ARCHIVIO ARTICOLI - 2005

 

                                                                                                                                           in costruzione

dalla ripresa di settembre

 

Indice:

Nascita e rinascita nel Natale, 24/12/05

La discussione sulla legalità, 5/12/05                        

La rivolta degl'immigrati francesi, 14/11/05

La gentile Italia disprezza e maltratta gl'immigrati, 31/10/05

Il rifiuto islamico dell'integrazione, 10/10/05

Una problematica riforma elettorale, 26/09/05

 

 

Nascita e rinascita nel Natale

di Arrigo Colombo

 

         Il Natale ci ha raggiunto ancora una volta con tutta la sua ampiezza e ricchezza. Ampiezza di un tempo che si distende per quasi due settimane, costellate da tre grandi feste, la Natività, la Circoncisione che è anche l’inizio del nuovo anno, l’Epifania. Ricchezza di un mistero al cui centro sta la nascita, il bambino con tutto il suo mondo incantevole e incantato, mondo di affetti, di amore in tutta la sua gamma; il dono e lo scambio di doni, simbolo di quella rete di amore e di affetti in cui viviamo, e che al vivere ci è necessaria. Quindi la festa, la gioia, un gioioso celebrare insieme tutto questo.

Giunge un tempo in cui l’umanità gioisce, si esalta nella gioia, impazzisce di gioia: quella “festa folle” che era presente già nell’antichità, e fu ripresa poi nel medioevo, e ancora si è conservata, nonostante tutte le omologazioni: nel Natale appunto, quando la gente impazzisce, così come impazzisce di traffico la città, impazziscono i negozi e i centri di acquisto; nella notte dell’anno, la notte folle; nel Carnevale, la festa folle per eccellenza. L’umanità ha bisogno di gioia, anche per compensare la fatica di ogni giorno, e il dolore che a tratti l’assale, e i flagelli e le catastrofi (due treni si sono scontrati l’altro giorno; in un tempo così tecnologicamente avanzato e attrezzato i treni ancora si scontrano); l’uomo essendo fatto per vivere nella gioia. Ricordiamo le parole del Cristo: “Questo vi ho detto, affinché il mio gaudio sia in voi e il vostro gaudio sia pieno”.

 

Ma ritorniamo alla nascita, al punto cardine del mistero natalizio; le feste cristiane essendo di per sé “misteri”, che cioè si adempiono nell’interiorità, in una partecipazione interiore e di grazia, del divino che sta in noi. Per cui la nascita del Cristo diventa un nostro reale nascere, quindi ogni volta un rinascere: chiamati a rinascere ogni anno, in un radicale rinnovarsi della nostra interiorità, delle nostre risorse interiori; come del nostro stile di vita e del nostro impegno operativo; del progetto e della vocazione che perseguiamo.

Il Natale ha una sua stupenda esteriorità (che può diventare anche superficiale e frivola, e molto materiale), ma ha pure una più profonda e decisiva interiorità che non deve andare perduta. Perché lì può e deve compiersi la nostra rinascita; lì ognuno deve incontrare se stesso (o anche Dio, il Padre amoroso, la sua amorosa presenza, il colloquio) e chiedersi seriamente. a che punto siamo? il Natale è di nuovo giunto, un altro anno si consuma, si apre un nuovo anno; e come ho vissuto, come posso vivere in un modo rispondente alla mia dignità di persona, ai miei compiti e alle mie responsabilità, ai miei ideali e propositi? e quali errori ho commesso, quali abitudini viziose funestano il mio comportamento, o anche danneggiano coloro con cui vivo, con cui opero? E quale può essere il mio programma per una vita migliore?

Molti non vivono bene perché non sanno compiere questo lavoro interiore; soccombono alle traversie della vita, soccombono al dolore, alla sfiducia, alla noia; soccombono alla colpa, al vizio. Un lavoro interiore che, in realtà, dovrebbe compiersi ogni giorno, purificando ogni giorno lo spirito; compiersi ogni volta che qualcosa di anomalo entra in noi, magari provocato da noi stesso; ogni volta che qualcosa ci turba o ci ferisce, anche duramente. Attraverso la riflessione, la ripresa del nostro proposito, delle nostre energie; attraverso anche l’accettazione. L’incontro con Dio è potente al riguardo, l’implorazione, l’adesione alla sua volontà amorosa; nel riconoscimento della nostra finitudine e del nostro nulla; cui soccorre la sua stupenda sollecitudine.

