La scienza-tecnologia come fattore dell’utopia

Per il benessere, la crescita, l’unificazione e pacificazione dell’umanità

 

 

 

1. Un discorso di utopia storica

 

È questo, ovviamente, un discorso di utopia storica, cioè concernente il progetto dell’umanità per la sua liberazione; che come tensione verso la giustizia e società di giustizia è presente da sempre nell’umanità, in particolare nella fase storica; in cui si attesta attraverso i miti utopici, come attraverso tre tipi di evento che sono la rivolta popolare, i processi di democratizzazione (Atene, la plebe romana, i comuni medievali), le rivoluzioni moderne. Il progetto dell’umanità, portato da movimenti di popolo, rispetto al progetto degli autori; quindi l’utopia storica rispetto all’utopia filosofico-letteraria; la quale è comunque un evento grandioso, che si sviluppa in due fasi principali, la fase ellenica il cui esponente più noto è Platone, e la fase moderna che parte da Thomas More.

Progetto dell’umanità che è insieme processo e, da un certo punto in poi, attuazione, trasformazione della società, costruzione di una società di giustizia. Qui resta sempre fondamentale l’osservazione di Marx ed Engels nel Manifesto, nel capitolo sul Socialismo utopistico, che una società non può essere trasformata dal progetto di un autore (progetto mentale, immaginario, astratto), ma solo da un movimento che dall’interno la vada trasformando. Pur costituendo il progetto degli autori un apporto importante d’idee e di strutture, che potranno entrare nella costruzione. Essendo insomma il progetto degli autori parte integrante dell’intero processo di liberazione, costruzione di una società di giustizia, comunione, benessere, pace; e ulteriormente di una società fraterna; parte integrante del grande evento in cui l’umanità costruisce la sua più autentica identità.

Dall’utopia letteraria si forma però anche l’idea corrente dell’utopia come progetto fantastico, irreale, irrealizzabile; dal dilagare di progetti di ogni sorta: utopici, distopici, conservatori, ludici. Idea errata, che dev’essere combattuta.

 

 

2. Scienza di sperimentazione, tecnologia, industria: fenomeno di natura e soddisfazione del  bisogno umano

 

Questo discorso concerne un particolare tipo di scienza che è la scienza moderna di sperimentazione, scienza galileiana; quella scienza che sperimenta il fenomeno – di natura, anzitutto – fino a coglierne il comportamento necessario, la legge, secondo la quale il fenomeno sempre necessariamente si produce e riproduce; sia esso, ad esempio,  la caduta di un grave o l’espansione di un gas; legge che, come tale, costituisce un modello esatto, matematico.

Con cui il fenomeno può esser riprodotto, può essere immesso e tradotto in uno strumento riproduttivo e operativo rispondente al modello, la macchina (poiché macchina significa strumento, con una connotazione d’ingegno); e quindi prodotto in ordine al bisogno umano. Così  si può immettere il gas in una turbina per ottenere energia motrice. Si scoprirà poi che questa necessità è solo statistica, cioè risultante, globale; e però pienamente valida al livello macrocosmico del nostro sentire ed agire.

Il fenomeno viene in certa misura dominato, e indirizzato alla soddisfazione del bisogno umano. Questo concetto di dominio ha esaltato l’uomo moderno, quasi egli potesse dominare la natura. In realtà l’uomo è egli stesso un ente di natura, perciò alla natura condizionato; e la natura, il cosmo ha misure e complessità che trascendono il potere d’uomo. Il concetto biblico è che l’uomo viene posto nel giardino del mondo per custodirlo e lavorarlo; ma il giardino appartiene al suo Signore.

Il modello, essendo esatto, è indefinitamente riproducibile per identità; è in tal senso universale. Individuata la legge di espansione di un gas, si può costruire un modello di turbina in cui immetterlo, e su questo modello si può produrre un indefinito numero di turbine, secondo il bisogno.

La scienza di sperimentazione presenta dunque un momento conoscitivo, scientifico in senso stretto; che è l’esplorazione del fenomeno nel suo comportamento necessario, nella legge, nel suo modello matematico. E contiene già, nel suo sperimentare, nel riprodurre il fenomeno, nel tradurlo  nello strumento riproduttivo-produttivo, meccanico, il momento tecnologico. E trapassa poi in un processo produttivo in termini universali, che coinvolge un universo di macchine come di prodotti, ed è l’industria. Scienza, tecnologia, industria possono dirsi tre momenti di un unico fatto di presa sul fenomeno di natura.

