L’unificazione dell’umanità. Un processo di utopia storica
di Arrigo Colombo
Uscito sulla Rivista di Studi Utopici, n. 4, nov. 2007
È questo un discorso di utopia storica, la quale è poi il nuovo senso dell’utopia che, partendo da Marx ed Engels, attraverso due grandi maestri del ‘900, Karl Mannheim ed Ernst Bloch, giunge a noi e si precisa e sviluppa ulteriormente. Rispetto all’utopia filosofico-letteraria, il «progetto degli autori», dei maîtres rêveurs, come li chiama uno studioso francese, i maestri sognatori; e non è certo un apprezzamento ridurre la loro intensa e molteplice progettualità di secoli a un semplice sogno, a un gioco immaginoso e irreale. Ma è ancor oggi il concetto corrente dell’utopia, dominante anche tra i dotti. Mentre l’utopia storica è il «progetto dell’umanità per la sua liberazione»; un progetto realissimo, portato da movimenti di popolo; e quindi un processo in atto nella storia, la costruzione di una società di giustizia, di comunione tra gl’individui come tra i popoli, di benessere, di pace. L’unificazione dell’umanità è un punto forte di questo processo.
1. L’umanità divisa
La più importante riflessione antica sull’umanità divisa compare nella Bibbia, in quei primi undici capitoli della Genesi che sono consacrati ad una specie di storia universale dell’umanità. Una mitostoria; ma in cui il mito è ricchissimo di senso.
Qui la divisione dell’umanità, che in origine è una, ha avuto inizio da una sola coppia, compare tra i fatti ed eventi che conseguono al peccato, e alla decadenza dell’umanità provocata dal peccato. Il delitto di Caino, la violenza di Lamek, le serie di patriarchi contrassegnati da una sempre minore longevità, minore forza vitale; il diluvio, il castigo ma insieme il tentativo di un nuovo inizio, una stirpe di giusti, riconoscendo però che «la cattiveria dell’uomo è grande, [..] il suo cuore non forma se non pensieri rivolti al male» (5, 5). E infine Babele, dove la dispersione e l’incomprensione tra i popoli compare come un castigo divino all’orgoglio umano; alla hybris, direbbero i Greci, la smodatezza di voler penetrare i cieli (11, 6-9).
Quest’idea della divisione e dispersione dei popoli come male è profondamente vera perché in essa ogni popolo considera gli altri come diversi e avversi, come nemici; e sviluppa un complesso di superiorità, e quindi una volontà di conquista; da cui si genera poi la guerra, uno dei fatti più atroci della storia umana, che tuttavia ne è colma; e che a sua volta genera la schiavitù, l’altro fatto atroce; e genera infine gl’imperi, cioè i grandi sistemi di asservimento dei popoli.
Questa volontà di conquista è aggravata dalle monarchie, il regime politico che prevale nelle società premoderne (e anche moderne fino a che non si sviluppa il processo di democratizzazione), il dominio dispotico di un solo; è aggravata dall’incondizionatezza e incondizionata ambizione delle monarchie; e perché alla guerra e al suo macello soggiace il popolo, non il monarca. Ma lo stesso accade nelle aristocrazie il cui caso più tremendo è Roma. Non dovrebbe accadere nelle democrazie, dove a decidere è quello stesso popolo che la guerra la deve subire; eppure è accaduto e accade, nelle guerre coloniali d’Inghilterra e Francia nell’800 e nel ‘900, nelle «guerre preventive» scatenate recentemente dagli Stati Uniti d’America. Nelle une ha prevalso la volontà di potenza, nelle altre il risentimento e la rivalsa dopo l’attacco islamico (è nota la posizione di Kant a proposito di monarchia e repubblica; immatura e ambigua perché la sua repubblica è affidata a pochi o a un solo; in quanto egli disprezza il popolo e quindi la democrazia; inoltre considera la guerra come un mezzo di elevazione per l’umanità – tranne che nel suo scritto più maturo, quello sul progresso, entrato poi nello Streit der Fakultäten, ed. Akademie, VII, pp. 86, 89, 91, 93).
Si forma così quello che altrove ho chiamato il blocco storico della società ingiusta, che domina la storia umana fino alla modernità, quando incomincia a sciogliersi; ma giunge fino a noi. Lo caratterizzano appunto anzitutto il dispotismo monarchico, la guerra perenne, la schiavitù, l’impero. I popoli sono dominati da despoti (monarchi, tiranni, dittatori, militari), sono in continua guerra tra loro, e attraverso la guerra si schiavizzano ( è «legge universale e perpetua»», dice Senofonte, Ciropedia, VII, 5, 73; ma per fare schiavi usano anche altri mezzi) e si asserviscono, e sviluppano quei grandi sistemi di asservimento che sono gl’imperi.
Gl’imperi possono essere anche mezzo di conoscenza e di raccordo tra i popoli. Lo fu certamente l’impero romano, specie con l’istituto della cittadinanza; e fu celebrato nella tradizione cristiana come grande principio unificatore che, raccogliendo in sé molti popoli, apriva la via alla penetrazione dell’annunzio evangelico, quindi alla redenzione e alla salvezza. E però resta vera la famosa espressione agostiniana «che cos’è un regno se non un grande brigantaggio?»; anche se poi lo stesso Agostino considera utile che «i buoni in lungo e in largo a lungo regnino», se questo serve all’adorazione del vero Dio e ai retti costumi; e considera quell’impero come un premio di Dio alla virtù romana; anch’egli accecato dall’ideologia imperiale, che dominerà poi il medioevo e la modernità fino a tempi recenti (De civitate Dei, IV, 3-4; V, 12-13 – PL 41, 113-115, 154-158).
Quell’ideologia che giustificava ed esaltava la guerra, il fatto più atroce, il massacro, il macello umano, i popoli che si scannano a vicenda; la volontà di conquista degli stati egemoni, dei ceti dominanti che vi sottoponevano i ceti subalterni. La esaltava come grandezza di un popolo, com’eroismo, come strategia ed arte. L’arte di annientare la vita e la libertà umana.
Quell’ideologia giustificava la schiavitù con la pseudomotivazione aristotelica di gente che è schiava per natura in quanto ha una ragione ridotta, che può solo apprendere, quindi ricevere ordini ed eseguirli; ed è come una parte del padrone. Perciò è giusto e giovevole per loro essere schiavi. Motivazione ch’era difficile applicare alla schiavitù di guerra, la quale però veniva in pratica assimilata all’altra. Motivazione che si ritrova poi in Agostino e in Tommaso d’Aquino; che dunque perdura nei secoli (rispettiv. in Politica, I, 5-6, 1254b 20-23;1255a 2; b 6-7, 11; In Heptateuchum, 1, 153 - PL 34, 590; De civitate Dei, XIX, 15 - 41, 643; Summa theol., II-II, q. 57, a. 3, ad 2; I-II, q. 94, a. 5, ad 3).
Si presentano poi nella storia alcuni fattori particolari di divisione, come la religione e l’ideologia. Ogni religione si può dire sia fattore di divisione tra i popoli quando il potere dispotico la fa sua, ne fa la religione di stato, e la impone coercitivamente ai popoli che soggioga. In particolare, poi, le religioni profetiche – il buddismo, il cristianesimo, l’islamismo – tendono a concepirsi come l’unica vera: l’unica che annunzia il vero Dio e/o la vera via di salvezza; perciò, anche, il loro annunzio si presenta come universale e universalmente espansivo, e si espande di fatto in termini universali. L’espansione può essere pacifica, come nel buddismo; e nel cristianesimo quando non interviene il potere monarchico e imperiale, e lo stesso potere papale che ha assunto il modello imperiale e indice crociate, o tollera e sostiene l’espansione coercitiva, ad esempio negl’imperi coloniali spagnolo e portoghese.
