SAGGIO SUL PROGRESSO
Il progresso, il suo senso possibile
di Arrigo Colombo
Una riflessione attenta rivela che il progresso, nel suo senso autenticamente umano, è un fatto recente, proprio
della modernità occidentale; che poi si universalizza.
Ho riflettuto alquanto sulla problematica del progresso quando gli ho dedicato un capitolo di oltre cento pagine in un grosso volume uscito nel 1978, Le società del futuro. Saggio utopico sulle società postindustriali (Bari, Dedalo). In una fase in cui non avevo ancora abbastanza maturato il tema decisivo dell’utopia, la cui considerazione espressa inizia per noi nell’82, quando costituiamo il Gruppo di ricerca sull’utopia appunto, poi Centro interdipartimentale, e ci dedichiamo ad uno studio intenso di questo tema vastissimo. Studio da cui matura una visione nuova, l’utopia non più solo come progetto degli autori – Platone, Moro, Campanella e molti altri, certo una mirabile fioritura – ma come progetto dell’umanità per la sua liberazione, la sua redenzione terrena, la costruzione della sua humanitas, homo humanus. Progetto che è anche processo, e si va attuando nella costruzione di una società di giustizia; più oltre di una società fraterna; attraverso movimenti di popolo che percorrono tremila anni di storia. E di questa ricerca esce dopo quindici anni, nel 1997, una sintesi, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia (sempre Bari, Dedalo)
Ma, riprendendo questa riflessione, ciò che più colpisce è il tremendo ritardo con cui nella storia umana interviene il progresso nel suo senso globale e autenticamente umano; e cioè solo con la modernità occidentale, quando inizia ad infrangersi il blocco storico che ha dominato i millenni: dispotismo, schiavitù, espropriazione ed emarginazione del popolo, asservimento della donna, asservimento dei popoli, guerra perenne.
1. Una precisazione su progresso e sviluppo
Forse non è male precisare anzitutto l’idea di «progresso» rispetto a quella di «sviluppo». Forse al progresso si deve assegnare un carattere di globalità, del globale avanzare dell’umanità in ogni ambito del suo costruirsi; globalità in cui sono preminenti i fattori spirituali (questa parola, che i submoderni e postmoderni hanno eliso, dev’essere ripresa), i fattori ragione e libertà, e soprattutto i fattori etici, e il conseguente modello politico. Tale è anche la posizione dei maggiori teorici del ‘700, a cominciare da Turgot che già nel titolo del suo Tableau parla dei progressi dello spirito; o Kant, che nell’Idea di una storia universale parla proprio di costruzione della Menschheit, l’humanitas, che s’incentra nella ragione e nella libertà; o nell’Esquisse di Condorcet, le cui categorie centrali sono la verità, la virtù, la felicità.
Mentre lo sviluppo sembra concernere anzitutto la componente che può dirsi materiale, anche se solo per approssimazione: perché la popolazione è fatta di persone; e la produzione coinvolge oggi la scienza-tecnologia, e ha sempre coinvolto la techne, che contiene la ragione del produrre e del prodotto, la recta ratio factibilium; e la disponibilità dei beni corrisponde al bisogno della persona e ne condiziona l’intera espansione, soprattutto spirituale e culturale, la dignità e il diritto, il benessere e la felicità. Popolazione, produzione (comprensiva dei materiali, anche biologici, come le specie viventi; e del territorio), consumo, rifiuti sembrano essere i fattori che intervengono nel problema dello sviluppo. Il problema si esaspera per la tensione illimite innescata dalla scienza-tecnologia, dalla sua gestione abusiva da parte del capitale, e il suo contrasto col limite del sistema natura, un sistema finito.
2. Modelli della comprensione premoderna: decadenza, ciclo, parabola
Può sembrare strano che la comprensione della storia umana come progresso s’imponga solo nella modernità occidentale. Nella comprensione premoderna prevalgono tre visioni aprogressuali che sono la decadenza, il ciclo, la parabola.
La decadenza domina sia la cultura ellenica che quella ebraica, le due culture che confluiranno a formare poi l’Occidente. Nell’ellenica la storia umana decade dalla primitiva condizione «aurea», l’età dell’oro, contrassegnata da una primavera perenne, da una terra spontaneamente feconda, da un corpo sempre giovane, dall’assenza di fatica, sofferenza, malattia; e dove la morte stessa è come un abbandonarsi al sonno. Condizione di vita semplice e prospera, di benessere. Condizione di pace tra gli uomini e col mondo animale; mancando ogni forma di violenza, oppressione, ingiustizia; mancando anche l’istituzione e la legge, inutile per la presenza della virtù, e per la presenza e la guida del dio.
Vi regna la giustizia, personificata nei poeti latini da Astrea, la dea che poi abbandona l’umanità quando v’insorge la cupidigia, l’«amor sceleratus habendi»; che spinge gli uomini a dividersi la terra, la quale prima era a tutti comune come l’aria e il sole; spinge alla ricerca bramosa dei beni, all’accumulo di ricchezze, l’oro, «più malefico della spada»; spinge alla frode, alla violenza, alla spietatezza dei rapporti (l’ospite, il fratello, il coniuge: dove prima aleggiava la pietas, la tenera virtù), spinge alla guerra.
Questa visione è sviluppata prima da Esiodo nelle Opere e i giorni (90-105, 106-126); ripresa da Platone nel Politico (269c-274e), da lui proiettata sull’Atene antica, su Atlantide, sull’Egitto antico (rispettiv. in Crizia, 109b-112e; Timeo, 23c-24e; in Crizia, da 112e; Timeo, 24e-25d; in Timeo, 22b-24c); ripresa poi con forza dai poeti latini, da Catullo, Virgilio, Ovidio (Carmi, 64, 385-408; Georgiche, 1, 125-132; 2, 538-540; Metamorfosi, 1, 81-150).
