L'itinerario di pensiero di Arrigo Colombo

 

 

 

Crisi della ragione moderna, ragione moderna e capitale. Compito del filosofo.

La società postindustriale. L'utopia e il suo nuovo senso

 

             Questo testo è nato per l'impulso di Michele Borrelli, dell'Università della Calabria, nel suo intento di raccogliere

             una serie di profili di filosofi italiani.  È uscito nella Collana "Metodologia delle scienze sociali" da lui diretta, presso

             Pellegrini, Cosenza.

              

Arrigo Colombo proviene da lunghi studi di filosofia scolastica e di teologia, poi di nuovo di filosofia all’Università di Milano dove è allievo di Antonio Banfi e con lui si laurea; avendo però nel frattempo studiato per due semestri in Germania, a Monaco di Baviera e a Freiburg; avendo poi lavorato per due anni a Padova nella redazione dell’Enciclopedia filosofica del Centro di studi filosofici di Gallarate (Firenze, Sansoni, 4 voll., 1957-58); esce infine, nel 1964, con una monumentale monografia su Heidegger, che è il suo primo lavoro (Martin Heidegger. Il ritorno dell’essere, Bologna, Il Mulino, pp. 726). Non mancarono spunti d’ironia sulla mole di quest’opera: Karl Löwith, ad esempio (ma benevola, in una conferenza del maggio ’66 a Bologna), col quale egli aveva passato un anno a Heidelberg e aveva compiuto l’opera, dopo avervi lavorato per otto anni; anni di consuetudine col pensiero del grande filosofo tedesco. Seppur grande egli può dirsi.

 

 

1.  Heidegger, la crisi della ragione moderna, la ricerca dell’essere

 

1.1. La vicenda della ragione moderna, l’elidersi e riaffacciarsi dell’essere

 

L’intento di quest’ultimo e decisivo tirocinio era l’«orientamento nella situazione», com’è espressamente detto nell’Introduzione dell’opera: una situazione di crisi, che era poi la grande crisi della ragione moderna; la quale seguiva alla sua incondizionata e parossistica esaltazione. La ragione moderna aveva fagocitato in sé la realtà intera nel senso che, dopo averla elisa col dubbio cartesiano, ne aveva intrapreso la ricostruzione da se stessa, in puri termini concettuali (l’operazione più ingegnosa era stata poi quella di Kant; ingegnosa e insieme artificiosa e incredibile); fino a giungere, con Hegel, ad identificarla totalmente con un preteso processo logico. Tutto, mondo uomo Dio; tutto artificiosamente dedotto, anche i più minuti fenomeni della natura-scienza, come momenti di un processo logico; un edificio incantevole, ingegnoso, grandioso, ma grandiosamente falso; come falso era il metodo che lo deduceva, quella «dialettica» sulla quale molti in seguito avrebbero ingenuamente giurato.

La crisi s’apre con la Sinistra hegeliana che trova quel presuntuoso edificio enormemente riduttivo, incapace di spiegare la realtà in molti suoi punti essenziali, contraddittorio; e si protrae lungo l’Ottocento, poi lungo il Novecento e oggi ancora. Heidegger non entra subito nel merito della crisi, ma ha l’intuizione dell’«essere» come di un’alterità rispetto al mondo concettuale e formale costruito dalla ragione moderna. Intuizione che lo coglie quando, durante il liceo, nel 1907, legge un libro di Franz Brentano su Il molteplice significarsi dell’essere secondo Aristotele (Freiburg i.Br., 1862); com’egli stesso confesserà poi; e diventa per lui decisiva, sì che l’intera sua ricerca sarà «ricerca sull’essere», «sul senso dell’essere» (la test. in Aus einem Gespräch von der Sprache del 1953-54; poi in Unterwegs zur Sprache, Pfullingen, 1959, pp. 92-93).

Si sa che, con l’elidersi e poi il riplasmarsi dell’intera realtà dalla ragione e come oggetto-prodotto di ragione, come concetto e idea, l’essere aveva perso ogni senso. L’essere non era più, e dunque nulla più era; solo uno scenario di rappresentazioni, illusive, come dirà Schopenhauer, sottese dal nulla. La ragione moderna, distruggendo la realtà, si autodistruggeva; era questo il tragico esito della sua ingegnosa operazione, della sua autoesaltazione. Dalla Sinistra hegeliana in poi il nulla incombeva sul pensiero occidentale, fino a che Nietzsche lo dichiarava, lo proclamava. Un caso tipico è quello di Hegel, il quale pone l’essere all’inizio del suo processo logico come «l’immediato indistinto»; che perciò si risolve nel nulla. Ma già per Kant l’essere «non è evidentemente un predicato reale», non aggiunge niente al concetto; dire «Dio è, […] non appone nessun nuovo predicato al concetto di Dio» (il  che è verissimo; ma l’essere è proprio l’altro rispetto al predicato concettuale); perciò non dice nulla. Anche per Nietzsche l’essere non ha senso, si può semmai intendere come «generalizzazione del concetto di vita»; è anzi oggetto del suo sarcasmo in quanto la tradizione vi ha riposto ed espresso la trascendenza e il sovrasensibile (Kant, Rag. pura, ed. Schmidt, Hamburg, 1956, A 598-99, B 626-27).

 

In questa rinnovata attenzione per l’essere, tra ‘800 e ‘900, Heidegger non era solo. Per primo Kierkegaard aveva individuato nell’esistenza e nell’esistente, nell’individuo singolo che esiste, nella sua unicità, irripetibilità, qualcosa d’irriducibile al pensiero, al «pensiero astratto», al concetto e all’idea; «qualcosa che non si lascia pensare», «non si lascia esprimere nel linguaggio dell’astrazione», che «l’astrazione può dominare solo abolendolo». L’esistenza, e in essa la libertà, e il vincolo etico che l’astringe, la trasgressione e il peccato, il sentimento e la passione (questi passaggi nella Postilla alle briciole filosofiche, cap. 3, tr. fr., Paris, 1949, p. 201 ss.).

