Utopia e Speranza. Il progetto e processo utopico di liberazione

                                                                     e la speranza terrena dell’umanità

                                                                                                                                    di Arrigo Colombo

 

                                                                                                                                                                                        in «Nuova Rivista di studi utopici>, 2-3, ottobre 2013, pp. 7-25 

 

 

1.  L’utopia tra speranza, sfiducia, fallimento: il lungo viaggio

 

È il viaggio dell’utopia letteraria (o filosofico-letteraria), il progetto degli autori. Che ha il suo primo percorso nel mondo ellenico, da Ippodamo di Mileto di cui  parla Aristotele, all’utopia stoica, ad Evemero e Giambulo. E il suo secondo percorso nella modernità occidentale, la grande fioritura di centinaia di progetti che da Thomas More giunge fino a noi. L’utopia essendo sempre il progetto di società; che contiene quindi l’idea, o ancor più la tensione, verso una società altra, propriamente una società «buona», «giusta» (pur essendovi anche progetti conservatori o ludici o pure perversi, che però sono detti ora «distopie»): l’umanità essendo dominata per millenni – e fino a tempi recenti – dal «blocco della società ingiusta», un fatto orrido, abominevole; e rientra in quello che il Cristo chiama «il peccato del mondo» ch’egli è venuto a «togliere», a liberarne l’umanità.

Il progetto utopico, già in Moro – che ha introdotto la parola come nome dell’isola in cui vige un ordinamento esemplare, nel suo piccolo prezioso libro Dell’ottima forma di Stato e della nuova isola Utopia – non è qualunque, ma eticamente connotato, dalla giustizia; più che utopia dovrebbe chiamarsi eutopia (com’è detto nell’hexastichon, i sei versi, che stanno tra i materiali prefatori del piccolo libro) perché il non-luogo è in realtà il buon-luogo. È la società che non esiste proprio perché è la società buona, giusta,  l’umanità essendo dominata dall’ingiustizia; per gran parte della sua storia.

I fattori del «blocco della società ingiusta» essendo più o meno i seguenti: dispotismo cioè potere incondizionato di un solo, e (almeno fino alla Rivoluzione francese) della classe che possiede la terra, l’aristocrazia; conquista di popoli, formazione d’imperi, guerra perenne; schiavitù, asservimento della donna, sfruttamento povertà oppressione del popolo.

In questa perversa situazione dell’umanità, di cui Moro non solo è consapevole, ma che ricostruisce e critica – almeno in parte, e però con acutezza e profondo sdegno – nel primo dei due libri della sua opera, su cui ritorna anche nel secondo (che è dedicato al progetto); in queste condizioni la speranza di una liberazione, di una trasformazione della società secondo quel progetto non riesce a concretarsi; ed egli lo dichiara espressamente nel famoso passo che conclude l’opera: «Desidero, più che spero» (ediz. Yale, New Haven 1965, p. 243).

 

Platone invece ha sperato, almeno per un tratto; profondamente fiducioso nel suo progetto – quello che sta nel dialogo Politéia – come capace di «porre fine ai mali della città, […] anzi del genere umano» (V, 473d). Almeno fino al terzo dei suoi viaggi in Sicilia, dove pensava di poterlo realizzare attraverso Dione – genero di Dionisio il Vecchio, il feroce tiranno di Siracusa – in cui aveva ravvisato il principe filosofo (la città platonica essendo retta da filosofi, gli unici che contemplano il «divino modello»): «Una meta indicibilmente felice per lui e per gli altri siracusani» (Lettere, VII, 327c). Viaggi che durano dal 387 al 361 a.C., tra i suoi quaranta e sessantasei anni; il tempo della speranza; o anche fino al 357-54, quando la spedizione armata di Dione, dopo un lungo esilio, riesce a liberare la città. Cui segue però un contrasto di tre anni tra lui, che – fedele al maestro – pensa ad un governo aristocratico, e i siracusani che vogliono la democrazia; fino al suo assassinio. Plutarco lo nota con chiarezza : «Aveva in mente d’imbrigliare la democrazia pura, che non riteneva una vera e propria forma di governo civile […]; in sua vece avrebbe voluto instaurare un regime ordinato, ove fossero contemperate la monarchia e la democrazia, […] e l’aristocrazia dirigesse e regolasse gli affari di maggiore importanza» (Vita di Dione, 53).

Platone pensa allora che il suo progetto sia troppo avanzato, «superiore alla nascita e crescita ed educazione d’ora», alle attitudini dei cittadini e delle città del suo tempo (Leggi, V, 740a); e ne costruisce un altro, quello appunto del dialogo Leggi, che però dovrà essere il più possibile simile al primo (V, 739e). Avrà lo stesso principio e fine, la virtù, la formazione di uomini virtuosi; quindi la felicità (I, 630c, 632e; V, 742d). Un progetto ch’egli pensa di destinare alla fondazione di una colonia.

Una speranza tuttavia vana perché un progetto aristocratico non è liberatorio per l’umanità, non soccorre al popolo, al povero; che Platone disprezza.

 

Platone e Moro sono due casi emblematici. Ci si chiede se la speranza, o anche la certezza di una trasformazione dell’umanità, non sia presente almeno in quegli autori che, anziché nella terra lontana, proiettano il loro progetto in un tempo lontano, cioè nel futuro dell’umanità; a cominciare da L’anno 2440 di Mercier, che prevede  la rivoluzione (in realtà l’umanità era già entrata nell’età delle rivoluzioni, con quella inglese, mentre era alle soglie di quella francese; la redazione definitiva dell’opera essendo del 1786), prevede una società di giustizia, benessere, pace; anche se lascia sussistere la monarchia, ma elettiva, il re come capo dell’esecutivo, mentre v’è un parlamento eletto dal popolo. Ma in altri progetti proiettati sul futuro – come ne La razza ventura di Bulwer Lytton, nel Frammento di una storia futura di Gabriel Tarde, ne La macchina del tempo di Wells, tutte opere dell’800 – si presenta una visione razzista o classista, talora di un’umanità decadente; o anche il rifiuto della democrazia.