In Esiodo l’intera storia umana decade nel succedersi di stirpi (ghenos è la parola esiodea) caratterizzate da metalli sempre meno preziosi e più vili: l’oro, l’argento, il bronzo, il ferro. E la razza ferrea è quella contemporanea, che vive nella fatica e nelle cure, pur con qualche gioia (ed era la condizione popolare di sempre; condizione di duro lavoro, scarsità, ignoranza, sfruttamento, oppressione). Ma la razza futura ed ultima sarà una razza senile, una razza spietata, mendace, violenta, abbandonata dagli dei: «Agli uomini mortali resteranno solo tristi sofferenze; al male non vi sarà rimedio» (200-201).
La cultura ebraica vede l’umanità decadere da una condizione analoga all’aurea, quella «edenica», espressa simbolicamente nel giardino spontaneamente fecondo, ricco di piante e d’acque, di frutti, dove l’uomo vive ancora ignaro del male, vive nudo senza vergogna; e dove cede alla tentazione e cade. Allora la terra viene maledetta, subentra il duro lavoro, la fatica, la sofferenza; subentra la libidine; subentra l’asservimento della donna. Segue una storia di decadenza che occupa i primi undici capitoli della Genesi, il distendersi di una storia di peccato: col fratricidio di Caino, la violenza di Lamek, la caduta degli angeli, il castigo del diluvio peraltro inutile («perché i disegni del cuore dell’uomo sono malvagi sin dall’infanzia», 8, 21), il succedersi di patriarchi sempre meno longevi, la dispersione dei popoli, l’incomprensione che v’insorge. In seguito, con l’aprirsi della storia di Abramo e del popolo d’Israele, sarà il peccato di quel popolo, in particolare l’infedeltà al suo Dio; e il peccato delle nazioni.
Sul quale tuttavia, col profetismo, si annunzia una promessa di redenzione, l’aprirsi di un’età di giustizia, benessere, pace, per Israele come per le nazioni. Che però tarda, poiché il profetismo compare verso il 750 a.C. (con Amos, Osea), ma già nel 721, con la caduta di Samaria, inizia l’intervento dei grandi imperi, che non cesserà più: l’assiro, il babilonese, il persiano, l’alessandrino, il romano. L’attesa di redenzione si esaspera: il profetismo si estingue verso la fine del IV secolo; nel II, con la compilazione del Libro di Enoc, inizia la letteratura apocalittica, che terrà il campo per quattro secoli; e con essa la storia si chiude. Si afferma l’idea dell’imminenza, l’imminente venuta del Messia glorioso, con la battaglia escatologica tra le forze del bene e le forze del male, forze anche angeliche e diaboliche, il grande giudizio, il castigo degli empi nello stagno di fuoco, il millennio di giustizia prosperità pace dei giusti, quindi il gaudio eterno, la Gerusalemme celeste.
Con l’imminenza, che però tarda e viene differita (e sarà continuamente differita dalle correnti millenaristiche per due millenni; e oggi ancora), interviene la curva parabolica o biologica. Prima con la storicizzazione per millenni, che calcola la storia umana sui giorni della creazione moltiplicandoli per mille; appoggiandosi al salmo che dice «mille anni sono ai tuoi occhi come un giorno» (ma falsamente, perché il salmo intende solo esprimere la fuggevolezza e caducità della vita e storia umana), ma anche all’idea che l’opera dell’uomo e il suo tempo debbano esemplarsi su quella di Dio; per cui la durata della storia umana sarebbe di seimila anni e l’umanità sarebbe giunta al sesto e ultimo millennio. Visione che compare già nell’apocalittico Libro dei giubilei (4, 30), poi nella lettera dello Pseudo-Pietro (2Pietro, 3, 8); e passa nella patristica, e particolarmente in Agostino, che la sviluppa nella sei età della vita umana – infanzia, puerizia, adolescenza, gioventù, maturità, vecchiaia –; per cui l’umanità sarebbe giunta alla sua vecchiaia. E il medioevo, di cui Agostino è il maestro, intende se stesso come il saeculum senescens, il mundus labens, dove la fine è vicina. È la curva biologica, la crepuscolare visione di questa dolorosa età di decadimento e crollo del grande sublime Impero, d’invasioni barbariche, d’incerta vita del rifondato e sacro impero romano-germanico, di separazione delle chiese d’Oriente, di età di ferro del papato; almeno fino al Mille, quando l’ascesa riprende (cfr. per Agostino, De Genesi contra Manichaeos, I, 23-24; 35-42; De diversis quaestionibus LXXXIII, 58, 2; Enarrationes in Psalmos, 92, 1; De civitate Dei, XVI, 43, 3; XXII, 30, 5; poi, ad es., nelle Historiae di Orosio, nel Chronicon di Cassiodoro, nella Historia Francorum di Gregorio di Tours (I, Prol.), nel Chronicon d’Isidoro, nel De sex huius speculi aetatibusdi Beda; e l’espressione appropinquante mundi fine come formula di apertura di molti documenti).
L’annunzio evangelico aveva aperto una nuova storia, che avrebbe dovuto distendersi in una progressività di tipo globalmente lineare. In cui si compiva la redenzione dell’umanità dalla sua condizione di peccato (il «peccato del mondo», la nequizia accumulatasi nel tempo, e divenuta costume, istituzione che sancisce il costume, ideologia che lo giustifica: il blocco storico di cui si è detto, la società ingiusta); si realizzava la nuova legge del rapporto fraterno e dell’amore universale, l’emancipazione del povero cioè del popolo ch’è povero, il rifiuto della violenza, l’amore del nemico; si costruiva una società fraterna di cui era portatrice la «sua» chiesa. Ma questa storia si era subito chiusa nella coscienza apocalittica d’imminenza della fine, e nell’accettazione ecclesiastica della società e dell’ideologia vigente; coi punti chiave della schiavitù, della discriminazione del povero, dell’asservimento della donna, del modello monarchico; visibili già nei testi dell’età apostolica; poi nell’accettazione e consacrazione del modello imperiale, e dell’asservimento dei popoli ch’esso comportava.