Tecnologia significa infatti una tecnica, cioè un’abilità produttiva, mediata da un logos, da quel logos in senso forte che è la legge. Poiché anche la tecnica premoderna, quella dell’artigiano, ha un suo logos, la recta ratio factibilium, l’insieme delle conoscenze (e dei comportamenti acquisiti) che reggono la produzione, quella del sarto o del mobiliere; un logos empirico che non penetra il fenomeno; che perciò non consente una produzione universale ma solo individua, per l’individuo committente. La «tecnica», dunque, dev’essere distinta dalla «tecnologia»; ed erra Heidegger quando usa quella parola nel suo famoso saggio Die Frage nach der Technik; come anche Spengler nella sua polemica contro la «tecnica»; e molti altri autori.

 

 

3. L’elisione del male fisico, i macrofenomeni

 

A questo punto già emerge il carattere utopico, cioè espansivo del benessere umano: che è uno dei punti dell’archetipo utopico di sempre. Gli altri essendo la virtù cioè la giustizia, e più oltre il rapporto fraterno; la comunione del lavoro, dei beni, del vivere, degli affetti; la pace, la felicità.

L’esplorazione della natura nella struttura costitutiva e necessaria dei suoi fenomeni, comporta la possibilità d’intervento su quella struttura, in ordine a rendere il fenomeno rispondente al bisogno d’uomo.

V’è anzitutto un ambito macrocoscopico di fenomeni – meteorologici, vulcanici, tettonici ecc. – che incidono fortemente sul malessere umano, sul male fisico anche mortale: uragani, inondazioni, eccesso o scarsità di piogge, eruzioni, terremoti e maremoti; sui quali la tecnologia non è abbastanza avanzata per poter intervenire; o forse non potrà mai avanzare tanto da potervi intervenire; o forse non è opportuno che v’intervenga con quelle opere d’ingegneria planetaria che spesso producono effetti ancor più disastrosi, specie a lunga scadenza.

Sappiamo che l’uso indiscriminato – di cui tutti noi siamo pure responsabili – e soprattutto profittuale della tecnologia, ha causato quel dissesto ambientale che va esasperando tali fenomeni; e che causerà probabilmente catastrofi di notevole entità, anche se parziali, come l’innalzamento del livello dei mari, o la desertificazione di ampie zone del pianeta.

Su quell’ambito la tecnologia può intervenire a livello di previsione, sì da rendere possibile l’evacuazione e la difesa; e poi a livello di soccorso, di riassetto del territorio, di ricostruzione, di aiuto anche attraverso la rete d’informazione che copre il pianeta, congiunta con lo spirito di solidarietà, che avvia in qualche misura il rapporto fraterno. Nel dissesto ambientale diventano molto importanti le tecnologie di conversione dei processi e fattori inquinanti.

 

 

4. L’espansione del bisogno primario e secondario, l’elisione della malattia

 

V’è poi l’ambito del corpo umano, che è un ente di natura, e che consideriamo in almeno due direzioni.

Anzitutto il bisogno primario: cibo, vestito, abitazione. Cui la tecnologia, con la sua capacità di produzione universale, può infine adeguatamente corrispondere. E sostanzialmente lo ha già fatto, anzitutto in quella parte dell’umanità in cui si è sviluppata, le società industrialmente avanzate; dove, nel giro di un secolo, la condizione popolare si è trasformata dalla condizione di sempre – condizione cioè di duro lavoro, scarsità di beni, frequenti carestie, impotenza di fronte alla malattia e alle calamità di natura – in una condizione di dignità del lavoro, dignità del reddito, sicurezza sociale cioè assistenza e previdenza, benessere. Questa trasformazione è avvenuta soprattutto in forza della lotta del movimento operaio, e però sulla base di quei beni che l’industria moltiplicava, rendendoli disponibili come mai prima era accaduto.