Dal 1914 Gabriel Marcel aveva portato innanzi un Diario metafisico che altro non era se non una ricerca del senso dell’essere come di ciò che non può obbiettivarsi e concettualizzarsi; che perciò resiste alla comprensione umana e si presenta come «mistero»; in un’intuizione di sempre, che però Marcel intende come coinvolgente la persona, nella quale gli altri sono già sempre coinvolti; così come coinvolge l’Essere cioè Dio. Che è poi la linea della ripresa metafisica francese, la «Philosophie de l’esprit»; la linea di Lavelle, Le Senne, Forest, dello stesso Mounier; che si svilupperà sin oltre la metà del secolo ma non riuscirà a incidere nella crisi; né ad incidere sensibilmente nel pensiero europeo. E però la categoria di «persona» contribuirà alla maturazione di un fattore altissimo, assunto nelle carte dei popoli, la «dignità e il diritto della persona umana», il principio dei principi nella crescita della moderna società di giustizia.

L’intuizione di Heidegger s’era dunque prodotta e aveva preso senso e forza in questa temperie storica in cui l’essere si riaffacciava dopo la distruttiva e disastrosa eclissi moderna. Un «ritorno dell’essere» sembrava profilarsi; ed era con questo pensiero e con questa speranza che Colombo intraprendeva il suo cammino con Heidegger, pensando che una via si aprisse per uscire dalla crisi;  il titolo dell’opera lo indicava.

 

 

1.2. La ricerca impotente e tuttavia inesausta dell’essere ch’è nulla

 

Ma Heidegger nella crisi era immerso e vi andava sempre più affondando. Era chiuso nella modernità e nella crisi della modernità. Così, quando imposta la sua prima ricerca del senso dell’essere sul Dasein, cioè sull’uomo come «luogo dell’essere», del suo «svelarsi», si direbbe che compia il passo giusto, cercando l’essere là dove si svela. In realtà soggiace a quella condizione moderna in cui solo l’uomo è presente. V’è soltanto l’uomo. Nell’analisi dell’esistenza ch’egli conduce nella sua grande opera, il grande edificio architettonico di Essere e tempo, le cose e gli altri compaiono solo come modalità dell’esistenza, In-der-Welt-sein e Mit-sein, esser nel mondo e coessere. Non altro; né mai compariranno diversamente.

In fondo egli si muove in quel magma di volontà-ragione di cui spesso discorre, che nella modernità si afferma prevalentemente come ragione e dopo la crisi, per un tratto, prevalentemente come volontà, sotto diverse forme: la prassi della Sinistra hegeliana (Adam von Cieszkowski, Moses Hess, Marx), l’esistenza come libertà finita di Kierkegaard, l’élan vital di Bergson, l’action di Blondel, la volontà e volontà di potenza di Schopenhauer e Nietzsche. Per Heidegger, nella nuova prospettiva dell’essere, è l’ente, ed è l’uomo. Ma conserva la componente tensionale in quanto si pone come progetto, sia pur «gettato» e quindi «decadente» nella fattualità quotidiana e inautentica; e si riprende poi nella «decisione anticipatrice» che, prevenuta dalla necessità, si rivela piuttosto «accettazione»; infine, nella più profonda struttura della temporalità, è «infuturarsi». L’analisi dell’esistenza come finitudine, come l’esser di fatto di un nulla di sé; quell’esser di fatto, innegabile, per quanto sotteso dal nulla, momentale, caduco, sempre avvicendantesi, che è la realtà dell’uomo e di ogni ente finito; da cui si motiva tutta la dinamica heideggeriana dell’essere.

L’altro e decisivo fattore di crisi è appunto il nulla. Moderno-postmoderno, potremmo dire, in quanto sottende già tutta la modernità, apparentemente trasceso nel concetto kantiano, soprattutto nell’assoluto dell’Idea; emerge nella Sinistra hegeliana, si denunzia caparbiamente in Nietzsche, si ritrova in Heidegger: dolorosamente, diremmo, si riconosce in rari pronuziamenti; e diventa la sua spina nel fianco, lo handicap di tutta la sua ricerca, il travaglio, l’impotenza. Si afferma in seguito come una corrente di pensiero, il nihilismo, il postmoderno: pensiero di nulla, annihilito, debole, esausto; incapace ormai di ricerca e discussione, ridotto al racconto, all’autobiografia. Un punto avanzato dell’alienazione filosofica nel nostro tempo.

 

In questa situazione il grande compito che s’era prospettato, la ricerca dell’essere, è destinato al fallimento. Ciò che innegabilmente si afferma è l’ente, l’uomo-mondo, nella sua finitudine absoluta; in quei termini dell’esser di fatto di un nulla di sé, perciò gravitante sul nulla, perciò caduco sempre, momentale, sempre avvicendantesi, insuperabilmente temporale. Che era poi l’ens contingens della tradizione, cui esse contingit, gli capita; fattuale, gettato, dice Heidegger, nella sua grandiosa analisi della finitudine umana, un’analisi che mai era stata compiuta prima di lui, né dopo. Non si sostiene in se stesso; il fatto ch’egli sia istanzia un principio che in se stesso si sostenga e lo sostenga; com’era l’«essere per essenza», l’«atto puro» della tradizione ontologica. L’uomo, la finita creatura umana, trovava quel puro saldo essere alle radici del proprio precario consistere, nell’intimo della sua coscienza di precarietà, coscienza dolente angosciosa di Agostino e di Kierkegaard; e gli aderiva in amore, in gratitudine amorosa, e lo adorava come il suo Dio, il Dio di ogni cosa finita e caduca, necessariamente. E non era solo il «dio dei filosofi», che Heidegger rifiuta, quel Dio profondamente amato, adorato in ginocchio. 

Anche per Heidegger l’essere si prospetta come principio dell’ente, che nell’ente s’invia, si dà, si fa presente; e però, avendo la stessa sua inconsistenza di finitudine e nulla, di essere-nonessere, nell’inviarsi si ritrae, nel darsi si rifiuta, nel presenziarsi e illuminarsi si occulta. Perché poi l’ente è l’altro da lui, è lo spazio di noesi concettuale e formale di cui ho detto; mentre l’essere è stato intuito fin dall’inizio come aconcettuale e aformale. Presentandovisi si altera, s’informa e deforma, nella forma appunto. Perché quello è il suo spazio d’illuminazione e presenza; Heidegger non sa concepirne un altro, un altro tipo di presa intellettiva; alla quale pure si accosta quando intende l’essere come Anwesen, presenziarsi, come parousia, attuosa presenza (non la presenzialità oggettuale di cui pure ampiamente discorre); forse ancor meglio doveva dire «incontro», o anche esperienza come «presa su».