Ricostruendo così l’armonia del vivere, un vivere armonioso, uno dei più alti ideali, ma a tutti aperto: e così la serenità che nulla può turbare, nulla può sommuovere nel profondo; il turbamento o il dolore restando in superficie, mentre nelle acque profonde la calma permane intatta.

 

Gli antichi parlavano di “sapienza”, o “saggezza”; o anche di “virtù”. Nel senso che l’uomo sapiente o saggio o virtuoso è il più felice. In seguito, lungo il medioevo, penetrò l’idea che la virtù si potesse ottenere solo con la rinunzia e l’afflizione; che perciò non il virtuoso ma il vizioso fosse felice, godendosi le cose del mondo, la ricchezza e il potere e il piacere, il sesso, o anche l’alcool e la droga: la “bella vita”, si diceva. Ma la virtù afflittiva era solo uno stravolgimento del mistero cristiano della croce; quasi che l’intera vita dovesse essere “croce e martirio”. Mentre il Cristo l’affrontò solo alla fine, come prova suprema; e l’affrontò, come dice la lettera agli Ebrei, “essendosi proposto il gaudio”. Per una gioia più grande, sua e di noi tutti.

                                                                                                   (Nuovo Quotidiano di Puglia, 24 dicembre 2005)

 

                  

                                                                                                                                                                     

La discussione sulla legalità

di Arrigo Colombo

 

La discussione sulla legalità si è aperta nel paese in seguito a certe azioni e a certe affermazioni di Sergio Cofferati, sindaco di Bologna, e grande sindacalista, già segretario della CGIL, il maggiore sindacato italiano; e per un certo tempo, con Nanni Moretti il cineasta, leader dei “girotondi”, il più forte movimento di protesta della società civile. Un bel giorno Cofferati ordina che non siano più tollerati i “lavavetri”, i quali disturbano le auto ai semafori, punto delicato del traffico cittadino. Poi ordina lo sgombero di un caseggiato occupato abusivamente da immigrati; e ancora lo sgombero di un gruppo di famiglie di baraccati rumeni sul Lungoreno, il fiume che attraversa Bologna. E afferma il principio della “legge”: le leggi si rispettano, e si cambiano nelle sedi proprie; afferma che l’illegalità diffusa è fonte di malessere, d’insicurezza, di crimine, e non dev’essere tollerata.

Questo comportamento suscita enorme stupore e ripulsa; in particolare nella Sinistra e nei Movimenti; che storicamente sono protesi all’eversione della società ingiusta per costruire una società di  più alta giustizia. Suscita stupore nel cittadino onesto, il quale sa che vi sono delle leggi ingiuste. Come la Bossi-Fini in materia d’immigrazione – materia in cui rientrano i lavavetri come gli  sgomberi –; una legge che semplicemente ignora alcuni grandi principi etici della tradizione cristiana e occidentale, il principio che “la terra è di tutti” e il “principio fraterno”; e sopprime l’accoglienza. O come le numerose leggi ad personam varate dalla maggioranza parlamentare in favore di Berlusconi, dei suoi interessi e processi; che costituiscono il grande scandalo di questa legislatura, la degradazione morale, la vergogna dell’Italia nell’Europa.