È coercitiva nell’Islam, dove la rivelazione e religione di Allah dev’essere imposta a tutti i popoli con la guerra (tema nel Corano, in molti passi). Maometto è un profeta, ma anche un capo politico e un guerriero, che durante la sua vita ha conquistato gran parte della penisola arabica; e dopo di lui inizia il califfato e la permanente guerra conquistatrice che, con alterna vicenda, penetra l’Africa settentrionale e centrale, penetra l’Europa occidentale e orientale, e il vicino e medio Oriente e oltre, fino all’Indonesia; avendo costituito grandi imperi di cui l’ultimo è l’ottomano, che poi decade; come decadono gli altri regni, e cadono sotto gl’imperi coloniali europei.
Poi, col dissolversi del colonialismo, la coscienza e identità islamica si risveglia in quella costellazione di popoli, si afferma, tende a riprendere integralmente i principi coranici, in parte storicamente ed eticamente obsoleti; in particolare l’intolleranza e l’aggressività conquistatrice nei riguardi del mondo occidentale e cristiano che ha resistito all’islamizzazione e per un tratto anzi li ha oppressi. La divisione ostile si riproduce in un’umanità in cui il processo di unificazione è già molto avanzato; si riproduce anche con stati e movimenti fondamentalisti e terroristi; ed è alimentata da punti e fasi di crisi, come l’insediamento d’Israele nel territorio palestinese e l’attacco ritorsivo degli Usa di cui s’è detto, che scatena le due guerre, le quali vengono chiamate «preventive» ma sono in realtà aggressive, contro l’Afghanistan talebano (cioè a regime clericale) e l’Iraq dittatoriale, col pretesto d’instaurarvi un più equo ordinamento democratico. Il che provoca un forte risentimento popolare in tutta la costellazione islamica.
Le religioni profetiche, nel loro espandersi, possono anche diventare un fattore di unione tra i popoli. Lo è stato in particolare il cristianesimo in Occidente, pur in una vicenda contraddittoria e contrastata, con scismi, crociate antiereticali, istituzioni inquisitorie, lotta tra una chiesa diventata potenza politica e un impero da lei restaurato ma che voleva sottrarsi alla sua tutela, scisma luterano e anglicano, guerre di religione. Lo sarebbe stato in grado altissimo se si fosse mantenuto fedele al suo autentico annunzio, il principio fraterno, il principio di nonviolenza, il netto rifiuto del potere politico; se non vi si fosse instaurata una struttura gerarchica e imperiale, una struttura di dominio della verità come di dominio politico e mondano, con la creazione dello Stato Pontificio e del Sacro Romano Impero.
L’ideologia come fattore di divisione tra popoli interviene anzitutto quando l’annunzio e la verità religiosa viene detenuta da un principio di potere e diventa strumento di potere; l’ideologia essendo propriamente la distorsione o il dominio della verità da parte di un principio di potere.
Per cui si può dire che la divisione prodotta nell’umanità dall’Islam sia ideologica. E ideologiche sono le divisioni che di producono nel cristianesimo quando l’annunzio e la verità cristiana vengono detenute autoritariamente dal potere gerarchico. Per cui l’apparire di un’interpretazione e opinione diversa viene marchiato com’eresia; anziché essere inteso come tentativo di ricerca, di penetrazione in una verità divina di per sé inesauribile; e viene quindi colpito di scomunica, estromesso dalla comunità cristiana; e, nell’intolleranza tipica di quel potere cui è aliena ogni libertà di coscienza, perseguito con la prigionia, la tortura, il rogo; con la guerra, la crociata antieretica. Com’è avvenuto per gli Albigesi, per gli Apostolici.
Si tratta per lo più di gruppi, non di popoli; ma non sempre. Nel caso dello scisma d’Oriente è l’intera Europa orientale, un insieme di popoli tra cui la Russia, che si separa. Anche se qui causa decisiva della divisione è il rifiuto del potere papale nella fase del suo supremo affermarsi (secondaria è la pretesa eresia trinitaria del Filioque, e altri punti di dissenso); rifiuto che però viene pure considerato com’eresia. Nel caso dello scisma luterano è gran parte del Centro e Nordeuropea che viene colpito dall’eresia e si separa. E porta poi alla guerra dei Trent’anni.
Ma il caso più tipico di divisione ideologica dell’umanità è quello sovietico. Che parte da una concezione proletaria della società, in cui ogni detenzione unilaterale e privata del capitale e della ricchezza viene annientata; perciò una società di radicale eguaglianza, di lavoro e di benessere per tutti. Concezione che in realtà si distorce in una dittatura del partito comunista, il quale detiene il potere politico ed economico, e assoggetta il proletariato a un rigido dispotismo e dogmatismo; con la repressione della libertà e con nuove forme d’ineguaglianza.
La forza di attrazione di questo modello sta nel suo esser riuscito ad annientare il capitale e a liberare quindi il proletariato dallo sfruttamento e dalla soggezione; ad abbattere il divario perpetuo di povertà e ricchezza; a fare del proletariato il soggetto unico della nuova società. La dittatura del partito, e la figura del dittatore e despota, restano in ombra o compaiono come forme di transizione. Perciò il suo irradiarsi anche nelle democrazie occidentali, la forza che vi assumono i sindacati e partiti comunisti, il fascino sugl’intellettuali.
Il modello sovietico sviluppa una costellazione che comprende i due più vasti stati del pianeta, Russia e Cina, e una serie di altri minori, di stati pseudosocialisti nel Terzo Mondo; e instaura una divisione conflittuale con le democrazie occidentali, la guerra fredda, con la minaccia dell’olocausto nucleare, con la costituzione di un folle armamentario da ambedue le parti, con una continua guerriglia ideologica. Una divisione che non dura molto, circa quarant’anni, ma con due guerre aspre in Corea e in Vietnam, con guerriglie e corpi rivoluzionari o pseudotali sparsi nel mondo, specie in America Latina. E ha com’esito mortale la dissoluzione del socialismo e del suo progetto di liberazione, e il riaffermarsi riottoso del capitale e del liberismo economico. Mentre la classe operaia, il grande portatore storico di oltre un secolo, s’indebolisce e si va estinguendo.
2. Le istanze di unificazione
L’umanità giace dunque a lungo in questa condizione di male in cui ogni popolo vede nell’altro l’estraneo, l’inferiore, il nemico; da combattere, conquistare, soggiogare. Una condizione tormentata dalla guerra perenne e dall’asservimento; dominata dai regimi dispotici e dai grandi imperi. E però v’è in essa una tensione verso la giustizia e la pace che si manifesta in molti modi, nelle rivolte popolari ad esempio, che costellano l’intera storia umana; si configura nei miti utopici, a cominciare dal mito edenico-aureo.
2.1. Nel messianismo ebraico
L’idea di una riunificazione dei popoli compare anzitutto nel messianismo ebraico; cioè nell’annunzio di salvezza che percorre la storia di quel popolo dal secolo VIII al secolo IV a.C., l’età dei profeti. Dove la visione è sempre in certa misura universale; ma nella prima fase, quella del messianismo regale, che sta sotto il segno di David e della sua grandezza, la salvezza è portata da un re glorioso, sotto il quale si raccolgono le «nazioni», assimilate a Israele, e così ricondotte all’adorazione del vero Dio, Jahvéh. Un «re mansueto», che «proclama la pace per le nazioni», dirà Zaccaria (9, 10). Mentre nella fase più matura, che segue all’esperienza purificatrice dell’esilio babilonese, non è più un re ma il «servo di Jahvéh», che è «luce per le nazioni», chiamato a portare loro il diritto, la giustizia (la liberazione dall’asservimento), fino ai confini estremi della terra (Deuteroisaia, 42, 1.6; 49, 6; 52, 14-15; 53, 11; Salmi, 22, 28-30).
