Gabriele Muccino 

 

Un regista ormai cinquantenne – nato nel 1967, il primo film a 31 anni, 1998 – in dodici anni otto film, troppo, direi. La vicenda amorosa sta al centro della sua attenzione; ne tenta l’esame in diverse età e fasi della vita. Difficilmente va oltre. Un autore di medio calibro?

 

Ecco fatto, 1998

Come te nessuno mai, 1999         

L’ultimo bacio, 2001

Ricordati di me, 2003

La ricerca della felicità, 2006

Sette anime, 2008

Baciami ancora, 2010

Quello che so sull'amore, 2012

 

 

Ecco fatto

1998, il primo film di Muccino, non male. A parte il titolo, Muccino preferisce i titoli che non dicono nulla. Strana preferenza.

L’adolescenza, l’amore adolescente, di un ragazzo che non l’ha mai provato. Che si trova davanti una ragazza (Barbara Bobulova) che ha alcuni anni più di lui, una casa sua, un lavoro, un’esperienza amorosa e amicale; è anche straniera (slava, slovacca), con un carattere dolce, sicuro di sé, superiore; così come fine e delicata è la sua bellezza, pacato il suo comportamento. Quindi l’insicurezza del maschio che crede sempre di essere superiore alla donna ma qui si trova spiazzato; una insicurezza che diventa gelosia, diventa ossessione (un particolare, l’ossessivo e nevrotico, i personaggi che gridano e sbraitano, frequente poi in Muccino). I fatti ossessivi si ripetono e ripetono fino a che la ragazza rompe. Poi riprenderà, si arrenderà, ma fino a quando?

Il ragazzo Matteo (Giorgio Pasotti) ha un amico, Piterone, compagno di banco, tutti e due due volte ripetenti all’ultimo anno di liceo; tutti e due inetti per lo studio; saranno comunque ammessi alla maturità, per una falsa pietà, forse. E v’è un curioso gruppo che si ritrova a commentare gli avvenimenti e a discutere di amore, disamore, gelosia; tra di essi v’è un uomo maturo e un  sacerdote. Una pausa riflessiva che ritorna a placare l’ossessione del protagonista e il caotico svolgersi dei fatti.

 

 

Come te nessuno mai         

1999, il secondo film di Muccino. Il titolo, come già nel primo e come sempre poi, non dice nulla; è una frase pronunziata nel film ma in circostanze tali che non significa nulla. Film scarso, scadente.

Ancora l’adolescenza, ma ancor più immatura, incapace, goffa. Vi s’intrecciano due vicende. La prima è quello che sembra essere il grande problema e spasimo dell’adolescente maschio: incontrare una ragazza, baciarla, fare qualcosa con lei, non si sa cosa.. Lo vivono particolarmente due amici, Silvio e Ponzi; è il tema di tutti i loro discorsi, non v’è altro; il primo incontra per breve tempo e senz’afflato una certa Valentina, che poi gli sfugge; e alla fine ci sarà una ragazza che gli si dichiara; ma lui non sa cosa fare, pur nella voglia matta, se non baciare e baciare (glielo ha detto il fratello cui ha chiesto consiglio), in un modo anche davvero goffo. Assente ogni parola o sentimento o anche solo un afflato amoroso.

L’altra vicenda è l’occupazione della scuola, un fatto confuso, che i ragazzi fanno perché altri lo fanno, lo fanno tutti in quel momento; ma nessuna motivazione compare; né i due se ne occupano o preoccupano. Ed è anche strano che i genitori, ex-sessantottini, la contrastino, anziché vederla nella scia della loro esperienza; perché temono che disturbi gli studi del caro figlio. Come se gli studi fossero tutto. Ma questo è un punto di verità, il comportamento dei cari e ormai sfiancati genitori.

 

 

L’ultimo bacio

2001. Il terzo film, forse il migliore, opera di grande intensità a passione, fortemente costruita: e certo quello di maggior successo.

I trentenni, una generazione senza ideali, senza forza morale. Dei cinque amici tre cercano l’evasione, fuggendo nel viaggio lontano sul camper; lasciandosi dietro magari un figlio, o una madre sofferente che ha appena perso il marito; incoscienti, crudeli nella loro atroce sventatezza. Il quarto è il protagonista, il pubblicitario di successo che, mentre attende un figlio, si abbandona all’avventura con la diciottenne, la quale si era forse davvero innamorata.