 

Il conflitto nasce ogni volta che la legge infrange i principi etici che vincolano insuperabilmente la coscienza e il comportamento umano, e stanno quindi alla base di ogni ordinamento giuridico. Ora è vero che lungo la modernità si è sviluppata la teoria della “positività” del diritto statale, di un diritto che s’impone per se stesso, indipendentemente da ogni norma etica; di cui è caposcuola nel ‘900 Kelsen, con la sua pretesa dottrina “pura” del diritto. Ma è anche vero che, lungo la stessa modernità si sviluppano i grandi principi etici o “diritti fondamentali”, che vengono sanciti nelle “Carte dei popoli” e stanno alla base delle Costituzioni; a cominciare dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” nella Rivoluzione francese (ma già nella Rivoluzione inglese il “Patto del popolo”), fino alla “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948 e alla “Dichiarazione dei diritti dell’Unione Europea” del 2000. Questi fondamentali principi etici vengono assunti nelle Costituzioni e le informano. Ciò che i positivisti del diritto, e Kelsen, sembrano ignorare; essendo carenti in fatto di conoscenza e scienza storica..

Così  il principio di “dignità e diritto della persona umana”, “pari dignità e diritto di uomo e donna”, “pari dignità e diritto dei popoli”. Quindi il rispetto del prigioniero, del rifugiato (sancito anche dalla Convenzione di Ginevra), il rispetto dell’immigrato. Il principio di libertà (in particolare la libertà di coscienza, ma anche la libertà dal bisogno), di eguaglianza, di sovranità popolare; il principio di solidarietà.

 

La legge è costitutiva della “politicità” in cui si garantisce la convivenza umana. Nasce dal “patto” ma assume nel mondo antico un carattere di sacralità: Socrate si rifiuta di fuggire dal carcere perché, dice, gli si farebbero incontro le leggi e lo rimproverebbero, “come osi tu infrangere l’ordinamento su cui si regge la tua città?” È  però chiaro che la legge ingiusta contrasta con la coscienza e col vincolo insuperabile che l’astringe, e non può essere osservata; non deve essere osservata.

La dottrina tradizionale dice che, poiché infrangerla comporterebbe disordine sociale e intervento coattivo, cioè detenzione e carcere, il cittadino dev’essere prudente, deve misurare il rischio. Può ovviarvi con misure suppletive senza infrangerla direttamente. Così i lavavetri possono esser recensiti in ordine a risolvere il loro bisogno; le occupazioni abusive d’immobili o fabbriche dismesse, senz’acqua né luce né servizi igienici, in condizioni obbrobriose per la dignità umana e pericolose per la salute, possono esser risolte con forme decorose di ospitalità; i Comuni non devono tollerarle nel senso che devono provvedere ad abitazioni decenti. È il loro stretto dovere. I Centri di permanenza temporanea per immigrati, che sono forme di detenzione ingiusta, istituiti da una legge che contrasta con altre leggi, possono essere ovviati con Centri di accoglienza (anche d’immigrati in attesa di lavoro) garantiti dalle Regioni.

La trasgressione diretta della legge ingiusta è talora necessaria: come richiamo al legislatore, al cittadino, alla sua coscienza. Si può dire che è necessaria sempre, in quanto la legge ingiusta non può essere tollerata. Con la “disobbedienza civile”; con la mobilitazione trasgressiva, la rivolta, la rivoluzione. Solo attraverso le rivoluzioni moderne la società ingiusta è stata affrontata con forza; il dispotismo monarchico-aristocratico è stato abbattuto; si sono affermati i diritti fondamentali; si è imposto il modello democratico. Rivolta e rivoluzione sono garantite dal popolo, che è detentore incondizionato della sovranità; e rescinde il patto che si è rivelato ingiusto.

                                                                                                                           (Nuovo Quotidiano di Puglia, 5 dicembre 2005)

 

 

La rivolta degl’immigrati francesi

di Arrigo Colombo

 

 La rivolta degl’immigrati è scoppiata improvvisa (come sempre) in Francia, nella “banlieue” parigina, rinnovandosi ogni notte con lo stesso furore, estendendosi poi ad altre città.

Era attesa. La discussione se la rivoluzione fosse ancora possibile, dopo la modernità, l’ “età delle rivoluzioni”, dopo l’integrazione e la progressiva estinzione della classe operaia; se fosse ancora possibile la rivolta dopo l’ascesa della condizione popolare nello “welfare” e nella società del benessere; questa discussione aveva spesso intravisto nel nuovo proletariato dell’immigrazione il possibile ceto portatore dell’evento eversivo. E però non di un evento rivoluzionario, evento popolare globalmente eversivo di una società ingiusta per costruirne una più giusta; l’immigrazione essendo marginale; ma di una rivolta certo, che tuttavia potrebbe anche estendersi, coinvolgere l’intero occidente europeo, assumere in tal senso un significato globale.