Perciò il tanto ricercato senso dell’essere finisce nel nonsenso, nell’erranza-errore, nel naufragio. La forza di Heidegger, la sua incomparabile tenacia e audacia sta nel resistere, persistere nella domanda, nella ricerca, nelle sue innumerevoli variazioni; «resistere nella tenebra», nella «guardia» notturna, nell’«attenzione» ai segni, nella «devozione» (Acht, Wacht, Andacht). Pensiero, ricerca, domanda. Anche s’egli sa ormai che si tratta di un’inquisività pura, di un puro domandare, il quale finisce ancor sempre in una domanda; non v’è risposta. Ma questo lo distingue dai filosofi della negazione, dagli scettici, dall’arroganza di Nietzsche; v’è anzi in lui un’apertura sul futuro, anche se ambigua, quando la verità dell’essere potrà forse discoprirsi. Così nei riguardi di Dio non v’è mai la negazione. Anche se, non senza superficialità, egli si libera dal dio dei filosofi e dal Dio del cristianesimo, non osa mai dire «Dio non c’è» («mi ha detto che sul problema dell’esistenza di Dio il suo pensiero è come sospeso», riferisce Marcel, L’homme problématique, Paris, 1955, p. 140); e attribuisce il «Dio è morto» di Nietzsche all’eclissi dell’essere (su questi temi cfr. Martin Heidegger, cit., pp. 546 ss., 590 ss.).

 

 

1.3. Distruzioni e apporti della ricerca di Heidegger

 

Pensare, ricercare, persistere nella ricerca. Ma intanto egli ha distrutto il fatto veritativo; pur essendo sempre preziosissima quella sua ricomprensione della verità, dal tradizionale carattere adeguativo (adaequatio rei et intellectus) al carattere disvelativo dell’a-lètheia, il dis-velarsi, l’illuminarsi del senso delle cose. Ma la verità non è più possibile se l’essere nello svelarsi si occulta; né può resistere l’unicità e l’immutabilità del senso («non uccidere», noi diremmo), quindi la certezza, nella finitudine, nel mutevole avvicendarsi del momento. E così la definizione (mentre noi diremmo ch’essa è certamente utile come tentativo di chiarezza); e la dimostrazione, se non come mostrare l’essere che si occulta, esplorare ciò che si è rivelato-occultato. Heidegger radicalizza il limite della verità finita, in cui essa tuttavia consiste e persiste; e così la distrugge.

Allo stesso modo ha distrutto il vincolo etico. Già in Essere e tempo, dove l’uomo è un nulla colpevole del suo nulla; la sua colpa ontologica, da cui necessariamente scaturisce ogni colpa fattuale (l’esasperato luteranesimo). A che serve più il vincolo etico? se la libertà è prevenuta dalla necessità? Perciò le sue categorie – bene e male, dovere, obbligazione – sono assegnate all’ambito della presenzialità obiettiva, categorie della quotidianità inautentica; e l’etica è una disciplina scolastica che nulla ha che fare col «pensiero», pensare l’essere, «stare accanto all’essere» (Lettera sull’umanesimo, Bern, 1947, p. 104 ss.; Martin Heidegger, cit., p. 108 ss. e nota 86). Non v’è qui nessuna sensibilità etica: «non uccidere», «non asservire il tuo simile», «uomo non asservire la donna»; i vincoli che insuperabilmente s’impongono nella coscienza moderna, non hanno qui senso alcuno. L’umanità è abbandonata alla sua colpa necessaria, al crimine, al caos criminoso.

Allo stesso modo ha distrutto la storia umana. Nonostante l’acuta analisi di Essere e tempo, dove la temporalità trapassava nella storicità perché il momento esistenziale, nel suo avvicendarsi, si caricava via via di tutto ciò ch’era stato; in unità e totalità. E perché la «decisione anticipatrice» assumeva l’intero dell’esistenza dall’inizio alla fine, alla morte; pur prevenendola la necessità, il destino. E però ora la storia accade quando l’essere s’invia; s’invia e insieme si trattiene, «il nulla che annulla». «Storia accade di rado», dirà a un certo punto; quando compare un «pensatore autentico, essenziale». Incredibile, nessuna considerazione per le vicende dei popoli, nessuna per le altre civiltà. Sta racchiuso nell’Occidente dove l’essere all’inizio s’è illuminato-occultato; quell’essere che – pensa – è il destino dell’Occidente; e però, per quell’occultamento, l’intera storia dell’Occidente è declino e decadenza; tutta protesa su quell’inizio, a ripeterlo, a tentare inutilmente il recupero di quella scintilla di luce.

Si denunzia qui vistosamente la «mitologia» di quest’essere. Nell’insistenza della ricerca, nell’accanimento, nelle innumerevoli variazioni quella ch’era un’intuizione si è mitizzata. L’essere, il principio dell’ente, dell’esistenza, della storia; della realtà intera; qualcosa come un dio, il dio di Heidegger ha detto qualcuno; un deus ex machina da cui s’inscena il teatro del mondo e della storia. La mitizzazione del pensiero filosofico, un fenomeno frequente, che non può discutersi in questa sede.

Eppure, in questa stessa mitologia, si andavano individuando i momenti in cui l’essere s’era caratterizzato lungo quella tradizione ontologica occidentale che Heidegger radicalmente rifiutava, dicendo che non aveva mai attinto l’essere ma si era sempre fermata all’ente, al livello concettuale e formale; che perciò doveva interamente esser distrutta. Una singolare presunzione, se solo si pensa alla «guerra di giganti» che intorno all’essere si era scatenata nell’antichità, di cui parla Platone. Quei momenti erano il dinamico, il genetico, il noetico, la volontà d’essere; su cui il discorso di Colombo si dispiega a lungo, come sull’apporto maggiore di quella disperata tragica ricerca.

Altri apporti riguardano la parola, in cui l’essere nel suo dis-velarsi si esprime; che perciò ne contiene comunque scaglie di luce, il raccolto occulto senso. Sulla quale deve quindi operare la ricerca, il suo ascolto come il suo discernimento. Heidegger ha un senso altissimo della parola, e vi opera in modo sapiente, con una straordinaria attenzione e sensibilità; talora con una troppo sottile sofistica raffinatezza, dicono i suoi critici. In ogni caso in modo esemplare.