La cultura ellenica, per parte sua, intreccia il percorso di decadenza col modello circolare, col ciclo di una storia che si ripete sempre, seguendo la legge del cosmo ch’è divino, e di tutto ciò che nel cosmo diviene: il percorso del sole, delle stelle, del cielo; dei pianeti, che pur errando ritornano nel grande anno a riallinearsi e ripartono; delle stagioni che sempre si succedono, delle colture; il ciclo di vita e di morte in cui si tormenta l’uomo, pur nella speranza di vincere la morte stessa, di recuperare la vita divina attraverso le reincarnazioni pitagoriche e platoniche. Quello che può dirsi il cosmologismo antico, da cui l’uomo non si libera come non si libera il dio, esemplato sul cosmo stesso; oppure – nei momenti più alti del pensiero – concepito come il «bene» verso cui tutto è proteso, come il «motore immobile» che attraendo a sé tutto muove.
Il ciclo si adempie nel grande anno, quando una catastrofe d’acqua o di fuoco rigenera la terra. «A intervalli regolari ciò ch’è stato una volta di nuovo diviene e nulla è affatto nuovo»; «anch’io con voi come ora converserò tenendo la bacchetta, e tutte le altre cose saranno ugualmente, ed è logico che il tempo sarà il medesimo»; così «le stesse opinioni ritornano a noi non una volta né due, ma infinite volte». Una prospettiva di ascesa si presenta anche nel mondo ellenico, ma all’interno del ciclo; dove l’uomo ogni volta ricostruisce le città, reinventa le arti, ripercorre il cammino della scienza «sino alle cose divine».
Ritorna nel ciclo l’idea di una condanna; così come Zeus forma le stirpi esiodee e il loro decadere; come gli dei plasmano Pandora e le affidano il compito di diffondere il male nel mondo. Gli dei, e il fato cui gli dei stessi sottostanno, che è poi la necessità che governa il cosmo, cui l’intera realtà è assimilata. Manca alla cultura ellenica il principio di creazione, che avrebbe liberato dal cosmo l’uomo come il dio (i testi citati in Porfirio, Vita Pythagorae, 18 - Diels, 14, 8a, come dottrina del maestro; Simplicio, In Arist. Physica, 732, 26, che riprende il Commento di Eudemo - Diels, 58 B 34; Aristotele, De coelo, I, 3, 270 b 19-20).
Ma il ciclo domina anche la cultura indiana, nella vicenda che immette nel flusso del samsara, e quindi nelle trasmigrazioni, fino alla «liberazione» o all’«estinzione». E non è estraneo neppure alla cultura cinese: alla visione contadina di vita e morte; alla dottrina del Tao.
3. Verso la comprensione della storia come progresso
Questi modelli premoderni falsificano la comprensione della storia umana, esemplandola sul cosmo o sul bios, o abbandonandola ad un decadimento che solo in parte è vero, là dove s’individua e si rimprovera il «peccato del mondo», in cui l’umanità si è degradata nella sua eticità, nella sua dignità etica, nei suoi doveri supremi. Non corrispondono all’uomo, che è sì ente di natura, quindi cosmico e biologico, ma è segnatamente ragion, libertà, creatività, autonomia, autocostruzione; i caratteri in lui dello «spirito». In questo consiste la sua «dignità», che gli umanisti del ‘400 scoprono ed esaltano; l’«immagine di Dio» in lui, che viene esaltata nella Bibbia (si veda il passo del Siracide, 17, 1-11: «A sua immagine li ha creati. […] Diede loro un cuore per pensare, […] accordò loro la conoscenza, […] li riempì di scienza e d’intelligenza e fece loro conoscere il bene e il male»).Una ragione che penetra il senso dei fenomeni e delle cose; una libertà che sceglie e decide – pur nella sua finitudine e condizionatezza, e nel vincolo etico che l’astringe –; una creatività che riplasma la realtà; in una indefinita capacità di espansione, indefinita tensione espansiva.
Questa dignità sta degradata e bloccata nella società ingiusta che domina la storia umana, nel blocco storico di cui s’è detto: la società del dispotismo, degl’imperi che asservono i popoli, la guerra perenne, la schiavitù, l’espropriazione e discriminazione del popolo povero, l’asservimento della donna che è poi la metà del genere umano. Il dispotismo blocca la ragione e la libertà, e la classe dominante è di per sé conservatrice, blocca la società nel proprio dominio, la vorrebbe immobile nella propria condizione di ricchezza espropriatrice e di potere oppressivo. Sembra dunque che, fino a che perdura la società ingiusta, difficilmente possa generarsi una comprensione dinamica e progressuale della storia.
Si obietterà che anche le società oppressive hanno generato grandi civiltà come quella egiziana o cinese; e che le civiltà si caratterizzano in un dinamismo costruttivo ed espansivo che le genera e le configura e sviluppa, strappandole dalla relativa stasi in cui giacciono le culture primitive. E però sembra anche che le grandi fioriture creative si presentino in oasi democratiche come l’Atene antica, la più mirabile, forse; o come le città italiane del medioevo e del Rinascimento. In ogni caso la comprensione – definitiva, potremmo dire – della storia come progresso, e il suo teorizzarsi, avviene quando la società occidentale ha avviato il processo di liberazione, la costruzione di una società di giustizia; con la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, poi con la Rivoluzione francese. Avviene infatti nel ‘700, nell’Illuminismo; avendo i suoi prodromi in Bacone, che in certo modo la proietta dall’ascesa delle scienze, e nella disputa sulla comparazione di antichi e moderni, nella Digréssion di Fontanelle, nel Parallèle di Perrault, del 1688. Condorcet scrive il suo Esquisse in piena rivoluzione, nel 1793; e il saggio di Kant, Ob das menschliche Geschlecht im beständigen Fortschreiten zum Besseren sei, è del 1797, proibito dalla censura, accolto poi nello Streit der Fakultäten.