 

La speranza di una trasformazione dell’umanità inizia – nei progetti degli autori – con quelli che Marx ed Engels chiamarono gl’«ingegneri sociali»; con Owen, Fourier, Cabet, il cui progetto è orientato alla formazione di comunità esemplari, una nuova società in piccolo che si pensa sia facile costruire, e che con le sue prerogative di giustizia, benessere, felicità, eserciterà una  enorme forza di attrazione e si diffonderà, dilagherà trasformando l’umanità intera.

La prima esperienza è quella di Owen, che nel 1800 acquisisce con altri il centro cotoniero di New Lanark, in Scozia, con un villaggio di 2500 lavoratori (tra cui 500 bambini reclutati dagl’istituti caritativi di Edimburgo); che funzionava coi criteri del capitalismo protoindustriale: lavoro durissimo (dalle 6 alle 19), salari bassissimi, povertà, abbrutimento. Owen lo trasforma, lo umanizza e fa di questo il suo progetto per l’Europa (dove è diventato il più popolare imprenditore), per l’umanità intera; per il Nordamerica in particolare, dove è disponibile la terra.  

Poi il modello fourieriano, il falansterio, dopo il fallimento di Condé-sur-Vesgre, a circa 35 miglia da Parigi. La grande passione dell’americano Albert Brisbane che per due anni ha studiato il modello con Fourier stesso, e ritornando negli Stati Uniti promuove in grande stile la fondazione di comunità, avendo il sostegno dell’autorevole «Tribune», il giornale di Horace Greely, e di tutta una schiera di giornalisti e scrittori. I tentativi di Considérant, il maggiore allievo di Fourier, nel Texas; di Cabet, le comunità icariane. Il grande entusiasmo che si accende e divampa, migliaia di lavoratori e di famiglie che dall’Europa confluiscono in queste comunità.

Purtroppo queste comunità non reggono a lungo. Il massimo delle comunità oweniane è Nashoba, nel Tennessee, quasi tre anni (è però una comunità di rieducazione di schiavi emancipati). Il massimo delle comunità fourieriane, che sono una cinquantina, è la North-american Phalanx, accuratamente organizzata da Brisbane, 11 anni; la Wisconsin Phalanx,   6 anni; Brook Farm, la più famosa, che nasce nel 1841 dal Transcendental Club (dove troviamo, tra i fondatori, Nathaniel Hawthorne, che le dedicherà The Blithedale Romance) e nel ’44 si trasforma in falansterio, 5 anni; altre più caduche. Réunion, il tentativo di Considérant, con migliaia di domande di lavoratori francesi, belgi, svizzeri, dura un anno e mezzo.

Cabet, l’autore del Voyage en Icarie, il più sognatore e autoritario di tutti, dopo il primo fallimento nel Texas per la disposizione frammentaria dei terreni in concessione, nel 1849 crea la comunità di Nauvoo, con la quale poi nel ’56 viene in conflitto (nello stesso anno muore di apoplessia); il gruppo cabetiano si trasferisce a Cheltenham presso St. Louis, dove fiorisce ma è anche turbato da dissidenze tra autoritari e democratici, e chiude dopo 6 anni. Gli altri si trasferiscono a Corning nello Iowa, e qui la comunità fiorisce fino a che scoppia un conflitto tra la vecchia e la nuova generazione; conflitto che si trascina, al punto che nel ’78 la Corte civile liquida la comunità. C’è però un accomodamento: i giovani si riorganizzano sul posto come The Icarian Community; poi migrano in California dove fondano Icarian Speranza che resiste per 6 anni, dall’81 all’87; i vecchi ottengono la loro parte di terreno e villaggio, e si riorganizzano come The New Icarian Community e, pur tra morti e defezioni, vi restano fino al 1895.

Questo gruppo icariano è il più resistente: e pur tra varie traversie, conflitti, secessioni, persevera dal 1849 al ’95, per oltre 45 anni.

Vi sono poi comunità libertarie, anarchiche, individualiste, che cioè affermano la libertà individua contro ogni vincolo comunque oppressivo e accolgono magari solo un minimo di norme comuni; dove la più duratura è Point Hope a Berlin Heights, un decennio. E v’è infine – o anzitutto – la grande fioritura di comunità d’ispirazione religiosa, che percorre tutto l’800 americano, un grandioso fenomeno, talora fortemente vitali (un secolo e oltre), fortemente creative: così in particolare gli Shaker (dal 1775 – nel 1830 circa 2500 membri, 18 società, 58 famiglie in sette stati, sec. Nordhoff) e Oneida; ma non si presentano con quella tensione esemplare e diffusiva, di un processo di trasformazione dell’intera società umana, di speranza per l’intera umanità (anche perché sono in buona parte escatologiche); che corrisponde alla più autentica tensione utopica.

 

A questo punto si fa evidente il fallimento del modello comunitario come modello sociale: modello di comunione dei beni anche d’uso, di liberazione del lavoro attraverso l’autopossesso (ma in questa fase v’è per lo più anche un azionariato esterno, pur se benevolo) e l’autogestione, di benessere e gioia di vivere; un modello inteso come esemplare ed espansivo, capace di trasformare la società e di rappresentare per essa una speranza storica concreta.

