ARCHIVIO ARTICOLI 2008 

 

Indice

La discussione sulla postdemocrazia, 29/12/08

La Dichiarazione universale dei diritti umani, 22/12/08           

Islam: terrorismo e fede                      

Il crocifisso nelle scuole, in Spagna, 1/12/08

Un nuovo indulto non ha senso                    

Poter morire, 18 /11/08             

Gravosi compiti attendono il nuovo presidente Obama, 10/11/08       

La rivolta della scuola, 3/11/08       

L’Italia finisce tra i paesi arretrati, 28/10/08                      

Il problema dell’integrazione dei figli degl’immigrati, 20/10/06

La riforma della pubblica amministrazione, 13/10/08

Ancora sul degrado dell’università italiana, 6/10/08    

Che cosa fare oggi per la scuola, 29/09/08

Il tandem Tremonti-Gelmini e la macellazione della scuola, 22/09/08        

Discorrendo sul degrado dell’università italiana, 28/07/08       

Una disputa assordante per una donna morente, 21/07/08        

Ingrid Bétancourt e il dramma dell’America Latina            

Problemi del contratto di lavoro, 30/06/08             

La discussione sulla prostituzione “clandestina”, 23/06/08        

Riflettendo sulle intemperanze di Ahmadinejad, 9/06/08                

Il problema della sicurezza, 26/05/08          

Il pericolo cinese, 19/05/08            

Dove va il Norditalia?    

Le contraddizioni di una visita papale, 21/04/08       

Migliorare il modello democratico   

Il pericolo russo, il pericolo Putin, 18/02/08  

La polemica con la comunità ebraica e il problema della conversione, 11/02/08  

Sui mali dell’Italia, sui nostri mali, 4/02/07         

Prodi, la sconfitta di un politico esperto ed onesto, 28/01/08   

Il papa all’università di Roma: le ragioni di un rifiuto   

La pretesa moratoria sull’aborto, 14/01/08   

Bambini che scompaiono, 7/01/08    

 

 

 

La discussione sulla postdemocrazia

di Arrigo Colombo

 

         La discussione sulla postdemocrazia di è sviluppata in questi ultimi mesi, dopo l’uscita in Francia – il 30 ottobre – del libro di Emmanuel Todd, sociologo, che s’intitola appunto “Dopo la democrazia”; il quale era stato preceduto da altri saggi o pamphlet  consimili; come quello di Colin Crouch, “La postdemocrazia”, pubblicato da noi da Laterza.

Questi saggi sul ”post” sono sempre sospetti, per la loro tendenza anticipatrice che spesso manca di prospettiva storica, e s’accompagna ad una tendenza pubblicitaria, a fare colpo (così il “Postglobal” di Deaglio che esce nel 2004, in piena discussione sulla globalizzazione).

La tesi dei postdemocratici è che la democrazia si sia trasformata in una specie di oligarchia dominata dal potere economico, il quale è riuscito anzitutto ad imporre la sua ideologia liberista, di libertà incondizionata; l’ideologia che il sistema economico funziona al meglio quando in totale libertà si autogestisce e si autoregola. Dove di fronte all’ovvia obiezione di anarchia, Smith, il grande patriarca dell’economia classica, aveva invocato la “mano invisibile”, cadendo così dall’ideologia nella mitologia. Ciononostante, la grande favola del liberismo, libera iniziativa economica, libero mercato, s’è imposta, sotto la spinta del potere economico, che possiede o finanzia università, ricerca, stampa e media in genere; soprattutto negli USA, la più grande potenza economica; e di conseguenza nell’ONU e nelle sue agenzie economiche, e quindi a livello planetario. Soprattutto dopo il crollo dell’URSS, e  del modello socialista. Nonostante i dissesti che queste agenzie hanno prodotto, denunziati da Stieglitz e da altri economisti più saggi; e nonostante le crisi, l’ultima delle quali è in atto.

Il potere economico, dunque, che è riuscito ad imporre la sua ideologia, domina il potere politico, la classe politica che lo gestisce: coi media che sono in suo possesso; coi finanziamenti ai partiti (si calcola che negli USA l’elezione alla Camera costi un milione di dollari, al Senato 10 milioni, alla Presidenza 100 milioni); con la corruzione (che da noi porta all’eclisse della classe politica del dopoguerra, con cinquant’anni di supremazia; e di nuovo  infuria in questi giorni).

Con la sua ideologia impone le opere pubbliche, l’astuzia keynesiana, di cui fruisce attraverso gli appalti, spesso truccati. Impone la privatizzazione dei pubblici servizi, con la quale lo stato perde il suo patrimonio, e quindi ulteriormente s’indebolisce; mentre per altro verso i pubblici servizi, per loro natura, non sono profittuali, e quindi inadatti alla gestione privata, che diventa dannosa alla comunità. Ottiene decisioni e leggi a lui vantaggiose ma nocive al bene comune, come l’abolizione della scala mobile che falcidia i salari (in Italia del 30% inferiori ai maggiori stati europei); le forme di lavoro “flessibile” e anomalo, che rendono precaria l’esistenza dei lavoratori e delle loro  famiglie.

In Italia un esponente del potere economico assume anche il potere politico e crea una condizione anomala, caratterizzata dal machiavellismo e dall’amoralità propria di quel potere;  che si traduce in leggi elettorali che non lasciano al popolo alcuna possibilità di scelta; strumentalizza il parlamento per leggi a suo favore, e tende a strumentalizzare la magistratura, quindi i due supremi poteri della polis, il legislativo e il giudiziario. In Francia Sarkozy è fortemente legato a magnati dell’industria.

I partiti politici sono in parte succubi del potere economico (si pensi ai repubblicani USA; a Bush che non accetta i protocolli di Kyoto per non nuocere ai petrolieri), in parte influenzati e indeboliti (così l’ulivo privatizza le autostrade e Telecom, Prodi vende Alitalia, anziché impegnarsi a risanarla).

 

Il punto più critico, però, è l’estenuarsi della sovranità popolare. Che già era sempre esile, nella democrazia indiretta o parlamentare, dove si riduce al voto ogni quattro-cinque anni; per candidati proposti dai partiti, poi che non ci sono votazioni primarie; e ultimamente da noi senza possibilità di scelta. E per l’assenza del mandato imperativo, dove l’elettorato impone all’eletto un programma, su cui lo giudica.

Ma nella fase attuale interviene con forza la suasione mediatica, specie televisiva, di televisioni in mano al potere economico, che infiltra anche la televisione di stato; la quale dovrebbe avere una funzione critica, oltre che informativa, e soprattutto formativa del cittadino. Uno strumento della formazione permanente del cittadino comparabile alla scuola. Perciò l’idea di privatizzare la RAI è ignobile; la RAI dev’essere profondamente riformata per rispondere al suo compito.

La sovranità popolare s’indebolisce ulteriormente con la disaffezione politica, col disinteresse. Su cui, oltre alla suasione mediatica, influisce il consumismo, il materialismo consumistico, di un cittadino che pensa solo al suo mediocre benessere; non pensa ad esempio a fondamentali problemi della lotta politica che al suo benessere si collegano, come la ridistribuzione della ricchezza, e il principio di eguaglianza che la fonda.  E influisce in modo determinante una scuola che non forma per nulla il cittadino, non gli dà le fondamentali conoscenze di storia della democrazia, di struttura delle istituzioni, di coscienza dei diritti-doveri fondamentali; non lo apre ad una coscienza e ad un impegno politico. Certo, se il contrassegno della scuola italiana sono le tre i, cioè “impresa, internet, inglese”, siamo mille miglia lontani dall’obiettivo.

Con tutto ciò, parlare di “postdemocrazia” fa sensazione ma non ha molto senso. Siamo in una fase di transizione: è venuta meno la classe operaia, grande portatore storico del processo di liberazione per oltre un secolo; si è ridotta e si va estinguendo. Ed è venuto meno il progetto socialista di una società di radicale giustizia: la socializzazione, cioè l’autopossesso e l’autogestione dell’impresa da parte della comunità di lavoro; e il capitalismo infuria. Ma il cammino percorso dall’umanità negli ultimi tre secoli, nella costruzione di una società di giustizia, costituisce una garanzia. La storia non è mai rettilinea, procede sempre per fasi alterne. Gli autori della “postdemocrazia” difettano di prospettiva storica.

                                                                          Nuovo Quotidiano di Puglia, 29 dicembre 2008)

 

 

La Dichiarazione universale dei diritti umani

di Arrigo Colombo

 

         Fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948; perciò nei giorni scorsi ne ricorreva il 60° anniversario, che fu ricordato e celebrato in varia misura in tutto il mondo. Fu completata con altre dichiarazioni particolari: dei diritti della donna, del bambino, del disabile. Non ha valore strettamente giuridico, di legge, non è coattiva come la legge, che comporta una pena; ma ha un valore etico rafforzato da una universale volontà dei popoli; e si pone come base per la legge.

 

È in certo modo il coronamento del moderno processo di costruzione di una società di giustizia; o forse meglio una tappa importante del processo e della sua universalizzazione.

Il processo infatti avanza per dichiarazioni di diritti, che acquisisce via via liberandosi da quello che può dirsi il “blocco della società ingiusta”, blocco millenario che ha oppresso l’umanità; i cui caratteri possono individuarsi nel dispotismo (cioè nel potere incondizionato di un solo che non riconosce alcun diritto agli altri), nell’asservimento dei popoli e formazione degl’imperi (quelli che Agostino chiama “grandi brigantaggi”), quindi nella guerra perenne, il macello umano, forse il più grande e mostruoso crimine, l’omicidio collettivo organizzato e scientificamente sviluppato. Più oltre la schiavitù, l’asservimento della donna, lo sfruttamento, povertà, oppressione del popolo; la cui condizione, in tutta la storia umana fino a tempi recenti, si caratterizza nel duro lavoro (contadino, in genere), scarsità, ignoranza, impotenza di fronte alla malattia e alla malasorte, malessere.

Il processo di liberazione ha il suo prologo nella Guerra contadina tedesca del 1524-25, e nei progetti di costituzione che vi si elaborano; che però vengono annientati dagli eserciti dei principi. In realtà il processo inizia in Inghilterra, con la Rivoluzione del Lungo Parlamento, e qui si hanno le prime dichiarazioni di diritti, un gruppo di documenti, in particolare il Patto del popolo del 1647, Le fondamentali leggi e libertà d’Inghilterra del 1653, il Bill of rights del 1689. Qui s’introducono i primi fondamentali principi, di libertà (l’autonomia del cittadino che è soggetto solo alla legge; le libertà di coscienza, di parola, di scrittura e pubblicazione, di associazione), di eguaglianza, di sovranità popolare; il principio della legge (contro l’arbitrio del monarca), del Parlamento eletto come autore della legge, del giusto giudizio.

Le rivoluzioni moderne sono il grande motore del processo. Si sa che permane una diffusa preclusione nei riguardi delle rivoluzioni; legata anzitutto alla condanna che ne fece la Chiesa come rottura dell’ordine legittimo; Chiesa che era legata all’aristocrazia e al potere monarchico. Mentre in realtà la rivoluzione, fenomeno tipico della modernità, mai presentatosi prima nella storia, è un movimento popolare eversivo di una società ingiusta (quindi di un potere illegittimo) per costruirne una di più avanzata giustizia.

La prima esplicita dichiarazione dei diritti, e anche la più famosa, è quella della Rivoluzione francese, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, varata nel 1789, ripresa nel 1793; e ripresa anche dalle ulteriori costituzioni francesi del 1848 e del 1946. L’ultima è la Dichiarazione dei diritti dell’Unione Europea del 2000.

 

Ogni diritto è anche un dovere; il diritto di un cittadino è un dovere per tutti gli altri, che ad esso devono corrispondere, lo devono rispettare. Perciò errano coloro che pensano che in queste dichiarazioni si esprima soltanto l’arrogante soggetto moderno, l’individuo moderno che si attribuisce solo diritti e ignora i doveri. L’accento posto sul diritto deriva dal fatto che queste dichiarazioni si affermano in una società che non riconosceva diritti al popolo, al “povero uomo comune” – come si diceva nella Germania del ‘500 –, quindi alla persona umana come tale, qualunque fosse la sua condizione; alla persona nella sua costitutiva “dignità”, la parola che l’Umanesimo per la prima volta introduce, e che ha una matrice biblica, peraltro disattesa, nell’uomo creato “ad immagine di Dio”.

In queste dichiarazioni, in queste Carte dei popoli, l’umanità costruisce i principi della sua liberazione, della sua dignità e diritto di persona; e costruisce anche il suo quadro etico, dei vincoli alla coscienza, quei vincoli che le sono necessari per sviluppare la sua personalità, come per sviluppare una società eticamente ordinata,  una società di giustizia, di benessere, di pace.  

                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 dicembre 2008)

 

 

Islam: terrorismo e fede

di Arrigo Colombo

 

 L’attacco terroristico a Mumbai ha sorpreso tutti per la sua ampiezza e la sua durata: a parte il numero dei morti e dei feriti (195 e 295, cifra provvisoria), e quindi il massacro che gli è tipico. Si è trattato di un vero commando che ha infuriato in una zona della città – dalla stazione ai grandi alberghi al centro ebraico – e si è protratto per tre giorni. Anche se non è ancora paragonabile col grande attacco aereo alle torri gemelle e al Pentagono (e probabilmente anche alla Casa Bianca o al Campidoglio, il quarto aereo caduto in Pennsylvania per la reazione dei passeggeri), con la preparazione specifica e l’organizzazione che ha richiesto. E però si sa che il flagello di questo terrorismo può colpire ovunque e nessuno può dirsene immune.

Si discute ancor sempre sulle radici di questo fenomeno: così in questo caso si è parlato di una punizione all’India per  il suo sostegno al regime democratico afgano. Si parla ancor sempre del risentimento islamico contro il colonialismo occidentale che lo ha profondamente umiliato. Ma la vera radice è religiosa, e Osama Bin Laden l’ha dichiarata fin dall’inizio. Egli, cioè, ha ripreso il progetto originario del profeta, progetto planetario, la conquista dell’intero pianeta ad Allah, l’acquisizione di tutti i popoli a quella ch’egli riteneva l’unica vera fede. Una conquista forzata, violenta, armata. “Combattete fino a che la religione sia ovunque quella di Allah. Una religione diversa dall’Islam non è accetta ad Allah”. Perciò, alla sua morte, il profeta aveva già sottomesso gran parte della  penisola arabica. E dopo di lui parte il califfato con la conquista in grande stile: a parte Abu Bakr che gli succede solo per due anni, Oman in dieci anni conquista Egitto, Palestina, Siria e Mesopotamia; e Otman in dodici l’intero Nordafrica e la Persia. E la conquista (ma anche l’espansione) continua per oltre un millennio, fino all’Impero ottomano e alla sua decadenza.

Questa conquista, avendo un obiettivo che – possiamo dire – è assoluto, divino, si pone come incondizionata; è un fine che giustifica ogni mezzo. Perciò il suicidio attentatore come sacrificio di sé e martirio (in un senso molto diverso da quello cristiano, dove la vita è sacra e può essere tolta solo da altri, dai persecutori); martirio di cui sono facile vittima adolescenti poveri e ignoranti, addottrinati nelle scuole islamiche; cui più difficilmente cedono gli adulti. Perciò il massacro, a differenza del terrorismo occidentale che per lo più attacca solo persone singole ritenute colpevoli in senso reale o simbolico, come rappresentanti della classe dominante e oppressiva; così le Brigate rosse e la RAF, o le bande rivoluzionarie dell’America Latina (v’è stato però in Italia un terrorismo stragista, di marca fascistoide, nella cosiddetta “strategia della tensione” tra il ’69 e l’84). Terrorismo occidentale che non ha mai il consenso popolare; mentre quello islamico ha insieme il consenso popolare e quello dell’élite religiosa, del clero.

Ha inoltre alla base una religiosità compatta, solida. Forse non profonda ma tenuta ben salda da alcune ritualità come la preghiera cinque volte al giorno, il digiuno del Ramadàn, l’elemosina legale. Non inquinata dal lassismo (così nella stessa chiesa cattolica la scomparsa del digiuno, l’inosservanza della preghiera e del riposo domenicale), dall’indifferenza, dallo scetticismo, dall’ateismo come nell’Occidente cristiano; o, almeno, questo inquinamento era in corso, ma è stato bloccato dal revival islamico, dal diffondersi del fondamentalismo. Muhammad Atta, il leader dell’attacco alle torri gemelle, la sera prima della grande impresa che per lui comporta anche il sacrificio di sé (e però comporta anche la strage) medita e prega.

Certo, la grande impresa della conquista del mondo che Maometto sognò (è difficile al riguardo parlare di rivelazione) ed impose ai suoi fedeli è pura follia. Lo era in passato, dove fu bloccata a Poitiers come a Vienna e Budapest; come da altri grandi stati, l’India, la Cina. Lo è tanto più adesso. Ed è follia soprattutto perché profondamente immorale e inumana, retaggio di un passato arcaico dominato dal dispotismo, dalle conquiste, dagl’imperi “grandi brigantaggi” (la parola di Agostino); arcaica e fuori dal tempo in un’età in cui l’umanità ha maturato il principio di dignità e diritto della persona che il massacro annienta; di pari dignità e diritto dei popoli e delle loro culture e religioni, che nessuno può assoggettare; l’autonomia di ogni popolo, di ogni stato sovrano. Dove la conquista non ha senso, per nessun motivo, è un crimine collettivo dei più gravi; perciò l’ignominia di cui si è coperto Bush, e con lui la Destra americana, con le loro guerre preventive, la loro pretestuosa esportazione della democrazia.

In conclusione il terrorismo islamico è una follia; ma l’Islam, pur nell’arcaismo della sua etica, ha qualcosa d’importante da insegnare all’Occidente cristiano: la forza della sua fede, della sua religiosità concreta e vissuta.     

   

 

Il crocifisso nelle scuole, in Spagna

di Arrigo Colombo

 

        Ritorna il problema del crocifisso nelle scuole. In Spagna, a Valladolid, un giudice fa rimuovere il crocifisso da una scuola pubblica. Nel 2005 la richiesta di un genitore e di un’associazione per la difesa della scuola laica, che intervengono in nome della “libertà di religione e di culto”, e del carattere “laico e neutrale” dello stato; nel marzo scorso il Consiglio scolastico, in cui sono presenti i genitori, che decide il mantenimento; ma si ricorre  al tribunale, dove il giudice afferma che lo stato non deve apparire più vicino al cristianesimo che ad altre religioni, specie in un luogo di formazione come la scuola. Il governo per ora non si muove, ma  il partito socialista è favorevole alla rimozione in tutta la Spagna.

 

Due ragioni giocano in questo fatto. La prima è la società multietnica, o meglio la presenza minoritaria, o anche solo marginale di altre etnie e religioni; l’Islam in particolare. Di fronte alle quali si scatenano talora tendenze autolesionistiche, distruttive della propria identità e cultura; come ad Oxford, dove per questo motivo il comune sopprime il Natale e lo sostituisce con la Festa della luce invernale. Decisione becera, che ignora il significato di una società, della sua identità e cultura, delle sue tradizioni, le quali oltretutto sono una ricchezza per l’umanità intera. Che la cultura ospitata deve rispettare, così come deve rispettare la costituzione e la legge dello stato di cui è ospite (e di cui in seguito si diventa cittadini), in certi punti magari opposti alla legge e al costume del paese di provenienza: si pensi alla poligamia, all’asservimento della donna, alla soggezione del figlio anche maggiorenne al padre, quando non anche al clan; nei paesi islamici e in altri.

Nel fatto religioso, poi, è in gioco una diversità che rientra in una più profonda unità; in quanto oggi la teologia cattolica più avanzata (si pensi agli studi di Jacques Dupuis) ritiene che tutte le religioni, e in particolare le religioni profetiche, siano rivelazioni dello stesso Dio, ovviamente diverse nei diversi tessuti culturali (dove magari si riconosce un Divino panico anziché un Dio personale, come nell’induismo), ma con la stessa funzione di soccorso alla pochezza e miseria umana, di elevazione e di salvezza.

Allo stesso modo un profeta porta un annunzio che parla all’umanità intera: così lo spirito di non-violenza e di compassione del Buddha; così il senso austero della grandezza di Dio in Maometto. Così il Cristo, che il Corano riconosce come profeta: “O Gesù – dice Allah  a 3, 55 – io ti farò morire e poi t’innalzerò fino a me”; nel che si può ravvisare il crocifisso. Perciò il cristiano deve rispettare l’islamico e la sua fede, come l’islamico deve rispettare il cristiano; in particolare quando ne è ospite.

 

L’altra ragione è lo stato laico, cioè autonomo da ogni potere religioso in quanto ha in sé il fondamento del suo potere che è la sovranità popolare; e autonomo da ogni etica religiosa in quanto ha costruito da sé la sua etica attraverso le Carte dei popoli e le Costituzioni moderne; e autonomo da ogni ideologia religiosa, che non lo concerne in quanto la sua funzione è la tutela e la promozione dei suoi cittadini, che si stabilisce nella legge.