La salvezza annunziata è innanzitutto la liberazione dal male, dal peccato d’Israele come delle nazioni, la fedeltà a Jahvéh, alla sua legge e alla sua alleanza. Ma è anche salvezza dai popoli potenti e oppressori. Quindi giustizia (categoria centrale nel messianismo). L’evento messianico farà giustizia al suo popolo come alle nazioni, asserviti ai grandi imperi (in quei secoli si succedono nel vicino e medio Oriente l’impero assiro, il babilonese, il persiano, l’alessandrino, il romano); e instaurerà una società di giustizia in cui non vi saranno più né tiranno né oppressore, e in cui il debole – il povero, l’orfano, la vedova, le tipiche figure che compaiono nei profeti e nei salmi – sarà protetto (ma anche il sordo, il cieco, l’afflitto; e di contro il malvagio, il derisore, i corruttori dei giudici, la rapina e il crimine, in Isaia, 29, 18-21; 61, 1-3.8; cfr il Cantico di Anna in 1Samuele, 2, 1-10).
Porterà la pace, altro tema nodale, che consegue alla liberazione dai nemici, alla giustizia esterna ed interna; le armi saranno bruciate, le spade saranno trasformate in vomeri (Isaia, 2, 4; 9, 4; Michea, 4, 3; 5, 9-10; Zaccaria, 9, 9-10). Porterà una riconciliazione universale cui anche il mondo animale sarà associato (Osea, 2, 20; Isaia, 11, 6-9; Ezechiele, 34, 25.28). Porterà la prosperità, il benessere, la gioia (Isaia, 30, 19-26; 32, 15.20; 49, 10; Osea, 2, 23-24; Ezechiele, 34, 26-29; 26, 29-30; Isaia, 65, 18).
La prospettiva è religiosa, legata all’adorazione del Dio che salva, legata a Israele che adora il vero Dio. V’è in essa una preminenza d’Israele, che tuttavia è portatore di salvezza attraverso la sofferenza e il sacrificio di sé (questo il senso dei Canti del Servo di Jahvéh nel Deuteroisaia, 42, 1-7; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53, 12). Ma i valori di giustizia, pace, prosperità sono universali, come universale è la riconciliazione.
Questa visione va in parte perduta nell’ultima fase del messianismo, quella apocalittica dove, nell’Israele che attende per secoli l’avverarsi della promessa, e soffre ed è umiliato nella servitù dei grandi imperi, subentra il risentimento e la rivalsa; per cui la liberazione viene proiettata alla fine dei tempi (tuttavia vicina, imminente, in un errore di prospettiva non inusuale nella profezia) e le nazioni sono assimilate alle forze del male, sconfitte nella battaglia escatologica, condannate nel grande giudizio e bruciate nello «stagno di fuoco».
2.2. Nell’annunzio evangelico
Viene però ripresa dall’annunzio evangelico, che non è più rivolto al solo Israele. Dove, pur partendo da Israele, dal riscatto, dalla salvezza d’Israele, del suo popolo, la prospettiva fin dall’inizio è universale: è «la salvezza messa a disposizione di tutti i popoli, la luce da rivelare alle nazioni», è «colui che toglie il peccato del mondo», è «il salvatore del mondo» (Luca, 2, 30-32; Giov., 1. 28-29; 4, 42).
Perciò anche la legge d’Israele, la torah che i rabbini identificavano con la divina sapienza, viene corretta («Udiste che fu detto agli antichi […]. Ma io vi dico»), viene reimpostata su di un principio e precetto che è quello dell’amore, il precetto che in sé tutto raccoglie e che dassolo basta; Dio essendo amore, essendo il Padre amoroso. Donde una nuova condizione umana s’apre e s’impone, quella fraterna, il rapporto fraterno, perché «voi tutti siete fratelli»; retta appunto da quel precetto dell’amore fraterno che è il «precetto nuovo», il «precetto mio», dice il Cristo; e che assume una forza incomparabile perché bisognerà amarsi l’un l’altro com’egli ci ha amati, cioè sino a dare la propria vita (Matteo, 22, 36-40 e parall.; 23, 8; Giov., 13, 34; 15, 12-13; 10, 11-15).
Perciò nessuno può più essere considerato estraneo o nemico: il cosiddetto nemico dev’essere amato e beneficato, anche nel male, anche quando ci odiasse, ci calunniasse e perseguitasse. Perciò il rifiuto della violenza, della risposta violenta a chi violenza ci usa; a chi ci schiaffeggia o ci sottrae ciò ch’è nostro o ci angaria. Il rifiuto dell’ingiuria o anche solo della collera col fratello; e neppure è consentito giudicare e condannare. E se v’è un’offesa, dev’essere perdonata, sempre, senza limite alcuno; e ci si deve riconciliare e ristabilire il rapporto fraterno (talmente importante che, se uno sta facendo la sua offerta all’altare e si ricorda di un malanimo del fratello, deve lasciare l’offerta e andare prima a riconciliarsi, Matteo, 5, 23-24; 44-47 [Luca, 27-28.32-35]; 38-41 [Luca, 6, 29]; 5, 22; 7, 1-5 [Luca, 6, 37.41-42]; 6, 12.14-15; 18, 21-22 [Luca, 17, 3-4]).
Questo rapporto fraterno, questo precetto di amore fraterno, «tutto ciò che vi ho comandato», «sarà predicato su tutta la terra, in testimonio a tutte le nazioni»; dev’essere «insegnato a tutte le nazioni», «nel mondo intero […] ad ogni creatura»; «predicare la metánoia e la remissione dei peccati a tutte le nazioni», il peccato del mondo, il peccato d’inimicizia e guerra e oppressione tra le nazioni; «mi sarete testimoni […] sino all’estremo della terra» ( Matteo, 24, 14; la missione finale nei Sinottici; Atti, 1,8)..
Questo annunzio del precetto di amore fraterno tra gli uomini è universale; anche se compare prevalentemente in termini individui, e non di rapporto tra popoli; cui ovviamente si estende. D’altra parte la condizione dei popoli nella società ingiusta, là dove imperversa il «peccato del mondo», è ben presente all’evangelo. Dove la potenza mondana, il potere oppressivo dei grandi del mondo, dei monarchi, è rifiutato, è condannato; è una forma del male, «i regni della terra, il loro potere e la loro gloria» compaiono sin dall’inizio come forme del male, come dominio del Satana (nell’episodio delle tentazioni in Luca, 4, 5-7; Matteo, 4, 8-9).
Dei re, dei grandi l’evangelo parla sempre con distacco e sdegno: «I re delle nazioni le dominano, e quei che han potere su di loro son chiamati benefattori» (dove l’ironia amara); «sapete che quei che son ritenuti comandare sulle nazioni le tiranneggiano e i loro grandi vi esercitano un duro potere» (Lc 22, 25; Mc 10, 42).
Come nel messianismo così nell’annunzio evangelico non si tratta solo di dottrina; nel messianismo è profezia, anche se poi il suo adempimento resta oscuro. Nell’evangelo è l’annunzio di una nuova società da costruire da subito e che già inizia, ed è in seguito chiamata ekklesía, cioè assemblea di coloro che hanno accolto l’annunzio; o, in termini più ampi e comprensivi, con categoria propria del tempo, il Regno, o il Regno di Dio. E – come si è visto – deve estendersi a tutti i popoli, all’umanità intera. Una «nuova creazione», dirà Paolo (2Corinzi, 5, 17).
