in particolare nel salario, che si aggira sul 20-25% in meno rispetto agli uomini. Obama si è richiamato al principio di eguaglianza che stava già nella proclamazione d’indipendenza, che quindi appartiene alla grande tradizione di questo paese.

Ma il punto più dolente negli USA è la sicurezza sociale, assistenza sanitaria e previdenza. Il Senato ha ora approvato una legge che assicura l’assistenza ai bambini, e si parla di 4 milioni di bambini che ne beneficeranno (una legge che Bush aveva bloccato due volte, e che nessuno dei repubblicani ha votato perché – dicono – danneggia l’assistenza privata; per dire quanto è classista la mentalità americana); ma si parla anche di 50 milioni di persone che sono prive di assistenza malattie. Qui Obama deve riprendere il progetto di Clinton, avversato allora dal parlamento a maggioranza repubblicana, e cioè il “servizio sanitario nazionale”, quello stesso che esiste in Europa, che assicura a tutti l’assistenza, a tutti i cittadini nessuno escluso. Un punto in cui gli USA, nella loro vantata grandezza, sono fortemente arretrati.

A questo si congiunge la ridistribuzione della ricchezza. Perché la povertà è presente negli USA, e in misura non piccola. Fu in certo modo scoperta – se così può dirsi – sotto la presidenza Kennedy, e stupì molto; poiché si parla di oltre quaranta milioni di persone, cioè di una nazione nella nazione. Cui fanno contrasto i grandi ricchi, coi loro enormi sprechi, le loro infami esibizioni; negli USA più che altrove. Si sa che la ricchezza è per se stessa ingiusta, la ricchezza “espropriatrice”, non certo la ricchezza diffusa e popolare; perché si forma attraverso lo sfruttamento e la speculazione; e perché crea un divario, una discriminazione, laddove è in gioco la “dignità e  diritto della persona”, con tutto ciò che a questa dignità consegue, e deve conseguire.

Mettere dunque mano ad una ridistribuzione della ricchezza. Non solo con una particolare tassazione delle “grandi fortune”, come avviene in Francia; ma, ad esempio, con un’azione sistematica di recupero delle sacche di povertà. A cominciare da un monitoraggio; quindi da una serie d’interventi di risanamento: casa e lavoro e sicurezza sociale. Con una promozione del sistema salariale; oltre alla riduzione della settimana lavorativa di cui parlavo.

Rifkin, nel suo libro “La fine del lavoro”, visto l’aumento della produttività, sostiene che la settimana lavorativa andrebbe dimezzata. Demolendo il mito del liberismo, dell’incondizionata libertà imprenditoriale, tanto forte negli USA, Obama deve intervenire con una forte legislazione per la redenzione della povertà e per una più equa distribuzione della ricchezza. Sulla base di quel principio di eguaglianza che ha invocato.   

                                                                       (Nuovo Quotidiano di Puglia, 9/02/09)

 

 

 

Note sul programma del presidente Obama

di Arrigo Colombo

 

         Sembra oggi strano che gli USA, come l’umanità, abbiano potuto tollerare l’odiosa figura di Bush figlio; la sua arroganza di preteso vessillifero della libertà e della democrazia; il suo disprezzo dei diritti umani (di cui Guantanamo è l’esempio più abominevole); il disprezzo della sovranità degli stati che ha invaso e massacrato con le sue guerre, in un’età in cui l’umanità ha condannato la guerra; il disprezzo per l’ONU, la comunità planetaria dei popoli, di quel  trattato dell’ONU che gli USA avevano non solo ratificato ma fortemente voluto, e il cui principio primo è che i conflitti tra popoli non si risolvono mai con la guerra ma solo con la trattativa; il rifiuto della Corte penale internazionale, segno che c’era in lui la previsione e l’intento del crimine; il rifiuto del protocollo di Kyoto, anche qui con lo stesso intento da parte del petroliere e colluso coi petrolieri, la volontà perversa di continuare ad inquinare il mondo per il loro marcio profitto. Una  simile figura ha retto gli USA e la loro politica per otto anni; è stato rieletto quando già aveva iniziato la sua nefasta azione bellica, enunziato le sue teorie; ha avuto alleati come Blair, che così ha tradito l’ideale pacifico del Labour party e  ha anche mentito al suo popolo; e ammiratori degni di lui come Berlusconi.

 

Perciò gli USA, come l’intera umanità, hanno seguito con ansia e speranza insieme l’ascesa di Obama, e hanno esultato di gioia quando è giunto il giorno del suo insediamento, e insieme la grande festa, sentita e gustata come festa di tutti. E hanno pianto di gioia. Hanno ascoltato attenti il suo discorso, hanno seguito con partecipazione le sue prime decisioni.

