Krzysztof Kieslowski

 

Il grande regista polacco, nato nel 1941 e morto nel '96 a soli 55 anni; consumato dalla vita intensa, infaticabile nel lavoro. Un regista profondo, intenso, originale e finissimo nello stile, nella ricerca, nei caratteri. Manca qui una sua grande opera, Il Decalogo.

 

 

Non desiderare la donna d’altri

Al Politeama di Lecce il 14/01/1990. Ma il vero titolo è Un breve film sull’amore. Non v’è qui nessuna donna d’altri; semmai una donna di nessuno e di tutti.

Un ragazzo, guardandola dalla finestra nel vasto vano centrale di un grande caseggiato, a giardini, contemplandola ogni sera nel suo disinibito muoversi e spogliarsi, se ne innamora. Non ha neppure avuto lui l’idea di guardare; l’ha ereditata dall’amico di cui ha preso il posto, che gli ha lasciato anche un binocolo; lui ruba poi un cannocchiale. Ma è complessato: quando la donna riceve un uomo e c’è la scena d’amore, lui chiude gli occhi.

Fa di tutto per vederla, per incontrarla, telefonarle, la porta dove lavora, la bottiglia del latte distribuita al mattino. Ma quando poi la incontra, e porta ancora il segno del colpo che si è preso come guardone, non osa. E così quando è con lei al caffè; e quando poi nella casa di lei toccandole le cosce ha una polluzione, fugge e si taglia le vene. Qualcosa di troppo grande che lo ha sopraffatto, il senso del peccato di cui la donna gli parla (è peccato!).

Un amore, uno sconfinato desiderio d’amore, un’impotenza ad esprimersi, a dimostrare  (come gli trema la mano la prima volta che accarezza la sua; eppure lei lo invitava), il trauma e il crollo per il mistero troppo grande in cui è penetrato.

La donna gli ha detto l’amore non esiste (corpo armonioso, sontuoso, prorompente; folti capelli bellissimi; bellezza del gesto); ma ora essa sente che l’amore c’è, è possibile.

Vicenda semplice e profonda. Lo stile, la rigorosa coerenza e bellezza dello stile, l’essenzialità del racconto, i quadri tagliati sempre con sapienza. Opera di grande poesia. Musica, silenzi.

 

 

La doppia vita di Veronica

Al Massimo di Lecce il 23/10/1991.

Opera di grande bellezza stilistica, l’immagine, il colore tenue, le musiche, il sonoro. Come di fine bellezza è la protagonista, Irène Jacob, la stessa poi del Film rosso.

Sarebbe la storia di due ragazze identiche, una polacca e una francese (la prima storia è in polacco con titoli, la seconda è doppiata). Che una volta s’incontrano, o meglio s’intravedono, l’una sulla piazza, l’altra sull’autobus dei turisti a Cracovia. Ambedue votate al canto, ambedue malate di cuore; l’una lascia l’amore per l’arte ma soccombe al grande impegno; l’altra teme il male e lascia l’arte, e si rifugia nell’amore. Ma la vita della prima è più alta,  e si spegne al suo acme.

Che vuol dire ciò? che ognuno di noi ha un doppio al mondo? mentre il carattere proprio della persona è l’unicità, l’irripetibilità? E che senso avrebbe poi un doppio? C’è un incrocio di destini? o solo un gioco?

Opera enigmatica anche nel suo percorso per il montaggio troppo nervoso, le scene troppo brevi improvvisamente tagliate. Anche se alcuni passaggi sono talmente suggestivi e raffinati: come quello dei burattini, della danzatrice che si trasforma in farfalla. E altri.

 

 

               La trilogia dei colori

Tre colori: Film blu

Del 1993, il primo della trilogia che si rifà alla bandiera francese, e insieme alle tre parole del motto della Rivoluzione. Qui sarebbe la “libertà”, che però è difficile scorgere in questa vicenda.

Opera di forte intensità, tra le più forti di questo grande regista; tra le più intense. Opera di dolore, in cui vibra il dolore umano, intensissimo; e che tenta di concludersi nell’amore.