E lo sta ora facendo con gli altri popoli, quelli economicamente arretrati; cui ha offerto nuove possibilità con quella che è stata chiamata «rivoluzione verde»: la selezione delle sementi, i pesticidi, poi gli Ogm; con l’avvio della formazione-informazione, l’avvio dell’industria e del commercio. Pur sapendo che il problema dei popoli poveri è in parte culturale, legato alla crescita umana di quei popoli; in parte è etico-politico, legato a politiche planetarie di egemonia economica e di sfruttamento, di ridistribuzione della ricchezza e dei beni, alla crescita della solidarietà tra i popoli. Così come il problema della povertà in genere.

Sul bisogno primario può svilupparsi allora il bisogno secondario, sul necessario il conveniente; può svilupparsi un’ascesa del bisogno e della sua soddisfazione, che è poi un’espansione della persona, delle sue potenzialità e facoltà, della sua costitutiva «dignità». Quindi il possesso della casa e il suo decoro, la sua strumentazione (l’acqua, l’energia elettrica, gli elettrodomestici), il decoro del vestiario; l’auto, i viaggi, la vacanza; l’istruzione, la cultura, l’arte; lo spettacolo, lo svago, il gioco.  In ordine a quella prosperità che è un obiettivo primario del processo utopico.

 

In secondo luogo la malattia, altro punto del male fisico, della sofferenza fisica umana; che comporta anche sofferenza morale. La tecnologia è impegnata nell’elisione della malattia; ciò che già ha fatto con le tradizionali malattie endemiche, mentre è ora impegnata con le malattie degenerative, con molte altre malattie anche rare, con molti mali che derivano da comportamenti viziosi anzitutto nella nutrizione, nell’abuso del tabacco e dell’alcol. È impegnata nelle tecnologie procreative, nelle tecnologie di trapianto; nelle tecnologie genetiche che mirano ad elidere la malattia in fonte, nel patrimonio genetico della persona.  

È questa l’utopia della salute, il progetto-processo dell’uomo sano, della vita sana in ogni sua fase; che nel mito si accompagna con l’eterna giovinezza, e nel processo utopico con una vita sana e forte che si prolunga in misura sensibile.

 

 

5. La liberazione del lavoro

 

L’assunzione del fenomeno nel modello e strumento meccanico, nella macchina, libera lavoro umano. L’immissione del gas in una turbina produce energia che compirà lavoro; un lavoro anche duro, che richiederebbe grande fatica; o anche un lavoro cui nessuna fatica basta, perché trascende la forza fisica umana. Il lavoro della mietitura, del contadino piegato a terra col falcetto a tagliare i mannelli di grano sotto il sole di giugno, sarà compiuto dalla mietitrice, e il contadino dovrà solo guidarla e controllarla.

Questa liberazione del lavoro è tuttavia un processo complicato e contrastato. Quando nasce l’industria, e in tutta la fase protoindustriale, il lavoro cade sotto il potere incontrollato e selvaggio del capitale; sotto la sua voracità, che lo sfrutta e l’opprime ad oltranza. Con fabbriche malsane, con giornate lavorative fino a 18 ore, con salari da fame. Si afferma il principio che il salario deve corrispondere esattamente all’energia consumata nel lavoro; principio errato perché il lavoro è compiuto dalla persona con la sua intelligenza, la sua volontà, il suo impegno; e alla persona deve corrispondere, alla sua «dignità», al suo bisogno globale, alla sua espansione familiare e sociale.

Il lavoro di macchina, poi, in questa fase primordiale, e in seguito nella fase tayloriana della catena di montaggio, comporta una sussunzione della persona nei ritmi meccanici, nella loro velocità che il capitale accelera a dismisura, nella loro ripetitività. Comporta una forte tensione nervosa e fisica, è fortemente costrittivo. John Landes ha parlato di Prometeo incatenato già a proposito della reclusione di masse umane nelle manifatture; persone abituate alla libertà del lavoro dei campi e del lavoro artigiano; tanto più col lavoro di fabbrica. E tuttavia queste masse accorrevano alla manifattura e alla fabbrica perché vi vedevano una liberazione dal duro lavoro contadino, dal suo reddito scarso e incerto, dal suo isolamento. Si formava una comunità di lavoro, una organizzazione sindacale e politica, s’impegnava una lotta.