Non fallisce il modello monastico – nell’Occidente cristiano come altrove – che però è un modello di segregazione dalla società, e in particolare dalla famiglia, per una consacrazione al divino; anche se poi assume compiti sociali, ma originariamente ed essenzialmente come dono. Il modello comunitario religiosamente fondato, cristiano in particolare, non è di per sé segregativo, ma lo è di fatto alle sue origini – nell’anabattismo la fattoria fraterna hutterita, poi gli amish  – in  quanto considerato eretico dalle stesse chiese protestanti, oltre che dalla cattolica e dall’ortodossa; carattere che poi conserva anche in seguito, mantenendosi marginale alla società. Come le fiorenti comunità dell’800 americano su base religiosa di cui si è detto.

Fallisce il modello laico di cui qui si è trattato – quello oweniano, fourieriano, cabetiano, libertario –, che tanta speranza ha suscitato in Europa e negli Usa, tanto accorrere di lavoratori e famiglie. Per difficoltà concrete che vanno dalla durezza dell’esperienza – i terreni da dissodare, la vita in capanne, la scarsità di mezzi – all’impreparazione culturale ed etica per la vita in comune; talora alla mancanza di  un progetto preciso e severo di costruzione e gestione della comunità. Ma secondo l’analisi marx-engelsiana falliscono in termini essenziali perché la società non può essere trasformata dal progetto di un autore, né di un ingegnere sociale, ma solo da un movimento popolare di forte consistenza che ha in sé un progetto trasformatore, e ha anche la forza di realizzarlo. Come il movimento operaio, cui essi pensano, i movimenti che organizzano il movimento operaio, cioè il socialismo e il comunismo (o il socialcomunismo), che si formano nella prima metà dell’800; e prima ancora i movimenti rivoluzionari moderni. Sono questi i portatori della speranza terrena dell’umanità.

Perciò sono tali i progetti utopici di autori che in questi movimenti rientrano. Così Bellamy, Looking backward (1888),  una società in cui tutti lavorano e tutti godono del benessere prodotto dal lavoro; Morris, News from nowhere (1890), il teorico del lavoro come piacere e come arte;  Hertzka, Freiland (1890), Eine Reise nach Freiland (1893), una colonia in cui la terra  è di tutti e gestita da tutti; Péguy, Premier dialogue de la cité armonieuse (1898-1908), la socializzazione dei beni, l’armonia di lavoro e loisir,  nel benessere.

Il movimento socialcomunista è oggi in pausa (non diciamo estinto), dopo l’atroce esperienza del modello sovietico, dogmatico e dispotico, pseudocomunista mentre pretendeva di essere «l’unico socialismo reale»; della galassia di quel modello che mirava a soggiogare il mondo intero; ma contiene ancora sempre il progetto di liberazione dell’umanità, di cui l’umanità storicamente dispone.

 

 

2. La degradazione del concetto di utopia, il concetto corrente

 

Il concetto corrente di utopia è fortemente degradato, non solo a livello popolare ma anche a livello dotto (si veda ad es. uno studioso peraltro serio come B. Baczko, in Lumières de l’utopie, Paris 1978, Cap. 1, 1). L’utopia è passata a significare il progetto immaginario e irreale, il progetto ideale e allo stesso modo irreale, il sogno, la chimera, quindi l’impossibile. È abitualmente «il bello ma impossibile». Dove certo non v’è spazio per la speranza umana.

Ora, nessuno nega che l’immaginazione creatrice abbia un ruolo nella progettazione utopica; in quella letteraria particolarmente; ma l’ha in tutto il pensare e progettare umano. E però anche il progetto letterario – salvo che nel caso di un progetto puramente ludico – ha una componente storica, di risposta a quella situazione storica inumana di cui s’è detto, risposta alla perversa società del tempo, risposta almeno parziale; e una componente etica, di un dover essere dell’uomo; la tensione verso una società pensata come eticamente migliore; l’ottima forma di Stato di cui parla Moro; idea presente anche in Platone; e in Aristotele che è alla ricerca della costituzione «migliore».

Ma il concetto corrente e degradato si forma probabilmente dalla molteplicità e varietà dei progetti, dall’estrosità di taluni come gli stati e imperi della luna e del sole di Cyrano de Bergerac o l’uomo nella luna di Godwin, le numerose isole e terre immaginate come sede dell’ordinamento esemplare, la macchina del tempo; un universo certo fantasioso in cui la mente umana si smarrisce come nell’irreale. È piuttosto l’irrealtà del suo smarrimento. Ma interviene anche, lungo l’800, l’avversione del capitalismo per l’utopia, vista come progetto potenzialmente eversivo del suo potere; e, certo, anche la critica marx-engelsiana che pervade poi il marxismo.

In questo concetto degradato l’utopia perde la sua consistenza e serietà, la sua valenza storica, di progetto d’una società migliore di quella esistente; progetto politico; grandioso fenomeno di progettazione già nel mondo ellenico così straordinariamente creativo e ricco di politicità, come di pensiero e d’arte; ma tanto più nella modernità europea e occidentale, in questa straordinaria età della storia umana. Che s’apre con la scoperta della dignità dell’uomo, della sua creatività e fattività di faber, di plastes et fictor, capace con la sua virtù attiva di piegare la fortuna, proteso verso l’illimite, nititur fieri deus. S’apre con quelle stupende navigazioni e circumnavigazioni che svelano finalmente all’uomo il mondo in cui egli vive, e che gli era rimasto sino ad allora ignoto. Col superamento di una visione conclusa della storia, visione circolare o parabolica (dove il medioevo si concepiva com’aetas senescens, come vecchiaia della storia umana); per una visione lineare, indefinitamente aperta sul futuro. E più oltre con la sperimentazione del fenomeno e del  suo comportamento necessario, la sua legge; la scienza galileiana, scienza-tecnologia, di riproduzione e produzione del fenomeno di cui si possiede la legge; di una produzione in termini universali che può rispondere all’universale bisogno umano. E poco più oltre ancora con l’età delle rivoluzioni.