È la comunità evangelica, poi apostolica, comunità fraterna; poi, dagl’inizi del secondo secolo, è la chiesa gerarchica, che assume il corrente modello di potere; poi via via, in Occidente, col papato, il modello imperiale; ma ci vorrà un millennio. Modello mondano, chiesa fortemente mondanizzata, potere mondano in contrasto con altri poteri mondani; che perciò non potrà costruire la comunità fraterna dei popoli. Come già ho notato.
2.3. Il cosmopolitismo ellenico
Nel frattempo l’idea di un superamento della divisione e avversione tra popoli, quella che faceva dire ad Eschilo, nel famoso frammento, che «per il Greco ogni barbaro è schiavo» (ma un verso simile nell’Ifigenia in Aulide di Euripide, 1400), si era presentata proprio nel mondo ellenico in seguito alle campagne militari di Alessandro che avevano percorso il vicino e medio Oriente fino all’India e, pur avendo carattere di conquista, avevano sviluppato una certa politica di fusione tra i popoli asiatici e quello ellenico (vedi la sua conservazione delle satrapie persiane, l’adozione di costumi e modi di vita, i matrimoni con principesse asiatiche); e avevano quindi, in certa misura, infranto la chiusura del mondo ellenico in se stesso. In tal senso si esprime Plutarco, che cita Eratostene, nel De Alexandri fortuna et virtute, I, 8, 330a-b.
L’idea cosmopolitica, e la parola stessa, cioè di «cittadino del mondo», è attribuita anzitutto a Diogene cinico, e compare in altri esponenti del cinismo; ma, soprattutto in Diogene, ha un prevalente significato negativo, della virtù che di nulla abbisogna, e rifiuta anche la polis e la sua legge; «il sapiente non deve vivere secondo le leggi vigenti della città ma secondo la legge della virtù», dice Antistene (Diogene Laerzio, VI, 2, 63).
L’idea cosmopolitica si afferma invece nel mondo stoico, dove ha una profonda base nella concezione panica del Logos divino che pervade tutto, e si manifesta nella ragione divina ed umana, e tutti raccoglie ed unisce in una fondamentale eguaglianza e fratellanza. Quella espressa da Epitteto nel famoso passaggio concernente gli schiavi: «Non ti ricordi chi sei e a chi comandi? cioè a parenti, a fratelli per natura, a discendenti di Zeus?»; «il tuo stesso fratello, che ha Zeus come progenitore, in quanto figlio nato dai tuoi stessi semi e dalla stessa seminagione dall’alto» (Dissertazioni, I, 13, 3-4). Una posizione analoga a quella evangelica.
Perciò anche la divisione e discriminazione tra greci e barbari, ovvia nella tradizione ellenica, nei poeti, teorizzata da Aristotele, non ha più senso. «Il mondo è come la casa comune degli dei e degli uomini, e la città di ambedue»; «quella molto ammirata costituzione di Zenone – dice Plutarco – […], per cui non si deve più vivere separati per città e villaggi, ciascuno sotto le sue particolari leggi, ma tutti gli uomini devono essere compatrioti e concittadini; uno per tutti dev’essere il modo di vita e l’ordinamento». Siamo dunque ad un punto molto avanzato, all’idea di una cosmopoli in senso stretto; non solo un Völkerbund, come proporrà Kant, ma uno stato planetario. Che però ha un carattere comunitario e fraterno, e profondamente religioso, in quanto è una comunità di uomini e di dei. «Il più grande e più autorevole e più comprensivo di tutti i governi è quello che è composto di uomini e dei, […] perché agli uomini è toccato questo per natura, di essere in comunione col dio, intrecciati a lui attraverso il logos, […] e quindi avere il dio come fattore e padre e custode; e non basterà questo a liberarci da dolori e timori?» Così ancora Epitteto (I, 4-8, che cita probab. Crisippo; Cicerone, De natura deorum, II, 154; Plutarco, Op. cit., I, 6, 329a-b; la critica di Aristotele, della «divisione bipartita del genere umano tra greci e barbari»», anziché tra virtù e disonestà, da parte di Eratostene in Strabone, Geografia, I, 4, 9).
Da notare l’altro tema, ad esempio in Seneca: «Sarò piacevole con gli amici, coi nemici mite ed affabile» (De vita beata, 20, 5); un’altra analogia con l’evangelo.
Lo stoicismo è la più vasta corrente di pensiero dell’antichità greco-romana, e si estende dal terzo secolo a.C. al terzo d.C. Ma è appunto una corrente di pensiero; non è un movimento che possa trasformare la società. Anche se, penetrato nella società romana, ne informò e potenziò l’ideale di virtù, perseguita sempre in certa misura nella Roma preimperiale, seppur nel macroscopico vizio dell’aggressione, oppressione, sfruttamento dei popoli; e animò la concezione e l’esistenza di personaggi esemplari dell’età repubblicana: come Scipione, Catone, Bruto e lo stesso Cicerone. Mentre, con l’avvento dell’impero, si trovò in conflitto col dispotismo e con l’arbitrio crudele dei despoti; e fu perseguitato. Fu salvato e protetto dagl’imperatori più saggi, uno dei quali aveva fatto dello stoicismo il suo sapere e la sua dottrina, Marco Aurelio. Ma certo l’enorme macchina dispotica, oppressiva, schiavistica dell’impero romano era l’opposto dell’idea cosmopolitica stoica, del suo spirito divino-umano, del suo senso egualitario e fraterno.
2.4. Il cosmopolitismo moderno
L’idea cosmopolitica riprende con l’Umanesimo del ‘400, raccordandosi all’antico, e segna una forte presenza nell’Illluminismo; presenza però spesso ambigua perché moda, e come tale esaltata o disprezzata; e perché spesso collide col principio di nazione e l’amor di patria, specie con l’età romantica.
L’espressione più matura di questo pensiero si trova forse in Kant, che scrive l’Idea di una storia universale in prospettiva cosmopolitica (1784); cioè una storia mossa da una tensione costante (un piano della natura, o meglio della provvidenza) che la porta allo sviluppo delle attitudini umane (la ragione, indefinitamente espansibile, la libertà) e quindi alla costruzione dell’«umanità»: Menschheit, humanitas. Dove un punto nodale è la politicità e legge, cioè quel vincolo che fa sì che la libertà di tutti possa consistere; e un altro è la cosmopoliticità o legge dei popoli confederati, cioè quel vincolo per cui possa consistere la libertà di tutti i popoli; e il diritto, e la sicurezza. Un processo lento e difficile, ma sicuro, quasi necessario
E però qui l’impostazione è individualistica e concorrenzial-conflittuale; qui la forza che muove il processo è l’antagonismo, la tensione all’onore, al dominio, al possesso, che sviluppa il talento e costruisce la civiltà. Manca il principio di una socialità costitutiva, e di una tensione che proceda dal vincolo etico «uomo sii uomo»; piuttosto che dall’«intenzione» e dal «piano», e in certo modo anche dalla «legge» di natura (ed. Akademie, VIII, pp. 17-18, 20-21).