E però sta calato in un popolo, nella sua storia e nella sua cultura, nella sua identità, nella sua vita; che è pure religiosa, o lo è anche particolarmente o sommamente; in cui opera. E deve tutelare e promuovere la cultura e la vita di questo popolo. Perciò riconosce la sua fede e ciò che questa fede e vita comporta.  Così l’intero articolarsi del tempo attraverso quelle fasi e quelle celebrazioni, avvento e quaresima, grandi feste, in cui il mistero cristiano si svolge nel mistero del Cristo. Così la domenica che è giorno di Dio, ed è anche giorno di riposo e ristoro, e vita insieme nell’amore fraterno e familiare.

Qui sta anche il crocifisso, nella scuola e nel tribunale e nei luoghi pubblici, come luoghi di un popolo che è cristiano, e che deve vivervi ed operarvi secondo quella fede e quei principi, di giustizia, di amore fraterno, di capacità di sacrificio. Principi che sono anche universalmente umani, che anche l’ateo non può disconoscere; né può egli disconoscere la funzione e il valore del profetismo nella storia umana; non può rinnegare la storia.

Certo, il crocifisso è una presenza forte. Di colui che va incontro al sacrificio di sé, e a un sacrificio durissimo, e dà la sua vita per amore dei fratelli; che fa del dolore anche più straziante un mezzo di redenzione. Nelle scuole è esso solo già un insegnamento sublime; se soltanto lo si comprende, se non ci si contenta di guardarlo distrattamente. Lo è nei tribunali, dove si deve amministrare quella giustizia che il Cristo ha annunziato e vissuto in sé in modo supremo; lo è dovunque. E anche gli atei lo gradirebbero se non vi vedessero di scorcio la pretesa di potere della gerarchia ecclesiastica e gli enormi errori e crimini commessi lungo la sua dolorosa storia; errori e crimini ch’essa difficilmente riconosce.   

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 1 dicembre 2008)

 

 

Un nuovo indulto non ha senso

di Arrigo Colombo

 

         Ecco che il ministro Alfano, ministro di giustizia che promuove leggi ingiuste, come il famoso “lodo” che ha salvato Berlusconi da un processo, se ne viene ora con una nuova proposta d’indulto; dopo appena due anni dalla precedente del governo Prodi, ampiamente criticata, contrastata dalla gente. E lo estende fino ai quattro anni di pena. E riprende anche la “messa in prova”, già proposta dallo straordinario cervello di Mastella, poi accantonata; che al carcere sostituisce un lavoro socialmente utile, al termine del quale si cancella non solo la pena ma anche il reato. E dice apertamente che il motivo è di alleggerire le carceri, che sarebbero troppo piene. Motivo insensato.

Almeno al tempo di Prodi si parlò dell’ “atto di clemenza” chiesto dal papa in occasione del giubileo, che era stato fin’allora rinviato; in occasione di un grande evento di remissione dei debiti come delle colpe, un evento che ha percorso i millenni della storia. L’istituto della pena non può essere vanificato da frequenti ricorsi, da motivi estranei, da massicce concessioni. Provvedimenti di questo tipo sono sempre stati rari e motivati da eventi eccezionali; il giubileo poteva essere uno di questi, eppure è stato fortemente contrastato. E non senza ragione.

 

Ciò che viene messo in dubbio in Italia, e che i cittadini reclamano con forza, è la certezza della pena. La quale viene troppo spesso elusa da certe sentenze (l’ultima è quella per i fatti di Genova, vengono condannati i manovali e assolti i capi, che intanto hanno fatto carriera); da certi provvedimenti di remissione che sembrano annullare la misura di giustizia della sentenza, e come tali sono sentiti dalla gente, specie da coloro che per il crimine hanno sofferto, dai parenti dell’ucciso; e che talora portano  al reiterarsi del crimine stesso, magari grave (tipico il caso Izzo, nel 2005, un massacratore psicopatico che scontava l’ergastolo in semilibertà – davvero una saggia decisione – e che ne ha approfittato per strangolare due donne).

Probabilmente alcune leggi devono essere riconsiderate: così la legge Gozzini; così il rito abbreviato che sottrae al giudizio e diminuisce la pena; da considerarsi ingiusto e discriminatorio rispetto a chi segue il rito normale. Qual’è infatti la motivazione? il risparmio di tempo? e cos’ha a che fare con la giustizia? Ma probabilmente è in gioco una coscienza e un costume corrivi, e insieme un impianto penale insufficiente, scarsità di personale e di mezzi. Per giungere ad una corretta valutazione della condizione morale del carcerato; capire che cosa realmente significa la “buona condotta” che spesso è causa di provvedimenti remissivi; o il “pentimento”, la volontà di cambiare vita.

 

Un indulto o un’amnistia non possono essere concessi di punto in bianco; come fece il governo Prodi. E non con un criterio temporale, i due, tre, quattro anni; o almeno non solo con questo. Devono essere selezionati con rigore i tipi di reato per i quali l’indulto è opportuno. E devono essere selezionati i carcerati cui applicare l’indulto, in rapporto all’effetto medicinale della pena, ad una maturazione di coscienza, di moralità.

Inoltre i prescelti devono essere preparati all’uscita. Perché talvolta non hanno un lavoro, non hanno neppure una casa; la situazione di ognuno dev’essere studiata, devono essere presi i provvedimenti opportuni per la loro reimmissione nella società; affidati a centri di rieducazione, di sostegno, ad associazioni che li seguano, li aiutino.

 

La ragione addotta dal ministro, per quanto banale e insensata, è sottesa da problemi più gravi e più annosi, anche se il ministro li ignora. Il primo è la condizione carceraria, l’attenzione al personale detentivo, la disattenzione al personale formativo; l’assenza di lavoro, quindi l’ozio e le sue conseguenze. Mentre il lavoro dovrebb’essere normale nelle carceri come lo è in libertà, come lo è sempre nella vita. La condizione d’ozio dei carcerati contrasta radicalmente con l’intento rieducativo della pena. Un secondo punto è la lentezza dei processi, che appartiene alle disfunzioni ataviche della società italiana; insieme a molte altre, l’amministrazione borbonica, i servizi inefficienti, il clientelismo, le mafie, gli sperperi. Insomma la “povera Italia”.

Resta da dire che la proposta del ministro Alfano è avversata da personaggi importanti della Lega, a cominciare da Maroni, ministro dell’Interno; e con buone ragioni.

 

 

Poter morire

di Arrigo Colombo       

 

        Finalmente la Cassazione ha dato il sospirato responso: Eluana Englaro può morire. Dopo 16 anni, dal gennaio 1992, quando un incidente di macchina le provocò un trauma al cervello cui seguì una necrosi irreversibile; ridotta allo stato vegetativo, mantenuta in vita con  alimentazione artificiale. Dopo una battaglia giudiziaria che nel luglio di quest’anno aveva raggiunto l’autorizzazione della Corte d’Appello di Milano, poi bloccata dalla Procura, finalmente la Cassazione respinge questo blocco, e la poverina può morire. La buona morte, la morte liberatrice.

E subito insorge la polemica, il Vaticano grida all’omicidio. Col Card. Barragan, presidente del Pontificio consiglio per la salute; con Bagnasco, presidente della CEI; con Fisichella, presidente della Pontificia accademia per la vita; con alti esponenti del potere ecclesiastico.

Ma le ragioni non sono chiare, perché di ragioni si tratta. Non è che vi sia un dettato divino, una rivelazione, una parola evangelica. È un problema di etica. Il Vaticano pretende di avere l’esclusiva dell’etica, di sapere lui solo qual’è l’azione giusta e virtuosa; mentre l’umanità, emancipatasi dalla chiesa, sarebbe caduta nel relativismo, nel lassismo, nell’arbitrio, nel tutto è permesso. È il discorso di papa Ratzinger, discorso frequente, intima persuasione. Che però è errato perché l’umanità, e proprio in quella modernità che la chiesa tanto detesta, che Pio IX ha condannato nel suo famoso Sillabo, una esemplare raccolta di tutti quei pretesi errori (tra i quali c’era la sovranità popolare, la democrazia); l’umanità è andata sviluppando un’etica molto salda e forte che è contenuta nelle Carte dei popoli (spesso chiamate Dichiarazioni dei diritti; che però sono sempre diritti-doveri), le quali si sono succedute lungo tutta  la modernità. Mentre la chiesa non aveva mai riconosciuto, fino a tempi recenti (al Concilio Vaticano II) fondamentali principi etici, come la libertà di coscienza (si veda la mostruosa persecuzione dei cosiddetti “eretici”, bruciati a decine di migliaia sul rogo); o come la sovranità popolare. Fino a tempi recentissimi (cioè a fine secolo) non riconosceva l’illiceità della pena di morte, e cioè che lo stato non ha il diritto di uccidere il cittadino; e predicava la “guerra giusta”, mentre la guerra è un fatto talmente atroce che non può mai essere giusto; sì che i conflitti tra popoli – come dice il trattato dell’ONU –  devono sempre esser risolti con la trattativa, mai con la guerra.

Difficile accettare la chiesa cattolica come un buon maestro di etica, per il fatto stesso che è un centro di potere, una struttura imperiale, ed è quindi sensibile alle ragioni (o pseudoragioni) del potere, alla “ragion di stato”; si veda il recente comportamento nel problema dei preti pedofili. In materia di etica, piuttosto che come maestra, è bene che la chiesa entri nella discussione come discepola, poiché i grandi principi li ha appresi dalla modernità laica. O, supposta questa acquisizione, che vi entri come partner della discussione, su di un piano di parità, e riconoscendo l’autorità degli esperti nei vari campi, la medicina ad esempio.

E quali sono le ragioni che adducono? Parlano di vita che non si deve mai sopprimere; ma qui si tratta piuttosto di vita umana, di persona umana, di eclissi o meno della persona quando è avvenuta la morte cerebrale ed è rimasto solo un residuo vegetativo, Parlano di accanimento terapeutico che in questo caso non ci sarebbe, perché non ci sono farmaci ma solo alimentazione forzata; che poi è un sofisma perché, si tratti di farmaci e macchinari o di alimentazione, la forzatura c’è. Adducono ragioni che vanno discusse come tutte, e che in verità non hanno grande peso perché qui la persona già non c’è più e il suo corpo va verso la morte; e trattenerlo è abusivo, è farne un oggetto di cui si dispone a piacere, di cui non si ha diritto di disporre.

D’altra parte questo interevento del potere ecclesiastico su di un dettato della Cassazione, cioè del supremo potere giudiziario dello stato, costituisce interferenza del religioso nel politico e trasgressione del Concordato. Come quando l’episcopato interviene sull’attività del parlamento e minaccia i parlamentari cattolici se approveranno una certa legge. Un comportamento trasgressivo, quello di questi alti prelati, un comportamento vizioso e non tollerabile. In realtà la chiesa cattolica, che per secoli ha tenuto lo stato sotto la sua tutela, ha acquisito un habitus perverso da cui non riesce a liberarsi; rimpiange quella lunga età di supremo potere non solo religioso ma politico, e in certo modo la perpetua.

Lo stato, poi, è rappresentato da gruppi politici che ne gestiscono il potere; e che spesso assecondano l’ingerenza ecclesiastica per non inimicarsela, per averne il favore, specie nell’incidenza elettorale. Il Centrodestra, in particolare; che ha varato la legge per la procreazione assistita sulla falsariga del decreto vaticano. Così ora s’invoca la famosa legge sull’eutanasia, sul testamento biologico ecc.; ma finché c’è il Centrodestra al governo, sarebbe opportuno farla? Quanto al Centrosinistra, sappiamo che su certe leggi avversate dal Vaticano è rimasto bloccato e impotente: aveva una scarsa maggioranza su cui pesava l’avversione dei cattolici conformisti.   

                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 17 novembre 2008)

 

 

Gravosi compiti attendono il nuovo presidente Obama

di Arrigo Colombo

 

        Obama, l’eletto che tutti festeggiano, anzitutto perché è il primo meticcio che raggiunge la presidenza in una nazione per eccellenza meticcia, il famoso “melting pot”; il primo nero o mezzo-nero; ma si sa che il meticciato è il futuro dell’umanità, e si sa anche che favorisce l’intelligenza. Il primo di una razza ritenuta inferiore e che per secoli fu schiava, poi comunque disprezzata e discriminata. E oggi ancora. Perciò si è parlato di decisione epocale.

Obama ha proclamato ovunque il suo “change”, il cambiamento. E, certo, di cambiamenti ce ne sono molti da fare, e grossi, negli USA. A cominciare dalle guerre scatenate dal suo predecessore, il presidente più guerrafondaio che la storia americana ricordi, ch’era pronto a scatenare cinque guerre “preventive” (Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Somalia, gli “stati canaglia”); il presidente pio, il buon cristiano, e anzi il convertito; quando nel Vangelo non si può neppure restituire lo schiaffo, e si deve amare e beneficare il nemico.

Dunque Obama dovrà mettere fine a questa follia delle guerre, scatenate anche contro il patto dell’ONU che gli USA hanno fortemente voluto e sottoscritto (presidenti più saggi, certo; si pensi al Roosevelt della Carta Atlantica). E dovrà mettere fine alla corsa agli armamenti ripresa con ardore da Bush; armamenti di ogni genere, e anzitutto il famoso “scudo stellare”. E avrà contro di sé i potentissimi fabbricanti e spacciatori di armi, ovunque nel mondo, si veda l’Africa, si veda il Congo in questi giorni; e ci si chiede se sarà abbastanza forte da resistere loro.

E con le guerre e le armi dovrà mettere fine all’egemonia americana, alle basi militari sparse ovunque. E perché poi? perché questi gendarmi dell’umanità? Dovrà riconvertire gli USA da superpotenza militare a nazione pacifica, portatrice di pace; a nazione fraterna, che non vuole dominare ma essere accanto, in parità, in volontà di bene.

Il compito incomincia a farsi grande, gigantesco. Dovrà anche ristabilire il trattamento di giustizia dei prigionieri di guerra; trattamento umano; di una persona, che una volta deposte le armi dev’essere riconosciuta nella sua dignità e nel suo diritto, e secondo questa dignità dev’essere trattata; riconosciuta e trattata come fratello. Dovrà abbattere gli orrori di Guantanamo, e altri simili orrori. E dovrà finalmente aderire al tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità; al quale Bush non volle aderire; probabilmente perché prevedeva che questi crimini gli USA li avrebbero commessi.

Dovrà sottoscrivere il protocollo di Kyoto contro l’inquinamento ambientale; che Bush non volle sottoscrivere perché era petroliere e membro della corporazione dei petrolieri; cui premevano il consumo e i profitti del petrolio; e poco loro importava che con l’inquinamento atmosferico, l’effetto serra, il riscaldamento ambientale, lo scioglimento dei ghiacci l’umanità andasse verso esiti catastrofici, parziali ma consistenti, città e pianure sommerse dal mare (ormai inevitabili, secondo gli esperti). Dovrà preparare e sviluppare un consistente programma di riduzione degli scarichi, conversione delle fonti energetiche ecc. perché gli USA  inquinano il mondo per oltre il 30 per cento. Sono grandi inquinatori.

 

Queste sarebbero solo alcune cose urgentissime per il nuovo presidente. A parte la grave crisi economica in cui l’umanità si dibatte e che dagli USA è partita.

V’è poi il problema della democrazia americana, la quale si ritiene la migliore del mondo, ma non lo è affatto. A cominciare dalle primarie, che sono senz’altro una misura esemplare ma durano un anno, mentre potrebbero farsi in un giorno; e in quest’anno bloccano in certa misura, e via via in misura sempre maggiore, la vita politica. E sono certo una tradizione obsoleta, di quando le comunicazioni erano lente e difficili, si andava a cavallo o in diligenza; e spostarsi da uno stato all’altro, dall’uno all’altro oceano, era una difficile impresa per il circo dei candidati presidenziali; mentre ora le notizie si trasmettono nell’istante, e le persone volano a mille chilometri orari. Queste primarie sono pure un grande spettacolo, per quella superlativa “società dello spettacolo” che sono gli USA; ma lo spettacolo è bene che resti nei suoi luoghi, il cinema, il teatro; che non invada la politica, la sua serietà, il suo rigore. Perché poi tutto questo smodato, e anche gravoso e costoso tramestio finisce spesso in personaggi mediocri, quando non anche dannosi; ché tali sono sovente i presidenti americani, se paragonati ad esempio ai nostri. Se prendiamo la sequenza Regan, Bush padre, Clinton con lo scandalo Lewinski, Bush figlio.

Ma poi queste famose elezioni presidenziali non sono poi tanto democratiche perché la gente non elegge direttamente il presidente ma i “grandi elettori”. E si capisce perché: la democrazia americana era la prima democrazia moderna, mancava l’esperienza, e i padri costituenti, che poi erano buoni borghesi, non si fidavano del popolo. Oggi questi grandi elettori sono da eliminare. Così come affatto democratica è l’altra misura, che chi si prende la maggioranza in uno stato, si prende tutto; misura che non rispetta il principio di rappresentanza popolare e dev’essere soppressa. Basta coi grandi elettori! Si sa che il rispetto maggiore di quel principio si ha con la proporzionale; che talora viene corretta in quanto può provocare instabilità; come fece la Germania dopo l’esperienza di Weimar e l’ascesa di Hitler. Ma già l’uninominale tradisce il principio di rappresentanza.

Lo stesso regime presidenziale americano sminuisce la democrazia in quanto la incentra nel presidente a danno del parlamento che della democrazia è l’anima, è il potere supremo; di cui presidente e governo dovrebbero essere solo l’esecutivo, lo staff che ne realizza le decisioni. In Europa solo l’autoritario De Gaulle lo ha in certa misura imitato. Si spera che gli USA, anziché idolatrare la loro Costituzione, ne comprendano i vizi; e che il nuovo presidente riesca ad eliminarne alcuni.

                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 10 novembre 2008)

 

La rivolta della scuola

di Arrigo Colombo

 

          Siamo dunque di fronte ad una rivolta della scuola, non dei soli studenti; perché ci sono con loro gl’insegnanti, e spesso anche le famiglie. Non è la rivolta studentesca degli anni Sessanta, un fatto certo grandioso, che rientrava nella Grande Contestazione, l’ultima delle quattro rivoluzioni moderne, anche se atipica in quanto non strettamente popolare; una rivolta contro le istituzioni repressive, del figlio contro l’autoritarismo paterno, dello studente contro il docente che lo ignora e lo disprezza (nelle università specialmente), del giovane contro l’adulto. Questa volta è la scuola che si muove in quanto la scuola è colpita, macellata: da quei tagli da otto miliardi; da quei 200.000 precari allontanati, quei 110.000 insegnanti licenziati o spostati, quei 40.000 nondocenti. Un’operazione di pura follia, una rovina.

Inoltre una rivolta pacifica, che ha presentato solo qualche piccolo eccesso, comprensibile del resto; ma che vuole espressamente esser pacifica e si organizza come tale: sfilate cioè presenza nella città, discussioni, lezioni di maestri, musica, teatro. A parte l’intervento di picchiatori fascisti, com’è avvenuto a Piazza Navona, con un camion carico di bastoni e spranghe, e la polizia che lascia fare, non vede, non sente.

 

Pacifica dunque la rivolta, aggressivi i politici. A cominciare da quello straordinario campione d’insensatezza che è Cossiga, un personaggio ormai troppo noto, il quale suggerisce d’infiltrare gli studenti con poliziotti che facciano degenerare la rivolta, sì da accendere lo sdegno popolare, per poi intervenire con forza, massacrare i manifestanti, picchiare a sangue studenti e docenti, e anche le maestre ragazzine.  

Anche Maroni invoca la polizia, sia pure contro l’occupazione delle scuole, col motivo di occupazione di un edificio pubblico e interruzione di un pubblico ufficio. Motivo valido ma sempre pericoloso, perché la polizia sente i manifestanti come avversari, come trasgressori da punire;  la manifestazione non è vista da essa come l’esercizio di un diritto da parte del cittadino menomato, di un suo concittadino cui dovrebb’essere solidale; ma come un’aggressione anzitutto a se stessa. V’è qui uno spirito fortemente repressivo; ricordiamo Genova; la polizia dovrebb’essere rieducata in senso democratico ed etico.

Per Berlusconi e il solito Gasparri gli studenti sono ignoranti, disinformati, vittime delle menzogne della Sinistra e dei suoi giornali. Per Sacconi (che parla a Radio 24) gli studenti italiani non hanno fatto neanche il ’68; c’è stata solo qualche agitazione, scomposta e senza senso, negli anni Settanta.

 

Disinformati sono anche molti cittadini che intervengono nelle radio private; disinformati e scettici. Non conoscono i termini della questione; probabilmente perché non leggono i giornali, o leggono giornali di regime – i vari  Il Giornale, Il Foglio, Libero ecc. – . Si sa che l’Italia è arretrata, rispetto alle maggiori nazioni europee, nella lettura dei quotidiani; che la maggioranza si accontenta del telegiornale e delle sue notizie scarne, e spesso manipolate; mentre nel giornale la notizia è riportata con ampiezza, è valutata, è discussa.

Condannano il “disordine”; non capiscono che ci può essere un falso ordine che è disordine profondo; che dev’essere disordinato per ottenere un ordine vero, autentico. È il tema del “rovesciamento”, che percorre l’intera storia umana, di una società ingiusta che dev’essere rovesciata per ottenere un più alto grado di giustizia.