In particolare la parola poetica, non tanto nella sua diretta significazione concettuale quanto nella sua allusività, capacità allusiva, forza luminosa del simbolo. Heidegger opera continuamente sui poeti, coi poeti. La poesia è, accanto al pensiero, l’altro momento e modo del disvelarsi e dirsi dell’essere; e dovrebbe forse ritenersi il modo più appropriato, per quel carattere aconcettuale, la globalità e pregnanza del simbolo, l’alterità dell’allusione. Ciò ch’egli forse non capisce, nel suo insistere sulla priorità del pensiero (cfr. Martin Heidegger, cit., p. 670 ss.).

 

 

2. Il raccordo alla corrente utopica, l’esplorazione del compito del filosofo

 

A questo punto, esplorato alquanto questo pensiero di crisi che si estenua nel nulla, Colombo lo abbandona e si raccorda all’altro filone del ‘900, ch’è l’utopia. Il ‘900 è infatti percorso da due  correnti di pensiero, una delle quali è quella di cui abbiamo parlato finora sempre, la ragione moderna, la sua crisi distruttiva; l’altra proviene da più lontano, dalla progettazione di una società «buona» (l’utopia-eutopia), giusta; dal continuo sforzo, nella modernità in particolare, di capire come dovrà essere la società per «liberarsi dai mali che l’affliggono», costruire una società di giustizia, di libertà eguaglianza solidarietà, quindi anche di prosperità e di pace; una progettazione incessante, che accompagna un processo di liberazione.

 La prima delle due correnti s’incentra nella ragione, quindi nella costruzione di un mondo di ragione (più tardi, estenuatasi la ragione, nel linguaggio); o nella volontà-ragione, quindi nella prassi, nell’azione, nella volontà come tale; in quel magma di volontà-ragione di cui si è detto. La seconda s’incentra nella persona-società, nella socialità costitutiva dell’essere-coessere della persona e in cui la persona si espande, società e polis; nel suo dover essere, nel progetto e processo costruttivo in cui quel dover essere va adempiendosi, «uomo sii uomo». Processo costruttivo di una società di giustizia che nella modernità decolla e s’intensifica attraverso le rivoluzioni, l’Inglese del Lungo parlamento, la Francese, il movimento operaio, il socialismo, la Rivoluzione russa e infine la Contestazione degli anni 1960-70. Come si vedrà più avanti.

Il raccordo all’utopia avviene anche lungo l’esperienza della Contestazione, che Colombo ha vissuto intensamente perché nel 1966, ottenuta non senza difficoltà la libera docenza in filosofia teoretica (con tre voti su cinque; gli sono mancati i voti di Abbagnano e Sciacca, i due commissari più autorevoli), è stato assunto come professore incaricato dall’Università di Lecce, dove resterà poi sempre. Nel ’66 la Contestazione si accendeva nelle università italiane; Colombo l’ha vissuta intensamente pur operando in una piccola università periferica, e ne ha anche tentato una prima analisi «storico-epocale» nel volume Università e rivoluzione (Manduria, Lacaita, 1970, pp. 143). La Contestazione com’«evento rivoluzionario», eversivo, profondamente innovativo segna una presenza costante nei suoi scritti; dove viene sempre attaccata la superficialità e l’intenzione demolitrice con cui l’establishment politico e accademico, e l’intellettualità a questo legata, hanno intrapreso con successo a banalizzarla e svuotarla di senso.

 

Anche il libro che pubblica nel 1971, Il destino del filosofo (Manduria, Lacaita, pp. 356), proviene in certa misura dalla Contestazione sia nell’impianto utopico, sia nella revisione del compito del filosofo, sia nel quadro in cui questo compito si disegna e in molte delle idee che lo intessono. Il libro rivela anzitutto un bisogno personale, di comprendere meglio il proprio compito, discutendolo a fondo. Ma è fortemente sollecitato anche dalla Contestazione che in quegli anni aveva criticato duramente la funzione docente nell’università (come nella scuola), denunziandone i vizi: l’autoritarismo, l’aristocratismo che abbandonava lo studente nell’anonimato e nell’insignificanza non incontrandolo mai come persona nella sua dignità e nel suo diritto, nella pari dignità personale ed umana; il nozionismo, che mentre lo opprimeva con lezioni cattedratiche e mucchi di libri da apprendere, non giungeva mai al momento dello scambio e della discussione, alla penetrazione e verifica dei concetti compiuta in un lavoro di comune ricerca. La Contestazione aveva sviluppato la critica ma anche il progetto di una università nuova, di una nuova funzione docente, discutendolo nelle assemblee, nei «controcorsi», nei seminari organizzati insieme ai docenti che vi collaboravano.

Il libro si lega però strettamente anche alla consuetudine col pensiero di Heidegger e con la sua ricerca dell’essere, col suo tragico fallimento; con la crisi della ragione moderna; con le aperture della Sinistra hegeliana, sulla quale – dopo aver completato e pubblicato quella prima monografia –  ha lavorato durante un soggiorno di quasi tre anni in Germania con una borsa Humboldt di ricerca (Karl Löwith aveva in tal senso aperto il cammino con gli studi del suo Von Hegel zu Nietzsche e con la preziosa antologia Die  Hegelsche Linke, rispettiv. Zürich, 1941 e Stuttgart, 1962).

 

 

2.1. L’esperienza immediata e quotidiana

 

Tutta questa vicenda, segnata da una profonda alienazione, vicenda distruttivo-autodistruttiva che sbocca nel nulla, ha persuaso Colombo che il cammino giusto fosse quello di rifarsi all’esperienza immediata e quotidiana,  propria dell’essere e vivere di ognuno (superata l’accusa heideggeriana d’inautenticità, il disprezzo filosofico moderno e di sempre). Esperienza caratterizzata anzitutto dall’incontro con le cose e con le persone, dall’aver a che fare e darsi da fare con esse (ma la parola «cosa», nel suo senso generalissimo, comprende anche la persona). Incontro nel quale le cose sono esperite, c’è un contatto d’essere, tra esseri; sono, come noi siamo, o altrimenti l’incontro non ci sarebbe; e c’è una «presa» noetica (la parola generalissima) da parte nostra sul loro essere e modo d’essere; di presenza e contatto, e di forma, di potenziale e poi attuale concettualità. L’essere, la forma; estìn, tì estin, diceva Aristotele nel suo caratteristico essenziale linguaggio. Il punto in cui Heidegger si smarriva, avendo già smarrito coi moderni il senso dell’essere. Il punto semplice, che ognuno esperisce, ogni giorno, ogni momento, vivendo con le cose, stando tra esse e operando con esse. Così quando s’alza al mattino, indossa gli abiti, beve il caffè, bacia la moglie e il bimbo; quando poi siede al tavolo, tiene tra le mani il libro, con la matita lo annota. L’incontro con le cose poi è globale, un mondo di cose, un cosmo; con la cosa singola è incontrato il cosmo, nel quale è la cosa; mentre sfoglia e annota il libro egli vede dalla finestra la piazza, intravede la città, vede il cielo limpido, lo splendore del sole. Ed è un incontro di tutto l’uomo, non la mente soltanto ma il corpo e i sensi, e l’immaginazione e l’emozione, e la volontà-amore.