L’idea di Völkerbund o Friedensbund, cioè di un patto di pace tra i popoli, di un’unione federativa che ne garantisca la libertà e metta fine ad ogni guerra, è anche un punto nodale del progetto kantiano di Pace perpetua (1795). Dove però compare pure l’idea di un Völkerstaat, una «repubblica mondiale», dove tutti i popoli starebbero sotto la stessa coazione della legge; e sarebbe «l’idea positiva», mentre il patto è solo il « surrogato negativo» che in sé contiene «il costante pericolo della sua rottura». Ciò che noi sperimentiamo oggi nel Patto delle Nazioni Unite, con la proterva volontà di guerra della Destra americana. E però Kant teme lo stato mondiale, per l’eccessiva grandezza che toglierebbe forza alla legge e faciliterebbe l’instaurarsi del dispotismo e dell’anarchia; e vede nella «volontà della natura» due fattori che lo impediscono, lingua e religione. Ma questi, a dire il vero, non sono fattori di natura, bensì di cultura (ed. Akademie, VIII, pp. 354-357, 367).
Tutto questo rientra nel Weltbürgerrecht, il diritto della persona in quanto cittadino del mondo, della grande compagine e famiglia umana, ancora fortemente divisa: l’autonomia, la vita, l’integrità fisica e morale, il rapporto umano e fraterno con ogni altro essere umano. Tutto questo resta però occulto nel discorso kantiano e si sviluppa solo nel «diritto all’ospitalità», cioè nel diritto di ognuno, quando arriva nel territorio altrui, a non esser respinto come nemico, ma ad essere accolto (pp. 357-358). Stranamente, diremmo, perché la ragione addotta, che la Terra è di tutti, la comune appartenenza umana della superficie terrestre, l’assenza di un diritto originario dell’uno piuttosto che dell’altro, dovrebbe avere ben altre conseguenze: e cioè la libera mobilità, libera immigrazione, abbattimento delle rigide e gelose frontiere che dividono i popoli, e che tante tragedie hanno provocato lungo la storia, e provocano tuttora. Oggi, in particolare, le tragedie dell’immigrazione dai paesi poveri nei paesi ricchi; tanto ostacolata, e però sentita dai poveri non solo come un bisogno ma anche come un diritto.
Notevole l’osservazione kantiana che già «ora» la comunità tra i popoli della Terra è così avanzata che una lesione di diritto in un luogo si risente ovunque; in cui è implicita l’idea del costituirsi di una coscienza etica e giuridica universale. Kant parla di un generale diritto umano o cosmopolitico che dev’essere ancora scritto, e deve completare il diritto statale e internazionale (p. 360).
In Kant, dunque, non v’è solo un’idea o un progetto, ma l’affermazione di un processo in corso, che dovrà adempiersi. E però accanto a Kant c’è la massoneria, un movimento che ha fortemente pervaso il secolo, e che può considerarsi uno dei portatori dell’Illuminismo, insieme all’Encyclopédie e ai filosofi (non solo i philosophes), e ai numerosi circoli, salotti, società scientifiche e letterarie; a quella parte di società che oggi gli studiosi sono propensi a considerare come importante portatrice storica dei grandi eventi del ’700.
Nella massoneria è centrale il principio di fratellanza universale (accanto a quelli di libertà ed eguaglianza che vi sono inclusi); perciò, per usare le parole di Fichte, l’idea che «l’umanità possa infine formare un unico stato, retto e ordinato secondo le eterne leggi di giustizia della ragione». Tra l’altro, per Fichte, «amor di patria e sentimento cosmopolitico sono intimamente congiunti»; l’uno non esclude l’altro ma semmai lo rafforza (Filosofia della massoneria, Lett. 12, tr. it., I Dioscuri, Genova 1989, pp. 77-79; cfr. M.C. Jacob, Massoneria illuminata. Politica e cultura nell’Europa del Settecento, tr. it., Einaudi, Torino 1995).
3. Il processo di unificazione
3.1. La conoscenza
Si può dire che il processo abbia un prologo nella fase di conoscenza ed esplorazione del Pianeta, il quale sino alla modernità era rimasto disperso in monadi di civiltà e culture che spesso avevano solo una vaga notizia l’una dell’altra. Se partiamo dalle grandi civiltà, notiamo che Europa, India e Cina si conoscevano attraverso relazioni di viaggiatori, e un limitato commercio, per lo più mediato. America e Oceania erano affatto ignote; l’Africa in gran parte salvo, per l’Europa, la fascia mediterranea e l’Etiopia. Il più noto era certo l’Islam, che con la sua aggressiva espansività penetrava l’Africa, conquistava il vicino e medio Oriente, tentava di penetrare l’India e la Cina, e di conquistare l’Europa orientale, dopo essere stato espulso dall’occidentale.
È più o meno a questo punto, nella seconda metà del ‘400, che inizia l’esplorazione del Pianeta da parte dell’Europa; degli stati che s’affacciano sull’Atlantico e cui l’Islam bloccava il commercio con l’Oriente; con le grandi navigazioni e circumnavigazioni di Cristoforo Colombo (1492), Vasco de Gama (1498), Magellano (1519-21), di molti altri; un’esplorazione che continuerà sino a tutto l’800 e oltre.
La conoscenza è il primo passo, cui però segue la conquista, segue il massacro e il genocidio; segue la schiavizzazione, la tratta degli schiavi negri (già dal 1510). Segue il colonialismo, gl’imperi coloniali, che si estingueranno solo pochi decenni fa; talora con guerre, come quelle d’Indocina e d’Algeria, in cui lo sciovinismo, l’avidità, l’illusione di grandezza resistono ad oltranza. Da parte di un’Europa cristiana in cui il principio di giustizia – e tanto più il principio fraterno – si erano obliterati nella stessa chiesa, detentrice di un supremo potere mondano. Si veda l’oscena Bolla Inter coetera di Alessandro VI, del 4/5/1493, che assegna ai re di Castiglia i territori delle Indie scoperti e da scoprire; con quale assurda presunzione? di chi erano quelle terre, se non dei popoli che le abitavano? e come poteva il papa disporne a suo piacere?
Si sviluppa dunque la conoscenza ma subentra l’asservimento, lo sfruttamento, l’oppressione dei popoli; e, accrescendosi la potenza dell’Occidente – che detiene in partenza le armi da fuoco, e s’arricchisce con le nuove risorse e i nuovi commerci, e sviluppa infine la scienza-tecnologia e l’industria – si accresce anche il suo dominio che, a tratti, tiene sotto di sé l’intero Pianeta, compresi gli stati islamici in decadenza e le due grandi civiltà asiatiche, India e Cina. L’Occidente cristiano diventa il grande oppressore dell’umanità coi suoi imperi coloniali: lo spagnolo, il portoghese, l’inglese, il francese, l’olandese, il russo, il tedesco, il belga e, ultimo e velleitario, l’italiano.
3.2. I principi
Il processo che porterà i popoli all’emancipazione, premessa indispensabile per l’instaurarsi di un rapporto di parità, il rapporto base, su cui costruire la benevolenza e l’amicizia; questo processo inizia con la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento – la rivoluzione ampiamente misconosciuta. Qui si pongono i fondamentali principi. Il principio d’uomo, quella che in seguito sarà chiamata dignità e diritto della persona umana, quindi ragione e libertà, quindi eguaglianza nella dignità e nel diritto, quindi sovranità popolare. Come diritti originari e naturali, che competono all’uomo come tale, perciò ad ogni uomo; principi universalmente validi.
«La mia dignità d’uomo», «nobile e libero per natura» (in polemica con la libertà e nobiltà discriminatrice dell’aristocrazia). «I suoi diritti naturali e originari, la sua libertà»; «ogni uomo è per natura libero»; «per legge naturale noi siamo liberi, quindi anche eguali». Perciò non ha senso il potere del monarca, come il dominio di un altro popolo, se «ogni governo dipende dal libero consenso del popolo».