Attraverso questa lotta la liberazione del lavoro diventa via via effettiva. Con la costruzione di fabbriche decorose, pulite, sane; con la riduzione della giornata lavorativa ad 8-6 ore, con la settimana corta, con le ferie remunerate, con l’espandersi dell’ozio; col passaggio dalla catena alle isole di montaggio, dal taylorismo al toyotismo che integra il lavoratore nell’intero processo produttivo; con l’automazione di molti servizi particolarmente duri (ad esempio in siderurgia); con l’ascesa del reddito.

 

Nel frattempo, però, era intervenuta un’altra fase del processo tecnologico in quanto la macchina è autonoma; impostata sul modello fenomenico, riproduce il fenomeno e il suo eventuale prodotto; ha solo bisogno di una forza motrice. Se il fenomeno è complesso, e così il processo produttivo, viene diviso in segmenti, quindi in una serie di macchine distinte; che però possono essere collegate e più oltre integrate in una grande macchina che compie l’intero processo. La macchina sviluppa nel tempo la sua autonomia che avanza verso la grande fabbrica autonoma, il grande automa. Lungo questo sviluppo espelle via via lavoro; fino a che, realizzatosi il grande automa, il lavoro umano scompare o, meglio, diventa un fatto marginale, una frangia di progettazione, controllo, riparazione, stoccaggio ecc.

Daniel Bell, il teorico della società postindustriale, già verso la fine degli anni ’60 prevedeva che, come nel giro di un secolo il lavoro agricolo, il settore «primario», era passato negli Usa dal 55% della forza lavoro al 5%, poi al 3%, lo stesso sarebbe accaduto per il lavoro industriale, il settore «secondario» (ed. Toward the Year 2000. Work in Progress, Boston 1968; The Coming of Post-Industrial Society, New York 1973). La società postindustriale non è però una società in cui la produzione industriale sia assente o meno presente, no: ciò che vi è assente è l’uomo, il lavoro umano, che è migrato nel settore «terziario».

Con questo la tecnologia continua ad impellere il processo di liberazione del lavoro; prende su di sé il lavoro manuale e libera l’uomo per un lavoro più squisitamente umano: il lavoro cosiddetto «immateriale», che opera nell’industria stessa, come in ogni settore, lavoro informatico dalle molteplici funzioni; anche cibernetiche, direttive di macchine e complessi meccanici; lavoro intellettuale, creativo, artistico; lavoro di relazione, dove l’uomo non ha più tanto a che fare con macchine e strumenti operativi quanto con altri uomini, con persone. Nel commercio, nell’impiego, nell’insegnamento, nell’assistenza, nelle professioni, nella ricerca; nelle arti; nella cura del corpo, nel turismo, nel gioco, nello sport; nello spettacolo. In altri ancora. Il lavoro umano migra dunque nel settore «terziario».

Nella migrazione v’è tuttavia un passaggio problematico, che può comportare una disoccupazione «frizionale» – come viene chiamata, cioè nel passaggio da un lavoro all’altro –; o anche un periodo di riqualifica, o anche una seria difficoltà a trovare nuovo lavoro – specie dopo i quarant’anni –, e quindi la definitiva disoccupazione; con una caduta nella precarietà, nella scarsità, o anche nella povertà.

Inoltre il settore terziario ha sì possibilità enormi, che però devono esser realizzate, e spesso nel pubblico più che nel privato. In Italia, ad esempio, c’è un enorme bisogno di nidi d’infanzia e di scuole materne; che però dovrebbero essere a carico dei comuni, i quali non hanno fondi adeguati, oppure li sprecano in vario modo. Il settore delle arti ha una enorme possibilità di espansione a livello popolare: così per l’opera lirica, il teatro di prosa, il concerto classico. Se pensiamo che Milano, con circa quattro milioni di abitanti, ha un solo teatro d’opera, Parigi con sette (o 15, se si conta la banlieu) ne ha due; i teatri d’opera, come i teatri di prosa e le sale da concerto, dovrebbero moltiplicarsi a decine, almeno uno per quartiere. Ma dovrebbe anche accrescersi in eguale misura il livello culturale e il gusto della gente. C’è un grosso problema di formazione scolastica generalizzata a livello superiore, e di formazione permanente, un generale problema di crescita umana, che richiede un forte impegno economico ed organizzativo, oltre che un’adeguata sensibilità. E richiede inoltre tempi lunghi; mentre il passaggio al lavoro terziario urge e preme.

 

Ci sono infine altri decisivi problemi, nella liberazione del lavoro.