Questo fondamentale senso dell’esperienza immediata e quotidiana pervade questo libro e resta poi sempre. Il valore dell’uomo semplice, l’uomo del popolo, del suo pensare; che non può esser ridotto senz’altro alla doxa, all’opinione corrente e illusiva, se si riflette sulla serietà del vivere, sugli essenziali problemi che vi s’impongono: l’amore, il lavoro, il dolore, la vita, la morte. Sì che dev’esser rifiutata ogni forma di elitismo, di arroganza intellettuale, disprezzo per il cosiddetto «uomo comune». In particolare deve rifiutarsi l’alienazione filosofica che nell’escogitazione si smarrisce in forme mitiche: così se si pensa all’agostiniana «città di Dio» in cui solo una piccola minoranza si salverebbe, mentre l’intera umanità sarebbe «massa dannata»; o se si pensa alla «monade» leibniziana, all’onnicomprensiva «Idea» hegeliana. In particolare l’alienazione teoretica, che riduce le cose ad apparenza, mero oggetto di ragione; il soggetto e il suo oggetto, o la relazione soggetto-oggetto. L’alienazione teoretica è per eccellenza il vizio del filosofo occidentale: già nel pensiero greco delle origini, da Eraclito in poi; in Platone la contemplazione dell’idea. In Aristotele la contemplazione pura, disimpegnata, inutile («non per un qualche uso», «una qualche altra utilità»), aliena dall’azione, si adempie in se stessa (p. 72 ss.).

 

 

2.2. Il filosofo cioè l’esperto nella ricerca di senso

 

Il Destino del filosofo si presenta come un prolegómenon, un discorso previo; non nel senso   kantiano, previo «ad ogni metafisica che in futuro possa presentarsi come scienza»; ma un discorso previo «ad ogni filosofo che vorrà essere filosofo». Anche se la parola stessa, così come si consacra in Platone, è già inquinata teoreticamente nel senso dell’amore del sapere, la contemplazione dell’idea, pur divina; in Aristotele sarà semplicemente la scienza. Rispetto alla pregnanza della parola più antica, che percorre tutta la ricerca delle origini, il sophòs, l’esperto, colui che ha complessamente esperito: nella polis, nel suo nomos (è spesso legislatore e giudice), nell’ethos, nella techne che porta all’epistême (si pensi a Talete, a Pitagora), nell’aretê, nell’eusébeia. Pitagora deve ritenersi una figura esemplare, pur nella sua collocazione aristocratica (cfr. p. 40 ss.).

Il filosofo è «l’esperto nel senso delle cose», «l’esperto nella ricerca di senso». Intendendo per senso l’essere e modo d’essere della cosa che nella presa su di essa s’illumina; la cosa s’illumina nel suo essere e consistere, e nella struttura coerente per cui consiste ed è; è quella cosa. Onde ha senso. Perciò la sua verità, quell’illuminarsi del suo proprio essere nella presa conoscitiva, per cui è nota, essa e non altra, non un mero vano apparire, un’apparenza illusiva, un inganno; o una finzione della mente, della fantasia. Senso, verità, essere. Dall’illuminarsi della struttura si efforma il concetto; mentre l’essere non è concettualizzabile, ma solo termine di quel contatto e presa esperitiva di cui già sempre si è detto.

Il filosofo è dunque l’esperto nel senso dell’uomo, dell’esistenza, senso della vita e della morte, del piacere e del dolore, dell’amore; senso del dovere, del vincolo etico che astringe la libertà finita; senso della società e polis, della legge che la sostanzia; senso della storia nella sua  vicenda; senso della natura cui l’uomo appartiene essendo un ente di natura, la grande madre; senso e mistero del Dio che sta alle radici del suo finito essere, il quale per se stesso e sé solo è nulla. Esperto in questi sensi, in alcuni di questi, in altri; in quelli su cui la sua esperienza e la sua ricerca s’impegna. In alcuni pochi su cui s’è impegnato, su cui s’impegna ancor sempre, nella finitudine del sapere umano, nel suo continuo farsi. Sa un poco, che può anche bastare per l’armonia e l’armoniosa costruzione della persona e del suo mondo, cui è proteso; per l’azione cui il sapere è volto; per il suo servizio agli altri, l’impegno sociale. Sa mentre ancora sempre esperisce, prova, ricerca. «Sa di non sapere», il molto che ancor sempre gli resta sconosciuto.

Il filosofo, l’amore di esperienza, l’esperto di esperienza e ricerca, onde sa di un sapere modesto e consapevole del suo limite, sempre ancora esperendo e ricercando. La sua dote non è propriamente mentale; non è il raziocinio, che nella noesi stessa ha una funzione secondaria e provvisoria, in ordine all’esplicarsi dell’intuizione e del suo mondo. Ma la dote del filosofo non è propriamente noetica: l’esperienza come incontro, come presa dell’uomo sulla cosa che lo prende, è intera d’uomo. La sua dote è armonica: è insieme sentire, intendere, amare; è capacità d’incontro, di co-essere, con-sentire, con-vivere; così esperire, e nell’esperire ricercare. O altrimenti la cosa gli sfugge nel suo essere e nella sua verità, diventa mero oggetto della mente, proiezione e finzione del pensiero. Gli sfugge la realtà umana e «gli altri» si eclissano, non sono.

 

 

2.3. Il progetto utopico del filosofo

 

Da questa impostazione parte il progetto utopico del filosofo, il progetto di ciò ch’egli dev’essere per rispondere al suo compito, di ciò che potrà essere nel futuro, nel processo di liberazione dell’umanità, costruzione di una società di giustizia; l’utopia essendo il progetto dell’umanità per la sua liberazione, progetto-processo, costruzione orientata da un progetto che sempre si riprogetta. Come si capirà meglio in seguito.