Quest’affermazione di principi, e il conseguente instaurarsi del modello democratico, è storicamente decisiva, e definitiva; ma resta chiusa all’interno della nazione e dello stato singolo; non si esplicita come diritto di ogni uomo in ogni popolo, rispetto al popolo che lo domina e l’opprime (i testi cit. in U. Bonanate, ed., I Puritani, Einaudi, Torino 1975, pp. 136, 142; V. Gabrieli, ed., Puritanesimo e libertà, Ivi 1956, pp. 74, 78, 83). .
Questi principi vengono ripresi con più forza ed ampiezza dalla Rivoluzione francese, la quale vara quella grande carta che è la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino». Dove afferma che «gli uomini nascono e permangono liberi ed eguali nei diritti», al di là di ogni distinzione sociale. Che tali diritti sono «naturali e imprescrittibili. E sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressore». Dove la presenza della proprietà, subito dopo la libertà, stonava manifestamente; anche se l’art. 17 precisava che, per quanto «inviolabile e sacra» (altra espressione eccessiva, segno della pressione borghese), poteva essere intaccata se la necessità pubblica lo richiedeva, sia pure con previo e giusto indennizzo. Ma il punto decisivo era quella prima affermazione universale, che gli uomini, tutti, sono liberi ed eguali; che questi diritti sono naturali e imprescrittibili.
Gli uomini tutti, a qualunque popolo appartengano. Nell’autonomia dell’uomo si affermava l’autonomia dei popoli; che bisognava però esplicitare, anche qui. Ora, quando l’abbé Grégoire, nel novembre dell’89, presenta all’Assemblea una Mémoria dove, in nome di quel principio, chiede l’estensione della cittadinanza francese alla gente di colore e di sangue misto delle colonie americane, l’Assemblea nicchia e il 12 ottobre ’90 la rifiuta. Grégoire pubblica allora una Lettera ai filantropi in cui obietta che «l’assemblea nazionale contraddice ai suoi principi» poiché «la dichiarazione dei diritti assicura a tutti gli uomini il patrimonio inalienabile della libertà […]. Oserete voi dire che solo i bianchi nascono e permangono liberi ed eguali nel diritto?» Il problema era posto con chiarezza.
In seguito, nel maggio ’91, i diritti politici saranno estesi ai mulatti e ai più anziani schiavi affrancati; ma poi, sotto la pressione dei coloni, un decreto li restringerà a quelli solo che vivevano in Francia. Nel ’93 la Convenzione fa un primo grande passo, abolisce la schiavitù; che Napoleone poi reintrodurrà; sì che sarà definitivamente abolita solo nel 1848.
Vi sono tuttavia, nei lavori della Convenzione, dei progetti di «Dichiarazione dei diritti dei popoli», che appartengono al ’93, e che avrebbero quindi potuto entrare nella Dichiarazione annessa alla Costituzione del 24 giugno di quell’anno, la seconda della Rivoluzione; la più avanzata, potremmo dire.
Robespierre, intervenendo il 24 aprile, insiste sul legame fraterno che unisce tutte le nazioni nella grande famiglia umana, sulla mutua assistenza; e però afferma pure che chi opprime una nazione è nemico di tutti e dev’essere perseguito da tutti. In un intervento del 7 maggio sulla nuova religione dell’Essere Supremo, propone una festa dedicata alla «libertà del mondo».
È Blaviel che avanza una «Dichiarazione dei diritti dei popoli» in 12 articoli, dove «tutti i popoli sono sovrani e liberi» e hanno il diritto di esercitare la loro sovranità, direttamente o per delega; ambiguo, invece, quando dice che ogni popolo può darsi il governo che vuole. Mentre per Grégoire, nella sua «Dichiarazione del diritto delle genti», in 21 articoli, un governo conforme ai diritti dei popoli è solo quello fondato sull’eguaglianza e sulla libertà. Ogni popolo è indipendente e sovrano, qualunque sia la sua popolazione e il suo territorio. Chi attenta alla libertà di un popolo, attenta all’intera famiglia umana. La Dichiarazione di Grégoire è certo la più completa (per tutto questo cfr. Les déclarations des droits de l’homme, ed. L. Jaume, Flammarion, Paris 1989; A. Pisanò, Il diritto dei popoli nella Rivoluzione francese. L’abbé Grégoire, Giuffrè, Milano 2002).
3.2. L’emancipazione
Il processo di demolizione del colonialismo inizia con la Dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie inglesi d’America, del 1776. Alla sua base sta il principio che «le leggi della Natura e del Dio della Natura le danno diritto» ad essere «potenza separata ed eguale» tra le potenze della Terra; ad essere «Stati liberi e indipendenti»; poiché «tutti gli uomini sono creati eguali» e dotati di certi inalienabili diritti tra cui la libertà.
Questi principi sono gli stessi che abbiamo visto affermarsi nella Rivoluzione inglese; che qui dispiegano la loro valenza universale. E sono espressi con lo stesso linguaggio profondamente religioso che caratterizza quella rivoluzione, la cui anima è un movimento religioso, il Puritanesimo.
In realtà i fondatori e primi membri delle colonie inglesi del Nordamerica sono in gran parte Puritani, dissidenti perseguitati o in contrasto con lo stato-chiesa inglese, o comunque inglesi che trasferiscono nelle colonie il modello democratico che la Rivoluzione aveva impostato. O anche lo anticipano: perché già nel 1619 la Virginia ha un’assemblea eletta, con due rappresentanti per ogni piantagione; anche se le sue decisioni devono essere approvate dalla Compagnia che detiene il territorio, e però con diritto di veto Nel 1620 si ha lo sbarco sulla costa del Massachusetts dei Padri Pellegrini dal Mayflower, una comunità che, perseguitata, si era prima stabilita in Olanda; e che s’impegna con un patto a costituirsi in un Civico corpo politico «retto da giuste ed eguali leggi». Nel 1629-30 vi arrivano due spedizioni puritane, di cinque e undici navi, con circa 1500 coloni; si fonda Boston, e altre città; ma vi s’instaura anche una teocrazia intollerante e tirannica. Perciò nel 1636 il pastore Williams, uomo di idee radicali e di grande tolleranza religiosa, migra con la sua congregazione nel Rhode Island; che nel 1663 diventa una piccola repubblica, in cui i cittadini elaborano le leggi ed eleggono i funzionari. Mentre il pastore Hooker migra con la sua congregazione nel Connecticut; dove nel 1639 si elabora un Ordinamento fondamentale che prevede un Parlamento con quattro deputati per città, eletti dal popolo. In Pennsylvania si stabilisce la Società degli amici (cioè i quaccheri; la concessione regia è del 1681, il territorio è dato in proprietà a William Penn, esponente della Società), dove vigono principi di alto tenore evangelico ed umano, come la non-violenza, il rifiuto del giuramento, la libertà di coscienza; e dove nel 1701, con la Carta dei privilegi, si stabilisce un’assemblea eletta annualmente con quattro rappresentanti per contea, che approva le leggi e nomina i funzionari.
La rivolta americana è fatta da inglesi che volevano godere della stessa autonomia del popolo inglese, e non essergli soggetti; da Puritani che riprendevano in America quei principi di libertà, eguaglianza, sovranità popolare, e quel modello democratico che avevano conquistato nella Rivoluzione del Lungo Parlamento.
E però, già nel 1619, venivano sbarcati e acquistati i primi schiavi negri. La contraddizione, l’ignominia vi s’insediava subito (cfr. A. Maurois, Storia degli StatiUniti, I, Gli inglesi in America, tr. it., Mondadori, Milano 1953; A. Nevins, H.S. Commager, Storia degli Stati Uniti, I, La fondazione delle colonie, tr. it., Einaudi, Torino 1960).