E la prima è stata proprio Guantanamo, il luogo dell’ingiusta detenzione e della tortura, per i presunti terroristi, sottratti al giusto processo che ora invece avranno, mentre tutte le forme di tortura fisica e morale sono abolite.

Poi le guerre: l’Iraq sarà lascito responsabilmente alla sua gente, è detto nel discorso; in Afghanistan si guadagnerà la pace, anche se duramente; la lotta contro il terrorismo continuerà, sino a che sarà sconfitto.

Ma c’è un passo ulteriore che dev’essere fatto: il rifiuto della guerra, rifiuto esplicito, in conformità all’impegno preso nel trattato dell’ONU. E con la guerra la riduzione degli armamenti, riduzione collettiva e concordata; anche e innanzitutto per l’arma nucleare, la più disastrosa, la fine del club degli stati nuclearmente armati, di questo privilegio mortale di cui si vantano USA, Russia, Inghilterra, Francia e compagni; basta per tutti. Mentre ci sarà un solo esercito legittimo per l’umanità intera, esercito precauzionale e temporaneo, esercito di pace se così può dirsi, quello dell’ONU. E perciò lo smantellamento delle basi militari USA, sparse nel mondo intero (113 solo in Italia), basi e flotte, da parte di questo preteso gendarme dell’umanità, questo potenziale distruttore planetario. Oggi che l’antico adagio “se vuoi la pace, prepara la guerra” ha rivelato la sua falsità, e si è rovesciato nell’altro, ”se prepari la guerra prima o poi la farai”. Obama deve prendere queste decisioni ulteriori e forti, se davvero vuol essere uomo di pace, portatore di pace per l’umanità. Quando dice “lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare”, non deve pensare solo all’Iran e al Nordcorea, come finora si è fatto; ma a tutti, e innanzitutto a se stesso. Quando dice “l’America deve giocare il suo ruolo per far entrare il mondo  in una nuova era di pace”.

L’adesione alla Corte penale internazionale, l’adesione al protocollo di Kyoto, urgenti, improrogabili. E con quest’ultimo tutta la politica ambientale, condotta con vigore. Ha detto “lavoreremo senza sosta per respingere lo spettro di un pianeta che si surriscalda”.

E arriviamo così al punto più dolente, quello dell’egemonia: gli USA come stato egemone, come la grande potenza che controlla e domina l’umanità. Un fatto che contrasta col principio della pari dignità e diritto di ogni popolo e stato, col principio di eguaglianza degli stati; cui può seguire col tempo il rapporto solidale e fraterno. Un fatto che anche  suscita altre tendenze egemoniche, della Russia, della Cina; che fomenta nuova ostilità, nuove divisioni. Parlando degli USA Obama dice sempre America; quasi non ci fosse un’altra America, altrettanto grande anche se meno potente, l’America Latina; che gli USA hanno sempre dominato in molti modi, e sfruttato. E a proposito di un futuro di pace e dignità dice “noi siamo pronti ad aprire la strada ancora una volta”: loro dunque apriranno la strada? oppure la strada la si deve aprire tutti insieme? Riafferma la “grandezza della nostra nazione”, anche se dice che questa grandezza non è scontata ma bisogna guadagnarsela; e però nessuno deve proclamarsi grande, i “grandi del mondo” di cui il Cristo parla con sdegno, mentre vede la vera grandezza nell’amore e nel servizio.

Un’ultima cosa, in un discorso che per la sua ampiezza dovrebb’esser ripreso. Obama parla di “dogmi stanchi”. Uno di questi è quel dogma del “libero mercato” che gli USA hanno sempre coltivato e promosso, e che tanti mali ha fatto e sta facendo, in questa crisi economica che tutti ci travaglia, e che dovrebbe insegnarci che il mercato, come ogni attività umana, dev’essere gestito, corretto, controllato; che questo controllo, e i suoi strumenti, le sue norme sono urgenti più di ogni altro intervento o provvedimento. Il “libero mercato” è un mito perverso imposto dal capitale, dai ricchi e potenti a tutto danno dei poveri.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26/01/09)

 

 

L’impotenza della legge

 di Arrigo Colombo      

 

        Si sa che l’Italia, la nostra cara patria forse mai profondamente amata, è dissestata in modo molteplice. A cominciare dalla legge, che è l’essenza stessa dello stato come comunità giuridica volta alla tutela e promozione del cittadino nel suo essere e coessere, nel suo complesso associarsi a cominciare dal nucleo familiare. Si dice spesso che l’italiano non ama la legge, che è  portato ad evaderla;  forse perché è ancora un cittadino immaturo, con scarsa coscienza identitaria.