Tendono a disprezzare gli studenti rivoltosi come degl’immaturi, che non sono in grado di capire i problemi e di perseguirne la soluzione, e quindi si agitano inutilmente. Come dei velleitari, i quali perseguono obiettivi che non sono in grado di raggiungere; obiettivi immaginati, sognati, più che reali.

La rivolta della scuola oggi è sacrosanta e dev’essere perseguita con tenacia. Ricordiamoci che sono le rivoluzioni moderne che hanno avviato e sostenuto il processo di democratizzazione; hanno affermato i diritti del popolo e del povero in una società dispotica, imperialistica, schiavistica, discriminatrice; trasformandola profondamente. E che la rivolta popolare percorre l’intera storia umana come momento in cui si afferma una volontà di giustizia.

Questa rivolta è giusta e deve continuare; non sappiamo quanto potrà resistere, ma può continuare per anni, sia pure a fasi alterne; come avvenne nella Grande Contestazione degli anni Sessanta. La lotta per la giustizia in una società ingiusta non deve  mai cessare.

                                                                     (Nuovo Quotidiano di Puglia, 3 novembre 2008)

 

 

L’Italia finisce tra i paesi arretrati

di Arrigo Colombo

 

          Ecco dunque che il governo Berlusconi, trovandosi in ritardo sul protocollo di Kyoto e sugli obiettivi fissati dall’Unione per il post-Kyoto fino al 2020, anziché programmare un’azione energica per recuperare il distacco, rifiuta quegli obiettivi, s’isola da tutti i maggiori e minori stati dell’Europa Occidentale, e si ritrova coi poveracci ex-comunisti e le loro economie dissestate. I suoi alleati sono Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Cechia, Slovacchia, Romania, Bulgaria.

Già, perché qui è in gioco il riscaldamento globale dell’atmosfera provocato dall’inquinamento; quindi lo scioglimento dei ghiacci, delle calotte polari, e un innalzamento delle acque marine che provocherà catastrofi, allagamento di città costiere, di pianure; con disagi, sofferenze, perdite e costi incalcolabili. Ci sono molti struzzi, certo, che si nascondono la testa sotto l’ala per non vedere; che continuano tranquillamente ad inquinare come se nulla fosse. Tra questi certo la povera Italia (se solo pensiamo a Venezia, ad esempio), che invece di diminuire il suo inquinamento, lo ha aumentato in questi anni del 7 per cento; già coi governi precedenti. Per non parlare del solito criminale Bush – grande amico di Berlusconi – che essendo petroliere, e temendo d’incassare meno denaro lui e la sua casta, si è rifiutato di ratificare il protocollo antinquinamento di Kyoto, già firmato prima da Clinton; e questo con una nazione, gli USA, che sono responsabili di un terzo dell’inquinamento globale (il 36,6 per cento); e ancora oggi, dopo dieci anni, non l’ha ratificato; sì che alcune città e stati americani hanno fatto passi per aderirvi comunque. Tanto si può essere insensati.

 

Tutto parte dal protocollo di Kyoto, del dicembre ’97, che stabilisce una prima riduzione dell’inquinamento atmosferico del 5 per cento tra il 1990 e il 2012; e che però entra in vigore nel 2005 quando, come stabilito, si realizza l’adesione di 55 paesi col 55% delle emissioni di gas inquinanti; con la firma della Russia. A tuttoggi hanno firmato 174 paesi, per il 74% dell’inquinamento.

L’Unione Europea, però, pensa al dopo 2012, all’insufficienza di quell’obiettivo, alla necessità d’incrementarlo sì che la temperatura globale non si accresca di più di 2 gradi e si evitino le catastrofi incombenti. Pensa ad un’azione anche esemplare per l’intera umanità. E stabilisce per il 2020 una riduzione delle emissioni inquinanti del 20 per cento (con un parallelo aumento dell’efficienza energetica del 20%, di cui il 20% da fonti rinnovabili. I tre 20, si dice).  L’Italia ha rivelato finora una scarsa coscienza e uno scarso impegno in tutto quest’ambito; ma ora deve impegnarsi a fondo; non deve tentare ancora la scappatoia, o addirittura porre il veto (poi che si richiede la decisione unane), o farsi forte coi paesi dell’Est, provocare spaccature; il che romperebbe tutta una tradizione di europeismo, l’Italia essendo stata sempre un membro positivo e costruttivo dell’Unione. Che poi non servirebbe se non ad isolarla  ulteriormente, perché i paesi occidentali sono decisi a continuare in questo cammino virtuoso. Francia e Germania lo hanno dichiarato.

L’operazione ha certo un costo, che il governo tende ad innalzare a 18-25 miliardi di euro l’anno; per dimostrarne l’impossibilità; mentre l’Unione lo calcola in 9-12 e gli ambientalisti in 8. Un costo alto, in ogni caso. Ma qui i nodi vengono al pettine. Non si può continuare nel malgoverno, continuare nello spreco, con un’amministrazione statale indolente e pigra, con servizi scadenti e fortemente passivi (così le ferrovie, le poste ecc.; e il caso Alitalia è il più clamoroso), con doppi enti come regioni e province. In questo modo ci si emargina, non si riesce più a stare al passo, ci si trova fuori dell’Europa,. L’Italia ha bisogno di austerità; non il popolo, non il privato o le imprese; ma il pubblico, l’intera gestione politica e amministrativa. Lì viene sprecato il denaro, lì ci vogliono interventi seri, e anche personalità di grande coscienza, oltre che di spiccata competenza, di alto livello morale.

Il nostro inquinamento atmosferico risulta per il 61% dalla produzione di energia elettrica e riscaldamento; da centrali inquinanti come quelle a carbone (Cerano, ad esempio, che spande le sue polveri su tutto il basso Salento; regione e province dovrebbero esigerne l’urgente conversione al metano); per il 24% dai trasporti; il che fa l’85 per cento. Le industrie inquinano solo per il 6%. È fin troppo chiaro dove si deve intervenire: convertire le centrali elettriche, convertire tutto il trasporto pubblico cittadino, incrementare decisamente il trasporto delle merci su rotaia. Che i ministri interessati si mobilitino, e tutto il treno dei loro ministeri; o altrimenti che ci stanno a fare?

                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 ottobre 2008)

 

 

Il problema dell’integrazione dei figli degl’immigrati

di Arrigo Colombo

 

          Ha destato scalpore una mozione della Lega che impegna il Governo sulle  modalità d’accesso alla scuola di studenti immigrati di ogni ordine e grado, in rapporto alla conoscenza dell’italiano; la quale dev’essere accertata attraverso test e altre prove adeguate, con l’istituzione di «classi d’inserimento» per coloro che sono carenti. Lo impegna inoltre ad un’equa distribuzione degli studenti immigrati in ordine alla loro integrazione. Mozione che è stata approvata.

Lo scalpore deriva dal fatto che la nostra scuola, da circa trent’anni, ha seguito il criterio opposto per ogni tipo di «diversità» o di handicap. Ha abolito le «classi differenziali» come fattore primo di discriminazione; ritenendo che gli alunni dovessero anzitutto crescere insieme in quanto questo era il primo e fondamentale fattore d’integrazione e di crescita, il sentirsi tutti parte di un unico corpo, tutti essenzialmente eguali e solidali; un fattore esistenziale e psicologico previo ad ogni altro; non solo per il «diverso», ma anche per il «normale» o normodotato, che doveva percepirlo in questa fondamentale eguaglianza umana, e semmai come bisognoso di aiuto da parte sua. Per cui alla presenza seguiva anche l’apprendimento reciproco. Ovviamente lo handicap doveva poi essere trattato ulteriormente nella parte extracurricolare, magari anche con personale specializzato.

 

Il delicato problema è qui l’integrazione dell’immigrato; in particolare quello di seconda generazione, che magari è anche nato in Italia, e in Italia ha la famiglia, con cui vive. Questa integrazione è importante sia per l’immigrato che per l’italiano; e tanto più quanto più cresce il numero degl’immigrati e si formano comunità coese. E, a parte le condizioni giuridiche, ha bisogno del concorso di ambedue.

La situazione attuale non è favorevole proprio anzitutto da parte italiana.

Perché l’immigrato è visto per lo più come un estraneo; come un lavoratore che sottrae agl’italiani il posto di lavoro (il che non è vero perché occupano posti che gli italiani rifiutano, o che comunque sono scoperti, in particolare nell’industria del Nord); è visto come un potenziale delinquente. Subentra perciò il distacco, non solo, ma il disprezzo e la paura.

Questo atteggiamento è stato anche indotto dalla classe politica e legislatrice di ogni parte; dalla legislazione emanata a più riprese. Dalla Destra come dalla Sinistra, e dal  Centro loro alleato. Anche la Chiesa, che avrebbe potuto chiarire il problema ai suoi fedeli sul piano religioso ed etico, fedeli che sono poi la maggioranza degli italiani, non lo ha fatto.

I fondamentali principi che dovrebbero ispirare l’azione non sono stati mai enunziati.

Il «principio fraterno», che nella luce evangelica e cristiana, e anche in quella umana, è fondamentale. Se solo si pensa che è uno dei principi della Rivoluzione francese. L’immigrato è nostro fratello; ed è un fratello bisognoso, che abbisogna del nostro aiuto; uno di quei fratelli che l’evangelo predilige, proprio perché bisognosi; una di quelle azioni su cui, secondo l’evangelo, saremo giudicati. Nessun papa, nessun vescovo si è finora degnato di dichiarare ai fedeli che l’immigrato è nostro «fratello», è un fratello bisognoso cui deve andare in modo tutto particolare il nostro amore e il nostro aiuto. O almeno la compassione; o dobbiamo essere duri e crudeli? questo si vuole?

Il «principio di accoglienza», che segue al principio fraterno, ma anche al semplice principio umano. Non compare in nessuna delle leggi fatte in proposito. Anche la Chiesa non ne ha mai parlato ai suoi fedeli. Non si sono creati centri di accoglienza, che quando l’immigrato approda lo assistono, lo aiutano a cercare il lavoro e l’alloggio, lo indirizzano alla sua sede finale. Semmai prevale il principio che, se non ha lavoro, secondo la legge Bossi-Fini è un clandestino, e dev’esser rispedito in patria. Un dispositivo crudele, a dir poco, negatore di ogni umanità; se solo si pensa ai sacrifici ch’egli ha fatto, e ai pericoli che ha corso per arrivare da noi, nella speranza di una vita migliore.

Il principio di «reciprocità» da parte di un popolo che per decenni ha praticato l’emigrazione; ha cercato e trovato accoglienza e lavoro presso altri popoli; milioni e milioni di persone, che formano come una seconda nazione in giro per il mondo. Dovrebbe ora restituire almeno un poco di quello che ha ricevuto; è un suo preciso dovere. O altrimenti dov’è l’italiano generoso di cui sempre si parla; qui v’è solo un italiano egoista e duro di cuore.

Tutto questo comportamento non aiuta certo l’integrazione. L’ostilità genera ostilità. Il musulmano fedele, che prega ogni giorno in ginocchio, si domanderà che razza di cristiani sono questi, che non dimostrano alcuna simpatia per la sua fede per un Dio che ha solo un nome diverso, Allah, «signore potente e misericordioso». Che osteggiano magari la costruzione di luoghi di preghiera per la sua fede.

 

Il discorso è lungo e dev’essere ripreso. Ma torniamo ai bambini e alla loro integrazione. La lingua, certo; la cultura italiana, le lettere, le arti; la scienza; l’ordinamento della società italiana e i principi etici e giuridici che lo reggono. Questi ultimi specialmente. Ma soprattutto non essere estromessi da quel corpo sociale che è la classe, vivere e crescere nella solidarietà di quel corpo. Esservi compresi e amati. Qui gl’insegnanti non devono mancare al loro compito; né i genitori vi devono mancare.

                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 20 ottobre 2008)

 

 

La riforma della pubblica amministrazione

di Arrigo Colombo

Si parla sempre della pubblica amministrazione italiana come di una delle peggiori d’Europa. Perché – si dice – ha un’ascendenza borbonica e una consistenza “terrona”, di una zona d’Italia in cui l’iniziativa imprenditoriale è scarsa, ed è scarsa l’etica del lavoro; in cui, mancando i posti di lavoro nell’industria, diplomati e laureati s’intruppano nello Stato e l’occupano al Sud come al Nord; ed è questa una delle cause dell’avversione Nord-Sud, in quanto la dinamica gente del Nord si trova sempre a lottare con la sorda resistenza di questa classe impiegatizia lenta e pigra.

Ecco però che, con quest’ultimo governo, questo ministero è andato a Brunetta, un piccoletto sanguigno e pepato, pronto alla dichiarazione, alla battuta, forse anche un po’ sbruffone ma – a quanto pare – deciso a darci dentro con forza. Ha incominciato con l’assenteismo, endemico in questo settore, la pseudomalattia, la pausa caffè, le uscite varie, magari a far la spesa; e in ottobre annunciava ch’era già diminuito del 50%.

 

L’impresa però è titanica.

S’incomincia con la sicurezza del posto, col principio che quando uno ha vinto il concorso è intoccabile, il suo posto è a vita. Questo principio deve cadere. Il concorso resta, è una garanzia importante, e dev’essere serio, duro, le commissioni devono essere serissime; ma il posto varrà esattamente come ogni altro posto di lavoro.

Il punto più difficile, però, è l’orario. Che in tutto il pubblico impiego – come già notavo per la scuola – ha conservato il privilegio delle sei ore continuative; anziché le otto a orario diviso, mattina e pomeriggio, con pausa pranzo. Privilegio che all’inizio fu una necessità di guerra, legata allo sfollamento dalle città per i bombardamenti, alla difficoltà dell’andata-ritorno dalla campagna. La guerra è passata da oltre sessant’anni, ma nessuno è riuscito a toccare quel privilegio; non la democrazia cristiana, corriva e pasticciona, spesso collusa. Le sei ore continuative sono certamente comode; spesso diventano cinque perché si rosica una mezz’ora all’inizio e alla fine; si ha il pomeriggio libero, si può goderselo, fare un secondo lavoro, ritornare per lo straordinario che vale il doppio. Hanno una vita comoda quest’esercito degl’impiegati di stato, con tutte quelle ore sottratte al lavoro.

I controlli non ci sono mai stati; semmai il comportamento omertoso. Ora devono essere introdotte delle gerarchie rigide, responsabili, dei controlli precisi. E non è facile perché, allo stato attuale, chi dovrebbe controllare ha lui per primo bisogno di controllo. Devono essere introdotti degl’incentivi, che però devono esser rigorosamente selettivi; non devono andare a tutti, tutti premiati, il premio di produttività; devono seguire rigorosi parametri.

La coscienza, il punto insospettato: che c’entra la coscienza? In Germania l’amministrazione è esemplare perché ha una forte coscienza del suo compito, così come delle cose dello Stato. Il compito di gestire quell’immenso tesoro che è la cosa pubblica; la quale non è di nessuno, come pensano i nostri, ma è di tutti, concerne il bene di tutti. Il vincolo etico che astringe la coscienza, il dovere. Come formare questa coscienza in questo esercito scoscienziato?

Forse può servire un’alta scuola di pubblica amministrazione come c’è in Francia; una scuola che formi i quadri. Che abbia un carattere intensamente formativo, cioè della persona anzitutto. La scienza sì, il sapere, in alto grado, ma anzitutto la coscienza. Questi quadri potrebbero poi contribuire alla formazione degli altri. Perché l’intera pubblica amministrazione dev’essere ricostruita; e parliamo dell’amministrazione in senso stretto, eccettuando forse certi corpi speciali come i carabinieri, la polizia, la guardia di finanza. Dove però c’è pure da lavorare, se si pensa ai misfatti della polizia a Genova nel G8, o anche al ragazzo nero picchiato dai vigili a Parma, in questa città civilissima. Che rivelano un’eticità debole: la prepotenza, l’abuso della forza, le quali infrangono la dignità e il diritto della persona umana, che è il principio primo della convivenza politica, della polis.

Si è parlato di declino dell’Italia, declino economico anzitutto, ma anche scientifico e tecnologico; ho richiamato questo declino a proposito del massacro della scuola che stanno compiendo il duo Tremonti-Gelmini; ma questa pubblica amministrazione fatiscente è forse una causa di declino ancor maggiore. L’Italia va male, prendiamone coscienza tutti.

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 13 ottobre 2008)

 

 

Ancora sul degrado dell’università italiana

di Arrigo Colombo

 

          Riprendo questo tema, sul quale m’ero già introdotto alla fine di luglio.

La situazione dell’università italiana resta sempre precaria perché le è mancato un processo serio di modernizzazione, una riforma in tal senso; come ha fatto De Gaulle dopo il maggio ’68, avendo compreso che una così massiccia contestazione supponeva la presenza di grossi vizi e arretratezze. Mentre i nostri politici sono sempre sfuggiti alla riforma attraverso concessioni varie a studenti e docenti. Poi, nell’ultimo decennio, attraverso interventi vari,  Zecchino, la Moratti, dispositivi ministeriali, facendo e disfacendo.

Altre nazioni hanno invece una solida tradizione, un costume, un ethos, una coscienza. Dove ad esempio la residenza nella città universitaria è un fatto ovvio, per studenti e docenti; non vi sono pendolari. Certo vi sono anche le adeguate strutture  recettive. A Bochum, nella Ruhr, dove l’università era in costruzione, era previsto un villaggio per 5.000 persone; a Syracuse, nello Stato di New York, v’è un villaggio amplissimo; a Princeton, in California, vi sono appartamenti e ville per i docenti.

Perciò anche la frequenza è un fatto ovvio, è un fatto morale e culturale: lo studente sa che solo così egli va veramente formandosi e raggiungerà anche alti livelli professionali.

 

Un altro fattore di precarietà sono i tagli dei fondi, che ormai procedono di anno in anno; anziché aumentare, sia per ovviare all’inflazione, sia per un principio di crescita, per avere un’università sempre migliore, i fondi diminuiscono; e sono ormai al 30% sotto la media OCSE. Ma il ministro Tremonti ha disposto un piano quinquennale di tagli ulteriori; per cui non c’è speranza. Altro che sviluppo della ricerca e concorrenza internazionale: qui sono in forse anche gli stipendi.

Un dispositivo ministeriale che sarà obbligatorio entro il 2009 tenta di fare qualche passo. Introduce all’inizio del corso, magistrale o specialistico, un colloquio orientativo che, per i corsi a numero chiuso, diventa selettivo; e che però può anche consistere in test. Ma allora non è più un colloquio, non ha più nulla di personale. Non ci siamo.

Dopo aver favorito i corsi semestrali di 30 ore stabilisce un ritorno ai corsi annuali di 60. E però era evidente che i corsi semestrali, mentre raddoppiavano le materie e gli esami, ne dimezzavano la forza formativa; e inoltre costringevano i docenti a tenere più corsi, disperdendo il loro lavoro di ricerca e di preparazione.

 Un problema di particolare gravità è l’acquisizione di nuovi docenti, nei tre livelli di ricercatore, associato, ordinario; che è legato a concorsi; i quali per tradizione erano nazionali, un enorme macchinario dominato da baronie e consorterie varie. Zecchino, con grande coraggio, li fece locali. La Moratti li sospese, e sospesi ancora stanno, a totale discrezione della burocrazia ministeriale. Intanto i giovani crescono e se ne vanno, cercano un altro lavoro; e i meno giovani attendono. Un fatto abnorme.

Se si pensa che nell’università tedesca non vi sono concorsi: col dottorato e l’abilitazione di diventa liberi docenti; dopodiché si è chiamati da una università e si diventa ordinari. In quella anglosassone vi sono quattro gradi per i quali il docente passa dietro approvazione del Senato accademico; poi v’è un esame interno per titoli (ma nella commissione due membri su tre sono di altre università) e si diventa ordinari. L’università anglosassone è totalmente autonoma. Ma anche in Francia, dove il sistema è accentrato come da noi, vi sono commissioni permanenti cui il docente, quando si sente pronto, chiede il passaggio di grado: da maître de cours a maître de conférences, a professeur.

L’università è l’organo più alto in cui si gioca la crescita culturale e scientifico-tecnologica, e quindi anche la crescita economica della Nazione. Questo non capiscono i nostri mediocri politici, il dispotico Tremonti, che pure è universitario ed economista.

Per la crescita è necessaria competenza, cioè avere fatto dei buoni studi, i migliori possibili. È necessaria resistenza al lavoro intellettuale, e insieme amore e passione, e tenacia e aggressività; ciò che si acquisisce attraverso un lungo impegno, non con un tirocinio casuale e svagato. È necessario un buon grado di creatività, e il lavoro di ricerca la stimola. Si parla di un declino dell’Italia: se l’università non cresce, se non raggiunge gradi alti e competitivi, questo declino continuerà inesorabile.

                                                                            (Nuovo Quotidiano di Puglia, 6 ottobre 2008)

 

 

 

Che cosa fare oggi per la scuola

di Arrigo Colombo

 

          Che cosa fare oggi per la scuola. Oggi, non domani.

Le cose da fare sono molte, o anche moltissime; e tutte nel senso dell’aggiungere, non del togliere; del costruire, non del distruggere; come sta avvenendo col duo Tremonti-Gelmini, i piccoli-grandi distruttori.