In realtà si è scatenata una rivolta rabbiosa, distruttiva di oggetti (come l’automobile) e di strutture (scuole, uffici, banche) di questa società del benessere da cui si sente esclusa. Non progettuale ma simbolica, e quindi significativa, nella distruzione. Che non è la rivolta dei “sans papiers”di qualche decennio fa; dei cosiddetti “clandestini” senza permesso di residenza, senza tetto e senza lavoro; ma dei giovani immigrati di seconda e terza generazione, cittadini francesi, che dovrebbero essere integrati e non lo sono, non riescono ad esserlo.  Una rivolta, dunque, contro l’emarginazione, che soprattutto i giovani risentono. Nelle cinture suburbane in cui l’emigrazione è stata ammassata: non sta con gli altri, con i francesi; anche se sulla carta è francese. Nei quartieri dormitorio privi di verde e di servizi, di strutture sportive e ricreative, strutture associative, spazi,  luoghi d’incontro, cinema, locali di relax e di musica. Nel mancato rapporto umano col popolo ospite, trattati sempre come “diversi”, come potenziali nemici: cui si rifiuta l’appartamento, si rifiuta il lavoro, si rifiuta il gesto amico, si rifiuta la parola.

In quest’analisi gli studiosi sono d’accordo.  Si è parlato di una possibile organizzazione occulta, di squadre organizzate di picchiatori, di “casseurs”; ma, anche se fosse vero, non sarebbe che una variante del fenomeno, il cui senso è quello. Si è anche osservato che, nelle difficoltà di bilancio dell’ultimo decennio, erano stati soppressi fondi sociali e ricreativi destinati proprio elle periferie; e così la situazione era peggiorata.

 

Meraviglia un poco che ciò accada in Francia, paese che ha una lunga esperienza d’immigrazione; paese ricco, cui non mancano i mezzi; paese che ha inalberato, con la grande rivoluzione, il vessillo di “libertà, eguaglianza, fraternità”, e lo ha diffuso, ha dato l’avvio all’emancipazione dell’Europa. Ma la Francia è anche la patria dello sciovinismo, il popolo che si ritiene superiore a ogni altro; dove persino la traduzione di libri stranieri – a parte i bestsellers e la narrativa internazionale – viene avversata da una cultura che si ritiene autosufficiente. Un paese che ha mantenuto con durezza la colonizzazione anche quando l’autonomia dei popoli si era affermata; e ha fatto due guerre (in Vietnam e in Algeria) per mantenerla.

Alcuni le contrappongono gli USA, il “melting pot”, il paese in cui tutti hanno emigrato ed emigrano, e in cui si ritrovano come autentici statunitensi. Ma è poi vero? e poi il problema del popolo nero, popolo di schiavi, che ha dovuto lottare duramente, in tempi recenti, per l’integrazione, i diritti civili, questo problema non è forse ancor oggi aperto?

 

Il problema dell’immigrazione si pone con forza per la Francia come per noi, per l’intera Europa. Ed è anzitutto un problema di coscienza, di una coscienza autenticamente umana, che riconosce in ogni altro l’uomo, l’eguale, il fratello. Ed è quindi un problema di accoglienza:  perché avendolo riconosciuto lo accoglie come un uomo, un eguale, un fratello; non come un estraneo invasore, un rubalavoro (che poi è falso), un criminale, un lurido negro; un “vu cumprà” che invade i marciapiedi su cui il buon cittadino ha diritto di camminare tranquillo, un lavavetri che disturba il guidatore al semaforo. Un tipo pericoloso da respingere, da reimbarcare su di un aereo per riportarlo a casa sua, o abbandonarlo nel deserto africano. Cose che avvengono ogni giorno  non solo in Francia, la cui polizia è considerata particolarmente dura; ma nella “gentile” Italia; da parte di ministri “cristiani”, per i quali il principio fraterno dovrebb’essere imperativo; con una legge come la Bossi-Fini, fatta da buoni cristiani, che rifiuta il principio di accoglienza, e se ne frega del principio fraterno.