 

E si adducono di solito due cause. La prima sarebbe il ritardo nella formazione dell’unità italiana (ma anche l’unità tedesca è tardiva; eppure la coscienza identitaria, così come il senso della legge, vi è molto forte), congiunto con incidenti e tensioni di rottura. Incidenti sarebbero il fascismo, cioè la dittatura che sospende la legge per l’arbitrio; tangentopoli, cioè la corruzione di una classe politica che ne provoca il crollo e genera una profonda sfiducia; il berlusconismo, cioè un populismo mediatico cui il cittadino soggiace, segno che la sua personalità e la sua coscienza politica e giuridica, e la sua stessa istruzione e cultura, sono  scarse. Tensioni di rottura sono presenti già nel divario Nord-Sud, che produce a un certo momento la Lega e il suo tentativo di secessione; come il tentativo di secessione della Sicilia nel secondo dopoguerra, e quello dell’Alto Adige.

 

La seconda causa viene additata nella presenza del Vaticano come contropotere, come un altro potere che ha un’altra legge, e anzi una legge superiore e suprema, che s’impone – o tenta d’imporsi – alla legge dello stato. Il Concordato del 1929, poi la sua revisione nell’84 ha tentato di comporre questo divario, ponendo il principio che ciascuno dei due poteri è “indipendente e sovrano nel proprio ordine”; ma la composizione riesce difficile perché la chiesa ha una tradizione millenaria di affermata superiorità e tutela e controllo dello stato; che poi – col processo di secolarizzazione e col formarsi dello stato laico – ha perso, ma sempre rimpiangendola, e sempre riaffermando il suo originario dominio della norma etica, che fonda la norma giuridica, cioè la legge dello stato.

I casi più recenti sono anzitutto il caso Englaro, la donna che da sedici anni è ridotta ad una vita soltanto vegetativa, ma che non riesce a morire. Qui la Cassazione (e la Corte d’Appello di Milano) ha deciso che sì, si può sospendere la nutrizione e idratazione artificiale; ha poi respinto il ricorso di un gruppo di parlamentari che eccepivano sul conflitto di attribuzione; e il ricorso della Procura Generale milanese; ma la decisione non diventa esecutiva, non procede, perché l’opposizione del Vaticano, il suo verdetto di eutanasia, di omicidio per quanto pietoso, provoca l’obiezione di coscienza, provoca il timore, l’immobilità.

In altri due casi si ha l’impotenza “alla” legge, cioè la legge non si può fare, non si riesce a farla, perché il Vaticano si oppone. E sono il PACS, il patto sociale, che urge perché deve regolare le unioni di fatto e le unioni omosessuali, deve corrispondere al diritto di questi cittadini. Ma il Vaticano si oppone, dice che danneggerebbe la famiglia; il che è falso perché invece stabilizzerebbe quelle unioni in modo analogo alla famiglia. E però il Vaticano pensa che solo la coppia unita in regolare matrimonio sia lecita; ed è giunto persino alla minaccia per i parlamentari che votassero quella legge, minaccia di sospenderli dai sacramenti.

L’altro caso è il “testamento biologico”, con cui la persona stabilirebbe la propria volontà che la natura faccia il suo corso e la morte intervenga quando la vita è divenuta ormai un fatto artificiale e meccanico. Ma il Vaticano vi vede l’eutanasia, l’omicidio pietoso.

 

E però il dissesto italiano è molteplice, lo sappiamo. V’è un dissesto amministrativo, di una pubblica amministrazione borbonica, parassitaria, complicata, inconcludente; che ora il Ministro Brunetta vorrebbe risanare; cui va il nostro augurio. Un dissesto finanziario, di un debito pubblico che supera il PIL,  cioè quanto annualmente si produce; ed è oggi al 105 del PIL, cioè piuttosto in salita che in discesa; con interessi di settanta miliardi di euro l’anno; di cui il Ministro Tremonti non sembra preoccuparsi. Un dissesto dei servizi pubblici, di cui il caso Alitalia è il più triste esempio; le ferrovie, in ritardo di oltre vent’anni su altre nazioni, come la Francia. Un dissesto culturale, se è vero che le nostre scuole e università stanno verso il 40° posto nella graduatoria mondiale (tranne la scuola primaria, che ora il duo Tremonti-Gelmini si accinge a macellare). Un dissesto morale, se è vero che abbiamo quattro mafie, e che la nostra classe politica continua ad essere corrotta.

In compenso abbiamo molte leggi, che si dice devono essere sfoltite perché sono troppe. Molte, e persino troppe, ma impotenti. Speriamo bene, di non andare in rovina.