Nella pre-scuola mancano i nidi d’infanzia, che dovrebbero coprire almeno le famiglie lavoratrici. Una delle maggiori difficoltà per l’estensione del lavoro femminile, essenziale sia per la parità uomo-donna, sia per l’economia familiare.

Mancano le scuole materne, essenziali allo stesso scopo, oltre che per la loro funzione formativa.

Per tutti gli ordini di scuola indicherei solo tre cose.

Sanare lo squilibrio tra mattina e pomeriggio; che ha una lunga storia, risale alla seconda guerra mondiale, allo sfollamento delle città per i bombardamenti, quindi alla difficoltà di ritornare a scuola nel pomeriggio. Per questo motivo anche il lavoro della pubblica amministrazione si concentrò nel mattino. Finita la guerra tutti  questi lavoratori trovarono che questa concentrazione era comoda perché lasciava il pomeriggio libero; da godere, o da coprire con uno straordinario, con un secondo lavoro, che aumentava il reddito. Parlamento e governo avevano altri pensieri, erano impegnati nella lotta tra democristiani e socialcomunisti; e non si riuscì più a tornare all’orario diviso. Una tipica storia italiana, dove vince l’inerzia. Ma le cinque-sei ore consecutive di lezione, con solo un magro quarto d’ora di ricreazione, sono troppe per il bambino, il ragazzo; lo sono anche per l’adulto. Chi lo può negare? Bisogna ritornare all’orario diviso, come avviene in altri paesi (in Francia, ad esempio, dove in tutti gli ordini di scuole l’orario è diviso) ; più leggero e più fecondo al mattino come al pomeriggio. Un’impresa titanica ora, cui neppure si può pensare.

Sanare il paradosso per cui si studia il passato dell’umanità ma non il presente, il tempo in cui si vive; che più di ogni altro bisognerebbe conoscere per orientarvisi. Non si studia il Novecento, a stento si raggiunge la prima guerra mondiale; non si fa in tempo, non ci si arriva, perché sta alla fine. In storia, in filosofia, in letteratura, nelle arti. Bisogna allora rovesciare il programma, studiare anzitutto, nel primo anno, il Novecento, dedicargli un anno intero. Poi riprendere il passato, il medioevo e la modernità; li si comprenderebbe meglio. Luigi Berlinguer lo aveva capito, e quando fu Ministro della Pubblica Istruzione tentò d’introdurlo, ma non trovò la via giusta, gli mancò la giusta comprensione; e poi, quando cadde il governo, Amato il “dottor sottile” si affrettò a sostituirlo perché aveva scontentato gl’insegnanti proponendo una valutazione del loro operato.

Dare un posto adeguato all’educazione civica, alla formazione del cittadino in ciò che come cittadino gli compete: il modello democratico, la sua storia, i suoi vizi oggi, la Costituzione,  le istituzioni, lo “stato sociale”, l’etica del lavoro, la tassazione come contributo di tutti all’opera comune. Educazione politica nel senso più autentico, affinché i ragazzi non siano politicamente amorfi.

 

Capire la scuola come luogo e tempo di formazione della persona, formazione culturale e professionale, formazione del cittadino. La crescita di una nazione, in particolare la sua crescita scientifica, tecnologica, economica dipendono dalla scuola. Questo il ministro Tremonti non lo ha capito, quando si è avventato sulla scuola coi suoi tagli da otto miliardi. Non ha capito il ruolo della scuola per la stessa economia del paese di cui lui era ministro, economia certo sofferente; ma non ha capito che tagliando nella scuola  avrebbe aumentato  nel tempo questa sofferenza.

Perciò oggi c’è una sola cosa da fare per la scuola: bloccare l’azione nefasta di Tremonti, il taglio degli otto miliardi; che poi la ministra Gelmini traveste in vario modo come riforma; perché non ha la forza di opporsi a quel diktat imperioso.

La sola cosa da fare è la mobilitazione. Delle scuole stesse anzitutto, gli studenti, con azioni insieme forti e legittime, scioperi, occupazioni, dimostrazioni; degl’insegnanti e delle loro associazioni, dei presidi. Un coordinamento di tutta la compagine scolastica, il Consiglio nazionale, l’Adi, l’Aimc, l’Mce, l’Uciim ecc., tutte le numerose associazioni di categoria, i sindacati; questo coordinamento affronterà compatto il ministro ricordandogli il principio di sovranità popolare, e che egli non è il padrone ma l’umile sevo della scuola come della nazione.

                                                                         (Nuovo Quotidiano di Puglia, 29 settembre 2008)

 

 

 

Il tandem Tremonti-Gelmini e la macellazione della scuola

di Arrigo Colombo

 

         Da alcune settimane il mondo scolastico è in subbuglio, in rivolta: insegnanti, studenti, famiglie, sindacati di varia estrazione; all’apertura gl’insegnanti entrano in classe con la fascia nera al braccio, il lutto; i Cobas hanno indetto lo sciopero generale.

Intanto, per prima cosa, bisogna che finisca questo malcostume del nuovo ministro che distrugge quanto ha fatto il ministro precedente; la sua controriforma; per narcisismo, per odio di parte. Qui poi v’è un ministro che non conosce la scuola, non ha mai insegnato, è un avvocato (il lamento è di Bossi, che appartiene alla stessa coalizione); per di più un avvocaticchio che, pensando che l’esame fosse più facile, da Brescia si è spostato a Reggio Calabria.

 

Qui poi interviene un fatto nuovo, il dictat di Tremonti che, per quadrare il bilancio di stato, impone ala scuola un taglio di otto miliardi in tre anni; e, per attuarlo, una commissione mista in cui il Tesoro ha il ruolo decisivo, decide con pugno di ferro. Sì che non si tratta tanto di riformare, quanto di tagliare. Tagliare il modulo della scuola primaria, ritornare all’insegnante unico. Ridurre le ore d’insegnamento, col pretesto che sono troppe. Ridurre gl’insegnanti: via i 200.000 precari, si cerchino un altro mestiere; via gl’insegnanti di sostegno per gli handicappati, gl’insegnamenti extracurricolari; sospendere il turn over (i pensionati non vengono sostituiti); sospendere quindi l’ingresso di nuovi insegnanti, e le SSIS che li preparano; sopprimere le piccole scuole, di campagna, di montagna; sopprimere un anno di scuola secondaria. Oltre i 200.000 precari, tagliare 110.000 docenti e 40.000 nondocenti.

 Questo piano è insensato. Perché secondo la recente indagine dell’OCSE (l’organizzazione che coordina i paesi a più avanzato sviluppo) la spesa media scolastica italiana per alunno coincide grosso modo con la media OCSE; è alquanto più alta per la scuola primaria, che poi è la migliore scuola italiana, e compete a livello internazionale (e il modulo dei tre insegnanti corrisponde al più ampio sviluppo del bambino nell’età dei media, dei molteplici stimoli);  è più bassa per la scuola secondaria. Così le ore annue di lezione della scuola dell’obbligo sono alquanto inferiori alla media OCSE (735 contro 812). Non parliamo dello stipendio annuo dei docenti, che è inferiore di circa 8500 dollari alla media OCSE (9000 alla media europea). È evidente che qui non v’è nulla da tagliare, v’è semmai di aggiungere; o altrimenti si esce dal livello OCSE, dei paesi a più avanzato sviluppo, si decade nel sottosviluppo.

 

V’è da aggiungere, dicevo, e non poco; se consideriamo i punti di squilibrio, di arretratezza. Il tempo pieno, il più vantaggioso per lo studente come per le famiglie, per i genitori che lavorano; che è ancora largamente carente, specie nel Sud (si parla del 50,9% nelle primarie del Piemonte contro il 3,2% in Puglia). Il numero di allievi per classe, che non dovrebbe superare i quindici (mentre ora raggiunge facilmente i trenta); quindi l’aumento delle classi e degl’insegnanti. La scuola materna, largamente assente, specie nel Sud; e il nido d’infanzia, quasi inesistente; ambedue preziosissimi per le famiglie e il lavoro; si veda in proposito quanto fa la Francia. L’espansione della scuola dell’obbligo, che dovrebb’essere portata ai diciott’anni (come negli USA; in Italia è ancora ai 14) per equiparare maggiormente il grado d’istruzione; un problema di dignità della persona, e di eguaglianza.

 V’è poi l’incidenza sociale di quei tagli. Come può la ministra sbarazzarsi di 200.000 precari dicendo loro cercate un altro lavoro, ad esempio nel turismo? quando la maggioranza di quei precari ha seguito studi pedagogici, ha conseguito una laurea attinente all’insegnamento, ha lavorato per anni nella scuola come supplente o a tempo determinato? e quindi ha conseguito un diritto al posto d’insegnamento: un diritto che non può essere calpestato. Come può tagliare brutalmente il loro itinerario di lavoro, quello in cui si adempie la loro formazione culturale e la loro stessa persona? E come si può sopprimere il turn over, cioè l’accesso dei nuovi insegnanti che via via affluiscono dagli studi universitari? oppure bisognerebbe anche chiudere le Facoltà che preparano l’accesso alla scuola, in particolare Scienze della formazione e Lettere e filosofia? e perché non anche Scienze matematiche?

 

Che il ministro Tremonti debba fare tagli di bilancio nessuno lo nega. Ma li faccia dove sono opportuni, e anzi necessari. Negli sprechi della politica, ad esempio, quegli sprechi a tutti noti e che accendono l’indignazione popolare. Il numero dei parlamentari, i loro lauti stipendi (complessivamente sui 17.000 euro mensili per questi rappresentanti del popolo), le loro varie gratuità, i loro vitalizi. Gli stipendi doppi e tripli, le consulenze a peso d’oro. Le province da tempo dichiarate inutili e da sopprimere, gli enti inutili a iosa. I parlamentari europei, i più altamente dispendiosi di tutta l’Unione. Qui i tagli da farsi, anziché macellare la scuola. La pubblica amministrazione, le sue magre cinque ore di lavoro o di non-lavoro al giorno, dove le inchieste dicono che uno su tre basta; qui tagliare, anziché avventarsi sulla scuola. Che gli stipendi dei parlamentari siano calcolati su quelli dei magistrati, senza nessun altro privilegio; e che vi sia non un gettone di presenza, che quello è il loro stretto dovere, ma un’ammenda d’assenza. Che il ministro Tremonti, con la sua perentorietà, ottenga i tagli opportuni attraverso le opportune riforme; costringa il parlamento e la pubblica amministrazione a riformarsi; anziché demolire la scuola, il cuore della formazione e della crescita del Paese. Colpire al cuore il Paese.

                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 22 settembre 2008)

 

 

 

Discorrendo sul degrado dell’università italiana

di Arrigo Colombo

 

        Un recente episodio accaduto nell’università salentina, e di cui si è occupata anche la stampa nazionale (e questo giornale in particolare), è sintomatico. Una facoltà (quella di Scienze sociali, politiche e del territorio) aveva disposto, per gli studenti fuoricorso di Servizio Sociale, degli speciali esami-quiz con quesiti a risposta scritta a scelta, o a risposta vero-falso (le risposte essendo già indicate); avendo accorpato l’intero quadro disciplinare in tre gruppi di 28, 19, 11 discipline; con la possibilità di fare nello stesso giorno  cinque esami per ogni gruppo, quindici in tutto, cioè oltre la metà di quelli previsti dal piano di studio; di fare quindi in due giornate, una per sessione, l’intero curriculum di 24 esami. Un esamificio a rapidità astronomica, una riduzione del sapere al livello televisivo di “lascia e raddoppia”, una sanzione perfetta dell’ignoranza. Difficile inventare un sistema più perverso. È intervenuto il Rettore che, dietro il parere di una commissione, ha sospeso l’operazione rinviandola al Senato Accademico; alla cui decisione sono appese le nostre speranze.

 

Ma veniamo all’università italiana che, nelle statistiche e secondo i parametri OCSE, e di altre agenzie, si colloca in posizioni remote, spesso negli ultimi posti.

Innanzitutto l’accesso, che è totalmente libero, da qualunque scuola a qualunque facoltà; in seguito ad una decisione demagogica presa dai politici negli anni della Contestazione, nella strategia governativa di evitare la riforma attraverso concessioni varie. Decisione che segue il principio di popolarità (tutti hanno diritto all’istruzione e alla cultura), ma elude il principio di gradualità e di preparazione (ogni tipo di scuola prepara ad certo ambito di studi universitari) e con ciò sovverte lo stesso principio di popolarità (non sei preparato, non capirai, resterai ignorante); ma insieme sovverte il sistema delle professioni e la preparazione specifica che ognuna richiede: la scuola in particolare, per la quale tutti passano, di cui si  abbassa il livello; ma anche l’industria, di cui si riduce la creatività e l’invenzione; tutti i settori. Alcune facoltà (come medicina, farmacia) hanno introdotto una prova di accesso; ma una prova a quiz (ci risiamo!), che non prova nulla. Quando si pensa che in altre nazioni l’accesso è chiuso, e le prove di ammissione avvengono attraverso presentazione del curriculum, colloqui personali, commissioni di valutazione.

Il libero accesso produce inoltre il fenomeno perverso della mortalità universitaria: tutti s’iscrivono, ma poi il 60% non prosegue. Un fatto abnorme, spreco di tempo e denaro, disagio esistenziale, professione incerta, gravame familiare.

Anche la frequenza ai corsi è libera, non soggetta a controllo alcuno (i controlli sono caduti negli stessi anni della Contestazione); il che vuol dire che lo studente non matura attraverso un magistero e una dialettica col docente, e quindi una riflessione e rielaborazione quotidiana. Solo pochi lo fanno; gli altri studiano i testi d’esame, si mandano a memoria il libro, non hanno un’esperienza del sapere ma solo quell’imparaticcio mnemonico che facilmente si dissolve.

Il libero accesso e la libertà di frequenza producono poi l’altro fenomeno perverso dei fuoricorso: scarsamente motivati, fuori da ogni serietà e controllo, anonimi, si trascinano per anni con gli odiati esami da finire per laurearsi, e così entrare bene o male nella professione; per lo più a carico delle famiglie.

Nell’università italiana regna l’anonimato, studente e professore non si conoscono; né il professore si cura di conoscere i suoi studenti, di accoglierli all’inizio del Corso come persone umane, in un colloquio personale, un rapporto di amicizia, di collaborazione. Alcuni li individua alquanto nelle lezioni; gli altri, che gli sono ignoti, li incontra e li giudica all’esame, o li affida ai suoi assistenti. Sono nomi tra tanti, sono cifre, sono apparizioni sporadiche. Non si cura della loro formazione, tanto meno della formazione di ognuno. Nel metodo anglosassone ogni studente ha un tutor col quale deve colloquiare ogni settimana per un’ora, discutendo del suo lavoro e dei suoi problemi; un colloquio nel quale va crescendo umanamente e culturalmente in misura incomparabile.

I Corsi un tempo erano annuali; ogni professore teneva un corso annuale; talora aveva l’incarico di un secondo corso. Nell’annualità si concentrava la ricerca del docente come dello studente. Ora i corsi sono semestrali, il tempo di penetrazione e maturazione si è dimezzato. Inoltre ogni docente ne deve tenere tre o quattro; deve cioè allargare la sua ricerca in tre o quattro settori diversi; con meno tempo e meno profondità, con un eccesso  di lavoro didattico (oltre al lavoro organizzativo, i consigli, le riunioni) che gli ostacola la ricerca. Per la ricerca, che dovrebbe nutrire la didattica, non v’è più tempo; viene rinviata al pensionamento.

Gli esami di un tempo rappresentavano una importante stagione formativa; dico stagione perché, specie nelle materie “fondamentali”, erano robusti, migliaia di pagine, soprattutto i classici, i grandi maestri. Capitava, in filosofia, di dover portare le tre Critiche di Kant, i tre libri del Capitale. Ora è stabilito un massimo di 400 pagine cioè un manuale, come nei licei. Quando a qualcuno non venga la bizzarra e oscena idea dei quiz, la degradazione televisiva.

La tesi di laurea in Italia è sempre stata un momento contraddittorio, perché impreparato. Lo studente se ne stava quattro cinque anni senza scrivere nulla, poi improvvisamente doveva scrivere un libro. Quando aveva disimparato a scrivere. Una tale tesi era onestamente concepibile solo dopo una sequela di tesine (una per materia) e come un lavoro in collaborazione tra docente e studente; ma lo studente era per lo più abbandonato a se stesso. In Germania v’era un Collegio dei laureandi; per cui il docente raccoglieva tutti in una comunità di ricerca, dove il lavoro di ognuno sosteneva il lavoro di tutti, e così maturava la tesi. Ora la tesi cosiddetta “magistrale”, dopo il triennio, l’hanno ridotta a qualche decina di pagine: non v’è più architettura, non conduzione ampia del discorso, non conoscenza profonda e personale di una materia o di un autore; la discussione dura dieci minuti, quasi una  beffa.

E via dicendo. Bisognerebbe ora parlare della formazione dei docenti, dei concorsi; della ricerca e del suo sviluppo; dei fondi che a tutto ciò servono; per un  paese che vuol crescere culturalmente e scientificamente, e produrre valori e benessere. Ma di tutto questo un’altra volta, se sarà possibile.                                                                 (Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 luglio 2008)

 

 

Una disputa assordante per una donna morente

di Arrigo Colombo        

 

         Il caso di Eluana Englaro, la donna che dal 1992, al seguito di un incidente d’auto, è entrata in coma, poi in uno stato vegetativo artificiale, con ossigenazione e nutrizione forzata, un caso esemplare di accanimento terapeutico, e che il padre vorrebbe condurre a morte naturale, si è andato complicando in uno stile tipicamente italiano: di molta chiacchiera – anche se la famiglia ha chiesto silenzio –, disparati interventi, nulla di conclusivo.

C’è la risposta positiva della Cassazione ad un quesito in merito; c’è l’autorizzazione della Corte d’appello di Milano (che nel 1999 l’aveva negata); e dovrebbe bastare. E però la Procura di Milano – non si sa perché – chiede di attendere, in vista di un suo approfondimento del problema. L’episcopato, rigorista e tuziorista come sempre, si oppone, parla di omicidio. Ciò provoca l’intervento di un gruppo di neurologi cattolici che esprime dubbi sull’irreversibilità del processo, che cioè la donna potrebbe svegliarsi; e l’appello di «Scienza e vita», cui si unisce Comunione e liberazione, Famiglia cristiana ecc. Provoca un intervento del Senato, che apre un conflitto di attribuzione con la Cassazione. Poi c’è il solito e bravo Giuliano Ferrara con la bottiglia d’acqua, seguito da centinaia o migliaia di bottiglie; ci sono i notai veneti, pronti a firmare il testamento biologico con un solo euro di compenso, un fatto positivo. Ma c’ è anche il problema di una clinica che consenta l’atto e di un medico che lo compia (che però è stato trovato); perché il pronunziamento dell’episcopato provoca l’obiezione di coscienza.

Dietro a tutto questo ci sta il vuoto legislativo, la famosa legge sul testamento biologico, una legge che faccia chiarezza sull’accanimento terapeutico, sulla vita artificiale e la morte naturale. Ma questa legge non si può fare perché l’episcopato si oppone, e con l’episcopato la parte cattolica e ossequente del parlamento; e anche quella non cattolica che tuttavia apprezza i voti dei cattolici e i buoni rapporti con l’episcopato, che quei voti favorisce. Un caso analogo a quello del Pacs, il patto civile di solidarietà, che avrebbe dovuto regolare le unioni di fatto, anche quelle omosessuali; che Prodi aveva stemperato nel Dico; e però non s’è potuto fare, lo si è accantonato. In Francia ce l’hanno da oltre diecianni; e pure altrove; e là i cattolici ne usufruiscono; così come i maggiori paesi d’Europa hanno leggi sull’eutanasia. Ma i cattolici italiani stanno la tutela del Vaticano, sono minorenni; Prodi fu disapprovato quando dichiarò che nel referendum sulla procreazione assistita avrebbe deciso lui se votare e cosa votare, perché era un  cattolico adulto”.

 

Veniamo al problema. Uno stato di coma, poi di vita vegetativa che dura da oltre sedici anni; una vita vegetativa artificialmente mantenuta. Secondo l’esperienza medica, dopo un massimo di tre anni si deve escludere il permanere di una “coscienza latente”, che potrebbe riemergere. Il che significa che la persona non v’è più, Eluana Englaro non v’è più; da tempo; v’è solo la spoglia del suo corpo in una vita vegetativa artificiosamente mantenuta. V’è un vegetale, non vita umana. Direi che ciò è contro la stessa dignità e diritto della persona, di cui altri continuano a manipolare quelle spoglie che le appartengono, a dare loro una parvenza di vita in sua assenza; quando fra l’altro si sa che lei ha espresso la volontà che ciò non avvenga. Come attesta il padre.