Uno, forse il più importante, concerne il rapporto persona-professione. Per essere veramente libero il lavoro deve corrispondere alla persona e alle sue attitudini, al suo progetto di vita; diciamo che la forma della professione deve corrispondere alla forma della persona. Ognuno deve avere il suo lavoro, non un lavoro qualunque, un lavoro di sussistenza, che deve per forza accettare altrimenti non ha di che vivere; come purtroppo accade.

In tale prospettiva noi abbiamo parlato in passato di società di quadro, correlata ad una società di piano o di programmazione economica. Si sa che il piano è stato introdotto dal sistema  sovietico sulla base di un’economia di stato, ma anche di un potere dispotico, e in forma fortemente costrittiva; che ha incontrato grosse difficoltà e vizi, e si è poi consumato. E però è stato ripreso – in quella fase, almeno – anche in economie democratiche come programmazione economica, perché corrisponde ad un principio di gestione del fatto economico, gestione razionale, gestione umana, rispondente alla dignità e diritto della persona; di contro al modello liberista e di libero mercato che è anarchico, e in cui prevale il più forte mentre il più debole soccombe; prevale il capitale mentre soccombe il lavoro. Intendendo per società di quadro una gestione del fatto produttivo e della sua offerta di lavoro in corrispondenza con le opzioni professionali della persona, e con la loro gestione.

Infine, per essere libero, il lavoro dev’essere sciolto dal rapporto salariale, che pone la persona in uno stato di dipendenza. Qui la prospettiva utopica è quella dell’autopossesso e autogestione dell’impresa di ogni tipo da parte della comunità di lavoro; prospettiva elaborata lungo l’800 dal socialismo francese e ripresa in seguito, in termini rigorosi, dagli economisti della «primavera di Praga», emigrati poi in America; in Italia da un gruppo di studiosi, tra cui Bruno Jossa dell’Università di Napoli. Questa prospettiva suppone il superamento del capitalismo individuo, cioè del padrone, o dei padroni, e della sottomissione al loro potere; che è poi anche la discriminazione di ricco e povero, di potente e debole. Il superamento del modello ingiusto che domina in parte la fase della storia in cui viviamo.

L’ipotesi sviluppata dagli autori del capitalismo cognitivo, cioè di una condizione del capitale che non si colloca più nel supporto materiale meccanico e nella produzione di beni materiali, col lavoro di macchina che vi è sussunto, e il relativo profitto; ma si colloca in beni di conoscenza e scienza e innovazione, sviluppati attraverso il supporto numerico del computer, e attraverso la «rete»; questa ipotesi sembra immatura e parziale. Perché trascura il fatto che il capitale sta ancora in larga parte collocato nella produzione materiale e meccanica; anche se non vi è più l’uomo e il lavoro umano; come si è visto. Trascura inoltre il «lavoro di relazione», che occupa gran parte del settore terziario, e usa il supporto numerico e di rete  in termini prevalentemente strumentali.

Perciò anche l’ipotesi che ne consegue, di un lavoro di conoscenza e scienza in prevalenza intermittente, quindi di per sé precario, che dev’essere  surrogato da un reddito sociale  garantito universale, si rivela di dubbio valore; sia perché quel tipo di lavoro concerne solo una parte o anche una minoranza del lavoro umano; sia perché trascura il rapporto persona-professione, il ruolo del lavoro nell’autonomia, nell’adempimento, nell’affermazione sociale della persona. Abbandona la persona ad una condizione di universale precarietà (cfr. Y. Moulier Boutang, Le capitalisme cognitif, Ed. Amsterdam, Paris 2007; e il gruppo della Rivista «Multitudes»).     

Ho studiato il problema della Liberazione del lavoro ne Le società del futuro. Saggio utopico sulle società postindustriali (Dedalo, Bari 1978), in un capitolo di oltre cento pagine, pp. 129-251.

 

 

6. L’unificazione e pacificazione dell’umanità

 

La condizione millenaria dell’umanità fino al decollo del moderno processo di liberazione è dominata da quello che noi chiamiamo il blocco storico della società ingiusta; i cui fattori sono il dispotismo, l’asservimento dei popoli quindi gl’imperi e il colonialismo, la guerra perenne; la schiavitù, l’asservimento della donna, la discriminazione di ricchezza e povertà. In questa condizione l’umanità è divisa; i popoli sono l’uno per l’altro estraneo e nemico; come dice il famoso frammento di Eschilo, «per il greco ogni barbaro è schiavo». Il fratello è estraneo e nemico al fratello; poiché, secondo il principio evangelico, «voi tutti siete fratelli».