Qui forti sono le donne, quella che ha già il figlio, quella che l’attende. Fortissima l’esplosione di questa, il ragazzone (Stefano Accorsi) nella sua avventura viene schiacciato da questa personalità, dalla sua tremenda reazione (Giovanna Mezzogiorno, grande interprete). E però questa forza è data anche dalla  presenza del figlio atteso.

La generazione dei padri e delle madri non è priva di tormento, ma ha il vantaggio della vita vissuta, dell’esperienza, dei legami consolidati.

Ma quale sarebbe l’ultimo bac

 

 

Ricordati di me

2003. Anche qui non si sa bene a che alluda il titolo, forse al fatto che in una fase di routine i due coniugi tendono a dimenticarsi l’uno dell’altro?

Qui  la famiglia, il tentativo di calare l’affresco di una famiglia del nostro tempo; una famiglia del ceto medio. Anzitutto l’inadempiutezza esistenziale, quindi l’insoddisfazione dell’ego: lui voleva essere scrittore, lei attrice; mentre è sopravvenuta la routine coniugale, ed è ovvio che i due non comunichino. Mentre i figli, crescendo, si sono emancipati e non accettano più l’autorità genitoriale. La donna però è tenace: riesce ad inserirsi in una piccola compagnia, e a riprendere il teatro; mentre l’uomo è più debole e flaccido, e a un certo momento lascia il lavoro (passaggio poco credibile).

L’uno e l’altra cercano  nuovi rapporti. La donna tenta col regista, che la sostiene e promuove; ma è omosessuale. L’uomo non ha più forza creativa (il libro non procede affatto) ma – quasi casualmente – riesce nel rapporto amoroso, reincontra una vecchia fiamma (Monica Bellucci), ci passa anche una notte.

La rottura è vicina quando accade l’incidente, lui travolto mentre esce correndo da casa per sfuggire la lite (la donna è fortissima, Laura Morante). Allora tutto si ricompone, in certa misura. Intanto la figlia è riuscita ad entrare in televisione, non lesinando sui mezzi, spregiudicata; il figlio, superando timidezza e goffaggine, ha trovato una ragazza. Ma tutto resta aperto, nulla è stato ricostruito nell’intimo.

Opera non straordinaria, di un realismo piuttosto raffinato, di un nervosismo che alla sua realtà appartiene. La donna è al meglio, l’uomo è fiaccato dall’incidente ma non ha rinunziato del tutto. La vita continua così come sempre.

 

 

La ricerca della felicità

2006. Primo film hollywoodiano di Muccino; che ha successo. Ma perché Muccino va a Hollywood? Perché stabilisce un rapporto col popolare attore nero Will Smith, che apprezza i suoi film ed è disposto a produrne altri? L’America però lo libera – almeno per un momento – da quella complicazione sessual-familiare in cui si dibatteva, e per lo più si perdeva. E però entra forse con troppa decisione nel mondo americano, con quella “ricerca della felicità” che sta in apertura della proclamazione d’indipendenza, e come tale viene qui più volte ricordata. E con la storia vera di Chris Gardner, realizzatore di un sogno americano fatto di dollari e ricchezza; e sarebbe stato meglio non comparissero quelle scritte finali che celebrano le sua ascesa nel mondo degli affari e i milioni di dollari.

Pur muovendosi sullo stereotipo della discesa agl’inferi della povertà e dell’abbandono, e dell’improvviso colpo d’ala o di fortuna che ti solleva d’incanto, il film ha dei pregi. La figura di Chris, precario fin dall’inizio, con quegli scanner troppo costosi da vendere; con una moglie piuttosto isterica che quasi subito lo lascia, e stranamente gli lascia anche il figlio, e scompare (Thandie Newton). Troppo, diremmo. Ma ciò esalta il suo amore per il piccolo, una delle note più significative del film: percorrerà tutto il suo calvario insieme col piccolo avendolo sempre con sé e sempre profondamente amandolo. Anche quel percorrere la città (San Francisco) sempre portando quello scanner fino a che li venderà tutti è singolare. Chiuso fuori dalla  stanza d’alberghetto in cui viveva; perde l’ultimo metrò notturno e dorme col piccolo rinchiuso in una toilette; poi nel dormitorio pubblico di un’opera benefica, accanto ai clochard.

