Terrence Malick
La rabbia giovane
1973, il primo film di Malick che ha trent’anni (è nato nel ’43). Il titolo italiano è fuori luogo, qui non c’è nessuna rabbia. Badlands è il suo titolo, paesi cattivi, o gente cattiva.
Malick incomincia male. Certi critici vi trovano il suo grande senso della natura di poi; ma qui non v’è certo quella natura madre, grandiosa e bellissima; vi sono quasi solo aridi terreni sconfinati che il fuggitivo attraversa in macchina per sfuggire alla polizia.
Ciò che più colpisce à la totale amoralità di questi due. Il Kit (un giovane Martin Sheen), già impiegato comunale nella raccolta rifiuti; la ragazza Holly (Sissi Spacek), totalmente indifferente all’uccisione del padre e all’incendio criminale della sua casa; che solo in seguito abbandonerà Kit perché si sente stanca, forse del lungo vagare in macchina per terre desolate; ma non per i crimini compiuti. Fa anzi talora deliziose osservazioni sulla bellezza dei fiori e dei prati. Intanto il detto Kit ha ucciso suo padre; ha ucciso tre poliziotti; ha ucciso un suo ex compagno di lavoro; ha ucciso insomma tutto ciò che ha incontrato, con la più soave indifferenza. E quando infine vien preso dalla polizia, cui si arrende perché la sua macchina non ha più benzina e la sua pistola non ha più munizioni, tratta con loro amichevolmente, come se nulla fosse accaduto.
Lo accostano a Bonnie and Clyde di Arthur Penn, che è del ’67, ma a parte il diverso spirito – il carattere passionale e spassoso contro la totale indifferenza – è il seguito dei film di Malick che rende strano questo inizio.
I giorni del cielo ●
1978, il secondo film di Malick, che è nato nel 1943 e ne ha fatti finora otto.
Una grande opera, un’epopea della terra, del cielo, della natura. Dominata dalle distese immense, dalle immense coltivazioni di grano dello West nell’Ottocento statunitense; dove arrivano arcaici treni che sui tetti portano immigranti alla ricerca di un pezzo di terra essi pure, alla ricerca di un lavoro, o della fortuna. Passano e si fermano, invitati dal fattore al lavoro della mietitura per tre dollari al giorno. Qui la natura domina tutto, la terra, i cavalli che scorrazzano veloci ed eleganti, i bisonti fermi e rigidi, gli uccelli che attraversano il cielo come nubi veloci, gli animali nascosti ovunque tra il grano, che l’occhio attento della macchina da presa coglie d’incanto. Qui la fotografia di Néstor Almendros, morbida , sgranata; le musiche di Morricone.
Qui anzitutto una vicenda collettiva di lavoro, la mietitura, uomini e macchine ancora un poco arcaiche, il grande raccolto. Poi, l’anno seguente, la tragedia, l’invasione delle cavallette enorme immensa, come nubi oscurano il cielo; la lotta impotente degli uomini per liberarne il grano, infine l’incendio che tutto distrugge; nella notte le fiamme divampano col loro bagliore sinistro.
Qui dentro una storia tragica già per se stessa. In questa purezza di natura il male d’uomo. Il ragazzo impulsivo (un giovanissimo Richard Gere) che, perso il lavoro nell’acciaieria, sale su quel treno arcaico verso lo West con la ragazza e la sorellina, e sbarca nella immensa fattoria per la mietitura; e però, avendo per caso udito che il padrone ha solo ancora un anno di vita, pensa che potrà sposare la sua ragazza (che ha sempre presentato come sorella) e tutto quel bene diverrà suo, loro. Il padrone è un giovane signore di campagna ricco e solo; è preso dalla ragazza e la sposa. Circola però intorno il sospetto, nel fattore anzitutto. I due sono anche imprudenti. Il padrone ha capito, gli va incontro con la pistola; ma lui, che sta armeggiando intorno alla sua moto, è più svelto e con un cacciavite lo trafigge. Fuggono, sulla vettura del padrone prima, poi su di un battello. Ma sono braccati dalla polizia a cavallo, allertata dal fattore. Lui s’inoltra nel bosco ma commette l’errore di attaccare col fucile. È morto, galleggia nell’acqua.