Nel progetto il filosofo si delinea anzitutto – lo si è visto – come l’esperto nella ricerca di senso; e però solo in quanto immerso nella prassi, che è una prassi politica, e rivoluzionaria. Mentre la ricerca dev’essere comunitaria; ed è protesa sull’utopia, sulla costruzione e ricostruzione del progetto utopico. L’opera del filosofo è l’utopia. Un progetto e profilo certamente inusuale.

 

La ricerca si sviluppa sull’esperienza, perciò sulla prassi in cui l’esperienza si compie, di cui si nutre. La prassi umana, che è sì anzitutto il quotidiano essere e vivere tra le cose, nel tessuto sociale e nel mondo, nel cosmo; ma è impegnata nel riordino del cosmo affinché all’uomo corrisponda, al suo bisogno, alla sua dignità e diritto di persona, alla sua crescita personale ed umana; è impegnata nella costruzione della città e polis (quella retta dalla legge); è impegnata nel processo di umanizzazione che è poi l’utopia. È una prassi-poiesi, per se stessa creativa. Perciò il filosofo ha bisogno di prassi, nutrirsi e sostanziarsi di prassi; contrariamente a quanto si pensa è e dev’essere un pratico, per poter essere un ricercatore di senso non alienato; per poter essere un «teoretico», se si vuole, la parola storicamente pregiudicata. Pur conservando la contemplazione il suo altissimo valore.

Che la prassi sia politica è già evidente, poi che si compie nella polis, impegnata nella sua costruzione di sempre; e nella polis si riassume l’intera opera d’uomo. La ricerca di senso del filosofo fa parte di questa costruzione; qualunque essa sia, logica fisica metafisica (parola oggi aborrita) etica; è sempre l’edificio del senso e del sapere della città, in cui la città si forma, si sviluppa la sua azione. In particolare il senso della città stessa, della sua costituzione e legge, della sua gestione, dei problemi che sempre v’insorgono. In questo è impegnato il filosofo, non necessariamente nella gestione politica; teso semmai a che si chiarisca e s’imponga il senso autentico del potere politico e della sua gestione, il potere di popolo, la democrazia diretta;   superando la forma incoativa e riduttiva che dalla modernità in poi perdura, la democrazia mediata e parlamentare, e la partitocrazia che vi si è insediata. Teso all’elaborazione e chiarificazione dei principi etici che della politicità stanno a fondamento, e che le «carte dei popoli» hanno continuamente sancito negli ultimi tre secoli.

Che il filosofo sia per se stesso un rivoluzionario consegue allo stesso modo; se solo si rammenta il carattere poietico della prassi umana, intenta al riordino del cosmo, alla costruzione della città, al processo di umanizzazione; il carattere critico-poietico della ricerca di senso. Che già incide nello sceverare l’esperienza; e ancor più nello sceverare il contesto epocale e culturale, particolarmente l’eredità filosofico-ideosofica. Incide nella progettazione di nuovi sensi e nuove forme della società-storia; dove incontra la resistenza delle forme obsolete o in via di obsolescenza, forme concrete del comportamento: siano esse metodi di ricerca, tecniche del produrre, procedure del diritto, norme del costume e dell’ethos; la resistenza delle strutture in cui tali comportamenti hanno articolato la società, di prerogative e posizioni di potere espresse da tali strutture, detenute da ceti, fazioni, individui; di ordinamenti giuridici che sanzionano tali strutture e prerogative. In tali forme, nella loro resistenza all’innovazione si concreta un potere ingiusto, che rifiuta la corresponsione al diritto della persona, e della società e polis. La costruzione della città è affermazione di diritti, prima negati; il processo di umanizzazione è elisione di forme inumane, che negavano il diritto della persona: così la schiavitù, così l’asservimento della donna. È vero che la rivoluzione, in senso proprio, dev’essere intesa come l’evento eversivo di una globale struttura ingiusta da parte di un movimento di popolo per l’instaurarsi di una più alta giustizia; un evento «cosmico-storico», per riprendere un’espressione hegeliana. Ma quest’evento si protrae poi nell’azione creativo-eversiva di sempre, raggiunge la sua forma più compiuta in qualcosa come una rivoluzione permanente.

La comunità di ricerca è indispensabile alla ricerca stessa, al limite della ricerca individua: la parzialità del soggetto singolo e del suo impianto, la parzialità della sua prassi ed esperienza come della sua poiesi, la facilità con cui il singolo può soggiacere ai sensi acquisiti, alla tradizione ideosofica, può perdersi in altre forme di alienazione. La comunità compensa questo limite attraverso un apporto molteplice, un raffronto, un vaglio, uno scambio continuo. Perciò essa è presente nella ricerca occidentale fin dalle origini, la comunità pitagorica anzitutto, coi suoi sodalizi che si diffondono nelle città di Calabria e Puglia, e anche le gestiscono; tanto vi è forte la componente politica. In seguito nella «scuola», cioè nella ricerca che il filosofo conduce insieme a un gruppo di giovani, che così si formano e crescono alla ricerca e al senso, crescono alla virtù; e con altre persone legate da vincoli di amicizia e di consuetudine. Socrate anzitutto, il maestro e amico incomparabile; poi Platone nell’originaria Accademia, Aristotele nel Liceo, Zenone nella Stoà. Dove il sodalizio di ricerca è anche in certa misura sodalizio di vita. Per il filosofo d’oggi la comunità universitaria; specie là dove l’università è luogo non solo di ricerca ma di convivenza, come nel modello anglosassone; che si va però universalizzando. La componente giovanile e studentesca vi dev’essere pienamente integrata, in un pieno rapporto umano, oltre che culturale; se infatti non viene soffocata nella sua vitalità e creatività, nel suo manifestarsi, vi apporta una forte dimensione di futuro.