V’è qui semmai un diritto di morte, un diritto che il corso degli eventi continui così come si è avviato; che dopo la scomparsa della persona scompaia anche la sua spoglia. Una legge di natura, che poi è di solito chiamata legge divino-naturale, in quanto la natura è opera di Dio, è creazione, e nelle sue leggi si esprime la volontà del Creatore. Che l’artificio tecnologico, il quale per lo più viene in soccorso della natura nella sua finitudine, e precarietà e caducità, la malattia; ed è poi la grande scoperta e conquista che si compie nella modernità occidentale, quando l’uomo riesce ad individuare i comportamenti necessari degli eventi di natura, quindi le leggi, che formula matematicamente; e può quindi intervenire su di esse, e compensare un comportamento deviante dall’armonia della vita; la lotta contro la malattia, forse anche il suo superamento, almeno in termini globali. Altro però è l’intervento compensativo che riporta il corpo alla salute, o comunque lo sostiene nella malattia; altro è l’artificio, l’accanimento su di un corpo che ha perso le sue più alte funzioni e sta perdendo anche quelle residue; un corpo che va verso la morte, che ha già passato le soglie della morte e vi è entrato. Che allora la natura abbia il suo corso, che la legge originaria fissata da Dio prevalga sull’ormai inutile intervento umano, che la “buona morte” venga anche per queste spoglie di una persona che già è entrata nell’eterno.  

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 21 luglio 2008)

 

    

 Ingrid Bétancourt e il dramma dell’America Latina

di Arrigo Colombo

 

          La liberazione di Ingrid Bétancourt, dopo sei anni di prigionia presso le bande colombiane dette Farc, è stata accolta con grande sollievo e gioia in Occidente e altrove, nel mondo democratico; e però ha portato ancora una volta l’attenzione di tutti sulla dolorosa situazione di questo continente, sulle sue potenzialità e la sua arretratezza, la povertà e l’ignoranza popolare, l’instabilità politica. Un continente che nella prima metà dell’800 si è liberato dal colonialismo e ha instaurato una democrazia che però non è mai maturata e, di tempo in tempo, cade sotto leader populisti, dittatori più o meno feroci, regimi militari anche ferocissimi.

A questa immaturità democratica si adducono due cause: la prima è la situazione sociale, con la grande ricchezza concentrata in poche mani e l’immensa povertà popolare; ricchezza anche arrogante, delittuosa, che uccide il piccolo proprietario per prendergli il terreno; in Brasile, ad esempio, altrove. Povertà, ignoranza, incomprensione dei diritti politici, soggiacenza ai capi. Ignoranza e povertà significano anche scarsa iniziativa economica, scarsa mobilità sociale.

L’altra causa viene indicata nell’egemonia USA; che si è imposta fin dall’800, lungo il processo di liberazione coloniale. Che controlla gran parte dell’economia; così come controlla la situazione politica, con la sua caratteristica psicosi per il comunismo, l’intervento sui regimi politici, il favore per le dittature.

 

In questa situazione di profonda ingiustizia sociale, d’impotenza a misure per alleviarla, come anzitutto la riforma agraria, nascono le bande rivoluzionarie. Hanno una lunga tradizione che proviene dal processo di liberazione, ma si affermano soprattutto dopo la vittoria di Castro a Cuba (1959) e dopo la morte del Che in Colombia (1967). Sono molto ideologizzate, marxisti, leninisti, maoisti. Praticano la tradizionale strategia della guerriglia. Più noti sono i Tupamaros dell’Uruguay, i Montoneros argentini, il Sendero luminoso in Perù, le Farc colombiane, i Sandinisti che presero il potere e poi lo persero in Nicaragua; ma le sigle sono moltissime, il fenomeno è endemico.

Nessuno mette in dubbio il loro intento, di giustizia, di liberazione; ma il loro rivoluzionarismo è velleitario e inconcludente perché mancano del consenso popolare. Analogamente alle Brigate rosse in Italia, ad altri movimenti consimili. Perché la rivoluzione è per eccellenza un movimento popolare, eversivo di una società ingiusta per costruirne un’altra di più avanzata giustizia; la sua forza d’urto come la sua progettualità è popolare. Solo con questa forza riesce ad abbattere regimi potenti, con i loro potenti corpi repressivi che sono la polizia e l’esercito. La rivoluzione, inoltre, proprio perché comporta quella mobilitazione, è un fatto raro: assente dalla storia, compare nella modernità occidentale, prima con la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, poi con quella francese; ma già la Rivoluzione sovietica – con la sua costellazione cinese, indocinese, cubana ecc. – si fa  ambigua, diventa dittatura di partito, e dispotismo, libera e insieme opprime; si parla di cento milioni di morti, un’enorme atrocità. La Grande Contestazione degli anni 1960-70 non è popolare ma mobilita grandi masse studentesche e giovanili, coinvolge la rivolta nera in USA, il femminismo.

Queste bande sudamericane sono anche obsolete perché si rifanno proprio a quella Rivoluzione sovietica, ai suoi maestri, ai suoi leader che la storia ha giudicato e condannato; anche se alcuni di loro stanno ancora ipocritamente esposti e venerati in mausolei su grandi piazze. Ma il loro dispotismo e i cento milioni di morti nessuno li dimentica, e il loro regime è crollato (anche in Cina è di fatto crollato, snaturandosi).

Sono anche nocive al paese in cui operano, perché creano divisione, creano una generale insicurezza, e diventano anche pretesto per i regimi autoritari, per l’intromissione della potenza egemonica che tanto nuoce all’America Latina.

Dovrebbero sciogliersi e passare alla lotta politica. Con la purezza dei loro principi e dei loro ideali  rappresenterebbero una grande forza per un continente in cui la confusione politica come la corruzione sono così diffuse. Una forza giovane e intatta, una forza progettuale che potrebbe incidere nell’azione politica e raccogliere un vasto consenso popolare; mentre ora resta dispersa, inutile, anzi nociva. I partiti comunisti, forse anche i teologi della “liberazione” e i loro fedeli, dovrebbero fare una campagna per lo scioglimento delle bande e il loro recupero alla vita politica del paese.

 

 

Problemi del contratto di lavoro

di Arrigo Colombo

 

         In queste ultime settimane si è sviluppata la discussione sul contratto di lavoro. Confindustria (cioè i padroni) ha ripreso una proposta che già a suo tempo aveva avanzato il presidente D’Adamo, cioè di abolire il contratto nazionale di categoria e stabilire un regime di “contratti individuali”; proposta avanzata anche dal ministro Sacconi. Proposta deleteria per la classe lavoratrice, che le toglie la forza di contrattazione dell’intera categoria per mettere il singolo alla mercé del datore di lavoro; dove è chiaro che le forze sono impari, che il padrone ha la meglio, che il lavoratore soccombe. Una questione di equità, di giustizia.

Questa proposta non è che una parte della strategia condotta dal capitale nell’ultimo decennio  per dominare il lavoro; un’altra parte comprende tutto l’ambito del cosiddetto lavoro “flessibile”, in realtà lavoro “precario” (contratti di formazione, contratti temporanei o a tempo determinato, assunzione mediante agenzie, part time ecc) in cui il lavoratore non ha forza contrattuale, ha salari più bassi, non ha garanzie assistenziali; in questo senso va anche la recente proposta della Commissione Europea di portare il lavoro fino a 60 ore settimanali e oltre, proposta insensata, che sminuisce la persona, la imprigiona nel lavoro, le toglie il tempo per l'esistenza e coesistenza, per le attività elettive, l'ozio, il gioco. Tutto questo rientra nell’offensiva che il capitale ha scatenato dopo il crollo del sistema sovietico, e quindi l’indebolirsi dei socialismo e del sindacato, in ordine raggiungere un dominio incondizionato sul lavoro, e quindi un’incondizionata capacità di profitto.

 

Ora è vero che la contrattazione nazionale ha bisogno di correttivi; oltre a quella aziendale che già esiste. Si è parlato ad esempio di correzione zonale, del Sud rispetto al Nord, dato il differente costo della vita e altri fattori. Ma è indispensabile che la contrattazione resti collettiva.

Un punto su cui invece bisogna intervenire è la durata della trattativa dopo la scadenza; che spesso si prolunga per anni, con gravi perdite in scioperi, perdita degli aumenti richiesti. Una lungaggine non più tollerabile, la trattativa si deve concludere entro sei mesi; con le debite ammende per quel padronato che la protrae. Il sindacato deve ottenere un dispositivo di legge. Il governo deve poi seguire e sollecitare la conclusione.

 

Nel rinnovo del contratto, a parte l’inflazione che dev’essere recuperata (e il modo migliore sarebbe reintrodurre la scala mobile, che il sindacato a un certo punto ha lasciato cadere, non si sa per quale sconsideratezza o follia), il punto chiave sembra essere la produttività dell’impresa, e il suo aumento, che non può essere lasciato tutto o in gran parte al capitale. Notano infatti  gli studiosi (Rifkin, ad esempio, nel libro “La fine del lavoro”) il forte divario che si è prodotto negli ultimi trent’anni tra la forte ascesa della produttività, e quindi del profitto, e la relativa stasi dei salari. In Italia, ad esempio, il sindacato ci deve ancora spiegare come mai i salari siano rimasti del 30% al di sotto dei maggiori paesi europei (del 50% rispetto agl'inglesi); come mai ciò è potuto accadere; che cosa si pensa di fare per recuperare tale arretratezza. Che poi – fatto strano – non è stata denunziata  dal sindacato ma dal governatore della Banca d’Italia. Ci si lamentava tanto della caduta del potere d’acquisto nelle famiglie, la loro difficoltà di arrivare a fine mese, l’aumento della povertà: è chiaro, mancava loro quel 30%. Ma il sindacato taceva.

Un altro punto concerne la proposta di partecipazione agli utili fatta dal ministro e che la CGIL si è affrettata a rifiutare. Strano che una tale proposta venga da un governo di Destra, e che il sindacato la rifiuti. In realtà si tratta di una vecchia posizione del PCI e del sindacato ch’egli egemonizzava: non bisognava accettare questa concessione parziale perché si mirava al possesso globale dello stato e dell’ economia, il modello sovietico; in realtà un modello dogmatico-dispotico che instaurava un capitalismo di stato di cui i lavoratori ricevevano soltanto le briciole. Un caso di fallace estremismo ideologico, del tutto o niente. Insensato, ora che il modello sovietico si è rivelato in tutta la sua perversione ed è crollato.

C’è invece un prezioso cammino graduale da compiere, su cui si spera il sindacato voglia aprire gli occhi e sviluppare le sue battaglie: la partecipazione agli utili, la “Mitbestimmung” o codecisione (che le decisioni concernenti l’impresa siano prese insieme da capitale e lavoro: si veda ad esempio  il caso della delocalizzazione in cui i lavoratori vengono piantati in asso), e quindi l’ingresso dei lavoratori nei Consigli di amministrazione. Come punti di giustizia; in cui  si riconosce al lavoro il suo ruolo di fattore specifico ed alto della produzione; fattore umano. E questo per tutte le imprese, di ogni tipo, private e pubbliche.

Si spera che il sindacato si metta su questa via, visto che sonnecchia, e non poco. Questi tre punti sono stati riconosciuti come diritti del lavoro già nella seconda metà dell’800, nella linea dell’autogestione, poi nelle encicliche papali; ma l’altra linea, quella marxista-leninista e poi sovietica, quella del tutto o nulla, li ha trascurati; e ancora li trascura. A tutto danno dei lavoratori, che per oltre un secolo vi hanno perso denaro e prestigio; e continuano a perdere.                                                                              (Nuovo Quotidiano di Puglia, 30 giugno 2008)

 

 

La discussione sulla prostituzione “clandestina”

di Arrigo Colombo

        Stando a quanto si  legge nella stampa, le prostitute che esercitano sulla strada, ovunque nel Paese, sono tutte (o quasi tutte) immigrate, e sono decine di migliaia; e non hanno certo un contratto di lavoro e un permesso di soggiorno; sono di quelle che vengono abitualmente chiamate “clandestine”, anche se di clandestino non hanno nulla, quelle che i francesi chiamano più correttamente “sans papiers”, cioè senza le debite carte. Di conseguenza, secondo la vigente legge, la Bossi-Fini, queste donne dovrebbero piuttosto trovarsi in un CPT o Centro di permanenza temporanea, in attesa di essere rimpatriate. Ma non è così. A quanto pare, nelle passate legislature, nessuno si è accorto di loro; tranne i sindaci – si capisce – che dovevano gestire il quotidiano lamento dei cittadini, e hanno emesso ordinanze, eretto muri, stabilito speciali zone “a luci rosse” in lontane periferie.  Ma Parlamento e Governo hanno fatto scena muta; e anche trascurato affatto un disegno di legge, redatto e sollecitato dalla ministra Prestigiacomo, che toglieva la prostituzione dalle strade.

La quale prostituzione, dopo il faticoso varo della legge Merlin che aboliva i bordelli, sembra essere diventata tabù; forse perché rappresenta un anomalo ma apprezzato servizio per i maschi, che tra l’altro detengono il potere.

 

Mentre si sa che la prostituzione è un fatto immorale, l’abuso e la mercificazione di un congiungimento di per sé amoroso, che dovrebbe sempre avvenire nell’amore, in un grado maggiore o minore, anche  debole. Portata in strada, poi, comporta esibizione di malcostume, scandalo, disordine sociale. Donde la preoccupazione e il lamento delle famiglie.

Stando così le cose, è chiaro che queste immigrate che praticano la prostituzione per strada, essendo causa d’immoralità e di disordine sociale nel paese che le ospita, contraddicono al principio di accoglienza (che poi la legge non prevede) e devono quindi essere poste di fronte a un aut aut: o lasciano la prostituzione, entrano in un istituto di rieducazione, accettano un lavoro normale; o ritornano in patria.

Nel decreto in preparazione sulla sicurezza si è proceduto più alla svelta; si è inserito un comma il quale dice che «chiunque vive col provento della prostituzione e venga colto nel palese esercizio di detta attività viene sottoposto al foglio di via». Ma ne è nata una forte discussione; una discussione fuori luogo, in puro stile italiano. Si è detto che si dovevano invece colpire sfruttatori e schiavisti, di cui le povere donne erano vittime; si dovevano colpire i clienti, che erano e sono la vera causa del triste fenomeno. Fuori luogo perché è chiaro che sfruttatori e schiavisti devono essere colpiti a fortiori; e quanto ai clienti, il dibattito degli ultimi anni ha affermato la loro colpevolezza anche maggiore, e ha sollecitato l’intervento punitivo. La colpa degli uni non elide la colpa delle altre; c’è una correità nel comportamento immorale e nel disordine sociale.

Ma la discussione ha impaurito i legislatori, che hanno spostato il comma dal decreto al disegno di legge.

 

In realtà il comma non basta; si può anzi considerare contraddittorio e discriminativo, in quanto lascerebbe intatti l’esibizione dell’immoralità e il disordine sociale; li interdirebbe alle immigrate ma li consentirebbe alle nazionali, che prenderebbero il loro posto. Le prostitute immigrate che operano per strada è giusto che abbiano il foglio di via, ma la prostituzione dev’essere tolta dalle strade, l’esibizione dell’immoralità e il disordine sociale devono cessare; le famiglie devono recuperare la loro tranquillità, le città devono essere decenti di giorno come di notte. Questa legge, già troppo rinviata da legislatori corrivi o maschilisti, dev’essere varata.

La prostituzione è tollerata dallo stato, per vari motivi. Può esercitarsi in privato, da persone singole non associate, in forma discreta, su appuntamento; sì da non riportare lo scandalo e il disordine sociale all’interno dei condomini.

È tollerata ma non riconosciuta o promossa; quindi non può esercitarsi in forme organizzate – come taluni pensano – le cooperative, gli eros center. Né tanto meno può essere tassata, diventando  un lavoro normale. Lo fanno  i tedeschi, ma sbagliano, ciò è evidente.

In ogni caso le prostitute sono persone umane, hanno la dignità e il diritto della persona umana; devono essere rispettate, come si rispetta e si deve rispettare chiunque, anche quando cade  in errore. In particolare le deve rispettare la polizia. Gesù dimostrava loro un particolare amore fraterno, come persone emarginate, disprezzate, sofferenti; come per tutti gli emarginati sociali.   

                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 23 giugno 2008)

   

 

Riflettendo sulle intemperanze di Ahmadinejad

Il presidente iraniano, questo singolare personaggio, è stato in certo modo la star dell’Assemblea FAO dei giorni scorsi. Una star negativa, certo; ma che ancor prima di lasciare l’Iran aveva concentrato su di sé l’attenzione col suo esasperato antisionismo, con quella frase “Israele ormai è alla fine e sarà presto cancellato dalle carte geografiche”. Non nuova in lui, anzi abituale; e che nulla aveva a che vedere coi problemi dell’Assemblea; che però ha allertato la diplomazia e i media. Da un lato lo ha portato sulle pagine dei giornali e dei notiziari; dall’altro gli ha creato intorno il vuoto, sì che nessuno lo ha voluto ricevere, a cominciare dal Papa e dal  governo italiano; nessuno gli ha stretto la mano dopo il suo intervento, nel quale aveva tuttavia moderato alquanto i toni.

 

Si tratta però di capire il significato reale di questa figura e delle sue affermazioni in rapporto all’Iran, che è uno degli stati leader della costellazione islamica

Israele, anzitutto, l’annientamento. Difficile credere ch’egli esprima l’intenzione della teocrazia iraniana, del supremo capo religioso e del suo Consiglio; se si pensa ai presidenti che lo hanno immediatamente preceduto, Rafsanjani e Kathami. Esprime certamente un’idea presente nel mondo islamico, specie a livello popolare; e che si collega ai due appunti ch’egli ha fatto a Israele: l’aver occupato un territorio che apparteneva ad un’altra nazione, e “i massacri e gli eccidi di bambini”; riferendosi alle incursioni israeliane in territorio palestinese, a quelle risposte del tipo “occhio per occhio, dente per dente”, o del tipo decimazione, che ad Israele sono abituali, e che gli abbiamo già rimproverato da queste pagine. Nel senso che, essendo stato per secoli esule e perseguitato, e avendo tanto sofferto, Israele dovrebbe comprendere i problemi e le sofferenze del popolo palestinese; di cui, ad esempio, non rispetta l’integrità territoriale – con gl’insediamenti, le colonìe; con le incursioni –, e quindi l’autonomia. Che è essenziale ad un popolo.

Quest’idea di un territorio usurpato, che perciò non si ha diritto di occupare, è in linea di principio vera; nessuno lo può negare; e però va calata in una complessa vicenda storica nella quale a un certo momento è intervenuta la comunità planetaria dei popoli, l’ONU, che ha deciso di riconoscere ad Israele un terra, una patria, nell’ambito del territorio palestinese. Decisione discutibile, certo; in cui forte è stato il peso degli USA, e in essi della potente lobby ebraica; come dell’ebraismo mondiale. E però irrevocabile. Cui è seguito un risentimento islamico che ha portato a tre guerre, e un risentimento palestinese, e una serie di ritorsioni israeliane, che a nulla sono servite se non a mantenere il conflitto. È mancata una saggezza pacificatrice da parte dellOccidente, e soprattutto degli USA, che considerano Israele il loro avamposto nel Medio Oriente ostile; è mancata una politica di pacificazione.

Questa storia è nota ma dev’essere ancora sempre riconsiderata con equità, con spirito fraterno verso quei popoli, con volontà di pace.

 

Si tratta allora d’impostare la giusta strategia, quella che può risolvere i conflitti che si sono aperti tra l’Occidente e l’Islam.

Per quel che concerne il recente sviluppo di una politica nucleare iraniana, che subito ha attizzato la volontà aggressiva della Destra americana e del suo leader Bush, Ahmadinejab ha dichiarato – e lo ha dichiarato anche Putin, che vi ha contribuito – che si tratta di energia e non di bomba. Ma se anche si trattasse di bomba, non si vede come potrebbero gli USA negarla all’Iran, essi che posseggono qualcosa come 8.000 ogive nucleari; non si vede come, posta la pari dignità e diritto dei popoli, possa esserci tra loro un club nucleare esclusivo che tutti gli altri esclude. Club che si appropria la potenza; cui non si può riconoscere la saggezza, se si pensa alle recenti guerre che USA e Inghilterra (l’alleato principale) hanno scatenato, e in cui ancora si dibattono.

A parte la politica nucleare, la strategia finora seguita dagli USA, e con essi dall’Occidente, è appunto una strategia aggressiva. L’eredità del vecchio colonialismo; e più oltre dell’egemonia americana che si è dispiegata appieno con la fine della guerra fredda; e del risentimento che ha fatto seguito allo scacco delle torri gemelle, e che ha portato ad una serie di aggressioni verso stati islamici. I quali, poi, non erano direttamente coinvolti in quel fatto; che proveniva da correnti estreme, autonome (in particolare da Al Quaida), talora in lotta con gli stati. Nel programma della Destra americana, all’Afghanistan e all’Iraq, doveva seguire proprio l’Iran. Quel programma sembra essere stato bloccato dalla guerriglia che ancora imperversa; ma Bush vi insiste stoltamente.

Un’altra e opposta strategia dev’essere sviluppata verso gli stati islamici; a cominciare proprio dall’Iran, e dalla Siria. Quella della discussione dei problemi, della trattativa, dello scambio, dell’amicizia; la linea che Prodi e D’Alema hanno avviato e avrebbero voluto continuare. La linea su cui deve porsi l’Europa, con decisione, con decisa autonomia, indipendenza dalla follia USA; l’Europa, la nuova grande comunità politica che coi suoi cinquecento milioni di abitanti, con la crescita culturale ed economica dei suoi membri, potrà essere più forte degli USA e condizionarne le decisioni; più forte e soprattutto più saggia, essendosi costituita come comunità di pace e di solidarietà.