4. I fattori del progresso: il fattore etico
Da queste riflessioni storiche già emerge una fondamentale considerazione, e cioè che al progresso deve anzitutto riconoscersi una consistenza etico-politica; contrariamente a quanto spesso si crede. Ovvio, si direbbe, del resto; essendo in gioco la costruzione dell’humanitas dall’inumano di sempre, e oggi ancora; la dignità e il diritto della persona. E in secondo luogo una consistenza scientifico-tecnologica, la più abitualmente riconosciuta e vantata; ma in stretto nesso con la prima. Sembra dunque che siano questi i fattori costitutivi del progresso. Mentre le arti sembrano essere relativamente aprogressuali.
Il fattore etico si colloca essenzialmente nei grandi principi etici che s’illuminano nella coscienza moderna. Si parla di solito di «diritti fondamentali», in quanto in essi si esplicita e si afferma il diritto della persona, e in essi si riscatta dalla menomazione di sempre; ma si preferisce qui parlare di principi etici per evidenziare il vincolo ch’essi impongono all’umanità.
A cominciare dal principio d’uomo, dignità della persona umana, dignità e diritto; il principio dei principi, da cui ogni altro discende. Che s’illumina primamente nell’Umanesimo del ‘400 e si sviluppa e si adempie lungo l’evo, particolarmente l’uomo come soggetto principe di diritto, da cui ogni altro soggetto di diritto deriva; in particolare lo stato, che si forma per una cessione di diritto del cittadino; il quale, peraltro, secondo l’espressione di Beccaria, cede solo «una minima porzione della sua privata libertà» (Dei delitti e delle pene, 28).
Il principio di libertà e delle libertà: libertà personale, in cui si demolisce l’ignominia millenaria della schiavitù; ma anche il contratto salariale, la dipendenza cioè nel lavoro, nell’esistenza, nella famiglia, che tuttora perdura. Libertà di coscienza (si pensi alla persecuzione degli eretici – la barbarie del rogo – e dei dissidenti), di parola, di scrittura, di stampa, di associazione. Il principio di eguaglianza, nella dignità e nel diritto, e in tutto ciò che di materiale e di culturale la dignità della persona comporta, il livello storico dei bisogni e della cultura; donde l’indegnità dell’indigenza, dell’ignoranza, dell’impotenza nella malattia, nella sventura, nella vecchiaia. Il principio di sovranità popolare, la persona essendo l’unico soggetto primario di diritto nel senso detto; principio che dissolve il dispotismo, l’assolutismo, il modello monarchico-aristocratico; e lo dissolve di fatto nella Rivoluzione francese. Il principio di ragione e d’interiorità, per cui l’individuo ha da agire in forza di una sua ragione e decisione, e non tollera l’imposizione; del padre, del clan familiare, di ogni altro; nella scelta della professione, nella scelta del partner, in ogni ragionevole scelta. Il principio di solidarietà, che discende dall’unità della specie e del comune destino; discende dal principio fraterno, di cui si parlerà; si afferma nella solidarietà rivoluzionaria e operaia, poi nell’universale solidarietà umana, via via che l’unificazione dell’umanità avanza.
Questi e altri principi vengono sanciti nelle carte dei popoli, un fatto nuovo, che corre lungo tutta la modernità; a cominciare dal Patto del popolo inglese del 1647; poi l’americana Dichiarazione d’indipendenza del 1776; la grande Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; quindi le Costituzioni democratiche dei popoli; lo Statuto dell’Onu del 1946; la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (cui seguono dichiarazioni dei diritti della donna e del bambino); la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000.
Queste Carte dei popoli sono un’espressione importante del pensiero dell’umanità, che avanza – mentre decade il pensiero dei filosofi, con la crisi della ragione moderna –, e stabiliscono e sanciscono una struttura etica che va via via integrandosi. Una struttura etica in cui si esprime il progressivo costruirsi di una società di giustizia, che è il grande evento moderno; o il più grande. Per cui errano coloro che accusano la modernità di «relativismo», e tra questi in particolare il papa e la chiesa cattolica: la società moderna è laica, autonoma da ogni principio e potere religioso; ha anche una componente irreligiosa che è valutata intorno al 10%, e che è forte perché è parte importante dell’intellighenzia, con forte influsso sui media; ma si è data una solida struttura etica, di vincoli categorici alla coscienza.
5. I fattori del progresso: il fattore politico
Il fattore politico discende dal fattore etico e si colloca anzitutto nel modello democratico che corrisponde al principio di sovranità popolare. S’imposta nella Rivoluzione inglese; ripreso poi dal nuovo stato nordamericano; quindi dalla Rivoluzione francese, la quale anche demolisce il modello monarchico-aristocratico che da sempre aveva oppresso l’umanità, e diffonde il nuovo modello in Europa, dove s’impone a cominciare dalle rivolte del 1848; quindi si generalizza.
Il modello si struttura nella legge come ordinamento dello stato in ragione del suo fine promotivo di giustizia, prosperità, pace per tutti i suoi membri indistintamente, e quindi come vincolo coattivo per tutti; nel parlamento eletto dai cittadini come organo della legge e, attraverso l’esecutivo a lui responsabile, del governo; nel giusto processo per tutti. La base elettorale sarebbe evidentemente il suffragio universale; anche se all’inizio – e sino a tutto l’800 – è ristretta, egemonizzata dalla borghesia, condizionata dal principio borghese di proprietà.