Opera, si può dire, di un solo personaggio, quello di Julie (nella straordinaria interpretazione di Juliette Binoche), la donna che nell’incidente d’auto della sequenza iniziale perde marito e figlia, perde tutto. Il volto fermato nel dolore, nell’espressione dolorosa sempre; la figura in nero, col nero caschetto di capelli, il passo veloce nervoso, la parola scarna, il silenzio, la risposta che s’attarda. Gli occhi neri segnati dal dolore.

Si libera di tutto, vuole che al suo arrivo la stanza della piccola figlia, la stanza blu, sia vuota; vende il castello e la proprietà; distrugge il testo della cantata che il marito, grande musicista, aveva composto per l’Unione Europea (ma la segretaria ne aveva fatto e salvato una copia; mentre una giornalista insinua che ne sia lei l’autrice); si ritira in un appartamento che nessuno conosce, nessuno sa dove sia, scomparsa. Vuole intorno a sé il nulla poiché tutto ha perduto.

Le musiche straordinarie della cantata la inseguono a tratti; l’irrompere potente dell’orchestra, del coro, mentre tutto si trasfigura in blu, le straordinarie musiche di Zbigniew Preisner, il suo musicista di sempre.

In questa esistenza raccolta nel suo dolore alcuni fatti intervengono, pochi.

C’è un uomo che l’ama, l’assistente del marito, Olivier, e lei lo sa, e glielo chiede, ha bisogno di un incontro, uno almeno subito, distensivo. Quell’assistente che sta tentando di completare la cantata secondo l’intenzione del maestro.

C’è una donna che il marito amava. Lei lo ignorava ma alcune foto che passano in televisione glielo rivelano, e Olivier glielo conferma; allora vuole incontrarla, conoscerla, semplicemente. È incinta di un figlio di lui, e lei  matura la decisione che il castello sarà suo; e ne ferma la vendita, e incontra la madre per comunicarglielo; sempre con la sua parola  scevra.

Infine, quando Olivier le comunica che non si sente di terminare l’opera, allora la termineranno insieme, la terminerà lei. Poi gli chiede un incontro amoroso. E allora esplode l’orchestra ed esplode il coro finale nel sublime inno all’amore di Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, il testo sublime, esplode l’epopea di dolore-amore che conclude l’opera. Con fortissimo impatto emotivo, impatto spirituale.

Il film si porta sull’anima, come sempre in Kieslowski. Finissimo talora nel dettaglio: il volto su cui gioca un ricamo di luce, il volto luminoso, il medico riflesso nella pupilla, la tazza, il cucchiaio che oscilla rispecchiandosi nella bottiglia. Grande sempre.

 

 

Tre colori: Film bianco

Del 1994. Sarebbe il film dell’“eguaglianza”? Là dove la donna rifiuta l’uomo, poi l’uomo la costringe a ritornare a lui? 

Un film che è come una favola, a cominciare da quel baule su cui s’apre, portato tra scossoni dal nastro dell’aeroporto. Mentre il giovane uomo è davanti al tribunale di Parigi (un piccione dall’alto gli sfregia il cappotto, quasi un segno di disprezzo) e lì la donna ch’egli ama lo respinge con freddezza, dicendo che il matrimonio non fu mai consumato per la sua impotenza (provvisoria, egli ribatte) e lei non lo ama.  La bellezza ancora un po’ acerba, un po’ bambina di Julie Delpy, bellezza fine e purissima; mentre Karol è un ragazzotto informe dagli occhi grandi e inespressivi. E, dopo il rifiuto e il divorzio siglato, il vomito; e lei che se ne va in macchina lasciandogli il baule, e lui la rincorre per un tratto. Poi ritrova in tasca le chiavi del negozio di parrucchiere (lui, Karol, un artista dei capelli, che ha vinto molti premi, e ha conosciuto Dominique come sua modella in un concorso internazionale) e lì si rifugia per riposare; e quando lei arriva c’è ancora della tenerezza e un tentativo di unione che però fallisce; e lei ritorna fredda e cattiva, dà fuoco alla tenda per accusarlo d’incendio e  telefonare alla polizia, ma egli fugge. E però la donna ha bloccato i suoi conti e lui si ritrova con pochi franchi.