Nella modernità il grandioso fenomeno di progettazione utopica: le centinaia di progetti, cioè l’inesausta ricerca di come la società umana potrà liberarsi dai suoi mali, inesausto tentativo di capire come potrà essere una società di giustizia, benessere, pace. E con essa un tesoro di progettazione, di proposte, d’idee per la costruzione di quella società. Se ad esempio si rilegge quel passaggio dell’Utopia di Moro sulla comunione dei beni, la sua serietà, la sua forza: «Dove il possesso è privato, dove tutto si misura col denaro, dubito si possa  mai avere uno stato giusto e prospero»; la comunione dei beni, l’abolizione della proprietà privata, gli si presenta come «la sola e unica via per il pubblico benessere»; per cui, se ad essa non si porrà mano, «graverà sempre sulla parte di gran lunga maggiore e di gran lunga migliore dell’umanità [che è il popolo] il peso dell’indigenza, il fardello angoscioso e inevitabile del dolore» (ed. cit., pp. 102, 104).

Il concetto corrente è dunque palesemente falso: l’utopia letteraria, o filosofico-letteraria, che percorre la storia umana, o almeno la storia occidentale nel senso detto, l’unica di cui sempre si parli, è il progetto di società, il tentato progetto di una società «buona», «giusta» – il senso già visto in Moro – che continuamente si ripresenta nel tempo. Ma correggere il concetto corrente non sarà cosa facile. Esso appartiene agl’idola di cui già dissertava Bacone.

 

 

3. La critica marx-engelsiana dell’utopia

 

Questa critica – cui già accennavo – sta nel cap. III, 2 del Manifesta del Partito comunista; ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring, già nelle prime pagine. Questa critica va essenzialmente, come dice il titolo del capitolo, al socialismo e comunismo critico-utopistico, cioè agl’ingegneri sociali di cui abbiamo parlato, e alle loro «utopie sociali» che si affidano alla «potenza dell’esempio» e fanno appello «alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi», i finanziatori e azionisti invocati.  Ma contiene degli accenni a piani sociali puramente «escogitati», che sviluppano una «descrizione fantastica della società futura», caratterizzata da «un ascetismo sociale e da un rozzo far tutti eguali»; una sia pur solo accennata critica all’intera utopia letteraria; che era poi l’utopia per eccellenza, o l’utopia come tale.

Il cui errore sta nel non aver individuato un movimento politico e rivoluzionario capace di realizzare quella storia e società futura; movimento che è per Marx ed Engels il proletariato. E, possiamo dire, lo è sempre (Manifesto, III, 3; Anti-Dühring, Introduz., 1 – Mew 4, 490-91; 20, 18).

In questa critica  sta racchiuso un fondamentale principio che vale per l’intera utopia filosofico-letteraria,  per tutto il grandioso e impotente fiorire di progetti utopici  nell’antichità come nella modernità; principio cui già accennavo. E cioè che la società non può essere trasformata dal progetto di un autore, ma solo da un movimento di popolo che è maturato ad un progetto, ad una volontà di azione, ad una forza eversiva della società ingiusta che l’opprime.

Perciò l’espressione di Moro, «desidero, più che spero», esprimerebbe la condizione insuperabile di tutta l’utopia filosofico-letteraria, di tutti i progetti degli autori; ma in realtà va oltre perché esprime un’impotenza dell’umanità. Avrebbe dovuto dire «lo desidero, e lo spero per l’umanità futura».

La critica marx-engelsiana – come già notavo – ha molto influito sulla formazione del concetto corrente e sul diffuso disprezzo per l’utopia.

 

 

4. Dal progetto degli autori al progetto dell’umanità, fondamento primo della speranza terrena

 

È il nuovo senso dell’utopia, il senso più autentico, che s’illumina solo negli ultimi decenni  ma fatica ad affermarsi, avendo contro di sé il concetto corrente e la sua sorda resistenza; in particolare l’indifferenza degli studiosi. È la «nuova utopia». Che fonda la speranza terrena dell’umanità.

Il progetto dell’umanità. Noi parliamo anzitutto di un progetto popolare implicito. Di un popolo, cioè, che vive in una condizione d’ingiustizia (il proletariato, il popolo lavoratore; in nullatenenza, ignoranza, sfruttamento, precarietà, oppressione) e però non soccombe ad essa, ma conserva la coscienza della sua dignità e del suo diritto, e la tensione al suo recupero, tensione etica.

Tre eventi che percorrono la storia umana lo provano. La rivolta popolare, presente nella storia intera. I processi di democratizzazione, quando il popolo rivendica la partecipazione alla gestione della città, e anche la raggiunge (nella democrazia ateniese, dove l’intero popolo legifera in assemblea; nella lotta della plebe romana, lotta secolare, cui l’aristocrazia resiste ad oltranza; nei comuni medievali). Le rivoluzioni moderne, in cui il popolo non è solo la maggiore forza d’urto, ma anche la più illuminata ed esigente forza progettuale.

Altri fenomeni culturali riflettono o esprimono questa coscienza. I miti utopici – il mito edenico-aureo o di una società di giustizia benessere pace proiettata all’inizio della storia umana; il mito escatologico, che la proietta alla fine; il mito geografico, in una terra lontana. Ciò che è stato o sarà o è già altrove rafforza la possibilità e la speranza. Figurazioni popolari come il paese di cuccagna o il mondo alla rovescia; un mondo a rovescio e che dev’essere rovesciato.

Il progetto popolare implicito, la sua tensione etica verso il recupero della dignità e del diritto della persona umana, verso la giustizia e la società di giustizia, è la base permanente dell’utopia, del progetto utopico: «Uomo sii giusto, vivi secondo giustizia, costruisci una società di giustizia».

 

Il progetto dell’umanità – storico, esplicito – s’imposta nel messianismo ebraico e nell’annunzio evangelico; nel popolo ebraico, un popolo piccolo e marginale, a lungo soggetto ad altri  popoli.