Si tratta di un modello di democrazia parlamentare, mediata, in cui la sovranità popolare è riconosciuta ed è in atto, ma limitata all’elezione del parlamento come suo mandatario; e però con mandato non imperativo, non responsabile all’elettorato. È un primo grande passo nel potere di popolo; altri passi finora sono il referendum popolare approvativo o abrogativo di una legge; il «bilancio partecipato» di una città, cioè la sua formulazione e approvazione popolare (da Porto Alegre in Brasile); recentemente in Francia la proposta del mandato imperativo con conseguente rendiconto e giudizio dell’elettorato. Piccoli passi in ordine a un più incisivo potere di popolo, in un modello ancor sempre in costruzione.
Il fattore politico si sviluppa ulteriormente nel modello cosmopolitico. Le due guerre mondiali sono state due grandi flagelli per l’umanità, ma hanno portato alla dissoluzione degl’imperi. Prima gl’imperi continentali, l’asburgico, il prussiano, il russo, l’ottomano; l’impero cinese s’era dissolto nel 1912, con la rivolta di Sun Yatsen; il giapponese cadrà con la seconda delle due guerre. Poi gl’imperi coloniali, la cui demolizione è prevista già nella Carta Atlantica del 1941, quindi nello Statuto dell’Onu, e che si protrae fino agli anni 1960-70, ma si realizza infine. Si consuma così l’asservimento dei popoli, s’impone per ogni popolo il principio di autodeterminazione.
Il modello cosmopolitico è quello di una comunità planetaria dei popoli e stati, impostata su principi di giustizia e solidarietà; cui tutti i popoli partecipano in piena autonomia ed eguaglianza; dove la pace è salvaguardata come supremo bene (fondamentale il principio che i conflitti devono esser risolti con la trattativa, mai con la guerra); dove opera una politica di equilibrio economico globale, e di sviluppo economico e culturale dei paesi membri, in particolare dei paesi arretrati. Questa comunità è l’Onu, con la sua Assemblea generale, col Consiglio di sicurezza come supremo organo di pace, con le agenzie economiche (il Fondo monetario, la Banca mondiale, l’Organizzazione per il commercio, quella per l’agricoltura), le agenzie per la sanità, il lavoro, la cultura; con la Corte internazionale di giustizia.
Il modello è in costruzione; presenta vizi costitutivi a tutti noti (così la composizione del Consiglio di sicurezza) e vizi operativi (così l’idolatria del modello di mercato nelle agenzie economiche; gli errori nelle politiche di risanamento e nella prevenzione delle crisi). Ma il vizio maggiore sono le tendenze egemoniche di alcuni suoi membri, dirompenti per il modello; in questa fase l’egemonia americana, che tende a dominarlo o ad eliderlo, pur avendolo per prima voluto ed essendosi vincolata al patto. Altri stati, come Cina e Russia, e gli stati islamici in genere, non rispettano i fondamentali principi di dignità della persona umana e di libertà, che stanno a capo del patto.
Ma il modello avanza e avanzerà. Al suo interno si formano delle comunità di popoli, minori ma più coese e più efficaci. La prima e più avanzata è l’Unione Europea, comunità di pace, di solidarietà, di fraternità universale. Essa ha pure i suoi vizi – membri con posizioni di privilegio nel Consiglio di sicurezza e con armamenti atomici, cioè Francia e Inghilterra; membri venditori di armi al Terzo Mondo, con cui si fomentano le guerriglie; legami egemonici con le ex-colonie; tendenze egemoniche all’interno dell’Unione – ma avanza e costituisce un esemplare per altre comunità.
Il processo di unificazione dell’umanità, dalla dispersione e divisione di sempre, e quindi l’estraneità, e quindi l’inimicizia la guerra la schiavitù («per il greco ogni barbaro è schiavo», il frammento di Eschilo), è un processo altamente progressuale. Parte dalle grandi esplorazioni che aprono il globo, dai commerci, passa attraverso l’asservimento e i massacri degl’imperi coloniali, raggiunge la nostra età, nella quale inizia a tradursi in termini umani, e ad intensificarsi.
Dove un apporto significativo proviene dalla tecnologia-industria, dalla sua produzione in termini universali rispondenti all’universo umano, di cui verremo a trattare. L’universale diffondersi delle tecnologie e dei prodotti, quindi dei comportamenti d’uso; la rapidità dei trasporti; l’istantaneità dell’informazione e del comunicare che crea una presenza ubiquale della notizia come della persona. Ma l’apporto determinante è quello dei principi etici e dei modelli politici universali, quelli che abbiamo ricostruito, che s’illuminano e impongono in Occidente e dall’Occidente; ma non sono «occidentali» bensì semplicemente e universalmente umani. Si formano in Occidente in forza di un processo storico-utopico che verremo ad esplorare, ma provengono dalla cultura ebraico-cristiana che è asiatica, orientale; e non sono una forma occidentale che l’Occidente impone, ma una forma umana che s’impone all’Occidente stesso; per lui non una privilegio, ma una responsabilità. Perciò quando si parla di «occidentalizzazione del mondo» bisogna distinguere tra universale e particolare; tra ciò che l’Occidente porta come suo – la lingua inglese ad esempio –, e ciò che porta come messaggero dell’umano, dell’universalmente umano, che trascende tutte le culture nella loro peculiarità e particolarità; trascende l’Occidente stesso e l’inumano cui è soggiaciuto e soggiace.
È chiaro che la dignità e il diritto della persona umana, la pari dignità e diritto di ogni persona, e in particolare di quelle persone umane che sono uomo e donna, la sovranità popolare in forza della persona portatrice di diritto e quindi il modello democratico, la pari dignità e diritto dei popoli non sono principi e vincoli che s’impongono alla coscienza occidentale ma non a quella orientale; per cui in Occidente si dev’essere democratici ma in Oriente sarebbe lecito essere dispotici, così come sarebbe lecito chiudere la donna in casa e tagliare la mano al ladro.