L’opera del filosofo è l’utopia: in questo si adempie il profilo-progetto. In termini certo inusuali, come già si è notato. Quest’affermazione, poi, può sembrare incongrua in quanto l’utopia trascende di gran lunga il filosofo e le sue capacità costruttive: poi che è l’opera dell’umanità, della storia umana. Il progetto che l’umanità elabora per la sua redenzione terrena, la società di giustizia, la società fraterna; che va rielaborando sempre nel suo farsi, in forza della sua finitudine come della sua creatività; in un processo millenario; protesa sempre a realizzarlo, fino a che non matura il tempo, inizia la costruzione. È l’opera dell’umanità, la sua opera per eccellenza, la più grande: in cui la città si fa giusta, quindi fraterna, l’uomo si fa umano, più umano. Ma è anche, nell’ambito del processo, l’opera del filosofo, il suo compito: contribuire all’elaborazione del progetto, alla sua comprensione, alla realizzazione. Nel suo piccolo, nel suo limite. E l’intera sua attività vi si comprende: la ricerca di senso, che avviene in quella prassi e ricerca umana che si assomma nell’utopia, prassi politica dell’uomo che vive nella città ed è proteso a costruire la città di giustizia; dove s’inserisce la sua ricerca poietica, creativo-eversiva, rivoluzionaria, s’inserisce nell’evento grandioso delle rivoluzioni moderne tese all’eversione della società ingiusta che ha dominato l’umanità sempre. Il suo modesto apporto, quando non si smarrisce nell’alienazione; là dove la più parte del pensiero filosofico si smarrisce.

 

Si può obiettare che questo progetto sta sotto l’evidente influsso dell’età della Contestazione, di quei decenni, gli anni 1960 e 70; o anche di tutta quella fase in cui in Europa, sconfitto il fascismo, s’impone l’egemonia culturale della classe operaia e del socialismo. Perciò è datato, difficilmente oggi condivisibile. Ma l’obiezione nasce da una considerazione della storia a corto raggio, per decenni; di contro al suo processo, alla sua tensione e protensione, che abbisogna di una ben diversa prospettiva, secolare, se non millenaria. L’evento rivoluzionario si estende per tre secoli, e ancora incombe; la prassi è recuperata al consumarsi della millenaria alienazione teoretica; la tensione comunitaria percorre tutta la modernità, contrastando la prevalente impostazione individualistica dello spirito borghese.

 

Nel Destino del filosofo, come già nello Heidegger, si parla sempre di condizione submoderna. Un’espressione provvisoria, che si riferisce ad una fase di crisi ma insieme di sopravvivenza della modernità: nella volontà-ragione, nel residuo linguistico. Una fase incerta, in cui il principio obsoleto permane tuttavia; un nuovo principio non si è definitivamente affermato. Anche il principio altro che gli corre accanto, l’utopia, ne è spesso inquinato sul piano del processo e prodotto di ragione. In seguito si parlerà di condizione postmoderna e questa espressione s’imporrà nel senso di un’accettazione della crisi, quindi di una ragione estenuata e «debole», incapace di pensiero, di progetto costruttivo e liberatorio (il moderno processo di liberazione diverrà per questi epigoni un grand récit, una grossa favola); incapace di vincoli etici perentori, «categorici» («non uccidere» diverrà un vincolo debole, che non s’impone insuperabilmente alla coscienza, per cui si potrà uccidere); accettazione del residuo linguistico nell’eclissi della ragione (donde il disperato tentativo di un’«etica del discorso» in Habermas). Il postmoderno non è il «dopo», ma ancor sempre la sopravvivenza comatosa della ragione moderna. L’incapacità del nuovo, del salto epocale.

 

 

3. La società postindustriale, la ragione moderna, il processo di umanizzazione

 

Nel frattempo Colombo aveva iniziato e portato innanzi una ricerca sul «fenomeno industria»,  ch’era nata sotto la pressione studentesca, la richiesta di argomenti più vicini ai problemi della società e della situazione; ma rispondeva anche al bisogno di studiare i presupposti «materiali» della crisi, comprendere la vicenda della ragione moderna e della modernità nella sua interezza storica e umana; al bisogno di penetrare ulteriormente il progetto utopico moderno. E in certa misura l’avevano preparata gli studi sulla Sinistra hegeliana, su Marx in particolare. Una ricerca che dura circa dieci anni e porta al volume Le società del futuro. Saggio utopico sulle società postindustriali (Bari, Dedalo, 1978, pp. 666). Anche questa un’opera di grande mole, oltre che di grande impegno.

 

 

3.1. L’azione distruttiva del capitale

 

La vicenda della ragione moderna può essere compresa meglio se si comprende il retroterra storico, socio-economico, in cui si genera. Bisogna risalire all’Umanesimo del ‘400, e in esso non tanto al De dignitate hominis (di Pico della Mirandola come di tanti altri umanisti) in cui si afferma un principio universale, la dignità della persona umana, che animerà tutto l’evo, il suo progetto utopico, il suo processo liberatorio; quanto all’«individuo dotato di virtù e fortuna» in cui quel principio sembra restringersi e frustrarsi; in cui emerge il nuovo portatore storico, l’uomo dotato di virtù imprenditoriale (l’umanistica virtus activa) e di beni di fortuna, cioè di capitale. Dietro l’Umanesimo del ‘400 c’è la borghesia, il suo emergere come ceto egemone dell’evo.

La cui prima grande invenzione è il capitale come fattore dinamico di produzione e di profitto; o meglio il metodo di accumulazione capitalistica attraverso il reinvestimento di una parte del profitto; che gli conferisce una illimite capacità di espansione. Il capitale diventa però abbastanza presto un’entità a sé, attraverso la società per azioni, resasi necessaria all’impresa delle grandi compagnie commerciali; necessaria, in seguito, al macromorfismo dell’impresa industriale; detenuto gestito fruito dall’individuo in forma associata. Tanto che a un certo momento, nella grande impresa, nella corporation, l’individuo quasi si eclisserà, diverrà l’azionista che gestisce in borsa il suo patrimonio di azioni; mentre l’impresa è retta dalla «tecnostruttura» (l’interpretazione di Galbraith, Il nuovo stato industriale, tr. it., Torino, 1968).

Perciò il soggetto moderno, che muove la ragione filosofica nella sua azione di dominio ed elisione dell’essere, e insieme le appartiene, ha dietro a sé il capitale, che muove la ragione tecnica, e soprattutto la ragione tecnologica, nella sua azione di dominio ed elisione di ogni altra realtà e bene, per trasformarla in valore economico; fagocitarla e assorbirla in sé, in profitto, in capitale-profitto.  L’azione distruttiva del capitale si è sviluppata in termini grandiosi anche perché incondizionata, perché non riconosceva altra norma all’infuori di sé, del suo incondizionato profitto ed accumulo; e ciò era ovvio, in quanto la norma non si addice a un’entità materiale; ma non era ovvio, bensì criminoso, perché quell’entità diventava operativa solo in quanto posseduta e gestita da un soggetto, una persona umana, un’associarsi di persone umane.