Il secondo grande passo è compiuto dai popoli dell’America Latina, che tra il 1810 e il 1824 portano a compimento la loro liberazione (salvo la Guyana e le isole). Un passo legato alla indipendenza delle colonie del Nord, alla Rivoluzione francese, alla diffusione della massoneria; legato anche alla decadenza della potenza spagnola e portoghese. In molti di questi popoli s’instaurano regimi dittatoriali; e ne soffriranno a lungo. Ma comunque il passo è grandioso.
L’Ottocento europeo è invece un secolo fortemente contraddittorio. Da un lato il processo di emancipazione vi si sviluppa al seguito dei principi della Rivoluzione francese, diffusi anche attraverso le guerre e occupazioni napoleoniche; e al seguito del nazionalismo romantico. Così per il Belgio, che riesce finalmente a stabilire e rinsaldare la sua autonomia; per l’Italia, che si forma lottando contro il dominio e l’egemonia austriaca; per l’Ungheria, che ottiene uno statuto di partner dell’Austria nell’impero; per la Norvegia, che riesce infine a staccarsi prima dalla Danimarca, poi dalla Svezia; per gli stati balcanici, che si liberano dal dominio ottomano.
D’altro canto è il secolo del rafforzamento ulteriore degl’imperi continentali: quello austro-ungarico; quello prussiano, quello russo con le annessioni in Siberia. E soprattutto degl’imperi coloniali; che continueranno ad espandersi fino alla Seconda guerra mondiale; e i maggiori saranno proprio quelli delle prime democrazie europee, Inghilterra e Francia, le nazioni che avevano varato quei principi che fondavano l’autonomia dei popoli; nella più acuta e indegna delle contraddizioni.
Nel ‘900 la situazione si capovolge. Con la Prima guerra mondiale cadono gl’imperi continentali, a livello planetario: l’asburgico, il prussiano, il russo, l’ottomano; l’impero cinese era già caduto nel 1912 con la rivolta di Sun Yatsen; l’impero giapponese cadrà nel ’45.
L’impero russo, però, non si dissolve veramente; cambia piuttosto denominazione, diventa l’Urss; ma nessuno dei popoli ch’erano stati annessi alla grande Russia si autonomizza; tranne quelli liberati dal riassetto che segue alla grande guerra, come la Polonia e le repubbliche baltiche; anche se con difficoltà varie.
Non solo, ma nel dopoguerra si forma una serie di dittature, di governi militari e autoritari, più o meno stabili: in Italia col fascismo di Mussolini; in Bulgaria con Zankow; in Spagna con Primo de Rivera, poi con Franco; in Albania con Ahmed Zogu, poi re; in Portogallo con Gomez da Costa, poi con Salazar; in Polonia col maresciallo Pilsudski; in Austria con Dollfuss, che nel caotico dopoguerra austriaco si appoggia a Mussolini; in Lituania con Smetona-Voldemaras; in Germania con Hitler e il nazismo; in Estonia con Konstantin Païs; in Lettonia con Ulmanis; in Grecia con Metaxas, sul modello fascista; in Romania con Goga, poi con re Carol II. Un fenomeno impressionante, un periodo caotico, dovuto soprattutto alla scarsa esperienza e coscienza democratica di questi stati. Alcuni dei dittatori, in particolare Hitler e Mussolini, hanno forti tendenze imperiali e scateneranno la Seconda guerra mondiale.
Con la quale però si dissolvono gl’imperi coloniali, nel giro di circa trent’anni; con resistenze e persino guerre, come già notavo. Innegabilmente i principi di libertà ed eguaglianza posti dalle rivoluzioni, e i movimenti di liberazione che ne erano seguiti, premevano sulla coscienza dell’umanità. Lo si vede dalla Carta Atlantica, proclamata nell’agosto del ’41 da Roosevelt e Churchill, quando la guerra era ancora in pieno corso. Dove si riconosce «il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere»; si parla di restaurare «i diritti sovrani e l’autonomia dei popoli» che ne sono privi; la partecipazione di tutti gli stati «in condizioni di parità» al commercio, alle materie prime, al benessere economico; sì che tutte le nazioni possano vivere «libere dal timore e dal bisogno». Questa Carta era proclamata da due stati imperialisti, in particolare dal detentore del più grande impero coloniale, l’Inghilterra. Seguirà poi il Trattato dell’Onu.
L’umanità si libera dagl’imperi, da un enorme sistema oppressivo che aveva dominato la sua storia; la quasi totalità dei popoli raggiunge l’autonomia, restando solo piccoli o piccolissimi residui coloniali, in parte integrati (così i territori francesi d’oltrema
3.3. La comunità planetaria dei popoli
Sono le due guerre mondiali, coi loro enormi massacri, le loro enormi rovine, a suscitare l’idea di un patto tra i popoli, di una comunità dei popoli, che renda la guerra impossibile in futuro.
Nasce così nel 1919 (il 18 giugno) la Società delle Nazioni, preceduta da un messaggio al Congresso del Presidente degli Stati Uniti Wilson, che l’annunzia (l’8 gennaio).
V’è una differenza di fondo tra il messaggio del Presidente e il Patto della Società. Il messaggio parla di «tutti i popoli del mondo», dello stesso interesse di tutti, di condizioni commerciali uguali per tutti; o almeno per tutte le nazioni pacifiche, che consentono alla pace. «A meno che non sia fatta giustizia agli altri, non sarà fatta a noi». Dice anche che «i popoli e le province non devono costituire oggetto di mercato e passare di sovranità in sovranità come fossero semplici oggetti o semplici pedine di un gioco» (nelle Proposte complementari del 12 febbraio). Dedica solo un cenno alle rivendicazioni coloniali (F. Gaeta, P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1967, pp. 873-875).
Nel testo del Patto, invece, non v’è nulla che concerna l’autonomia universale dei popoli; né può esservi perché il suo mondo è diviso tra stati autonomi e colonie, considerate come «popoli non ancora in grado di reggersi da sé, nelle difficili condizioni del mondo moderno»; un passo che non manca d’ipocrisia (art. 22). Suo tema unico è la pace, la sua salvaguardia; la riduzione degli armamenti nella misura necessaria alla sicurezza interna e alla comune azione di pace (decisione saggia ma che nessuno ha attuato), la soluzione pacifica dei conflitti, le misure contro l’eventuale aggressore (Ivi, pp. 876-879). Ma come costruire una società tra dominanti e dominati, tra padroni e servi? oppure si tratterà di una società tra i soli popoli liberi, che esclude gli altri; una società in cui dominano gli stati imperialisti, a cominciare dall’Inghilterra. Che perciò è fallita in partenza, e fallirà via via, col ripetersi delle aggressioni e l’incapacità d’impedirle; con le incertezze, le lentezze, le ambiguità; con l’uscita degli aggressori – Giappone, Italia, Germania – e dei loro alleati, di altri stati. Gli Usa, che l’avevano proposta, non vi entrano neppure, per un rigurgito di isolazionismo, un fatto davvero strano.
Ma il problema si ripresenta con la Seconda guerra mondiale, e con più forza, con più chiarezza. Già nell’agosto del ’42, nella Conferenza di Québec, si pensa alla ripresa e al riassetto della Società delle Nazioni; poi in una serie d’incontri e di dichiarazioni, fino alla Conferenza di San Francisco, alla definitiva elaborazione dello Statuto, alla firma da parte di 50 stati, alla proclamazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu.