Nel messianismo ebraico il messia, cioè l’unto con l’unzione sacra, il consacrato, è annunziato come colui che farà giustizia al suo popolo, schiavo dei grandi imperi (dal 722 a.C. l’impero assiro, babilonese, persiano, alessandrino, romano; ininterrottamente); e costruirà una società di giustizia dove non vi sarà più né violenza né oppressione; dove il popolo, il povero sarà redento dalla sua povertà; dove il debole, l’orfano e la vedova, sarà protetto. Una società di giustizia, di benessere, in cui regnerà la pace, regnerà la gioia; cui tutte le nazioni saranno associate, non vi sarà più guerra tra le nazioni. La prospettiva è universale, aperta sull’umanità intera.

Giustizia è la categoria dominante del messianismo ebraico; e non è solo la suprema rettitudine del Dio, la rettitudine del fedele che al Dio si assimila; ma è proprio anche la corresponsione al diritto, a quello abitualmente conculcato del popolo, del povero.

L’annunzio evangelico riprende con forza il progetto messianico col rifiuto della ricchezza e della potenza, che fin dall’inizio compaiono come forme del male. Nella primitiva comunità gerosolimitana, la più vicina al pensiero del maestro, nessuno più possiede nulla ma tutto è in comune; sì che «nessuno più tra loro era indigente»: l’espressione di altissimo significato, la redenzione anche materiale del povero (Atti, 4, 34).

Ma poi l’annunzio evangelico trascende il messianismo e la giustizia nell’amore fraterno, nella legge suprema e onnicomprensiva dell’amore. «Voi tutti siete fratelli», piccoli figli dello stesso Padre amoroso. Dove non può sussistere il divario di ricco e povero, tanto meno il disprezzo; né può sussistere inimicizia alcuna, né giudizio malevolo, né ingiuria, né risentimento (se stai facendo l’offerta all’altare e ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia l’offerta e va prima a riconciliarti col fratello); dove tutto dev’essere perdonato. Dove nessuna violenza è ammessa, nessuna risposta violenta, ma se qualcuno ti percuoterà sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e se vorrà contendere con te in tribunale e toglierti la tunica, dagli anche il mantello; e se vuole costringerti [in una corvée, da un soldato romano ad es.] per mille passi, va con lui per altri duemila.

Il grande annunzio, la nuova legge dell’amore fraterno, la nuova condizione fraterna dell’umanità «sarà predicata su tutta la terra, in testimonio a tutte le nazioni»; dev’essere «insegnata a tutte le nazioni», «nel mondo intero […] ad ogni creatura» (Matteo, 24, 14; la missione finale nei Sinottici e in Atti, 1,  8). È destinata a tutte le nazioni, all’umanità intera.

 

A questo punto possiamo dire che il progetto dell’umanità si è impostato: una società di giustizia, una società fraterna. La speranza terrena dell’umanità ha ora un fondamento storico-epocale, anche se ancora poco compreso e poco noto.

Il progetto si genera in un popolo piccolo e marginale, ma è affidato alla comunità apostolica e quindi alla chiesa, la quale si espande e informa di sé l’Europa e l’Occidente cristiano; Occidente che è destinato a diventare col tempo la cultura egemone dell’umanità intera; sempre portando in sé il progetto messianico-evangelico.

 

 

5. Lo sviluppo della chiesa gerarchica e l’oblio del progetto

 

La chiesa gerarchica la troviamo costituita con precisi livelli di potere all’inizio del sec. II (vescovo, presbiteri, diaconi, quindi laicato: si vedano le lettere d’Ignazio di Antiochia); e nella seconda metà dello stesso secolo la vediamo introdurre il sacerdozio, che in certo modo la consacra. Potere e sacerdozio che all’annunzio evangelico sono affatto estranei, e anche confliggenti col progetto evangelico di comunità fraterna.

In particolare il sacerdozio, in tutta la tradizione evangelico-apostolica – contenuta nel Nuovo Testamento – è quello del tempio ebraico, quello che ha condannato e crocifisso il Cristo. Nella Lettera agli Ebrei è attribuito al Cristo come sacerdote che offre il sacrificio di sé al Padre; essendo però un «arcisacerdote unico», un sacerdozio «esclusivo»; che offre «un unico sacrifico», uno solo, una volta per tutte (concetto insistente), nel santuario celeste (da 2, 17; 3, 1; poi i tre brani 4, 14-5, 10; 6, 20-10, 18; 13, 10-16). Nella Lettera di Pietro, e più tardi nell’Apocalisse giovannea  – riprendendo un passaggio dell’Esodo che esalta il popolo eletto, con cui Dio ha stretto un’alleanza, come «un regno di sacerdoti, una nazione consacrata» (19, 6) – il sacerdozio compare come prerogativa non di un’élite sacerdotale ma della comunità, che è il «popolo di Dio», e quindi «una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa» (1Pt 2, 4-10); e così, nell’Apocalisse, «ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il Dio e Padre suo» (testo che ritorna tre volte, la terza in prospettiva escatologica, 1, 6; 5, 10; 20, 6). Ma non compare mai l’idea di una élite sacerdotale.