All’unificazione segue la pacificazione. Quanto più ci si conosce e ci si rapporta, e attraverso le migrazioni ci si fonde, tanto più la guerra diventa odiosa, palese nella sua estrema ingiustizia di macello umano, e cresce nei popoli la coscienza e la volontà di pace. Il risentimento e la volontà di affermazione del mondo islamico d’oggi non stupisce, dopo l’oppressione coloniale; avendo in sé una fede e una individua civiltà (anche se viziata da un’etica arcaica) e dietro a sé una storia comunque grandiosa. Un’affermazione di tal genere tende sempre ad estremizzarsi, ma si placa nel tempo. Invece l’idea di Huntington di una «guerra di civiltà» è obsoleta nella fase di unificazione, e quindi di relativa risoluzione delle civiltà stesse; appartiene ad una fase meno matura, in cui si studiavano le civiltà come monadi, la fase di Spengler e di Toynbee.
6. I fattori del progresso: scienza-tecnologia e capitale
Il fattore scienza di sperimentazione entra in gioco nello stesso periodo in cui si apre l’età delle rivoluzioni, che ha il suo primo evento nella Rivoluzione inglese del 1640, ma ha un prologo importante, anche sotto il profilo progettuale, nella Guerra Contadina del 1525-26; e dev’essere compreso in stretta connessione col fattore etico-politico.
Dire scienza di sperimentazione e dire tecnologia è la stessa cosa; o meglio sono le due facce di uno stesso processo, quella conoscitiva e quella operativa. Il processo mira a ricostruire il comportamento necessario, quindi la legge di un fenomeno di natura; legge che è un modello univoco, indefininitamente riproducibile per identità; e può essere tradotto in una procedura e in uno strumento anzitutto meccanico, la macchina, ed essere così indefinitamente riprodotto e quindi prodotto; che è poi l’industria. Scienza, tecnologia, industria sono tre momenti di uno stesso processo: il momento conoscitivo, il momento che traduce la legge nello strumento riproduttivo del fenomeno, il momento che indefinitamente lo produce in ordine al bisogno umano. Dove essenziale è il carattere universale della legge, da cui può partire una produzione universale, che risponda all’universale o indefinito o comunque macromorfo bisogno dell’umanità (grandi forme, grandi quantità).
Sta qui la differenza tra la tecnica premoderna e la tecnologia moderna; la differenza tra il particolare e l’universale; tra chi produce il singolo mobile per il singolo cliente e chi, impostato il processo e lo strumento produttivo (o la catena di strumenti), può produrre quel mobile indefinitamente. L’uso indistinto delle due parole, o l’uso dell’una per l’altra, è errato (così fa Spengler, che non ne comprende la valenza umana; ma anche Heidegger, nella famosa conferenza monacense del 1963, Die Frage nach der Technik, poi raccolta in Vorträge und Aufsätze). La tecnologia essendo quella tecnica, quell’operare produttivo, che è mediato da un logos di più alto tenore, che è la legge del fenomeno e la sua esatta misura.
Il fattore capitale, inteso come metodo di reinvestimento del profitto per accrescere la produzione, si sviluppa nello stesso periodo. La famosa ipotesi di Max Weber ne attribuisce la genesi ad un principio religioso che vede nell’impresa l’opera di Dio, e nel successo imprenditoriale un segno di predestinazione. In realtà la sottrazione del profitto all’uso e allo spreco per il reinvestimento produttivo ha un carattere virtuoso; che mancò all’aristocrazia nei millenni del suo predominio. Se poi la sua genesi sia da attribuire alla virtù, piuttosto che al dinamismo proprio della borghesia, alla sua creatività e volontà produttiva, e quindi alla sua volontà di più alto guadagno e profitto, è secondario.
L’importante è che, attraverso il capitale moderno e la sua capacità di indefinita espansione, si creava la base economica alla tecnologia e alla sua indefinita capacità produttiva; si otteneva lo strumento economico che corrispondeva allo strumento tecnologico. Decollava così un fatto produttivo capace di rispondere all’indefinito bisogno umano.
È questo il significato storico-utopico, il significato umano dei due fattori, il loro indispensabile contributo alla costruzione di una società che corrisponda alla dignità e al diritto della persona, quindi una società di giustizia in tal senso; la giustizia essendo appunto la corresponsione al diritto, che si commisura alla dignità. Una società che corrisponda anzitutto alla soddisfazione dei suoi bisogni primari in termini adeguati, la casa e non la capanna o la baracca, i suoi servizi, il cibo sano e abbondante, il vestito decoroso; e con essi la sicurezza del lavoro e del reddito, come la sicurezza dei servizi sociali. Un problema ancora lontano dall’esser risolto per una parte notevole dell’umanità. Ma che inoltre corrisponda allo sviluppo adeguato della potenzialità della persona, delle sue facoltà; alla sua piena maturazione culturale, morale, politica. L’«uomo ricco», l’«uomo onnicomprensivo» di cui parla il giovane Marx nei Manoscritti economico-filosofici.
Questi due fattori del progresso, la scienza-tecnologia e il capitale, che spesso vengono misconosciuti come fattori puramente materiali.
7. La vicenda del progresso, il ruolo dell’utopia
Ricostruiti così i fattori costitutivi del progresso, resta da ricostruire in certa misura il processo stesso. Per gli autori del ‘700, come poi per il positivismo, il progresso è una costante o anche una categoria della storia umana; che perciò la pervade tutta; sia pur nella sua globalità, la quale comprende anche momenti o periodi di stasi, di riflusso. Una visione piuttosto aprioristica, basata sul principio dell’espansività della ragione, sempre in atto; la «marche de la raison», come dice Condorcet.