Un problema di coscienza, che s’impone ad ognuno di noi. Un problema di accoglienza, d’impegno concreto cui ognuno di noi deve maturare, crescere. Un problema di strutture, di politica umana dell’immigrazione, cui devono maturare i governanti che noi eleggiamo. Speriamo presto, che la sofferenza degl’immigrati non perduri, non si esasperi; speriamo non troppo tardi, quando la rivolta sarà scoppiata e le nostre preziose, amate automobili saranno in fiamme

                                                                                               (Nuovo Quotidiano di Puglia, 14 novembre 2005)

 

 

                                                                                                             

La gentile Italia disprezza e maltratta gl’immigrati

di Arrigo Colombo

         

             L’esperienza del giornalista dell’”Espresso” Fabrizio Gatti, che ha passato una settimana da immigrato clandestino nel Centro di Lampedusa; che ha sperimentato e rivelato ciò che quotidianamente vi accade, ha suscitato indignazione e ripulsa in molti, certamente. A prescindere dal Governo, che preferisce ignorare; e dal Ministro Pisanu, il più alto responsabile, che vorrebbe pure scansarsene, ma è chiamato in causa dal Parlamento e dalla Commissione europea, dal suo stesso collega Frattini, addetto alla libertà e alla giustizia. A parte l’ignobile ammasso di persone (fino a 1250), che potrebbe anche essere scusato in momenti di straordinaria affluenza; alla quale bisogna tuttavia provvedere con alloggi di emergenza; ciò che colpisce è una generale noncuranza, e più oltre il disprezzo e il maltrattamento dell’immigrato. A cominciare dall’igiene: gli scarichi intasati, le tazze ripiene di orridi liquami che debordano e scorrono sul pavimento dove si è costretti a camminare o anche a sedersi. Quindi i soprusi, il denaro prima requisito e poi non più restituito. Quindi i maltrattamenti, gli schiaffi e le percosse, allegramente distribuiti da carabinieri indegni che ne fanno un gioco. Le umiliazioni, costringere la gente a spogliarsi nuda quando non è necessario, deridere la loro fede.

 Riemergono qui comportamenti già emersi altrove, nel G8 di Genova, ad esempio, nella caserma di Bolzaneto. Emerge ancora una volta la dolorosa constatazione che i corpi di polizia mancano di quella formazione etica ed umana che è fondamentale per la loro professione: il rispetto per l’uomo, chiunque sia, detenuto anche il peggiore, immigrato povero e impotente; il fondamentale principio della “dignità e diritto della persona umana”, in ogni caso, in ogni circostanza. I corpi di polizia, i loro apparati, i comandanti supremi devono essere richiamati alla necessità di questa formazione. O altrimenti avremo ancora sempre delle polizie brutali, inumane, pronte ad abusare del loro potere, a maltrattare il cittadino e l’uomo.  Riemergono i comportamenti ambigui ed elusivi delle alte sfere governative: il Viminale, il Ministro. L’ispezione del Parlamento europeo beffata in settembre da un Centro in perfetto ordine e con solo undici immigrati (perciò Bruxelles chiede che le ispezioni siano dorinnanzi a sorpresa, senza preavviso); il Ministro che si sottrae alla richiesta di audizione del Parlamento europeo fino a quando saranno concluse le ispezioni in tutti gli altri stati membri. Riemergono le incongruenze della legge Bossi-Fini, l’ingiusta legge che regola questa materia rifiutando il principio di accoglienza; rifiutando i principi che animano l’intera tradizione europea, il principio che “la terra è di tutti”, e il “principio fraterno”. Hanno soppresso l’accoglienza, hanno distrutto ogni senso di pietà per questi fratelli bisognosi che vengono a noi cercando lavoro e pane; e di cui, per di più, noi abbiamo bisogno; la nostra economia, la nostra esistenza e coesistenza ne ha bisogno (si pensi alle colf e alle badanti; e a molti altri mestieri, dai taxi agli ospedali). Incongruenze massicce non solo sul piano etico, ma su quello stesso giuridico; come molti hanno rimarcato in questi anni. Perché un cittadino non può essere privato della libertà senza una decisione del magistrato entro un tempo massimo di 48 ore; e il Viminale ha assicurato che per ogn’immigrato v’è un’udienza di convalida davanti a un giudice di pace, mentre non v’è. E perché  ogn’immigrato ha diritto a un’attenta identificazione in ordine alla sua eventuale qualità di rifugiato (da governi dispotici, da situazioni di guerra e guerriglia).