Purtroppo non ha ancora un vero governo, un presidente, un ministro degli esteri; ha un parlamento di limitate competenze. Deve affrettare la sua unificazione e gestione unitaria, se vuole contare nel mondo, contarvi in senso costruttivo, pacifico, benefico.

                                                                    (Nuovo Quotidiano di Puglia, 9 giugno 2008)

  

 

Il problema della sicurezza

di Arrigo Colombo

 

La sicurezza della gente di fronte alla criminalità. Questo problema, o meglio questa sensazione, o psicosi, si è accentuata negli ultimi anni, ha dato luogo a misure repressive soprattutto nel Norditalia, e ha influito sulla vittoria elettorale della Destra, in particolare della Lega.

Le ultime statistiche parlano di una diminuzione della criminalità globale; ma questo non tocca certo le varie situazioni, quella del Nord anzitutto, o anche di certe città del Centro. Poi ci sono dei fatti criminosi che certamente hanno influito, come i due stupri compiuti da rumeni nella periferia romana, il moltiplicarsi di furti e rapine in appartamenti e in villette di città del Nord; certe misure come il muro eretto a Padova o l’istituzione di ronde civiche a tutela dei cittadini.

Dove gl’imputati sono tre, in particolare; gl’immigrati clandestini; i rumeni che in seguito all’adesione all’Unione Europea hanno libero accesso; i rom, anch’essi soprattutto rumeni.

 

Si sta dunque varando un decreto sicurezza, si parla in proposito di un reato di clandestinità.

Dove però bisognerebbe anzitutto intendersi su chi sono i clandestini, perché nell’opinione corrente dopo la legge Bossi-Fini, clandestini sono tutti coloro ch’entrano da noi senza il posto di lavoro previsto da quella legge; anche se approdano alla vista di tutti e sono presi in carico dalla polizia e alloggiati in un Centro di permanenza temporanea. Dov’è qui la clandestinità? semmai v’è un’illegalità, in quanto la legge prevede che possano entrare solo a quella condizione. Ma un’illegalità che contrasta con il principio di accoglienza, cioè con un diritto fondamentale che appartiene alla tradizione cristiana ed europea; il principio fraterno, il principio che “la terra è di tutti”, per cui il fatto che un popolo ne occupi una porzione non esclude il diritto degli altri. Per cui se l’immigrato approda e si registra, dovrebbe essere accolto con rispetto e spirito fraterno, e aiutato a trovare lavoro e alloggio. Attraverso i Centri di accoglienza; attraverso le prefetture, le commissioni e gli sportelli comunali.

Il problema, semmai, si pone se in questa porzione di mondo ch’è l’Italia non c’è posto per loro; non c’è lavoro né alloggio. Ma non è così, perché recentemente il Nord denunziava il bisogno di circa 30.000 lavoratori. Oppure se l’immigrato rifiuta di registrarsi, si occulta e delinque; e allora, giustamente, viene processato, sconta la pena, e viene poi espulso.

 

Il principio di accoglienza non è mai stato preso in considerazione; non dall’attuale governo né dal precedente; non dalla Destra né dalla Sinistra, né dai cattolici o teodem, né dal Vaticano che dovrebbe annunziarlo al mondo intero, se pur vuol essere fedele al Vangelo.

V’è un’altra misura che dovrebb’essere presa, a livello nazionale com’europeo, e cioè l’aiuto economico ai paesi di provenienza di questa gente, paesi poveri. Un aiuto non di fondi ai governi, che poi li sprecano, quando non li intascano; ma di progetti e iniziative concrete che creino posti di lavoro, sì da rendere superflua l’emigrazione, con tutti i sacrifici e pericoli che comporta. Sarebbe un affrontare il problema alla radice; ma proprio l’Italia non fa quasi nulla in tal senso.

 

Veniamo ai rom. I comuni si affannano a creare campi di soggiorno per questi nomadi; ma sbagliano. Questo nomadismo poteva essere accettato quando i rom avevano forme di lavoro e di sussistenza loro proprie: allevamento e commercio di cavalli, artigianato, musica (il famoso violino tzigano) ecc. Non può più essere accettato quando queste forme scompaiono e vengono sostituite con il furto, l’accattonaggio con sfruttamento di bambini (o anche il rapimento), e altre forme di microcriminalità.

La soluzione è la stanzialità: o i rom accettano di diventare stanziali, come già molti hanno fatto; e allora i comuni li aiutano a trovare il lavoro e l’alloggio. O altrimenti vengono espulsi; in quanto criminali di fatto, o potenziali, e fonte di disordine sociale. Con espulsione amministrativa, cioè immediata. Su questo punto l’Unione Europea deve intervenire perché il problema la concerne interamente, dopo l’ingresso di alcuni paesi balcanici. Si parla di 16 milioni di nomadi.

 

Quanto ai rumeni, il flusso attuale è eccessivo, e spesso criminale. Questo non ha nulla a che vedere col popolo rumeno come tale, la sua dignità, l’amicizia di lunga data, la presenza dell’industria italiana in Romania. Semmai quel popolo ha bisogno di essere aiutato a crescere in economia e cultura; cosa che sta già avvenendo, con gli aiuti dell’Unione; com’è prima avvenuto per la Grecia o per l’Irlanda. La sospensione per un certo tempo del trattato di Schengen con la Romania, e quindi del libero ingresso, è forse necessaria; potrebb’essere discussa con lo stesso governo rumeno; potrebb’essere accompagnata da aiuti economici, sempre nel senso di crearvi posti di lavoro che riducano l’emigrazione; la quale è pur sempre una perdita di energie per quel popolo.

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 maggio 2008)

   

 

Il pericolo cinese 

di Arrigo Colombo       

 

       Che la Cina possa diventare un pericolo per l’umanità, è un’ipotesi che non possiamo escludere, anche se ci atterrisce. Così come lo può diventare la Russia; come lo sono attualmente gli Usa, che scatenano guerre, intrattengono basi militari ovunque nel mondo, continuano a sviluppare nuovi armamenti. Pur essendo regimi diversi: gli Usa una democrazia, cioè un potere di popolo, che in teoria dovrebbe avversare la guerra; ma è dominato da una classe politica a tendenza egemonica, da un regime presidenziale dotato di un eccesso di potere. Anche la Russia è una democrazia, ma recente, immatura, con forti nostalgie di potenza.

La Cina poi ha un regime dispotico, un dispotismo di partito; e i regimi dispotici sono i più pericolosi perché hanno un senso incondizionato del potere e non riconoscono legge alcuna. Legge etica, legge politica, norme internazionali. Un regime superstite, dopo il crollo del modello sovietico e della sua costellazione; profondamente contraddittorio  e profondamente ipocrita nel suo coniugare comunismo e capitalismo; che tuttavia resiste perché ha sotto di sé una società civile debole, arretrata, che sopporta l’oppressione (sappiamo che una rivolta c’è stata, quella degli studenti di piazza Tien-anmen; ma gli studenti pechinesi sono solo una piccola frangia).

 

Di tutto questo si parla da tempo e se ne è parlato molto nelle scorse settimane, mentre la fiaccola delle Olimpiadi percorreva il pianeta, attraversando anche alcune poche città d’Occidente – Londra, Parigi, San Francisco – in cui veniva aggredita nel nome della lotta contro quel dispotismo. E si poneva più forte il problema se partecipare o no alle Olimpiadi, che sono un momento di grande solidarietà umana, di celebrazione della virtù – forza fisica certo, ma soprattutto perizia, tenacia, ardimento, lealtà nella competizione – che non si pensa possa avvenire nella palude del vizio che nega la dignità e il diritto della persona umana, la libertà, l’eguaglianza, la sovranità popolare; la persona abbandonata nella povertà mentre i pochi si arricchiscono; abbandonata nelle capanne di fango mentre si costruiscono città sontuose; schiavizzata nelle fabbriche.

Il problema se dovessero partecipare gli atleti, anzitutto, i protagonisti della grande celebrazione; e i presidenti e governanti che rappresentano le nazioni. Se insomma si dovesse boicottare il grande evento nel nome dei diritti umani conculcati, come un richiamo forte ai despoti, una protesta forte e globale, una umiliazione, un castigo che li potesse portare al ravvedimento.

 

Prevale l’idea di una strategia mite. Certo il richiamo ai diritti violati dev’essere in atto sempre. Nelle Olimpiadi stesse ci dovranno essere momenti di richiamo, di proclamazione, di solidarietà degli atleti col popolo oppresso. I presidenti e governanti potrebbero anche assentarsi in blocco come richiamo dell’umanità intera; ma parecchi di essi sono a loro volta dei despoti. Il richiamo ai diritti dovrebbe avvenire in ogni incontro con la Cina e i suoi governanti, almeno da parte dell’Occidente. Una strategia insistente e decisa ma cortese, un assedio di bontà e di amore fraterno, in stile evangelico, una sopraffazione di amore. Che nell’amore e nell’amicizia grande insiste e ottiene.

Questa strategia avrebbe dovuto essere impiegata con Saddam Hussein, il dittatore irakeno; anziché scatenare una guerra tremenda e dolorosissima, di cui non si vede la fine. Ed è la strategia da usare con altre nazioni con le quali il rapporto è difficile e teso: con l’Iran, con la Siria. L’opposto di quanto fa Bush e la sua ministra Rice, che minacciano la guerra; di quanto fa Israele, che coi palestinesi sembra impiegare ancora l’arcaica legge del taglione: restituire ogni colpo, restituirlo dieci volte più duro. Su questa linea si è posto il trattato dell’Onu quando ha stabilito che i conflitti tra popoli non debbono mai esser risolti con la guerra ma solo con la trattativa; ed è il trattato che tutti i popoli hanno firmato, a cominciare dagli Usa, che lo hanno fortemente voluto; ma l’hanno poi dimenticato. Su questa linea si era posta la diplomazia italiana dello scorso governo, con D’Alema e Prodi; la linea su cui si deve porre decisamente l’Unione Europea, che si è costituita come comunità di solidarietà e di pace.

Una strategia attiva ma insieme paziente, che sa attendere. Il dispotismo cinese non può durare; proprio perché è storicamente arretrato e dissituato, e perché è assediato dalla libertà degli altri popoli; e perché nel frattempo il popolo cinese cresce e matura nella sua umanità, nella sua dignità umana, nella coscienza e volontà di essere libero. Si forma una classe operaia, un movimento operaio che può diventare il portatore storico del processo di liberazione.

Il pericolo cinese esiste ma il processo storico-utopico di liberazione è in atto, da tre secoli ormai, e ha fatto già un consistente cammino. Che rafforza la nostra speranza.

                                                                (Nuovo Quotidiano di Puglia, 19 maggio 2008)

 

 

Dove va il Norditalia?

di Arrigo Colombo

 

        È la domanda che ci si è posti in queste settimane dopo il successo della Destra, e in particolare della Lega lombarda nel Norditalia. La Lega il 31,3 per cento in Lombardia, il 27 nel Veneto, l’intera Destra il 54,4 per cento in ognuna delle due regioni.

Se infatti ci si chiede che cosa significano questi partiti, questi raggruppamenti che raggiungono tanto successo. Che cosa significa Forza Italia, lo sa dire qualcuno? Forse gl’interessi del capitale e la sua tensione profittuale? la tensione del capitale a dominare la sua controparte, cioè il lavoro, nei termini che talvolta sono stati espressi da Confindustria: eliminare il contratto collettivo, eliminare il lavoro a tempo indeterminato, aumentare la settimana lavorativa? Poi che a capo v’è un imprenditore, un padrone, e certo è strano che i lavoratori diano il voto ai loro padroni, ne rafforzino il potere anziché contrastarlo. Ma non si può dire che Forza Italia abbia seguito questa linea; ha varato la legge Biagi, la quale favorisce il precariato, ma con una certa moderazione. Né si può dire abbia perseguito la produzione e produttività, che anzi è calata.

A parte gl’interessi personale del suo leader, i suoi processi e le sue imprese, Forza Italia finora non ha perseguito nulla di speciale. Si è presentata piuttosto come un vario conglomerato di masse rimaste disperse e incerte con la dissoluzione dei grandi partiti che avevano gestito la nazione in quasi cinquant’anni di dopoguerra: la Democrazia Cristina anzitutto, la balena bianca, il Partito socialista, il Partito Comunista che, dopo il crollo dell’impero sovietico, aveva iniziato la sua democratizzazione ma anche la sua dissoluzione.

 

Forza Italia si presenta come una forma di populismo sudamericano, di peronismo; populismo, cioè manipolazione di popolo; deteriore (il peronismo faceva espressamente leva sui lavoratori)  in quanto suggestione, manipolazione mediatica, persuasione occulta e palese. Gli analisti del voto del 2001 gli hanno assegnato come grande elettore la “casalinga di Voghera”, cioè l’ignoranza, la disinformazione, la subalternità.

Alleanza Nazionale sarebbe diversa, in quanto dovrebbe perseguire l’ideale nazionalista che fu già del fascismo: il decoro, il prestigio, la grandezza della nazione. In realtà non sembra fare nulla al riguardo: ha votato tranquillamente tutte le inique leggi ad personam volute da Berlusconi per scansare i suoi processi (e in realtà li ha scansati tutti), leggi vergognose per il Paese; non si oppone a fatti che impoveriscono e tolgono prestigio come la svendita di Alitalia (anziché il suo risanamento, com’era avvenuto per altre grandi imprese, per Parmalat o per la stessa Fiat); non entra nella querela di Autostrade o di Telecom, altre aziende svendute nella mania neoliberista di privatizzazione dei grandi servizi nazionali.

Quanto alla Lega, si sa che è l’erede dell’avversione del Nord contro il Sud; avversione di lunga data; di un Nord che pure ha intensamente voluto l’unità d’Italia, ha combattuto, si è sacrificato in una serie di guerre. Avversione che si manifesta particolarmente nei riguardi della burocrazia – la borbonica burocrazia italiana, con le sue lentezze e i suoi rinvii, le sue pratiche confuse, eterne; che proviene dal Sud, francamente insopportabile al dinamico spirito del Nord; ma insopportabile ovunque. La Lega raccoglie e potenzia quest’avversione, focalizza in particolare la ricchezza che dal Nord emigra verso il Sud; il quale è più povero, è molestato dalle mafie, forse è anche più indolente, non riesce nel decollo dell’industrializzazione nel dopoguerra; come invece riesce il Veneto. E spinge addirittura verso la secessione, almeno in una prima fase, ma senza successo; spinge allora verso il cosiddetto federalismo fiscale.  

È il partito dell’egoismo e della divisione; rifiuta alcuni dei fondamentali principi di giustizia sociale, la ridistribuzione della ricchezza, la solidarietà nell’impiego dei beni. Di fronte all’odierno processo d’immigrazione, processo planetario, rifiuta il principio di accoglienza, principio umano e cristiano, che dovrebbe ispirare la gestione del processo, quindi l’integrazione. Avversa anzi l’integrazione, accentua gl’inevitabili inconvenienti, le frizioni, i casi di criminalità, per spingere verso l’espulsione. Asseconda certa insofferenza popolare, anziché quietarla, ricondurla a ragione.

 

A questo punto il successo della Destra nel Nord lascia profondamente perplessi verso quella parte del Paese che si considerava non solo la più evoluta economicamente, ma anche culturalmente (la presenza dei maggiori editori, di alcuni dei maggiori giornali) e politicamente: per la presenza di un’idea politica, di una convinzione, di un’appartenenza; rispetto al clientelismo e al qualunquismo del Sud (da non dimenticare il successo dell’ “uomo qualunque”). Milano, la “capitale morale”; ma oggi piuttosto capitale “immorale”, la Lega essendo profondamente immorale. Il qualunquismo delle masse berlusconiane, insensibili ai grandi principi e ideali: la giustizia, la solidarietà, la condivisione dei beni; l’aiuto del povero, del meno fortunato, dell’immigrato appunto povero e sofferente, lontano dal suo paese, dal suo spazio d’esistenza, dai suoi affetti. L’intervento sul crimine, certo, ma anche la comprensione e compassione per colui che delinque, spesso in condizioni estreme.

Questa civiltà umana e autenticamente cristiana si è offuscata nel Nord; il suo primato culturale e morale ha ceduto. Più fiducia ispirano le regioni un tempo “rosse”, Emilia, Toscana, Umbria, Marche; più stabili, più forti. Ma quando il temporale berlusconiano sarà passato, quando passerà il temporale leghista – nessuno dei due ha una tempra storica duratura – che cosa farà il Nord? ritroverà se stesso? maturerà infine?       

 

 

 

Le contraddizioni di una visita papale

di Arrigo Colombo

 

         La visita del Papa in USA, avvenuta nei giorni scorsi,  ci lascia molto perplessi. Il presidente Bush dichiara con ingenua (o ipocrita) convinzione la sua fede cristiana, e che gli USA sono un paese in cui la fede in Dio e la lealtà verso lo stato serenamente convivono; a differenza dell’Europa, dove spesso irrompe il conflitto; l’Europa laica, laicista. Questo confronto non era espresso e però era inteso.  

Ma è lecito chiedersi quale sia mai il cristianesimo di Bush, e della Destra che con lui ha retto gli USA negli ultimi otto anni, e del Paese che lo ha sostenuto nelle sue imprese; fino a tempi recenti; fino a che la guerra, diventata guerriglia, e guerriglia atroce, si è rivelata sempre più difficile, impossibile a vincersi anche per la grande potenza. La guerra in Iraq, dopo cinque anni; e la guerra in Afghanistan, riaccesasi dopo una calma apparente, col ritorno dei talebani.

Quale dunque sia mai il cristianesimo di un presidente che scatena guerre nel mondo una dopo l’altra. Che si dice che ne avesse preventivate cinque, contro i “popoli canaglia” che appoggiavano il terrorismo islamico; Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Somalia. La guerra essendo il più atroce crimine umano; al punto che oggi una più matura coscienza etica non riconosce più la possibilità della “guerra giusta”, com’era chiamata. Nessuna guerra può essere giusta, è un fatto talmente atroce che non può mai essere lecito. E del resto questo principio era già contenuto nel Trattato dell’ONU, là dove si dice che i conflitti tra i popoli non devono mai esser risolti con la guerra ma sempre e solo con la trattativa.

Se poi ci si rifà all’annunzio cristiano, alla legge evangelica dell’amore fraterno, allora nessuna forma di violenza è ammessa, ma alla violenza si deve rispondere col gesto amoroso, mansueto, col “porgere l’altra guancia a chi su di una guancia ti ha percosso”; e il nemico, o il presunto nemico, dev’essere amato e beneficato, e ricambiato con la preghiera; e neppure l’ingiuria è consentita; e neppure il malanimo o l’avversione, al punto che se stai per fare l’offerta all’altare e ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia l’offerta  ai piedi dell’altare e va prima a riconciliarti con lui.

Ci si chiede allora che cos’è questo cristianesimo proclamato e sfoggiato dal Presidente americano. Se a questo si aggiunge che, per poter scatenare la guerra all’Iraq, egli ha mentito al suo popolo su di un presunto arsenale nucleare irakeno che invece non c’era; come poi è stato dimostrato. Se si aggiungono ancora i crimini contro i prigionieri islamici, contro la loro dignità e il loro diritto, il rispetto dovuto al prigioniero; il trattamento inumano, la lunga o lunghissima detenzione in base solo a sospetti, la sottrazione di ogni garanzia giuridica, le torture fisiche e psichiche. Tutte cose volute e autorizzate da Bush con apposito decreto.

 

Ci si chiede qual è il dovere di un Papa che incontra un Presidente che ha fatto di queste cose, e un popolo che lo ha appoggiato. Se può tranquillamente abbracciarlo sorridendo e complimentarsi con lui, come col suo popolo. Se ciò che si esige da un presidente occidentale quando incontra il suo collega cinese o russo, che cioè lo richiami al rispetto dei diritti umani; che nessuna trattativa possa essere condotta se non sotto la condizione di questo rispetto; se questo non lo si debba esigere con più forza da un Papa.

Il quale dunque, dopo averlo abbracciato sorridendo, deve sedersi con lui e richiamarlo alla legge evangelica della giustizia e dell’amore fraterno. Deve chiedere la fine delle guerre e che l’America cessi di portare la guerra ovunque; cessi di sviluppare continuamente nuove armi, e lo stesso scudo spaziale, e inizi invece la demolizione dei suoi armamenti, domandando la stessa cosa anche agli altri stati, a cominciare da quelli che possiedono armi atomiche. Così come inizi lo smantellamento delle basi militari che ha ovunque in giro nel mondo. Poiché questi armamenti e queste basi sono la premessa di nuove guerre; perché quanto più si hanno armi, tanto più si è spinti ad usarle; tanto più i fabbricanti d’armi premono  per l’uso, cui sono legate le loro imprese e i loro profitti

Deve chiedere la fine dell’egemonia americana nel mondo. Che questo popolo cessi di dominare in molteplici modi gli altri popoli, sia giusto con loro, rispettando pienamente la loro autonomia; sia fraterno con loro; poiché è cristiano, e si vanta di esserlo, lo sia davvero, sia fedele alla legge evangelica di giustizia e di amore.