Ma ecco, ha avuto la chance d’iscriversi ad un corso semestrale per broker, ha conosciuto certa gente (alla partita dove lo ha portato un funzionario cui è simpatico), e alla fine del semestre ottiene lui l’unico posto (su venti concorrenti).Improbabile certo, ma necessario all’ascesa, allo happy end.

Uno stereotipo, ma sviluppato con un attore che trasuda fiducia e forza d’animo, e con un notevole rigore narrativo.

 

 

Sette anime

2008. Secondo film hollywoodiano, ancora con Will Smith. Ma il titolo originale è Seven pounds, cioè sette libbre, di carne (come nell’Otello shakespiriano). Un tema forte e inusuale, il tema dell’espiazione spinta all’estremo, al sacrificio totale. Di un uomo che ha provocato un  incidente stradale (distratto dal cellulare) in cui sono morte sette persone, compresa la sua donna; e che decide di donare organi o parti del suo corpo (le sette libbra di carne) per rianimare la vita di altrettante persone. Perciò egli passerà il suo tempo ad incontrare i futuri beneficiari, finché alla fine, nel bagno, si esporrà alla morte con la velenosissima medusa detta “vespa di mare” e sarà così pronto per il dono supremo.

Ma il film è impari al grande tema. Già nella costruzione della storia, perché l’incidente compare solo alla fine, mentre lungo il film se ne vedono solo sprazzi insufficienti alla comprensione. Così come le persone cui va il dono non sono per lo più individuabili. Solo la donna cui andrà il cuore, Emily (che poi è Rosario Dawson), ha una forte presenza, e anzi con lei si sviluppa un’amicizia che matura poi in amore corrisposto e vissuto; e un poco anche il pianista cieco cui andranno le cornee. Will Smith, poi, resta affatto estraneo al personaggio, al suo dolore e tormento, alla sua volontà di espiazione e di sacrificio; compare piuttosto come quell’emissario dell’agenzia delle entrate che dice di essere. Il film non sviluppa una storia; entra nel bel mezzo dell’azione e non sa raccoglierne le fila, disorientando lo spettatore. Pregevole dal punto di vista visivo, nei frequenti primi piani, nell’armonia dell’insieme.

 

 

Baciami ancora

2010. Vorrebbe essere una continuazione de L’ultimo bacio, il film del 2001 che ebbe fortuna; ma il titolo è estremamente banale.

Ritorna qui il gruppo degli amici: Carlo (Accorsi), Marco (Favino), i due fratelli Paolo (Santamaria) e Adriano (un Pasotti fuori ruolo), il primo dei quali ha preso la moglie dell’altro mentre l’altro era in carcere per droga, Alberto. Film delle coppie sfasciate, di uomini tormentati, in crisi di nervi, in crisi psicosomatica per stress, con la disperazione finale di Paolo che si uccide con la roulette russa. Siamo a Roma. L’amicizia non riceve grandi manifestazioni. Le donne qui sono in bilico, poco considerate. Film di maschi, soprattutto. Vorrebbe forse rappresentare la crisi della coppia d’oggi, ma è troppo negativo, troppo esagitato, troppo nevrotico. Alla fine due coppie si ricompongono ma in modo poco credibile, specie quella di Marco, per quanto lui spasimasse sempre per lei; ma il comportamento di lei è talmente strano, balzano. Muccino non ha trovato la giusta misura.

 

 

Quello che so sull'amore

2012, per ora l’ultimo film di Muccino, ancora americano. Il titolo italiano non dice nulla; l’originale, Playing for keeps, giocando sempre, è meglio poiché si tratta di un campione di calcio che in seguito ad un incidente, ma a 36 anni, ha lasciato; e che ora allena una squadra di calcio di bambini, quella del figlio, e gioca con loro.

Il suo problema è l’amore del figlio, piccolo ancora, otto-dieci anni, il quale sta con la madre da lui separata; ed è più oltre l’amore di quella donna, recuperarlo, come di fatto avverrà. Non v’è altro: il piccolo, il campo da gioco, le squadre che s’incontrano, i genitori che assistono e tifano; tra questi le donne divorziate o sole che smaniano per il campione, gli gettano le braccia al collo o anche dormono con lui. Ma non v’è passione, non v’è amore, per lui che cerca quell’altra donna e infine la ritrova. Un film che non dice molto, hollywoodiano, con happy end, ma ripetitivo e monotono.