                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 20/01/09)

 

 

La polemica sulla formazione del cittadino

di Arrigo Colombo

 

        Accadono cose strane. Un prelato vaticano, tale Angelo Amato, prefetto della Congregazione della cause dei santi – ma, si dice, molto vicino a Ratzinger e presto cardinale – scatena una forte polemica contro la decisione del governo Zapatero d’introdurre nella scuola una nuova materia, “l’educazione alla cittadinanza”; accusandolo di cadere nella “biopolitica” (e qui il riferimento va a Foucault), cioè in quella politica che condiziona in molti modi la vita del cittadino manipolandola in ordine ad una più o meno completa soggezione al potere statale, e al potere del capitale che sta dietro lo stato. Perché tale educazione concorre a modulare la coscienza etica e civica della persona; entra cioè in quel dominio dell’etica che la chiesa considera suo dominio esclusivo, nel quale lei sola è maestra. Difatti il suddetto Amato sostiene che soltanto la chiesa è in grado di tutelare la libertà e dignità della persona. Il che è falso.

Si sa, d’altronde, che dietro questa polemica c’è il dente amaro del Vaticano e della chiesa spagnola per la politica laica di quel governo; per altre decisioni come il matrimonio omosessuale (bestia nera del Vaticano), e l’opzionalità della materia religiosa nelle scuole.

 

In realtà l’introduzione di questa “educazione alla cittadinanza” è una decisione di grande saggezza; diremmo anzi di urgente necessità non solo per la Spagna ma per tutte le democrazie. Alla cui base c’è la sovranità popolare, il potere del cittadino che fonda ogni potere politico. Ma c’è anche un cittadino ignorante; a cominciare dai giovani, che di questo suo diritto e potere non è nemmeno consapevole; non conosce la Costituzione; non conosce le strutture dello stato; non conosce la dinamica storica che genera prima il modello democratico, poi il modello socialista – in senso autentico cioè di giustizia sociale, poi il modello cosmopolitico o di associazione e cooperazione delle nazioni. Questo processo grandioso, e ciò che l’umanità in esso va costruendo, pur tra tante difficoltà e contrasti. Dove va maturando una società di giustizia e di solidarietà.

C’è un cittadino distratto; a cominciare dai giovani; distratto dal consumismo, dalla suasione mediatica; e, certo, e soprattutto crescendo, dalle cure della vita, della coppia, della famiglia; dall’incertezza del lavoro e del salario. Che considera lo stato come qualcosa di estraneo o anche di ostile, maneggiato da altri indipendentemente da lui o anche contro di lui; da un corpo di professionisti della politica scaltri e spesso disonesti, che un libro recente chiama la “casta”. Mentre, al contrario, al cittadino è offerta la possibilità di agire in prima persona associandosi, le libere associazioni, i partiti; e oggi la rete, quella discussione e pressione continua che avviene in Internet.

Certo lo stato democratico, la democrazia odierna è ancora piuttosto rozza, nonostante abbia tre secoli di vita; anche se tre secoli sono poco rispetto ai millenni in cui ha dominato il dispotismo, le monarchie e gl’imperi. Che col loro assolutismo arrivano fino alla metà dell’800 e oltre. In realtà in questi tre secoli la democrazia si andava impostando e lentamente imponendo; e ha subito anche dei gravi arresti con le dittature del ‘900, il fascismo, lo stalinismo, i militari sudamericani.

L’esercizio istituzionale della sovranità popolare si riduce al voto ogni quattro-cinque anni; magari con liste chiuse dove non v’è possibilità di scelta; non esistono elezioni primarie generalizzate in cui si scelga la rosa dei candidati, i quali sono scelti e imposti dai partiti. Quella che viene detta partitocrazia. E non esiste mandato imperativo con cui il collegio elettorale imponga all’eletto un programma di cui lo renda responsabile.

 

Questa “educazione alla cittadinanza” è forse la materia più importante della formazione scolastica; perché scopo della scuola è anzitutto la formazione culturale e morale della persona e del cittadino; della persona che è cittadino. Difficile capire perché sia stata tanto trascurata; ridotta a poche nozioni di altre materie, un fatto accessorio, insignificante. La decisione del governo spagnolo costituisce un richiamo per tutti noi, per tutte le democrazie. Questa “educazione alla cittadinanza” dev’essere introdotta anche da noi  come materia fondamentale lungo tutta la formazione scolastica; qui la riforma è necessaria ed urgente. Le associazioni degl’insegnanti, i sindacati della scuola, gli uffici scolastici dei partiti e tutti i cittadini sensibili devono farsene portatori.

                                                                    (Nuovo Quotidiano di Puglia, 12/01/09)