Un film esaltante, un film gioioso, un film doloroso. Un capolavoro.
The tree of life - 2011. ●
L'albero della vita, quinto film di un regista quasi settantenne, parco, meditativo, creativo.
Un’opera che trascende ogni modello e misura. Profondamente religioso, in esergo la famosa frase in cui Dio risponde al lamento di Giobbe richiamando la grandezza della sua opera, la creazione, “dov’eri tu?”. Che introduce il fondamentale tema del dolore – la morte di un figlio diciannovenne nella famiglia texana attorno a cui si svolgerà il film; ma subito passa alla risposta divina, ad una lunga sequenza cosmica, la creazione appunto, fasce di colore che scorrono, cieli, galassie, cascate, vulcani, fiumi, mari, mentre risuona la stupenda musica del Requiem di Preisner. In tutto il film, la musica, per lo più classica, ha un grande e suggestivo ruolo, che si alterna a lunghi silenzi. Poi il dolore, quello della madre, quello del fratello ormai cinquantenne, che si aggira nelle città dai grattacieli splendidi, ma anche nello squallore dei deserti, delle lande sperdute, nell’insignificanza dell’umano. Anche se nello splendore dei grattacieli si celebra forse l’opera d’uomo, pur nella sua vanità; o forse la vanità soltanto. Il film trascende i tempi e li mescola. Fondamentale il tema della grazia che fa felice la vita, mentre la natura l’assoggetta alla delusione e al dolore.
Si passa alla storia della famiglia texana degli O’Brian, già introdotta all’inizio. Ma qui il racconto attento e preciso. La nascita dei tre figli maschi, la loro prima infanzia; poi la fanciullezza e la prima adolescenza; dove una madre sensibile e amorosissima (Jessica Chastain); e un padre severo e autoritario (Brad Pitt) che scatena l’odio del figlio maggiore Jack, che ne vorrebbe la morte, e ne è tentato quando il padre sta sotto la macchina sostenuta da un crick; ma ci sarà poi la riconciliazione. Il principio è che l’amore rende felice la vita, mentre la sua mancanza l’abbandona al dolore (che è poi la dualità di grazia e natura; il film è profondamente religioso ed evangelico); ma questi temi risuonano discreti, da una voce recitante che di quando in quando interviene.
Lunga e attenta questa dinamica dei figli, di genitori e figli. Il padre esce poi sconfitto; egli che coi suoi 25 brevetti sperava nella grandezza e nella ricchezza.
Ritornano i passaggi cosmici, si prospetta la fine dell’umanità in una landa acquosa in cui tanta gente si aggira, i protagonisti bambini e adulti nella insignificanza ormai del tempo e del cosmo.
To the wonder - 2013.
Il sesto film.
Due bambine rapite e ritrovate alla fine dal poliziotto pacato e un po’ scettico di Jake Gyllenhaal. Uno happy end inatteso e che sembra quasi estraneo al film. Che è dominato dallo scatenarsi della rabbia del padre di una di esse, Anna, il quale punta la sua ricerca sul giovane rimasto infantile ed ebete; che vive parte in un camper, parte ospite della zia. Punta su di esso ma non ottiene se non due parole che non sa interpretare. E passa le sue giornate e notti tra l’accanimento su di lui e l’alcol o anche il letto su cui si getta senza risposarsi; poi che si è giunti al quinto giorno dalla sparizione. Lui il torturatore; in un paese in cui vige ancora la tortura.
Film drammatico, tenebroso, dominato dalla notte o da giorni dalla pioggia battente, giorni oscuri. Dominato dalla disperazione dei giorni che passano. E dalla tortura del padre sul ragazzo ebete. Gyllenhaal non convince molto, è un po’ fuori parte; forte invece il padre, Hugh Jackman. Il miracolo è il ritrovamento delle bambine?