Il processo di unificazione inizia forse con le navigazioni e circumnavigazioni del ‘400 e ‘500, cioè con la conoscenza globale del pianeta, primo approccio globale coi popoli che lo abitano; ma subito degenera nell’imperialismo coloniale, quindi nell’asservimento, lo sfruttamento, la schiavitù di quei popoli, o anche il massacro e il genocidio. Dove la potenziale unificazione si frangeva in una più profonda divisione che sarebbe durata fino all’abbattimento del colonialismo, cioè fino agli anni 60 e 80 dello scorso secolo.

Il processo di unificazione viene poi concretamente avviato dalla maturazione della coscienza etica (detta anche dei «diritti fondamentali») che è parte della moderna costruzione di una società di giustizia; e viene fissata nelle Carte dei popoli (le prime sono il Patto del popolo inglese del 1647 e la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789). E porta, al seguito delle due guerre mondiali, alla caduta degl’imperi continentali (asburgico, prussiano, russo, ottomano, poi giapponese; il cinese già nel 1912), poi degl’imperi coloniali; porta al Trattato dell’Onu in cui viene sancito il principio dell’autonomia, della pari dignità e diritto dei popoli, e viene creata una comunità di tutti i popoli del pianeta; allo stesso modo viene sancito il rifiuto della guerra, il più atroce crimine, il macello umano, il più atroce strumento di divisione e di rottura: i conflitti tra i popoli non potranno mai in futuro esser risolti con la guerra ma solo con la trattativa.

È un primo grande traguardo, che s’accompagna però al permanere di gravi fattori di divisione: come l’ostilità tra blocco sovietico e occidentale che dura oltre quarant’anni; la condizione di povertà e di sfruttamento dell’Africa; le precarie condizioni economiche e politiche dell’America Latina, con l’ingerenza e lo sfruttamento Usa; la più recente ostilità tra Islam e Occidente, su cui incide il conflitto Israele-Palestina, poi l’attacco terroristico che porta la Destra statunitense alle due disastrose guerre d’Afghanistan e d’Iraq.

 

Intanto però la tecnologia era andata contribuendo all’unificazione per altre vie. Con lo sviluppo di trasporti e scambi sempre più veloci tra i popoli – il piroscafo, il treno, l’aereo. Con la diffusione universale dei sistemi produttivi e dei prodotti, che veicolano comportamenti d’uso, gli stessi ovunque, e pongono quindi le basi di un’unica cultura universale in cui tutti i popoli si ritrovino. Con lo sviluppo della comunicazione – il telefono, la radio, la televisione, la rete – fino a creare una ubiquità dei fatti storici e culturali, una compresenza dell’umanità a se stessa; perciò anche un risentirsi ovunque di quei fatti, e una corrispondente risposta ubiquale, che sollecita l’attenzione e la solidarietà umana. Così le manifestazioni contro la guerra in Iraq al suo scoppio si sono succedute ovunque, influendo  l’una sull’altra, e mobilitando – si è detto – fino a cento milioni di persone. Così la catastrofe dello tsunami asiatico ha mobilitato una universale solidarietà umana.

In tal senso il processo di unificazione avanza, anche contro la resistenza di culture conflittuali, e di politiche egemoniche. Vi contribuisce anche la formazione di comunità di popoli in atto ovunque nel pianeta; la più matura essendo l’Unione Europea; la quale serve da modello alle altre come comunità di pace (dopo essere stata il più acuto e persistente teatro di guerra) e di solidarietà (nazioni come l’Irlanda sono state redente dalla povertà e sofferenza di sempre; e così ora la Polonia, la quale acquista una sicurezza che non ha mai posseduto).

 

L’unificazione porta con sé la pacificazione: vivendo sempre più insieme, come una grande famiglia umana, i popoli si conoscono, si liberano dai pregiudizi e dalle pretese di superiorità, imparano a comprendersi e ad amarsi.