Con questi passaggi, di potere e sacerdozio, col suo assumere più tardi anche un potere politico (lo Stato Pontificio, l’integrazione nel sistema feudale dove i vescovi sono principi), col suo evolvere verso un potere assoluto di tipo dispotico, il papato, che si completerà nel primo millennio, si può dire che la chiesa romana e occidentale assuma il modello imperiale romano; abbandonando il progetto evangelico della comunità fraterna, e con esso l’intero progetto utopico di trasformazione della società; ricadendo così nel «blocco della società ingiusta». Perciò alcuni spiriti illuminati, come Thomas Müntzer, affermano che «la comunità cristiana è rimasta vergine per un tempo non più lungo della morte degli apostoli; subito dopo è diventata adultera» (Schriften und Briefe, Gütersloh 1978, p. 65). Quest’idea di una «caduta della chiesa» è presente già nei Valdesi, poi negli Apostolici; ritorna nell’Anabattismo, nei Riformatori radicali in genere

In realtà, in seguito all’Editto di Milano del 313, la chiesa accetta il servizio militare; accetta il dispotismo monarchico; anzi, da un certo punto in poi, nel primo millennio, lo conferma con l’unzione sacra. Accetta l’asservimento dei popoli negl’imperi, e anzi rifonda l’Impero Romano nel Sacro Romano Impero; accetta la guerra, e anche, specie da quando ha creato lo Stato Pontificio, la conduce lei stessa. Accetta la schiavitù: quando un padrone si fa cristiano, non gli chiede di liberare i suoi schiavi; si accontenta d’interventi marginali in loro favore o per la loro liberazione. Già con Paolo di Tarso accetta e teorizza la soggezione della donna; e ancora dalla Prima Lettera ai Corinzi di Paolo – e tanto più dalla Lettera di Giacomo – risulta che nella comunità cristiana vi sono ricchi e poveri, che quindi la ricchezza non è più rifiutata come nel contesto evangelico; né il povero viene più redento attraverso la fraterna comunione dei beni, mentre continua per lui la discriminazione, lo sfruttamento, l’oppressione di sempre.

 

Il progetto messianico-evangelico è presente nei testi biblici, in particolare nei vangeli, che vengono letti quotidianamente ovunque; è presente ma non è più compreso: scompare dalla coscienza storica. Così momenti altissimi dell’annunzio come l’amore dei nemici, che devono essere amati e beneficati; come il rifiuto di ogni forma di violenza; o come la correzione fraterna, che può giungere all’esclusione dalla comunità ma non dal rapporto fraterno. Se si pensa alla persecuzione degli eretici che si sviluppa dopo il Mille, che vengono imprigionati a vita, murati, portati alla tortura e al rogo; all’analoga persecuzione delle cosiddette streghe (colpisce circa 60.000 donne, ne porta 10.000 al rogo); alla persecuzione degli ebrei. Ma v’è anche una vera e propria guerra contro gli Albigesi, una crociata; e una contro gli Apostolici; e  infine (ma prime tra tutte, tra il 1098 e il 1270) le famose otto crociate contro i musulmani, non certo giustificabili con la  liberazione del sepolcro di Cristo. La guerra, il macello umano programmato, organizzato, strategicamente condotto, è il più grave crimine che l’uomo possa compiere. La chiesa gerarchica lo compie, e se ne vanta.

Il progetto evangelico è tuttavia ripreso da movimenti ritenuti ereticali –l’eresia medievale – che dopo il Mille (dal 1045, la Pataria milanese) si riproducono, sempre perseguitati, annientati, fino alla Riforma protestante. Movimenti detti «pauperistici» perché si rifanno al principio evangelico di povertà; e insieme rifiutano la struttura gerarchica ecclesiastica che si era mondanizzata nella ricchezza e nel potere. E giungono fino al tentativo di chiesa di popolo di Lutero, alla Guerra contadina tedesca coi suoi progetti fortemente intrisi di spirito evangelico; giungono alla «fattoria fraterna» dell’anabattismo hutterita, un movimento esemplare di comunità e comunione dei beni e del lavoro che si sviluppa nell’Europa centro-orientale, una grande fioritura di autentico spirito evangelico. Giungono fino al Puritanesimo inglese che trasferisce il progetto evangelico nel politico, nello stato, e scatena la prima delle rivoluzioni moderne, la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, del 1640-53.

 

 

 

 

5, Dal progetto al processo costruttivo, la costruzione di una società di giustizia

 

La Rivoluzione inglese avvia il processo costruttivo di una società di giustizia impostando il modello democratico, l’unico modello giusto di gestione dello stato. Democrazia cioè potere di popolo, cioè sovranità popolare; principio affermato con chiarezza e con forza nei fondamentali documenti della Rivoluzione,  i Dibattiti di Putney (la discussione di tre giorni in seno all’Esercito di Nuovo modello, l’esercito del Parlamento – 28-29/10 e 1/11/1647 – cui partecipano anche rappresentanti dei sottoufficiali e dei soldati), Il patto del popoloLe leggi e libertà fondamentali d’Inghilterra. Il potere politico, il potere vincolante e coattivo della legge, si forma per una cessione di diritto da parte dei cittadini, e ai cittadini appartiene; che lo possono delegare a dei rappresentanti da loro eletti, come avviene nel sistema parlamentare, quello che di fatto prevarrà e ancora è in atto ovunque.

Condotta da un movimento religioso cristiano, dal Puritanesimo, la Rivoluzione inglese è fortemente intrisa di spirito evangelico; perciò è anche detta la Rivoluzione «con la Bibbia in mano». Come nella Guerra contadina tedesca, che è il prologo delle rivoluzioni moderne, così nella Rivoluzione inglese la lettura del Vangelo è la fondamentale ispiratrice del processo di liberazione. Lo si vede dai testi che ho citato, in particolare dai Dibattiti di Putney, in molti passaggi.

Il modello democratico è poi ripreso dalle tredici colonie inglesi che si ribellano alla madrepatria e costituiscono il nucleo fondamentale degli Stati Uniti d’America. Poi, con grande forza, dalla Rivoluzione francese del 1789; inizia a generalizzarsi coi moti rivoluzionari del 1848;  un processo che è tuttora in corso.