 Siamo di fronte a gravi lesioni dei diritti fondamentali, lesioni di Convenzioni internazionali, lesioni del diritto comune. Di fronte a un Governo inosservante dei diritti, delle convenzioni e delle leggi. Di fronte a una legge Bossi-Fini che essendo ingiusta non può esigere di essere osservata. Qualche mese fa un gruppo di Presidenti di Regione si era coalizzato per abolire i “Centri di permanenza temporanea” in cui gl’immigrati vengono detenuti; o trasformarli in “Centri di accoglienza”; o comunque promuovere Centri di accoglienza anche senza contrastare l’ingiusta legge, ma solo compensandola. Così nel Salento, il “Regina Pacis” potrebbe riprendere in modo degno, umanamente e cristianamente, la sua attività; così molti altri Centri che dipendono dalla Chiesa o da organizzazioni private di solidarietà. Dov’è finita l’iniziativa dei Presidenti di Regione? e perché la Chiesa non si muove in modo massiccio in quest’azione di carità fraterna che corrisponde al più alto precetto evangelico?                                                                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 31 ottobre 2005)

 

 

Il rifiuto islamico dell’integrazione

di Arrigo Colombo

 

 

             Il caso della scuola islamica di Via Quaranta a Milano, il conflitto che si protrae da circa un mese, ci ripropone, con netta evidenza, il problema dell’integrazione. Mi spiego. Cinque giorni prima dell’inizio dell’anno scolastico il Comune l’ha chiusa perché non corrispondeva  all’ordinamento italiano, ai parametri che per legge una scuola deve avere per adempiere il suo compito educativo e culturale. Ha proposto una scuola pubblica, con in più un adeguato insegnamento della lingua e cultura araba, e della religione islamica. Ma le famiglie la rifiutano, vogliono una scuola islamica al di fuori di ogni altro canone, hanno deciso di riaprirla. Il provveditore giustamente nota che lo potranno fare se avranno locali idonei, insegnanti abilitati, programmi corrispondenti alla norma, che un funzionario valuterà.

 Questo conflitto è significativo di una coscienza e una prassi propria della cultura islamica;  coscienza e prassi secolare e millenaria; che ancora persiste con forza. L’alterità da ogni altro popolo: in quanto possiede ciò che nessun altro popolo possiede, la rivelazione e la fede di Allah, l’unica vera. Il rapporto con gli altri popoli configurandosi in un solo modo, che è la conquista a quella rivelazione e fede. Ciò è chiaro nel Corano; ed è chiaro nell’intera storia islamica, che si sviluppa come conquista già durante la vita del Profeta, e subito dopo lui nel Califfato, e in tutta la sua vicenda fino all’Impero ottomano. Con l’ascesa delle potenze occidentali l’imperialismo islamico decade e soccombe, ma il suo spirito resta intatto; e riprende forza coi movimenti fondamentalisti, col regime teocratico iraniano, con la folle velleità di universale conquista di Al Quaeda.

 

E’ mancato all’Islam un passaggio storico decisivo, quello della “secolarizzazione”. La quale ha diviso finalmente ciò che in tutto il mondo antico e medievale, e in tutto il mondo non-europeo, era sempre rimasto unito, il religioso e il politico. Ha assicurato allo stato l’autonomia da quel potere religioso ed ecclesiastico che nelle religioni antiche era detenuto dallo stato stesso; ma nelle religioni rivelate, e ierocraticamente strutturate, s’imponeva allo stato con la sua pretesa prerogativa della verità e volontà divina. Perciò il Corano è rimasto intatto come regola di fede e come codice di comportamento; non si è purificato dalle scorie di costume arabo antico che contiene: la poligamia, l’asservimento della donna, la legge del taglione, la conquista alla fede con le armi, intolleranza suprema.