È questo l’inizio della storia, segnata dalle musiche sempre straordinarie di Preisner: il tema della favolosa avventura, e il tema dell’intimità, dell’amore e del dolore. L’incontro del povero Karol nel metrò con Micolai, mentre cerca di guadagnare qualche soldo suonando con un pettine; Micolai che diventerà il grande amico. Il viaggio aereo a Varsavia nel baule, rubato da ladri poi delusi che lo prendono a botte e lo gettano giù per una discarica. L’accoglienza affettuosa del fratello. L’avvio del suo favoloso progetto: fare soldi con l’acquisto di piccole fattorie sparse in un terreno destinato all’espansione edilizia, poi con un’impresa d’import-export; poi il testamento in favore di Dominique, la falsa morte e la falsa sepoltura cui la donna è presente e piange; per sorprenderla poi di notte e portarla alla tenerezza e all’unione felice. Infine l’arresto da parte della polizia polacca con l’accusa di connivenza nella morte; e quell’estremo vedersi lui nel cortile, lei al finestrino del carcere con quel linguaggio di gesti che significano forse il ritorno; e lui che infine piange.

Una storia che non sempre cammina, ha qualche intoppo. Divertente-dolorosa, reale-irreale, quasi un gioco dell’amore ingegnoso e che infine vince?  

 

 

Tre colori: Film rosso

Del 1994. Sarebbe il film della “fraternità”, di un rapporto insolito che parte da una diversità profonda e da un profondo contrasto, e raggiunge a poco a poco la simpatia e una certa misura di affetto (il dono dell’apparecchio televisivo, ma soprattutto la mano di lei che attraverso il vetro incontra l’altra); una misura di affetto fraterno forse piccola ma significativa.  

Dominato dalla figura di Valentine, una Irène Jacob straordinaria nella dolcezza, nel sorriso dolce e misurato, nella franchezza, nell’onestà, nella vitalità, il passo rapido sempre, la semplicità del vestire. Lei che è modella fotografica (e vediamo la sua immagine pubblicitaria enorme, con quel fondo rosso vivo) e insieme indossatrice (e la vediamo due volte sfilare con la sua deliziosa spontanea semplicità).

È in certo modo l’immagine della bontà, una bontà viva, forte, aliena da compromessi. Una bontà inusuale e perciò esemplare. Mentre l’altro personaggio del film è in certo modo l’immagine della cattiveria: un anziano giudice in pensione che passa il tempo ad ascoltare le intimità dei vicini, e ha un’apparecchiatura apposita; ha tradotto in vizio quello che per il giudice era un compito. Vive solitario e misantropo. Tipo duro, scontroso; tipo repellente.

La ragazza lo incontra perché ne ha investito con la macchina il cane; e lei prova per il cane la stessa pietà e lo stesso affetto che prova sempre; la stessa dolcezza affettuosa. Mentre al giudice rimprovera la sua scarsa sensibilità e il suo sadico spionaggio. E però la sua bontà si comunica  e trasforma via via l’uomo.

Storia inusuale, fors’anche ai limiti del credibile. Vi s’intreccia il filo di un’altra storia più esile anche se drammatica; di un ragazzo che abita di fronte ed è legato a una ragazza, che improvvisa scompare, ed egli ne scopre il segreto arrampicandosi sino alle sue finestre e scoprendola unita ad un altro; e soffre, gettato sul letto piange; la vede al bar col nuovo amico e batte al vetro, ma quando lei esce non si fa trovare; vuol solo ch’essa sappia ch’egli sa. Storie d’incerti amori giovanili – anche Valentine si lamenta del suo Michel – che s’intrecciano senza incontrarsi.

Singolare all’inizio la sequenza della telefonata che corre sui fili e lungo le tubature, si raffigura in immagini astratte. Singolare il finale in cui, dalla tragedia sulla Manica si salvano solo sei persone che sono poi i protagonisti della trilogia kieslovskiana. Un tratto affettuoso del regista, che ama e salva i suoi attori.

Ritornano qui certe intense musiche del Decalogo, di quel Vanvonbudenmayer che poi è ancora sempre Preisner, il musicista amato.

L’ultimo film di Kieslovski, consumato dalla frenesia del lavoro, dal fumo, dal caffè, dal sonno scarso; da una vita convulsa, dal troppo ardore.