Si obietterà che la tecnologia ha enormemente contribuito al potenziamento degli armamenti, allo sviluppo delle armi automatiche anzitutto, poi delle armi atomiche e nucleari, e in genere delle armi di distruzione di massa. Ancor oggi gli Usa in particolare, sotto l’impulso della Destra incivile e guerrafondaia, in una disattenzione totale al processo di pacificazione in atto, al maturare di una coscienza di pace, dopo aver scatenato le «guerre preventive» – come le hanno chiamate – continuano a sviluppare nuovi armamenti: così lo scudo antimissile, che vorrebbero estendere anche all’Europa, così il soldato automa. E hanno suscitato anche una giusta reazione da parte della Russia, con la quale avevano prima iniziato un cammino di disarmo.

È l’uso distopico della tecnologia, ed è la più atroce distopia, quella che fomenta il macello umano; che finirà presto, si pensa, già con la caduta della Destra; mentre la tecnologia continua il suo cammino di grande strumento di benessere e di pace.

 

 

7. L’uso distopico della tecnologia e la polemica antitecnologica

 

Questo uso distopico si presenta fin dall’inizio, dalla genesi della tecnologia; nella fase protoindustriale, come già si è notato. Innanzitutto da parte del capitale, che la possiede, e con essa sfrutta pesantemente il lavoro; oggi ancora; e spesso lo espone a micidiali pericoli, lo annienta o lo deforma; come nel lavoro minorile in certi paesi dell’Asia; in Cina, in India. E negl'incidenti mortali ovunque, troppo frequenti.

Il fatto distopico che per una fase più accende la polemica è la sussunzione del lavoro sotto la macchina, la catena di montaggio; che però col tempo si riduce e va estinguendosi.

Più grave e permanente, e foriero di catastrofi è l’inquinamento atmosferico, l’effetto serra, il conseguente aumento della temperatura globale: il complesso dissesto che coinvolge i fenomeni atmosferici e meteorologici, la desertificazione, la tropicalizzazione, lo scioglimento dei ghiacci, in particolare delle calotte polari, l’ascesa del livello dei mari, la sommersione possibile di città e pianure. Un processo che non è facile arrestare; per gl’interessi che coinvolge, le lobby che vi premono, il cedimento dei governi (tipico il caso degli Usa che non firmano i protocolli di Kyoto per la riduzione dei gas inquinanti onde non intaccare gl’interessi dei loro petrolieri; con un presidente che è petroliere, e legato a quella lobby); per il costume instauratosi nelle economie avanzate, l’uso-abuso dell’energia, dell’automobile, dell’aereo, il modello e livello di vita della gente.

Altrettanto grave è l’abuso delle tecnologie mediatiche come strumento di persuasione occulta e palese; di pubblicità suasiva allo spreco; di ottundimento della mente popolare; di dominio dei processi democratici.

L’abuso nella fase di ricerca scientifica può pure presentarsi; se il ricercatore pensa di poter procedere nella sua ricerca senza sottostare a limite alcuno; se dunque ignora o prevarica il vincolo etico; in particolare quanto alla dignità e al diritto della persona. Nella sperimentazione sull’embrione, ad esempio, il caso più dibattuto in questa fase; nella sperimentazione di farmaci su volontari, talora poveri e bisognosi. Ma spesso il ricercatore è congiunto col capitale che gli fornisce i fondi per una ricerca che pensa potrà essere in seguito profittuale. Su questo punto lo stato dev’essere molto attento, con la legge, coi controlli.

 

La polemica contro la tecnologia è già forte nell’800: si pensi a Butler, a Bulwer-Lytton, a Souvestre; più oltre a William Morris, che propone il ritorno ad una società artigiana. Nel ‘900 Il mondo nuovo di Huxley non è  che l’estrema inumana affermazione della tecnologia e del capitale ; anche se in termini critici. Tra i filosofi v’è la visione negativa di Spengler, di Heidegger. In Italia Severino vede nella «tecnica» l’espressione dell’umana volontà di potenza, alienatrice e annientatrice (Techne. Le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979).

Una polemica che non distingue tra la tecnologia, il grande strumento utopico; uno strumento che va poi sempre più assimilandosi al suo principio umano; e il suo uso distopico. Ha certo una funzione di richiamo da questo uso-abuso. Manca però alla comprensione del progetto-processo utopico e del suo grande strumento.