E’ mancato inoltre all’Islam il progetto utopico di una società giusta e fraterna, annunziato nel profetismo e nel Vangelo; trascurato dalla chiesa; ma ripreso dai movimenti di liberazione moderni, a cominciare dall’Umanesimo del ‘400, dai movimenti rivoluzionari. Che iniziano a costruire una società di giustizia stabilendone i fondamentali diritti, nelle carte dei popoli, nelle costituzioni; e impostando e sviluppando il modello democratico; poi il modello cosmopolitico, di una comunità planetaria dei popoli. La “dignità e diritto della persona umana” (per cui non si può tagliare al ladro la mano o il piede), la “pari dignità e diritto di uomo e donna” (per cui la donna non può essere chiusa nel velo, nella casa, sotto la tutela del maschio), la “pari dignità e diritto dei popoli” (per cui nessuno può essere soggetto all’altro), il “principio fraterno” (per cui tutti i popoli sono fratelli; il principio più alto, che anche noi stentiamo ad assimilare).

 

L’islamico, dunque, viene da noi per il lavoro e il pane, ma non pensa che, con questo, egli diventa ospite (in seguito anche cittadino) di una società giuridicamente ordinata e strutturata; di cui egli gode i vantaggi (non gli sarà mozzata la mano o il piede se per caso ruba) ma deve anche osservare la legge. Così quella della scolarizzazione obbligatoria e gratuita nella scuola di base; poi comunque ordinata alla formazione culturale e personale del cittadino, e alla professione in cui la persona si adempie e si attesta nella società. Deve osservarne la legge ma anche assimilarne la cultura, in quella equa misura che gli consenta di essere associato e non isolato, non emarginato o marginale. Pur conservando una sua identità culturale di fondo. Sulla base del principio d’uomo, che siamo tutti uomini, abbiamo tutti questa più profonda identità; e del principio fraterno che, sia pur incoativamente, tutti ci unisce. Di contro all’ostinata volontà di essere e conservarsi altro, alla pretesa superiorità (l’errore per cui ogni nazione si considerava la più grande – “per il Greco ogni barbaro è schiavo” –, ogni religione la più vera, l’unica vera), al rifiuto, all’occulta volontà di conquista.

La legge, dunque, la scuola secondo legge; il rapporto umano, che noi per primi dobbiamo cercare; il rapporto fraterno che per i cristiani – e per l’Occidente che sul cristianesimo si fonda – è legge, la evangelica legge dell’amore. Libertà, eguaglianza, fraternità non erano la divisa della grande rivoluzione che ha trasformato il mondo?

                                                                                                                             (Nuovo Quotidiano di Puglia, 10 ottobre 2005)

 

Una problematica riforma elettorale

di  Arrigo Colombo

 

 

            Il Centro-destra vuole dunque mutare di nuovo il sistema elettorale, ritornare al proporzionale. Già, perché proporzionale e uninominale sono i due sistemi finora da noi provati. Il primo si attiene ai voti che ogni partito raggiunge nella circoscrizione; il secondo crea nella circoscrizione dei collegi in cui risulta eletto il candidato-partito che ha più voti. Tuttavia, nel sistema attuale, i voti degli altri partiti non vanno persi, ma vengono utilizzati proporzionalmente per candidati residui: il cosiddetto “scorporo”.

I padri fondatori dell’Assemblea Costituente hanno preferito il proporzionale puro, come quello che risponde meglio alla volontà popolare, la prima e fondamentale detentrice del potere.  Perché popolare era il loro impianto politico, sia per la parte socialcomunista, sia per quella democristiana; impianto egualitario, con forte valenza etica, forte senso della giustizia. Il sistema ha rivelato un caratteristico inconveniente, quello dell’instabilità dei governi, che duravano circa un anno; per il frazionamento dei partiti e delle correnti. E tuttavia ha gestito la nazione in una fase di grande crescita sociale, culturale, economica. Perché, a dire il vero, decisivi non sono i governi, semmai il Parlamento da cui promanano, e la cui funzione veniva potenziata da quell’instabilità; ma decisiva è anzitutto l’intera nazione nel suo impegno di civile convivenza e di costruttività.