 

Un secondo momento nel processo costruttivo di una società di giustizia è l’impostazione del modello di Stato sociale o dei servizi o del benessere (lo Welfare State), che avviene  nella seconda metà dell’800 sotto la pressione del movimento operaio, in quella fase portatore storico del processo; e dei partiti socialista e comunista con cui il movimento è associato. Poi che la sovranità popolare esige che al cittadino sovrano (e alla sua famiglia) sia garantita una vita dignitosa; al cittadino lavoratore, ad ogni cittadino; che la povertà popolare di sempre sia compensata dalla legge e dalla provvidenza dello stato democratico.

Quello che può dirsi il terzo momento del processo costruttivo è l’impostazione del modello cosmopolitico, cioè di una comunità planetaria dei popoli e degli stati in cui possa essere tutelata la pace, la crescita economica e culturale dei popoli, l’equilibrio economico, l’equilibrio ambientale del pianeta (si veda lo Statuto dell’ONU, in P. Gaeta, P. Villani, Documenti e testimonianze, Milano 1971).

Questi tre modelli – la democrazia, lo Stato sociale, la cosmopoli – sono in costruzione, perciò presentano ancora forti carenze, che saranno colmate nel tempo. L’imporsi del modello democratico ha portato alla fine del dispotismo monarchico (che si  ripresenta talora nella forma dittatoriale; in particolare si è presentato nelle dittature nazi-fascista e comunista, o pseudo-comunista, il modello  sovietico), e alla fine del potere aristocratico; più oltre alla fine degl’imperi e del loro asservimento di popoli: prima degl’imperi continentali, poi degl’imperi coloniali. Come si afferma l’autonomia e la dignità della persona, così si afferma la dignità e l’autonomia dei popoli. Perciò si estingue anche la schiavitù (lungo l’800), la pena di morte (ancora presente, tuttavia, in molti stati, tra cui gli Stati Uniti d’America, che pretendono all’esemplarità e all’egemonia), si afferma la pari dignità e autonomia della donna rispetto al maschio (un punto ancora immaturo anche in Occidente).

I principi che informano questi modelli vengono espressamente affermati nelle Carte dei popoli  o Dichiarazioni dei diritti (così l’inglese Patto del popolo del 1647, la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789-93, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, e altre ancora): il principio d’uomo, dignità e diritto della persona umana, il principio di libertà e delle libertà (di pensiero, parola, azione, associazione), il principio di eguaglianza nella dignità e nel diritto e in tutto ciò che a questo consegue, il principio di solidarietà.

Su questi principi viene a fondarsi il processo di costruzione di una società di giustizia, che così si secolarizza, si fa autonomo rispetto al progetto e fondamento messianico-evangelico che lo ha generato; e tanto più rispetto alla chiesa gerarchica che – prigioniera nel «blocco della società ingiusta» – lo ha costantemente contrastato (almeno fino al Concilio Vaticano II, ma anche dopo).

 

A questo punto, evidenziato il progetto dell’umanità, progetto messianico-evangelico, di una società di giustizia e di una società fraterna, e il passaggio al processo costruttivo, la speranza dell’umanità è saldamente fondata; poi che si sta costruendo una società di giustizia e già enormi passi si sono compiuti in questo cammino. Speranza terrena, di redenzione terrena, di liberazione dai mali che affliggono l’umanità, l’hanno afflitta per millenni in modo atroce, nel «blocco della società ingiusta»; ma l’affliggono ancora atrocemente, troppo, troppa ingiustizia resta ancora. Speranza tuttavia fondata, poi che il processo è in corso.

 

 

6. La speranza terrena, l’apporto blochiano

 

La speranza è uno stato d’animo (complesso, di ragione e passione) presente da sempre nella riflessione umana; per Tommaso d’Aquino è la protensione verso un bene possibile ma «arduo o difficile» da acquisire (Summa th., I-II, q. 23, a. 2c).

La speranza ha una forte presenza nella tradizione cristiana; tradizione che si sviluppa in età apostolica e che riguarda l’attesa fiduciosa di «ciò che non si vede», cioè di una vita e di una gloria dopo l’esistenza terrena, «la speranza della vita eterna, che promise colui che non mente». E questa speranza, che si fonda nella fede, come abito operativo è una virtù, è anzi una delle tre grandi e fondamentali virtù – fede, speranza, amore-agápê – che saranno dette poi teologali in quanto divine, infuse nell’uomo in quella partecipazione al divino che è detta grazia (Romani, 8, 24; Tito, 1, 2; 1Corinzi, 13, 13; Summa th., I-II, q. 55, a. 4c).

Perciò questa speranza cristiana è una speranza escatologica – che si protende sull’éschaton, l’ultimo, oltre la fine dell’esistenza e della storia – non una speranza terrena, la quale  concerne la redenzione dell’umanità dai suoi mali sociali, quelli del «blocco della società ingiusta» di cui sempre ho trattato; in particolare la redenzione del povero. Tutto questo essendo però parte cospicua di quel «male»,  quel «peccato» che il Cristo è venuto a redimere. «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo», l’espressione famosa che contiene anche una redenzione terrena

La redenzione del povero è un tema messianico, molto presente nel Testamento Antico. Dio, Yahwéh, il Signore (o il re messianico) ha una particolare costante attenzione al povero: «Rende giustizia agli umili del popolo, è la salvezza del povero, schiaccia lo sfruttatore»; «libera il povero che lo invoca, si prende cura del povero e del debole»; «rialza il debole dalla polvere, e il povero dal mucchio d’immondizie» (Salmi, 72, 4. 12; 1Samuele, 2, 8). Sono solo alcuni passi; ma la redenzione del povero, comunque sia espressa, è un tema costante; è in particolare una prerogativa messianica come è detto nel passaggio di Isaia, poi ripreso dal Cristo in Luca: «Lo spirito del Signore è su di me, perciò il Signore mi ha consacrato, mi ha inviato a portare la buona novella ai poveri» (Isaia, 61, 1; Luca, 4, 18).