Deve chiedere la liberazione dei prigionieri islamici, la garanzia di giustizia (ha chiesto la fine della tortura, il rispetto dei diritti), trattamento umano, fraterno.

Deve chiedere la fine della pena di morte in tutta la federazione (dopo la strana sentenza della Corte  Suprema che autorizza l’iniezione letale, mentre l’ONU ha deciso la moratoria); perché non è lecito allo stato uccidere il cittadino; è una barbarie, un segno di arretratezza in un popolo che si crede all’avanguardia; è soprattutto un’ingiustizia.

 

Altrimenti a che serve la visita di un Papa? A chiedere scusa al popolo americano per i crimini dei preti pedofili? Un passo certo doveroso. A proclamare ancora una volta il rispetto della vita contro l’aborto? Ma quale rispetto della vita, se  in queste atroci guerre gli uomini muoiono a migliaia ogni giorno? se questi armamenti sono pronti per uccisioni mille volte più atroci?

La visita di un Papa, se porta l’annunzio e la legge del Cristo, e il suo sacrificio per i suoi fratelli,  non può essere una cosa facile, fatta  di abbracci e sorrisi, festeggiamenti per il suo compleanno, raduni trionfali negli stadi. Ma un confronto col vangelo, che per la debolezza e la malizia umana non può non essere doloroso. 

                                                                    (Nuovo Quotidiano di Puglia, 21 aprile 2008)                                                                                                                               

 

 

Migliorare il modello democratico

di Arrigo Colombo

 

         In questa fase in cui si stanno preparando le elezioni politiche, si fanno più evidenti i vizi del modello democratico in atto, da noi come ovunque; quel modello che si è imposto lungo la modernità, eliminando infine il dispotismo che aveva dominato l’intera storia umana; il modello della sovranità popolare. La quale è però ridotta al voto ogni quattro cinque anni, mediato poi anche pesantemente dai partiti; e con altri grossi vizi che hanno indotto la gente alla disaffezione, all’astensione, al rifiuto della “sporca politica”.   

Il modello parlamentare e partitico ha bisogno di essere corretto; oltre che di essere risanato dai gravi mali che lo affliggono.

 

La correzione concerne anzitutto l’esercizio della sovranità popolare rispetto a quello stato di riduzione, di espropriazione in cui ora si trova. Due misure possono essere introdotte.

Anzitutto le “primarie”, intese nel senso che i candidati vengano decisi dalla gente. Vengono presentati dai partiti (o anche si autopresentano all’interno di un partito), ma vengono decisi da un voto degli afferenti a quel partito; siano essi iscritti o meno. Si deve giungere a un giorno dedicato alle elezioni primarie a livello nazionale; giorno in cui si scelgono i candidati.

La seconda misura è il “mandato imperativo”, cioè quel voto per il quale l’eletto è responsabile ai suoi elettori, i quali lo eleggono in base ad un programma, a cose che esigono da lui sia a livello nazionale che locale; mantengono poi con lui un rapporto attraverso incontri periodici; e infine ne giudicano l’operato al termine della legislatura.

Questo tipo di voto è stato escluso dalla Costituzione con l’idea che “l’eletto rappresenta la Nazione”, non il collegio (art. 67). E se ne capiscono i motivi, cioè il fatto che la Repubblica era ai suoi inizi, dopo oltre vent’anni di dittatura; con un popolo che aveva scarsa esperienza di partecipazione politica. Mentre il mandato imperativo – come anche le elezioni primarie – richiedono una complessa organizzazione, che dev’essere studiata e poi realizzata. Inoltre i padri costituenti avevano grande fiducia nella capacità di mobilitazione dei partiti; che invece nel tempo si è fortemente estenuata, lungo l’esperienza del malgoverno, e in particolare col crollo del modello sovietico, dogmatico e dispotico, cui tendeva il PCI; e con la catastrofe di tangentopoli, che ha annientato gli altri due partiti chiave, la DC e lo PSI: la disonestà discoperta, denunziata, sottoposta a giudizio.

L’idea del mandato imperativo ricompare dapprima in Francia, nel programma di Ségolène Royal che però, non vincendo le elezioni presidenziali né quelle politiche, perde ogni forza realizzatrice, e incontra difficoltà nel suo stesso partito. Avendo contro di sé anche il maschilismo che nel partito impera. E però la sua proposta è il segno di una via che si apre, e che si deve percorrere per corrispondere al principio di sovranità popolare, per superare la disaffezione e l’avversione della gente, ampiamente motivata, per sottrarre i parlamentari ad una irresponsabilità che è insensata, e fortemente nociva alla nazione. Parlamentari che non vanno mai in Parlamento, che non vi prendono mai la parola, che non partecipano attivamente al lavoro legislativo.

 

Un altro punto, strettamente legato alla sovranità popolare, e ancor prima al principio di libertà-eguaglianza, è la presenza femminile. Sovranità popolare, quindi della donna come dell’uomo; presenza paritaria della donna che, poiché il processo di emancipazione è recente e il potere maschile, così come l’emarginazione femminile, è ancora forte, la dev’essere resa coercitiva; dev’essere stabilito che il 50 per cento dei membri del Parlamento come del Governo è donna.

Stupisce che il Partito Democratico, dopo aver annunziato che il suo eventuale Governo sarà composto paritariamente di uomini e donne, ora stabilisca che le candidate donne siano non il 50 ma il 30 per cento; il che vuol dire che poi le elette saranno ancor meno. Doveva stabilire, invece, che la metà dei seggi assegnati saranno riservati a donne.

 

Un punto che concerne la sovranità popolare nelle persone che di fatto la rappresentano, e concerne poi la dignità del Parlamento, che della sovranità popolare costituisce l’espressione suprema, è l’esclusione di tutti coloro che stanno nella sfera del reato. Non importa quale, e non importa il grado di condanna o meno. Il Parlamento è l’organo della legge, che fa la legge; esige la presenza di persone esemplari, intatte nella loro onestà; non si venga a dire che fino alla condanna definitiva c’è presunzione d’innocenza. Per un compito così alto deve bastare l’indizio di reato. Chi è indiziato, chi riceve l’avviso di garanzia deve restare fuori. Kohl, il leader tedesco, appena indiziato si è dimesso; mentre nel nostro Parlamento ci sono decine di perseguiti e di condannati. Un fatto  vergognoso, e che ci scredita di fronte alle altre nazioni.     

 

 

 

Il pericolo russo, il pericolo Putin

di Arrigo Colombo

 

         Putin annunzia al mondo il riarmo della Russia. Non si capisce bene perché, per quali scopi, in vista di quali pericoli. Un grosso spreco di denaro in un paese in cui c’è ancora molta povertà; e di questa, della condizione economica e sociale del suo popolo, dovrebbe occuparsi l’ambiguo e ombroso presidente russo, tanto smanioso di potere.

Poi, proprio in questi giorni, c’è quello strano suo interferire nell’autonomia del Kosovo in appoggio alle pretese della Serbia; ambedue contrastando il principio di autodeterminazione dei popoli; perché soltanto il popolo kosovaro ha il diritto di decidere il proprio statuto politico. Avendo egli creato nei Balcani una piccola enclave egemonica, che risale forse ai tempi del nefasto  dittatore comunista Milosevic.  

 

Qui il primo punto di pericolo è proprio la volontà di egemonia; quella egemonia anche pesante, sanguinosa, dominio politico e militare, che era caduta con la magnanima azione di Gorbaciov, il grande liberatore. Volontà di tutela su quello ch’era stato l’impero sovietico, sulle nazioni che lo compongono e che ora sono autonome; alcune delle quali, come la Georgia e l’Ucraina, palesano tendenze verso l’Occidente, verso l’integrazione europea, come verso un porto sicuro di libertà, benessere, pace. Mentre emerge, e a tratti esplode, l’altro problema interno delle etnie che compongono la grande Russia, più di un centinaio; alcune delle quali vorrebbero uno statuto federale, se non l’indipendenza; come la Cecenia anzitutto, cui si è risposto con una repressione feroce; o anche l’Ossezia e l’Inguscezia. Una volontà egemonica, dunque, che è tanto meno sensata in quanto ha ancora da risolvere problemi interni tutt’altro che semplici.

 

L’altro punto è il riarmo, che all’egemonia si raccorda. E che è stato stimolato dallo strapotere militare USA, dalle sue basi in giro per il mondo, dalle sue insensate guerre in medio Oriente, dallo sviluppo del cosiddetto “scudo stellare”, un sistema per proteggersi dai missili lanciati contro gli USA da non si sa quale parte del pianeta; per il quale si spendono somme enormi con un bilancio pesantemente passivo, e mentre 50 milioni di cittadini mancano dell’assistenza sanitaria  (sarebbe questo  il paese più progredito, che tutti invidiano). Si stimola la corsa agli armamenti; si provoca la reazione russa con basi in Cechia e in Polonia. Tutta la folle politica della Destra americana, di quell’ignorante e mediocre Bush di cui si attende con impazienza la scomparsa dalla scena.

Questo riarmo russo e putiniano ha soltanto motivi egemonici; di affermarsi come grande potenza anche militare, di rivaleggiare con gli USA. È pericoloso perché il possesso di armi ne stimola l’uso; perché la realtà è opposta a quella del famoso effato “si vis pacem, para bellum”, effato ideologico e falso perché se prepari la guerra finirai col farla, se accumuli armi finirai con l’usarle.

Ma è dannoso soprattutto perché inverte per parte sua la tendenza storica alla riduzione degli armamenti, alla distruzione delle armi; che già si era avviata durante la guerra fredda e poi si è interrotta soprattutto per l’acuirsi della volontà egemonica americana dopo il collasso dell’URSS. Ancor più dannoso perché inverte l’altra tendenza a creare sul pianeta zone di pace, come l’Unione Europea; e la Russia fa parte dell’Europa, anche se non dell’Unione. Mentre gli USA, passata la follia della Destra guerrafondaia, potrebbero allargare questa zona, col Canada e con l’America Latina, e più oltre col Pacifico, l’Australia, il Giappone. Restando ancora enigmatica la posizione della Cina, che pure con Mao aveva espressamente rifiutato la politica egemonica.

 

L’umanità cammina verso un’era di pace. È questa la linea di sviluppo che inizia con la modernità, con la costruzione di una società di giustizia;  i cui punti chiave sono i “diritti fondamentali” stabiliti nelle Carte e Costituzioni dei popoli, il modello democratico, il modello cosmopolitico che ha il suo fulcro nell’ONU (la quale dev’essere compresa - e non svalutata - come uno “work in progress”), il modello sociale di assistenza-previdenza-benessere (lo “welfare state”), il movimento pacifista e la creazione di oasi di pace. Studiosi come Huntington, con la sua teoria delle “guerre di civiltà”, non avevano una visione macrostorica, non avevano meditato né capito la storia universale. Nei riguardi della Russia sarà importante la politica di pace della nuova amministrazione americana; ma intanto l’Unione Europea, e in essa gli stati europei, hanno il dovere di sviluppare una intensa offensiva di colloquio, di scambio, di amicizia. È la linea pacifica da seguire se si vuol costruire la pace. Prodi e D’Alema lo avevano capito: con l’Iran, ad esempio, con la Siria; contro i quali Bush si accaniva e ancora si accanisce.   

                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 18 febbraio 2008)

 

 

La polemica con la comunità ebraica e il problema della conversione

di Arrigo Colombo

 

        La polemica è insorta in questi giorni e concerne la famosa preghiera del Venerdì Santo per i “perfidi giudei”, che è la penultima nell’orazione universale che segue la celebrazione della passione e morte del Cristo; presente da sempre nel Messale latino, letta per secoli. Scompare nel nuovo Messale in volgare che segue la riforma postconciliare; riforma che, seppur con un ritardo millenario – se si pensa a quando si formano prima i dialetti, poi le lingue nazionali, e il latino diventa lingua dotta –, introduce la lingua del popolo, affinché il popolo possa comprendere. Scompare la parola “perfidi” e tutto il suo contesto; si dice “preghiamo per gli ebrei” e “affinché quello che un tempo fu il tuo popolo eletto possa giungere alla pienezza della redenzione”.

Lo scorso anno papa Ratzinger reintroduce la Messa in latino, e con essa quel Messale, in cui ricompare la famosa preghiera; che subito viene notata e ci sono appelli da parte di varie chiese, ad esempio di quella inglese, contro quell’indegna espressione. Ora la  Segreteria di Stato pubblica una nuova preghiera, che però suscita apprensione e risentimento nella comunità ebraica in quanto s’invoca “che tutto Israele sia salvato  con l’ingresso della pienezza dei popoli nella tua Chiesa”.

 

Qui il problema è duplice. Il primo concerne la vecchia formula, che appartiene alla teoria del “popolo deicida”; teoria che ha dominato i due millenni di cristianesimo e ha scatenato la persecuzione degli ebrei fino all’olocausto nazista; ha scatenato l’antisemitismo che ancora non è scomparso. L’imputazione dell’ingiusta condanna del Cristo al popolo ebraico come tale. Il che è falso perché di tale condanna è responsabile semmai l’élite di potere, non il popolo; élite sacerdotale, dotta, farisaica. Nella quale v’è certo una gelosia di potere di fronte al profeta e al suo prestigio; ma v’è anche un’incomprensione, una difficoltà di capire il messaggio, la proclamazione messianica, dal momento che – in quella fase particolarmente, sotto l’influsso della letteratura apocalittica – il messia era atteso come un re, un guerriero glorioso, che nella battaglia escatologica annientava gli empi, le nazioni infedeli; li sottoponeva a giudizio, li condannava allo “stagno di fuoco”. Tanto che gli apostoli stessi, dopo la resurrezione, gli chiedono: “Signore, forse che ora ristabilirai il regno d’Israele?”

L’élite ebraica si presenta piuttosto come difensore della tradizione, della legge; il Cristo è accusato di bestemmia perché si proclama “figlio di Dio”, un’espressione incomprensibile nel monoteismo ebraico.

Ma anche se l’élite ebraica di potere fosse stata colpevole, se avesse con “perfidia” e malafede voluto la morte del Cristo; anche se l’intero popolo fosse stato colpevole, il cristianesimo autentico avrebbe dovuto rispondere solo seguendo la suprema legge dell’amore fraterno, la quale esige che anche il nemico, che anche colui che ti fa del male sia amato. Qui l’errore enorme della Chiesa, che ha scatenato la persecuzione e, attraverso il potere politico, ha privato gli ebrei dei diritti civili, li ha tante volte condannati ed espulsi, li ha costretti a portare un segno d’infamia, li ha rinchiusi nei ghetti; attraverso il popolo ha scatenato i pogrom. Una persecuzione millenaria, un fatto abnorme. Qui il significato perverso di quella preghiera.

 

Il secondo problema è quello della conversione. Che in certa misura appartiene all’anima del cristianesimo: “Andate nel mondo intero, predicate l’evangelo ad ogni creatura”; “ammaestrate tutte le nazioni, insegnate loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”. Ma è certo un precetto che si colloca sempre nell’amore fraterno, nella mitezza come nell’interiorità evangelica, nella libertà di coscienza. La conversione non può essere imposta, come purtroppo spesso è avvenuto; ogni religione, ogni fede, ogni profonda convinzione d’uomo, di fratello, dev’essere rispettata. Ciò che la Chiesa non ha fatto quando ha perseguitato i cosiddetti “eretici”, li ha torturati, li  ha bruciati vivi sul rogo. Non ha rispettato la coscienza del fratello, il suo pensiero diverso, fors’anche avverso, ma comunque da rispettare e da amare. In particolare, col maturare lungo la modernità del principio di dignità e diritto della persona, della sua libertà di coscienza, di pensiero, di parola, è maturato anche un rispetto e una comprensione più profonda del fatto religioso come ricerca di Dio e come manifestazione di Dio all’uomo. Specie per le religioni profetiche, e cioè, oltre all’ebraismo e al cristianesimo, il buddismo, l’islamismo; fors’anche il confucianesimo e il taoismo. L’idea che Dio, nel suo amore per l’uomo, essendo egli il Padre amoroso, non può aver lasciato l’uomo, o la maggioranza anche stragrande dell’umanità, nell’errore e nel male, ma gli si sia manifestato e lo abbia soccorso in modo molteplice; e che ogni religione, specie se evoluta, ed eticamente significativa ed alta, debba intendersi come una tale manifestazione.

Questa visione matura in una corrente teologica che sbocca più recentemente nelle opere di Jacques Dupuis, gesuita belga, docente a Delft poi a Roma: Gesù Cristo incontro alle religioni del 1989, e Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso del 1997. Perciò l’atteggiamento del cristianesimo verso le altre religioni deve diventare fraterno, secondo il supremo precetto; ma anche nella consapevolezza che ognuna porta, in un modo suo peculiare, una luce e una forza divina di salvezza. La conversione è sempre possibile, ma attraverso la convinzione e adesione della persona che sente la peculiare forza dell’annunzio; e  non è indispensabile; e può andare in un senso come nell’altro.

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 11 febbraio 2008)   

        

 

Sui mali dell’Italia, sui nostri mali

di Arrigo Colombo

 

        Da un po’ di tempo si parla di “declino dell’Italia”. Nella stampa, nei media. Se ne parla anzitutto in rapporto all’economia dove, si dice, manca iniziativa, manca creatività. In realtà la nostra economia è debole, fragile. Scarseggiano le grandi imprese, i grandi settori produttivi. Ci resta solo la Fiat, alla quale si è ridotto l’intero settore automobilistico (la Francia, con la stessa popolazione, ne ha tre, Renault, Peugeot, Citroën). Il settore elettronico, con la scalata dell’Olivetti fatta dai lombardi, si è ridotto a poco. Al settore dell’energia atomica si è rinunziato, per pretesi pericoli (la Francia, che confina con noi, ha una sessantina di centrali). Il settore  aeronautico è stato inopportunamente demolito nel dopoguerra, e recentemente si è anche rifiutato di entrare nella costruzione europea dell’Airbus (il ministro Martino ha detto, con sufficienza, che non c’interessava. Eccome? c’interessava moltissimo). Il settore siderurgico è stato falcidiato da  avventate cessioni (tipo la Thyssen) e dalla concorrenza asiatica. E così il settore cotoniero. È mancata una visione d’insieme, e quindi un’incentivazione. Siamo la nazione che consuma più cellulari, ma non ne fabbrichiamo alcuno; li compriamo dalla Finlandia, piccolo paese con cinque milioni di abitanti. E così dicasi dei computer ecc. ecc.

 

Recentemente ci ha sorpreso una notizia dataci nientemeno che dal governatore della Banca d’Italia, e cioè che i nostri salari erano del 30% inferiori a quelli dei maggiori paesi europei (quasi del 50% a quelli inglesi). Ci si è chiesto com’era potuto accadere, che cosa faceva mai il sindacato, un tempo il più potente e aggressivo d’Europa; che cos’aveva fatto negli ultimi dieci anni, se i salari erano tanto scaduti. Un fatto abnorme.

Ma i guai maggiori ci vengono dal settore pubblico, che è incomparabilmente il più vasto. A cominciare dalla pubblica amministrazione, di tradizione borbonica, tanto pletorica quanto inefficiente, lenta, e oltretutto dispendiosa. Ci si chiede perché i governi non siano mai intervenuti, non abbiano stabilito chiari e severi criteri di ammissione, controlli, valutazioni periodiche, con sospensioni e licenziamenti . Perché lo statale lavori sei ore al giorno, e anzi cinque (entra alle 8.30 ed esce alle 13.30, e così ruba un’ora); perché il posto gli sia incondizionatamente assicurato a vita.

Guai analoghi ci vengono dai grandi servizi nazionali. La scuola, che una recente indagine europea mette al penultimo posto. L’università, dove è assente ogni rigore nell’ingresso (si è visto la farsa autunnale dei quiz d’ammissione), nella frequenza, nei programmi sempre più ridotti (così lo studente resta ignorante), nei controlli e nella valutazione del corpo docente. La sanità, che certo è estesa a tutti ed è di buon livello; ma una recente inchiesta (e così il caso Mastella) ci dice che un’alta aliquota di direttori e primari è scelta non in base alla competenza ma all’affiliazione politica. Non parliamo delle ferrovie, arretrate di 25 anni rispetto alla Francia, dove si va da Parigi a Marsiglia in quattro ore scarse, mentre da Lecce a Milano ci vogliono dieci ore, un’intera giornata o una lunga notte; e dove i ritardi sono endemici. E non parliamo delle poste dove, secondo notizie recenti, migliaia di lettere e pacchi giacciono per mesi in grandi depositi, in attesa della distribuzione. Il servizio aereo, poi, lo stanno vendendo; invece d’impegnarsi a risanarlo (come ha fatto la Svizzera, dov’era addirittura fallito), hanno trovato più comodo venderlo al miglior offerente.