Il proporzionale puro, tuttavia, pur con la sua impronta egualitaria, si trovava spaesato in Occidente; dov’era forte l’attrazione del bipartito anglosassone, che aveva accompagnato la nascita della democrazia, in Inghilterra prima, poi negli Stati Uniti; e rifletteva le due classi egemoni, aristocrazia e borghesia prima, borghesia e proletariato poi; ed era per eccellenza stabile; e però pragmatico. Mentre in altre grandi nazioni europee, tra cui l’Italia, alla base dei gruppi politici v’era un’idea, un ideale, o anche un’ideologia (quando l’idea si distorce in una tensione di potere: come nel comunismo di matrice sovietica, dove il partito schiaccia il popolo; o nel liberismo americano, dove la libera iniziativa economica diventa incondizionata volontà di profitto attraverso lo sfruttamento e la speculazione). E però anche in queste nazioni l’esperienza dell’instabilità aveva portato in Germania alla correzione del proporzionale con la soglia del 5% (i partiti che non la raggiungevano restavano esclusi); in Francia ad un regime presidenziale.

Con l’uninominale s’introduce un principio d’individualismo, che tende a soppiantare il principio popolare ed egualitario; e che da noi si è espanso con l’elezione diretta del sindaco, e del presidente di provincia e regione, e con la giunta da loro formata a prescindere dai rispettivi consigli, come loro personale organo di governo. Ora si vorrebbe anche la designazione diretta del premier, con un governo di sua esclusiva competenza, sottratto al potere del Parlamento come del Presidente della Repubblica; cioè alla situazione di particolare equilibrio che finora lo ha caratterizzato. Essendo il Parlamento il fondamentale depositario del potere popolare; mentre il Presidente è garante costituzionale sia per il Parlamento che per il governo.

L’individualismo si è d’altronde manifestato nell’ulteriore frazionamento e sbriciolamento partitico; nel pullulare di leader che si formano il loro feudo personale. Come Segni, Di Pietro, D’Antona; mentre i vecchi maggiori partiti si sono divisi in tre (così PCI, DC, AN, e dunque nove almeno), quando non si sono frantumati e ridotti all’impotenza come i socialisti. Li hanno chiamati “cespugli”. Ma questi cespugli nessuno osa toccarli. Un proporzionale alla tedesca, con soglia del 5%, e senza il salvacondotto della coalizione, sarebbe salutare contro l’individualismo latino.

 

Non è facile dire che cosa sensatamente si possa fare in questo sfilacciamento residuale, dopo che sono crollati i partiti storici così come i loro principi; cui del resto non avevano tenuto fede. La riforma elettorale del Centro-destra parte dal partito cattolico, che spera col proporzionale di avere più voti perché nell’uninominale prevalgono i partiti maggiori, in quanto hanno un elettorato più ampio. Sembra che Berlusconi avrebbe voluto approfittarne per eliminare i partiti minori che fanno capo all’Unione, e così mutilarla. In realtà, dalle proposte fatte in questi giorni, non sembra che cambi gran che: a parte quello sconcio premio di maggioranza che già conosciamo come “legge truffa”. Si stabilisce la soglia del 2% per i partiti coalizzati, del 4% per i non coalizzati, del 10% per le coalizioni. Il che vuol dire che scompariranno i piccolissimi (tipo la Fiamma, l’Alternativa della Mussolini, il Patto Segni, fors’anche il PDCI di Cossutta e Diliberto, e l’UDEUR di Mastella, la diaspora socialista e altre liste episodiche); a meno che non confluiscano in altri gruppi e, si spera, non soltanto per salvarsi. Un piccolo fatto benefico.    

                                                                                                                          (Nuovo Quotidiano di Puglia, 26 settembre 2005)