Si è visto che nell’annunzio evangelico c’è, ed è forte, il rifiuto della ricchezza: l’uomo deve farsi povero, nel senso che la ricchezza (sfruttatrice e discriminatrice) deve cessare, i suoi beni devono essere distribuiti ai poveri, al popolo che è povero, distribuiti tra tutti; come avverrà di fatto nella prima comunità gerosolimitana, dove «nessuno più è indigente». La povertà è redenta. Del resto, se l’annunzio evangelico è per eccellenza l’annunzio dell’amore fraterno, e questo amore è la norma suprema ed onnicomprensiva, se il suo progetto è la società fraterna, è chiaro che essa non può contenere la discriminazione di ricco e povero, lo sfruttamento la precarietà l’oppressione del povero. Ed è la norma che dev’essere annunziata nel mondo intero, a tutte le nazioni; a tutti dev’essere insegnato ad osservarla (Marco, 16, 10; Matteo, 28, 19-20).

   La speranza evangelica è perciò comprensiva di una speranza terrena che attende una redenzione terrena, quella del progetto di una società di giustizia e di una società fraterna, progetto e promessa, e norma (sii giusto, sii fraterno col tuo fratello); che però va perduta in quel processo di mondanizzazione della chiesa gerarchica che ho ricostruito, quella ricaduta nel «blocco della società ingiusta». In cui v’è una sola speranza, quella della vita eterna, della gloria futura (Conc. Vaticano II, Lumen gentium, 32, 35).

 

La ripresa e teorizzazione della speranza terrena avviene di recente con Ernst Bloch, specie in quella decisiva (ma anche pletorica) opera che s’intitola appunto Il principio speranza (Frankfurt a.M., 1954-59; tr. it. Milano 2005). Bloch ha una concezione materialistica e panica del processo di natura-storia; di una materia che contiene in sé latenti le forme che poi gradualmente realizza, in un processo che avanza verso forme sempre più complesse fino all’uomo; e quindi nell’uomo, attraverso il lavoro e attraverso rivoluzioni sempre più concrete, raggiunge «l’uomo aclassiale», non più alienato estraniato reificato soggiogato (pp. 274, 287); dove si forma un «libero popolo», si sviluppa il marxiano «regno della libertà», e la blochiana  «democrazia reale»; enigmatica, però, pur nella riaffermata scomparsa dello stato (tema famoso e altamente problematico), perché al governo stanno i «maestri» (ripresa di un tema platonico, antidemocratico perché democrazia è potere di popolo, sovranità popolare); e maestro supremo è Marx (pp. 1828, 1608, 288).

È in questo «processo della materia che si raccoglie nell’uomo come nella sua più alta fioritura«; processo che è insieme «naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura» (pp. 285, 277); e che si dischiude nel materialismo storico-dialettico marxista; è qui che la speranza cessa di essere una tensione fantastica e sognatrice – come nell’utopia letteraria di sempre, o nel socialismo utopistico – e diventa l’attesa di ciò che è realmente possibile; «speranza del non-ancora-accaduto come non-ancora-divenuto buono» (164-66).

«Una prospettiva di assoluta verità» (p. 277); che allora dovrebbe fondare una certezza, non solo una speranza. In ogni caso, pur nella sua assurda e obsoleta visione materialistica (che già Engels, nelle lettere della maturità, aveva corretto, dicendo «esagerammo»), nella sua assurda fusione di natura-umanità-storia, nella sua obliterata fede marxista (dove manca quel filtro critico che è essenziale al pensiero), Bloch esplicita e tematizza quella speranza terrena che, pur fondandosi sull’annunzio messianico-evangelico, la cristianità aveva obliato e ancora oblia.

 

Per noi è la ben fondata speranza utopica, cioè di una società altra in quanto buona-giusta, libera dal blocco millenario della società ingiusta, che l’annunzio messianico-evangelico ha impostato nel suo progetto; e che dalla modernità occidentale, dall’età delle rivoluzioni si sta costruendo. Una società di giustizia,  una società fraterna.

Semmai si potrebbe andare oltre e concepire la speranza come una fondamentale intonazione dell’esistenzaStimmung è qui la significativa parola tedesca –, accanto all’angoscia. L’uomo essendo «l’essere di un nulla di sé», che per se stesso e sé solo è nulla, e da sé solo non sarebbe, non potrebb’essere, darsi da sé l’essere, poi che dal nulla non può essere nulla. Essendo tale l’uomo ha in sé questa fondamentale intonazione d’angoscia, che di solito non percepisce perché distratto dalle cose molteplici cha impegnano e affannano o semplicemente  divagano la sua quotidiana esistenza; ma subito la sente se si raccoglie in sé, si raccoglie sul suo nulla. E però sa di essere, e di agire, operare, creare, amare; sa di essere in un cosmo grandioso e stupendo, di una suprema bellezza e ricchezza; e di essere in una società che almeno in certa misura gli corrisponde (gli corrisponderà ancor meglio in futuro), alla sua dignità e alle sue doti; da cui raccoglie corresponsione, amicizia, amore. Tutto questo ambito grandioso dell’essere. E questo gli dà fiducia, gli dà speranza nel suo futuro, nelle difficoltà che quel futuro potrà presentare.

Ma questa speranza si adempie soltanto se l’uomo sa di essere amato da un amore supremo e che non può mai venir meno, dall’amore grande e indefettibile e misericordioso del Padre. Che compensa il suo nulla, e la precarietà del suo essere, del suo esistere e operare terreno; che lo accoglie alla sua morte.

In questo amore si forma  anche il progetto dell’umanità, da questo parte il processo di liberazione; da un’irruzione del divino nella storia, che soccorre l’uomo. Anche se poi, nello sviluppo della cultura umana, progetto e processo si secolarizzano. Perciò speranza celeste e speranza terrena hanno in nuce lo stesso fondamento.