Dove si riaffermano «i diritti fondamentali dell’uomo», «la dignità e il valore della persona umana»; e quindi «l’eguaglianza nei diritti delle nazioni, grandi e piccole»: cui consegue il principio di autodeterminazione dei popoli, il principio che fonda l’autonomia e abbatte la soggezione e l’asservimento. Un tema ricorrente nello Statuto. Che si allarga poi alla cooperazione internazionale, la quale deve portare allo sviluppo economico e sociale di tutti, al pieno impiego, ad un alto tenore di vita, alla soluzione dei problemi educativi, culturali, sanitari (Ivi, pp. 974-976, 980).
Il punto che più preme è sempre e ancora la pace, salvare le generazioni future dal flagello della guerra; dove principio risolutivo è che i conflitti tra i popoli non si devono mai risolvere con le armi ma solo con la trattativa, con mezzi pacifici. E però è forte la consapevolezza che la pace si potrà costruire solo sull’autonomia, l’eguaglianza nei diritti, lo sviluppo e il benessere dei popoli.
Si giunge così ad una comunità planetaria, in cui i popoli tutti si ritrovano per realizzare insieme la loro umanità e crescita umana. Questa comunità è un fatto grandioso e preziosissimo; e non deve considerarsi come un’opera compiuta; piuttosto come un edificio in costruzione, un work in progress; che ha ancora grossi limiti e vizi. Ad esempio il Consiglio si sicurezza, dove siedono ancora come membri permanenti – dopo sessant’anni – i cinque vincitori della Seconda guerra mondiale, il cui voto è indispensabile per ogni decisione. Ad esempio la forte presenza statunitense nelle agenzie economiche, il prevalervi dogmatico del principio del «libero mercato». Una comunità le cui norme possono essere talora prevaricate, come nel caso delle «guerre preventive» scatenate proprio da quegli Stati Uniti che avevano fortissimamente voluto questa comunità, e fortissimamente avevano affermato il fondamentale principio che i conflitti non si risolvono mai con le armi ma solo con la negoziazione, con mezzi pacifici. Tutto ciò non intacca il senso dell’opera compiuta né la speranza nel suo futuro.
Nella nuova situazione, in cui si è raggiunta l’autonomia dei popoli e il loro sodalizio nella comunità planetaria, una gravissima frattura si è aperta col comunismo sovietico, il suo dispotismo, il suo imperialismo dispotico, incurante dei diritti fondamentali, dei diritti della persona come di quelli dei popoli. Così l’Urss, come già notavo, coi popoli dell’Asia e con quelli dell’Europa orientale. Così la Cina col Tibet e con Taiwan, ch’essa considera sua a prescindere dall’autodecisione dei taiwanesi. L’Urss è crollata e quei popoli hanno riavuto l’autonomia; la Cina ha mantenuto intatto il suo minaccioso dispotismo.
In quest’ultima fase un primo e forte ostacolo è l’egemonia americana, coi suoi armamenti, con le sue basi militari sparse nel mondo, con le «guerre preventive» di cui si è parlato, che ancora tormentano il Medio Oriente. La sua politica miope nei riguardi del nodo Israele-Palestina, come nei riguardi di altri stati islamici, l’Iran, la Siria.
Questa egemonia attizza altre mire egemoniche, specie nei grandi stati, come la Russia di Putin, personaggio ambiguo con propensioni autoritarie. Da un lato la tendenza a legare a sé le repubbliche che già erano sotto il dominio dell’Urss, nella fantomatica Comunità di stati indipendenti che si è formata; dall’altro la tendenza a sviluppare nuovi armamenti in concorrenza con gli Usa.
L’altro ostacolo al sodalizio dei popoli è l’Islam; è la rinnovata coscienza e identità coranica che si è aperta negli ultimi decenni, dopo l’umiliazione del colonialismo. Quindi anche risentimento; ma soprattutto identità coranica, perciò superiorità su ogni altra cultura che non adora il vero Dio Allah; perciò intolleranza delle altre culture; perciò sopraffazione, «guerra santa», terrorismo, conquista. Perciò il fondamentalismo dell’Arabia Saudita, dell’Iran, di molteplici correnti e movimenti che tentano la scalata del potere in diversi stati. Perciò Al Quaida, il piccolo esercito che ha fatto suo l’illusorio obiettivo della «guerra santa» e scatena il terrorismo.
Un ostacolo che sarà superato nel tempo, con l’avanzare del processo di modernizzazione etica e giuridico-politica anche nell’Islam, nel suo assetto arcaico. Un ostacolo da affrontarsi con una strategia di benevolenza e di amicizia, l’opposto della disastrosa linea della Destra americana, e del suo rozzo esponente Bush il giovane.
3.4. L’apporto della scienza-tecnologia
La moderna scienza di sperimentazione, scienza galileiana, e la tecnologia che ne è parte, e l’industria che l’applica alla produzione, costituiscono un importante fattore dell’utopia storica, cioè del progetto-processo e quindi della costruzione di una società giusta e fraterna, di cui l’unificazione e pacificazione dell’umanità sono un momento forte.
Perché la scienza-tecnologia opera per modelli universali, indefinitamente riproducibili per identità, quindi universalmente espansibili, capaci di rispondere all’universale bisogno umano. La scienza galileiana parte proprio dalla ricostruzione del fenomeno nel suo comportamento necessario, in quella che è detta la sua legge, matematicamente espressa (così la legge del pendolo o la legge di gravità), e tradotta poi in quello strumento riproduttivo e produttivo che è la macchina. La differenza tra la tecnica premoderna e la tecnologia moderna è proprio la differenza tra il particolare e l’universale; tra la limitata capacità di produrre l’aggetto singolo per il cliente singolo, come fa l’artigiano, e un’indefinita capacità produttiva. Appunto perché la tecnologia è quella techne che contiene quel logos che è il modello universale indefinitamente riproducibile.
Perciò l’industria si diffonde universalmente e induce oggetti e comportamenti d’uso in cui l’intera umanità si ritrova; in questo elementare fattore di unità, come gli elettrodomestici, l’automobile, l’aereo; o la bicicletta. Un fattore tuttavia debole perché l’oggetto e lo strumento possono essere usati anche contro l’unità; le armi anzitutto. Che costituisce inoltre, per molti popoli, il primo fattore di modernizzazione, quello appunto scientifico-tecnologico e industriale; che però è modesto e insufficiente rispetto al fattore etico-politico, il quale può mantenere i popoli in una essenziale arretratezza. E lo si vede nello sceicco che possiede la Ferrari ma pratica la poligamia e la legge del taglione; nei ricchissimi sceiccati che proibiscono alla donna la professione.
Un passo ulteriore è compiuto dalle tecnologie di trasporto, di comunicazione, d’informazione. Non solo la facilità e rapidità con cui si muovono le merci e le persone, ma l’ubiquità dell’informazione, della notizia, dell’immagine, del suono; per cui i popoli e le loro vicende sono presenti gli uni agli altri ovunque; il che comporta conoscenza, empatia, può comportare benevolenza, solidarietà. Come nel caso di una catastrofe, nello tsunami che colpì qualche anno fa il Sudest asiatico, o nella rivolta pacifica dei monaci buddisti contro la dittatura birmana.
Questa compresenza, questa possibilità di congioire e consoffrire può unire ulteriormente i popoli; supposto che i grandi problemi che li dividono siano affrontati con saggezza e volontà buona.
Il processo di unificazione è dunque già molto avanzato. Il cammino compiuto segna una linea di tendenza e costituisce una garanzia per il futuro, una base per la speranza per l’umanità. Ipotesi come quella di Huntington, del conflitto di civiltà, ignorano questo cammino e questa linea di tendenza; ignorano l’utopia storica e il suo percorso. Mancano perciò di una reale base storica.