E al miglior offerente sono pronti a vendere il paese intero, i nostri bravi politici, dopo averlo essi stessi depredato in modo molteplice, con tutto quell’immenso denaro che spendono in lauti stipendi, in vitalizi, in consulenze varie, in commissioni esterne, in auto blu, in aerei di stato. Ed è poi l’enorme scandalo che ha suscitato in questi mesi l’indignazione della gente, l’avversione alla classe politica, alla “casta”. Un’avversione fors’anche eccessiva, e in parte certo errata perché indiscriminata; perché condanna tutti in blocco, condanna in particolare quello che era il parlamento e il governo in carica, che in verità era il meno colpevole, che s’era anzi messo sulla via delle riforme.

E però anche questa coalizione, l’Unione, soffriva dei mali della classe politica, e in genere della dirigenza pubblica italiana: il nepotismo, il clientelismo, la corruzione, e lo spreco che a tutto questo consegue.

 

Vi sono poi mali più diffusi, che affliggono quel popolo che detiene il potere sovrano, e lo esercita eleggendo i suoi rappresentanti, lo delega ad essi. Ma poi non ha nessun mezzo per controllarlo: il famoso “mandato imperativo”, che manca in Italia come in tutte le democrazie rappresentative, uno dei vizi da cui la democrazia deve ancora liberarsi. Per cui il popolo che delega un politico non può legarlo ad un programma, a cose precise da fare; né può sottoporlo a verifica e giudizio al termine del mandato. Se ad esempio non si è mai presentato in parlamento, o si è presentato 10 volte su 100; se non vi ha mai parlato; cose che accadono.

Vi sono però carenze più gravi nell’elettorato italiano; carenze che mettono in difficoltà la democrazia. E sono l’ignoranza, la disinformazione, la soggiacenza mediatica. Più forti da noi che negli altri maggiori paesi europei; perché più bassa (circa la metà rispetto all’Inghilterra) è l’aliquota che legge; in particolare che legge il giornale quotidiano in cui la vicenda del paese è non solo adeguatamente raccontata, ma spiegata e discussa; che questa vicenda conosce solo dalla scarna e spesso distorta notizia televisiva. Poiché la televisione è presente in ogni casa e tutti la vedono, e ha un grande potere di suggestione, e insieme di omologazione, di appiattimento, di mediocrizzazione. Ahimé! l’Italia deve crescere ancora tanto! E crescerà poi? o ci toccherà ancora tanto soffrire?

                                                                  (Nuovo Quotidiano di Puglia, 4 febbraio 2008)

 

   

Prodi, la sconfitta di un politico esperto ed onesto

di Arrigo Colombo

 

          Ciò che anzitutto colpisce nella figura e vicenda di Prodi è l’incomprensione popolare. La gente non l’apprezzava. Ciò era dovuto in parte al disprezzo di cui lo coprivano i suoi rivali, i berlusconiani, che non hanno mai imparato il rispetto dell’avversario; un tratto fondamentale in una buona politica; rivali che poi disponevano di un grande potere mediatico, di suggestione della gente. Ma era dovuto anche al suo tipo, un fisico non prestante, una parola che mancava di vivacità e di forza comunicativa; un’apparenza modesta, un “parroco di campagna” si diceva. E questo non era poco nella “società dello spettacolo”, come l’ha chiamata Debord in un famoso libro, società dell’apparenza, dell’apparire più che dell’essere; società dell’inganno, dove la gente si lascia sedurre dal volto simpatico del gangster, dalla sua parola vibrante e menzognera.

Colpisce inoltre la sfortuna politica, dell’uomo di governo che una prima e una seconda volta cade dopo soli due anni, per l’infedeltà o l’opaca ostilità di amici e alleati; prima Cossiga, poi Mastella e Dini. Che poi lascia perplessi, quando non inorriditi: l’insensata arroganza dell’uno, l’enigmatico rifiuto dell’altro (che ragioni aveva mai Dini di rifiutare il voto? se si leggono le richieste del suo documento di dicembre).

 

Prodi era anzitutto una persona onesta, un politico onesto; di un’onestà provata, sicura; rafforzata da una coscienza cristiana autentica  Cristiana, o anche di “cattolico adulto” come lui disse.

Era persona di caratura scientifica e di grande esperienza politica; estraneo ai quadri e alla dinamica di partito, che oggi vengono ampiamente avversati e condannati. Ministro, presidente dell’IRI, Premier una prima volta, Presidente della Commissione Europea con un quinquennio altamente operoso: introduzione dell’euro, aggregazione di dodici nazioni, varo della  Costituzione europea. Non era certo un politico improvvisato e disonesto, del tipo che ci è ampiamente noto.

Ha preparato il suo ingresso con la “Fabbrica del programma”, un centro in cui confluivano proposte, in cui studiosi e professioni s’incontravano, un fatto nuovo e di estrema serietà: dal quale è uscito un corposo programma. Cui si è fatta l’accusa di essere troppo ampio; certo troppo serio  per certa gente abituata all’improvvisazione. Ha voluto le “primarie”, sì da avere un’ampia designazione popolare; un fatto nuovo per gente abituata ad autonominarsi.

 

Una volta eletto ha iniziato un duro lavoro di ricostruzione, lavoro lungo e difficile, in un paese ampiamente degradato dall’incuria del governo precedente, dal berlusconismo. Tipico il caso del debito pubblico, il più alto d’Europa. Il primo governo Prodi aveva impostato un corso virtuoso di diminuzione del debito del 3% l’anno, il che  avrebbe fatto il 30% in dieci anni, sul 70% del PIL, vicino alla media europea; che il successivo governo aveva fatto risalire al 106% del PIL. Quindi anzitutto il risanamento economico, perseguito con fermezza, con un ministro dell’economia esperto e tenace, Padoa Schioppa, che ci mancherà, forse. L’impulso alle imprese, subito avviato con l’abbattimento del cuneo fiscale del 5%. E ora la politica sociale: il problema dei. bassi salari, la disoccupazione, i giovani; e il problema di abbassare la tassazione, che è tra le più alte d’Europa. Questo lavoro era in corso e difficilmente potrà continuare.

 

Il suo governo aveva un grosso handicap, la risicata maggioranza al senato; una specie di trappola preparatagli dal governo di Centrodestra che prevedeva la sua elezione. E però questa elezione non aveva raggiunto quell’ampia maggioranza che ci si aspettava sulla base delle amministrative precedenti. Anche questo un esito legato probabilmente al forte potere mediatico del governo Berlusconi, che controllava i canali televisivi. V’è qui un grosso nodo problematico per l’Italia; che si sarebbe forse risolto con la legge Gentiloni, la quale trasformava la Rai in una fondazione, sottraendola al controllo dei politici. L’autonomia della RAI come grande servizio nazionale è un passo necessario; ma con essa anche una norma che conceda ai privati non più di un canale. Il potere televisivo è troppo forte, per la sua capacità di suggestione e per la sua presenza capillare, in ogni casa; mentre solo una minoranza legge i giornali, in particolare i quotidiani, e i settimanali di livello politico e culturale.

Un governo, dunque, che ad ogni passaggio al senato correva pericolo. Inoltre una maggioranza molto composita e contrastata, le terribile frammentazione partitica italiana, che flagella particolarmente la Sinistra, la quale ora tenta faticosamente l’unità. Ma a tradire Prodi è stata l’ala destra, come già si notava: Mastella, risentito perché la magistratura aveva colpito il suo clientelismo e il governo non lo aveva abbastanza difeso, una strana pretesa; e l’enigmatico Dini. Avessero almeno avuto dei validi motivi, no, l’arroganza e l’insensatezza.  

                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 gennaio 2008)

 

 

 

Il papa all’università di Roma: le ragioni di un rifiuto

di Arrigo Colombo

 

        La vicenda dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Roma con tanto d’invito al papa, con la contestazione da parte di un gruppo di professori (lettera dei 67), e del collettivo studentesco, con la conseguente rinunzia papale, ha provocato un incidente nazionale,  una discussione scomposta e insensata in tutta la nazione.

Si è parlato d’intolleranza, di rifiuto del dialogo e del confronto in quella sede che dev’essere aperta alla parola di tutti, al dialogo e al confronto con tutti. Ma intanto il papa non veniva certo per dialogare, nella sua sovrana e divina maestà non sarebbe certo entrato in discussione con dei comuni mortali; il papa non discute, il papa annunzia e proclama quella che per lui (e, si presume, per tutti) è verità divina. A parte il fatto che l’inaugurazione di un anno accademico è una celebrazione rituale, estranea a discussioni. Il testo del suo discorso, apparso poi nella stampa, è molto pacato; non vi compaiono quei temi teoretici, quelli sì discutibili, presenti spesso in lui: il relativismo in cui sarebbe caduta la coscienza e scienza occidentale, la necessità di un fondamento religioso per l’etica che norma il comportamento umano, l’insufficienza della ragione. Ma probabilmente il testo è stato corretto.

Il mondo politico, poi, ha unanimemente deplorato il comportamento dell’università, di quella cricca di docenti (67 su 4800), di quel gruppuscolo di studenti; con uno spirito di sudditanza al potere ecclesiastico questa sì deplorevole, indegna di uno stato sovrano, e di una classe politica che dovrebbe riflettere sul comportamento dei cittadini e comprenderne i motivi.

Si è parlato di mediocrità della cultura italiana o addirittura di barbarie; di declino non solo economico (tema in voga in questa fase) ma culturale, dell’università e della scuola in particolare (cosa non del tutto falsa, ma non pertinente).

 

In realtà il fatto di Roma ha delle ragioni ben precise, non poi così difficili da individuare. Ragioni che stanno anzitutto nella continua interferenza della gerarchia nella prassi politica italiana. Interferenza che non sta tanto nel fatto che essa, – cioè l’episcopato, la curia, il papa – enunzi la sua visione di certi problemi etici, concernenti ad esempio la procreazione assistita, la condizione omosessuale, l’aborto; visione che talora è attestata su posizioni obsolete, in contrasto con le più avanzate posizioni teologiche; come sempre avviene nei centri di potere – un punto acquisito alla ricerca sociologica e politologica moderna. Non solo, quindi, enunzia e propone una dottrina ai suoi fedeli; ma interviene nelle decisioni in corso nel parlamento e nel governo italiano, al punto di minacciare sanzioni ai parlamentari cattolici che voteranno in modo difforme; interviene nell’attività politica dei cittadini prescrivendo loro il comportamento in un referendum.  

Con ciò contravviene ad un fondamentale principio maturato nella coscienza moderna, cioè la sovranità e autonomia dello stato; principio sancito nel testo del nuovo Concordato dell’84: che stato e chiesa “sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”. Principio, dunque, che la chiesa ha sottoscritto ma non ha assimilato, avendo perseguito per oltre un millennio – fino alla Rivoluzione francese e oltre – il dominio sullo stato; quel dominio perentoriamente affermato da papi come Gregorio VII, Innocenzo III, Bonifacio VIII. Lo stesso Vaticano II, che pur riconosce l’autonomia, non comprende appieno la funzione dello stato.

 

Questo comportamento invasivo provoca il risentimento soprattutto dell’intellighenzia; in parte anche di certa classe politica non incline al clientelismo ecclesiastico, soprattutto a scopo elettorale. Provoca un’ondata di anticlericalismo. Lo si è visto in questi ultimi anni. Voci che hanno chiesto la denunzia del Concordato, hanno chiesto la sospensione dell’8 per mille, o che il clero paghi le tasse per quelle attività che non sono strettamente religiose e cultuali; come ogni altro cittadino.

Si tratta di un sano anticlericalismo; che richiama il clero al rispetto dei suoi limiti, e al rispetto dei patti. Gli studenti hanno invocato anche un altro principio, più squisitamente popolare, oltre che giovanile; e cioè la “contestazione”. Anche il papa può essere contestato, dev’essere contestato; perché anch’egli può sbagliare, e  sbaglia difatti in molti casi; come ogni altro essere umano. L’infallibilità – prerogativa peraltro discussa, si veda il famoso libro di Hans Küng, "Infallibile? Un problema"  – gli è assicurata solo quando definisce una dottrina “ex cathedra”; prerogativa che tuttavia i papi hanno esercitato solo in due occasioni, e per temi oltretutto marginali alla stessa dottrina cattolica, per non parlare dei problemi dell’umanità: l’immacolata concezione e l’assunzione della Madonna.

 

 

 

 La pretesa moratoria sull’aborto

di Arrigo Colombo

 

La discussione sull’aborto, e sulla legge italiana che lo consente, si è riaccesa all’improvviso in seguito ad un’uscita di Giuliano Ferrara, noto personaggio proveniente dalla Sinistra e da tempo vicino a Berlusconi, che ha proposto una “moratoria sull’interruzione di gravidanza”; cui si sono subito associati i cardinali Ruini e Bagnasco chiedendo la revisione della legge; e persino il papa, che ne ha parlato durante un discorso al corpo diplomatico accreditato presso il Vaticano.

Dunque, dopo il successo della moratoria sulla pena di morte, si propone una moratoria sull’aborto, il quale sarebbe una pena di morte decretata al feto, ad una vita umana, anche se in corso di formazione.  

Ma fino a che punto vale l’analogia? Lo stato non ha diritto di uccidere il cittadino perché il suo potere si forma da una cessione di diritto del cittadino stesso, cessione parziale, restando la persona umana il primo e originario soggetto di diritto; questo è certo, anche se molti stati lo ignorano, la pena di morte è illecita.

E l’interruzione di gravidanza? È lecita nei primi quattordici giorni, quando l’embrione è ancora soltanto un grumo di cellule invariate, cui gli studiosi non riconoscono lo statuto di persona se non in potenza, non in atto. Quindi la pillola del giorno dopo. Dopo quei quattordici giorni la presenza della persona è discussa, ma ciò non consente più l’intervento; in caso di dubbio si può agire quando si tratta di un “dubium iuris”, non di un “dubium facti”; il cacciatore non può sparare se dubita che dietro un cespuglio vi sia una persona.

E però, se si introducesse la moratoria, se si sospendesse la legge che consente l’interruzione, si ricadrebbe nella situazione di caos sociale che ha preceduto e motivato la legge stessa; si ricadrebbe in un male maggiore, la legge avendo ridotto i casi di aborto di circa la metà.

La legge infatti consente, ma insieme mette ordine in questo spinoso contesto. La donna che per particolari motivi vuole abortire deve rivolgersi ad un consultorio o ad un medico di fiducia, il quale ha il dovere di studiare con lei le possibili soluzioni del suo problema, di aiutarla a rimuovere le cause che la inducono all’interruzione, specie se sono in gioco condizioni economiche o sociali, o il timore di reazioni familiari; la struttura le può offrire la possibilità di un’adozione, o dell’affido provvisorio del bambino a un istituto o ad una famiglia ospite. Di queste ultime eventualità la legge non parla esplicitamente, parla solo di “aiuto alla maternità difficile dopo la nascita”; un punto che forse sarebbe bene precisare.

 

La gerarchia cattolica, che continuamente insiste su questo problema, e interferisce con lo stato e la sua autonomia, deve capire che non tutto ciò che è immorale dev’essere anche illegale, perseguito e punito dalla legge. La quale può tollerarlo, può per particolari ragioni consentirlo e insieme regolarlo. Un altro caso tipico è la prostituzione, che è certamente immorale in quanto abuso venale del rapporto sessuo-amoroso (la sessualità non potendo mai essere correttamente  disgiunta dall’amore, almeno debole); ma è tollerata; una legge presentata ma non discussa nella passata legislatura, una legge saggia, proponeva di consentirla solo nel privato, togliendola dalla strada, dove è causa di un complesso disordine sociale.

 

Bagnasco e Ruini insistono sulla revisione; e nessuno nega che la legge possa essere migliorata. Certo non dev’essere toccato il principio che affida la decisione abortiva alla  donna, offrendole consiglio e sostegno, e fornendole il modo e i mezzi per condurla a termine. Si dice che il limite massimo, che ora è di 180 giorni, cioè 15 settimane e 5 giorni, dovrebbe scendere a 22 settimane perché con gli attuali mezzi di rianimazione e terapia intensiva un bimbo di sei mesi può sopravvivere; ma se sopravvive tanto meglio, sarà dato in adozione. Si vorrebbero vincolare le regioni su vari punti tra cui i colloqui di chiarimento e consiglio; se vengono fatti o no; ma, posto che la legge li stabilisce, non serve tanto il rendiconto, quanto il corretto funzionamento della struttura, la preparazione del personale, la sua umanità, il suo senso morale; e insieme il suo profondo rispetto per la donna, per il suo problema, la sua dignità.

In conclusione l’idea della moratoria non sembra una cosa seria: piuttosto la “boutade” di un giornalista, che come tale dev’essere considerata, senza farne un problema di stato. 

                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 14 gennaio 2008)

 

 

Bambini che scompaiono

di Arrigo Colombo

 

         Il Natale è festa dei bambini; e anche la Befana lo è, tutto questo ciclo festoso che abbraccia circa due settimane. E ai bambini va in questi giorni una particolare attenzione, un più intenso affetto.

Ma il pensiero va anche ai bambini scomparsi, che nel 2007 sono stati circa un migliaio. Ci sono anche i bambini uccisi, in quei delitti di famiglia che si sono particolarmente accresciuti negli ultimi anni: padri che non accettano la separazione, la decisione della donna di tagliare la convivenza, e uccidono lei e i piccoli figli. In un rigurgito di maschilismo, di volontà di dominio del maschio, arretrato in quello che era un tempo il suo ingiusto privilegio sulla donna. Ma anche madri che uccidono i piccoli figli per odio verso il padre, per disperazione, per depressione e follia.

Gli esperti lamentano da un lato lo scarso impegno della scuola nella giusta formazione dei sessi o generi: formazione personale, formazione civica, dignità e diritto della donna, pari dignità e diritto, rapporto giusto. Lamentano dall’altro, per la malattia psichica, la scarsità di strutture, di quelle comunità o case-famiglia che avrebbero dovuto sostituire i manicomi con una funzione più efficace e più altamente umana.

 

Ma torniamo ai bambini che scompaiono e che spesso rappresentano un enigma, un problema insoluto, e che non si riesce a risolvere. In casi divenuti anche famosi per la loro presenza nei media: come la bambina di Mazara del Vallo scomparsa nel 2004 a quattro anni; o i due fratellini di Gravina di Puglia.

Circa un migliaio, dunque, i bambini scomparsi nel 2007. Di questi 700 sono stranieri, immigrati, clandestini. Si dice che siano rapiti da cosche che li esportano in altri paesi e li schiavizzano per il furto e l’accattonaggio; o che addirittura li usano come fonte di organi per i trapianti. Ma non vi sono prove per tanta atrocità. Si parla anche di fantomatiche reti pedofile.

Circa 300 bambini italiani; di cui, però, la metà stanno tra i 15 e i 17 anni e rappresentano per lo più casi di fuga, di allontanamento volontario. Il vero problema è rappresentato dalla  settantina di bambini fino ai 10 anni. Non sono pochi. Si dice che l’80% si ritrova; ne resta dunque una quindicina. Gli esperti ritengono si debba fare attenzione ai conflitti familiari; dove i bambini verrebbero sottratti, trafugati, per toglierli al coniuge.

 

Il problema è tutt’altro che chiaro. Si parla sempre della società moderna come di quella che finalmente ha valutato il bambino, gli ha dato il posto che gli competeva, al centro della famiglia; lo ha circondato di cura e soprattutto di affetto, di amore.

Ma poi la società si fa complessa. La famiglia si restringe alla mononuclearità, ai genitori con uno-due figli; viene a mancare il parentado; la famiglia resta isolata. La donna si emancipa, e giustamente, e il lavoro è un fattore di emancipazione sia economica che personale. Il livello dei bisogni s’innalza, i due stipendi diventano indispensabili. I genitori lavorano ambedue.

I bambini dovrebbero andare prima al nido, poi alla scuola materna, per poi percorrere l’intero tirocinio scolastico. Ma bisognerebbe anche che gli orari di lavoro e scuola combaciassero; invece non si pensa a farli combaciare – se non in parte le scuole private, dietro compenso. Non solo, ma i nidi e le scuole materne scarseggiano, non sono ancora entrate – almeno in Italia – nel quadro istituzionale della formazione del bambino; come la scuola elementare e media. E questo crea un vuoto, in cui non si sa bene dove il bambino potrà essere collocato. Il quadro istituzionale dovrebb’essere riformato, adeguato alla situazione; i nidi e le scuole materne, ora di pertinenza dei comuni, dovrebbero generalizzarsi e passare alla gestione statale.

L’altro vuoto è creato dalla mancanza (o scarsità) del “tempo pieno”, dove il bambino sta a scuola tutto il giorno, e pranza a scuola. La coincidenza degli orari potrebb’essere concordata all’inizio, al momento dell’iscrizione; allora la famiglia dichiara le sue possibilità in fatto di orario (tenendo conto dell’eventuale aiuto del parentado, dei nonni se ci sono; o anche dell’intesa coi vicini) e l’accordo viene preso. La scuola deve provvedere al personale che opera coi bambini in quelle ore. Ma il “tempo pieno” deve generalizzarsi.

 Restano le precauzioni da prendere, che la famiglia deve insegnare e raccomandare con forza. Il bambino sa che non deve allontanarsi da casa, dal cammino scuola-casa se ci va solo; non deve parlare con estranei, non deve accettare nulla da essi; tanto meno deve salire sulla macchina di estranei che gentilmente si offrono di accompagnarlo.

                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 7 gennaio 2008)