Noi abbiamo notato invece la presenza millenaria di quello che ho chiamato un blocco storico, un modello statico: quello del dispotismo, della schiavitù, dell’asservimento della donna, dell’espropriazione e oppressione popolare, dell’asservimento dei popoli, della guerra perenne. Modello che include la dinamica delle civiltà, quella ad esempio tratteggiata da Toynbee: che è tuttavia parabolica in quanto decolla rispondendo ad una sfida, ascende, si afferma per un tratto, poi declina; ma include anche un molteplice avanzare sia sul piano materiale e strumentale che su quello propriamente culturale, come il passaggio alla scrittura e l’invenzione dell’alfabeto, e le forme e i gradi del sapere. Ma il modello statico permane, con solo isole che in parte lo trascendono come, per la gestione politica, la democrazia ateniese, la repubblica romana (aristocratica, tuttavia), i comuni medievali.
Un processo globalmente lineare può forse essere ricostruito soltanto lungo il percorso dell’utopia come oggi viene intesa – seguendo la linea Marx-Engels, Mannheim, Ernst Bloch –, cioè non più solo né tanto come progetto degli autori, progetto mentale, astratto, incapace di trasformare la società (è questa la fondamentale osservazione di Marx ed Engels nel Manifesto, nel capitolo di Critica del socialismo utopistico); non tanto il progetto degli autori cui è andata sempre la comprensione dell’utopia, quanto il progetto dell’umanità per la sua liberazione, la sua redenzione terrena, l’uscita da quel modello vizioso e perverso; che è poi la società ingiusta, è il peccato del mondo di cui si è detto. Progetto e processo e costruzione di una società di giustizia, che è anche una società di benessere e di pace; e più oltre di una società fraterna. Progetto e processo portati da movimenti di popolo, gli unici che possono trasformare la società.
La ricerca in tal senso individua l’elaborazione del progetto anzitutto nel messianismo ebraico, la cui categoria centrale è la giustizia; come ognuno può riscontrare leggendo i testi profetici, Isaia ad esempio; poi nell’annunzio evangelico, nella comunità evangelica ed apostolica, che raccoglie la giustizia messianica, in particolare nel rifiuto di ricchezza e potenza (la ricchezza espropriatrice, che si accumula espropriando il popolo; e il potere dei despoti), ma insieme la trascende nel rapporto fraterno, nella legge dell’amore fraterno. Non trattandosi poi di mero progetto, ma di profezia e di annunzio, del costituirsi di una comunità portatrice, di una «chiesa», da cui si genera poi la società cristiana medievale e moderna che integra in sé l’Occidente.
Questa chiesa non riesce a trasformare la società in cui s’immette, in particolare il modello perverso che s’incentra nel dispotismo (se non in piccola parte, attenuando alquanto la schiavitù). Piuttosto lo assume essa stessa, sviluppando una struttura gerarchica di tipo monarchico e imperiale, costituendosi un potere politico nello Stato Pontificio, rifondando l’impero di cui assume la tutela, l’investitura, la consacrazione; ponendosi così come vertice supremo del sistema di potere feudale.
Essa porta tuttavia in sé il progetto messianico-evangelico; lo portano in particolare due movimenti, il millenarismo e l’eresia medievale e moderna; movimenti ritenuti eterodossi, in particolare il secondo, duramente perseguitato nella fase medievale; mentre nella fase moderna, quella della Riforma, sta sotto la tutela dei principi e delle municipalità, e coinvolge intere nazioni, come la Germania e l’Inghilterra, e il Nordeuropa. L’eresia medievale, che parte dopo il Mille e si sviluppa in una catena di movimenti quasi sempre annientati, altro non è che il tentativo di riprendere l’annunzio evangelico nella sua autenticità in una chiesa dalla struttura gerarchica fortemente mondanizzata, simoniaca, concubina: l’annunzio ai poveri (perciò si parla di movimenti pauperistici) e il principio fraterno, la comunità fraterna, piuttosto che gerarchica. Anche la Riforma, più complessa sul piano dottrinale, è per una chiesa di popolo.
Tra i movimenti che nascono nella Riforma un particolare ruolo di portatore storico è assunto dal puritanesimo, che diventa movimento politico e nel politico trasferisce il progetto messianico-evangelico; e scatena la prima delle rivoluzioni moderne, l’Inglese. Perciò la Rivoluzione inglese è così fortemente impregnata di spirito e di parola evangelica; si leggano ad esempio i Dibattiti di Putney, la discussione di tre giorni in seno all’esercito del Nuovo Modello, l’esercito del Parlamento.
Le altre rivoluzioni saranno la Francese, la Russa, la Contestazione degli anni 1960-70, rivoluzione atipica ma a forte impatto. E con le rivoluzioni, che sono movimenti popolari eversivi di una società ingiusta per costruirne una di più avanzata giustizia, che dunque trasformano la società in senso storico-epocale, inizia la fase costruttiva, la costruzione di una società di giustizia; che prosegue lungo l’evento rivoluzionario moderno, e i movimenti che vi si collegano, in particolare il movimento operaio (che trasforma la condizione popolare di sempre, condizione di duro lavoro, scarsità, ignoranza e analfabetismo, impotenza nella malattia e nella sventura, malessere); e giunge fino a noi. E si sporge sul futuro. Lo sviluppo di questa fase, così come il quadro dei fattori, è stato già ricostruito.
8. Il progresso e la crisi della ragione moderna
Il progresso dell’umanità, come sviluppo dell’indefinita potenzialità umana in ogni ambito, si presenta dunque distinto in due grandi età: una prima certo lunghissima, che corre dall’inizio della storia, della città-civiltà (e ha però il suo corrispettivo nella preistoria), in cui si presenta bloccato sul piano etico-politico, come su quello economico ed universalmente umano, dal modello statico che ho chiamato del dispotismo. Una seconda età breve, trecento anni, l’età dell’utopia; in cui il progresso si libera attraverso l’elaborazione del progetto messianico-evangelico, progetto-processo, che movimenti portatori sostengono e tentano di realizzare in ambito comunitario ed ecclesiale; fino a che, attraverso le rivoluzioni moderne, non entra nella sua fase costruttiva, nella costruzione di una società di giustizia, prosperità, pace (più oltre una società fraterna) che è la sua linea presente e futura; per quanto ci è dato di comprendere. Linea che non gode di certezza (interviene qui la speranza, reintrodotta da Bloch) ma della garanzia che può offrire un processo in corso, oltre che il vincolo etico cui l’uomo è astretto; poiché egli è tenuto alla giustizia.
Questa visione costruttiva della storia umana demolisce le categorie che s’erano reintrodotte con la crisi e autodistruzione della ragione moderna; crisi che si sviluppa dopo Hegel, con la Sinistra hegeliana, poi col nihilismo niciano, con la filosofia analitica, con la dialettica essere-nulla di Heidegger, col postmoderno e postmetafisico, col pensiero debole.
Quando ricompaiono le categorie antiche. La decadenza col «tramonto dell’Occidente», che per Heidegger è il «luogo dell’essere», in cui l’essere si disvela, il luogo che viene a mancare. La circolarità nel niciano «eterno ritorno dell’eguale», di una storia del superuomo-subuomo, cosmologicamente degradato. La curva parabolica nella storia per civiltà di Spengler e di Toynbee.
Nell’autodistruzione della ragione, che ha fagocitato in sé l’essere, anche la storia si distrugge, diventa racconto o fabulazione, i moderni movimenti di liberazione diventano grands récits, grandi favole (secondo l’espressione di Lyotard). Anche l’etica, il vincolo che muove il più autentico progresso umano, è distrutta, da Nietzsche come da Heidegger; l’uomo è abbandonato all’anomia, o sostenuto solo da un vincolo «debole» che non lo astringe perentoriamente, cui può impunemente sottrarsi. Lungo questa linea di crisi l’alienazione filosofica raggiunge punti altissimi di smarrimento.
Fortunatamente il pensiero filosofico non è che una piccola parte del pensiero umano; le «carte dei popoli», con la loro superiore saggezza, lo dimostrano; dove il pensiero popolare batte di gran lunga la presunzione del filosofo. In ogni caso la linea dell’utopia, l’altra linea del pensiero contemporaneo, riconduce la ragione nei suoi limiti, recupera l’etica nell’integrità del suo vincolo, recupera la storia nella sua costruttività, sostiene la speranza umana.
9. Progresso e problemi dello sviluppo
Lo sviluppo avvenuto in seguito all’introdursi dei fattori tecnologia-industria e capitale, specie con l’abuso profittuale della tecnologia da parte del capitale privato, con l’ascesa del livello dei bisogni anche artificiosi e abusivi, e dei comportamenti conseguenti (così l’uso-abuso dell’automobile e dell’aereo, dell’energia in genere, del cibo ecc.), hanno portato ad una eccessiva ed anomala pressione del sistema uomo, e della sua indefinita capacità di espansione, sul sistema natura, sul suo limite e sul suo equilibrio.
Ciò ha provocato una situazione critica in cui s’istanzia il blocco dello sviluppo in termini quantitativi; e cioè della popolazione e della produzione globale; in particolare l’invasione del territorio (e con essa la distruzione delle foreste), l’abbattimento delle specie viventi; mentre urge la conversione tecnologica dei materiali e dell’energia, la riutilizzazione dei rifiuti, la ricostruzione dell’ambiente inquinato. In questo blocco, peraltro, permane uno sviluppo qualitativo, soprattutto in quei termini di conversione tecnologica e di ricostruzione.
Il blocco dello sviluppo comporta grossi problemi di realizzazione: per il livello dei bisogni e per i comportamenti acquisiti, la difficoltà di rinunzia, o anche solo di correzione; la pressione profittuale del capitale, la sua potenza, la sua azione sulla classe politica; la debolezza di questa, sempre alla ricerca di consenso. L’elisione del capitale privato, e della sua smodata tensione profittuale, è un passo necessario ma estremamente difficoltoso in questa fase d’imprese transnazionali, che addirittura tentano di sopprimere i vincoli posti dagli stati e lo stesso potere statale; favoriti da insensati ideologi che profetizzano la fine dello stato. In cui inoltre è venuta a mancare la forza contestatrice ed eversiva della classe operaia. Probabilmente solo un evento di tipo catastrofico potrà provocare nell’umanità la saggezza e la forza morale necessarie ad un cambiamento radicale.
Il blocco dello sviluppo comporta inoltre per l’umanità un grosso problema di giustizia e non può essere istanziato per i paesi arretrati; a meno che vi supplisca una ridistribuzione universale della ricchezza, una politica di riequilibrio globale della condizione umana.
Intanto la crisi ambientale non sembra arrestabile in tempo utile ad evitare quegli esiti catastrofici che sono ormai previsti in tempi non lontani; e cioè l’innalzamento della temperatura, lo scioglimento dei ghiacci, l’aumento del livello del mare e la conseguente sommersione di una significativa frangia del mondo abitato; oltre ai problemi di tropicalizzazioine e desertificazione, alle perturbazioni meteorologiche ecc.
Il problema, a questo punto, in termini di progresso come di sviluppo, è essenzialmente etico-politico: maturare nei popoli una nuova coscienza e una nuova responsabilità, un nuovo stile di vita; infrenare il capitale privato; da parte della classe politica gestire con coscienza e con responsabilità lo sviluppo e le sue crisi, perseguendo sempre il supremo obiettivo di una società di giustizia.