L’azione distruttiva del capitale si è sviluppata sul lavoro attraverso lo sfruttamento salariale, il ritmo imposto (in particolare il ritmo di macchina), le condizioni ambientali, i materiali e le lavorazioni nocive, la giornata lavorativa. Solo l’organizzarsi sindacale e politico della classe operaia, e la sua lotta secolare, quindi la legge, ha ridotto a poco a poco quest’azione distruttiva; ma non l’ha annullata, e la lotta è ancora in corso. Si è sviluppata in particolare sui lavoratori poveri, sui popoli poveri del Terzo mondo; che sfrutta più a fondo, con più alti profitti, giovandosi del loro basso tenore di vita; di cui distrugge la peculiare cultura immettendovi i suoi prodotti alieni; dilapida il denaro pubblico vendendo armi, sostenendo dittatori ambiziosi e voraci. L’azione distruttiva del capitale si è sviluppata sulla fabbrica stessa come luogo di lavoro inumano, specie nella fase protoindustriale. Sulla città, i quartieri operai, gli slum, i quartieri dormitorio, la cementificazione inarticolata ripetitiva anonima, la bruttezza, la crescita irrazionale e inarmonica. Sulla natura con la dissipazione dei materiali, distruzione di foreste, di specie vegetali e animali, occupazione di terreno agricolo, invasione e cementificazione di spiagge, d’incomparabili bellezze, abbandono di rifiuti, inquinamento e – il fatto più grave, foriero di catastrofi – rottura dell’equilibrio ambientale, delicato equilibrio dell’atmosfera che si altera, effetto serra, stravolgersi del clima, sciogliersi dei ghiacci, intaccarsi della fascia di ozono. L’equilibrio della biosfera, nel quale soltanto può vivere l’uomo. L’azione distruttiva del capitale riagguanta poi il lavoratore e l’uomo nel momento del consumo, cui lo sospinge, lo costringe, gli rapina ciò che ha guadagnato.

Questa incondizionata potenzialità e tensione distruttiva si adempie quando il capitale trova lo strumento che pienamente gli corrisponde: la moderna scienza di sperimentazione, l’altra grande invenzione della borghesia (se così può dirsi), la scienza-tecnologia. Da un lato la capacità d’investire il fenomeno di natura avendone scoperto il comportamento necessario, la legge (sia pure in quei termini statistici che si riveleranno poi); capacità aperta teoricamente su tutti i fenomeni di natura, il cui investimento di fatto avverrà via via in base allo sviluppo della scienza-tecnologia stessa, col conseguirsi di una reale capacità d’investirli. Dall’altro la capacità di riprodurre e produrre il fenomeno calandone il modello in uno strumento calcolato esattamente sulla legge, la macchina; perciò un modello univoco, capace d’indefinitamente riprodursi per identità, e allo stesso modo per identità produrre; capace quindi di una produzione illimite, di una illimite distruzione nel senso detto. Perché il capitale produce sì beni oggettuali e strumentali, ma la sua intenzione si porta sul valore economico da realizzare, ch’è poi ancora sempre capitale-profitto; produce per autoprodursi, distruggendo nel senso detto, risolvendo in sé ogni altro bene. Il capitale ha trovato nella tecnologia lo strumento adeguato alla sua illimite tensione espansiva e insieme distruttiva, poiché si espande distruggendo; come fin dall’inizio è risultato.

Questo valore economico che incondizionatamente si espande distruggendo ogni altro bene, per quanto assuma caratteri di autonomia e di anonimato è pur sempre detenuto e gestito da individui e famiglie, da un ceto, la borghesia; che costruisce così la sua ricchezza e potenza, la gode e la dissipa, in ville barche bische, ma insieme ancor sempre indefinitamente l’accumula. Giungendo talora a gestire anche il potere politico in modo più o meno rovinoso: come nel caso del presidente americano Bush, il petroliere che rifiuta di ridurre i tassi d’inquinamento atmosferico (già troppo alti, enormemente pericolosi) per non intaccare il profitto suo e della sua corporazione, la quale ne ha sostenuto le spese elettorali; o come l’italiano Berlusconi, che con la sua maggioranza parlamentare manipola le leggi in suo favore. La borghesia in senso stretto, la detentrice del capitale, è come tale un ceto immorale fino al cinismo, un quotidiano distruttore, pronto a distruggere l’umanità intera per la propria ricchezza e potenza. Il ceto egemone che l’ha preceduta, l’aristocrazia, che ha dominato l’umanità per millenni, era altrettanto immorale e cinico, e anche passivo e parassitario; ma non possedeva quei due strumenti d’illimite distruzione.

 

 

3.2. Il soggetto-capitale e la ragione moderna come ragione strumentale

 

A questo punto si può forse più adeguatamente comprendere la vicenda della ragione moderna, non più isolata in se stessa, in un percorso soltanto filosofico; ma in un percorso storico globale. Al cui principio sta il soggetto-capitale (come già notavo, la presenza e preminenza del soggetto oscilla nel percorso filosofico; sensibile ad esempio in Descartes, meno in Kant, meno ancora in Hegel), che è altro dalla ragione e riconosce come unica ragione se stesso, la sua affermazione, la sua potenza; è semmai la componente di volontà di cui già sempre si parlava, e che fin dall’inizio si afferma come incondizionata volontà di potenza; mentre emergerà e sarà teorizzato solo alla fine, con Nietzsche. Il soggetto-capitale plasma la ragione moderna come facoltà di dominio, che fagocita e distrugge in sé la realtà – il mondo, l’uomo, Dio – per riprodurla da sé come suo oggetto (ormai soltanto concetti e idee); annienta ciò che essendo altro da sé le si opponeva e imponeva; potendo perciò dissolvere anche la norma morale e la virtù (Kant tenterà poi di ricostruirla per altra via); attribuire alla legge un mero valore «positivo», di convenzione, manipolabile a piacere, poi che non ha un fondamento etico, non vincola la coscienza. È questa l’operazione gregaria del positivismo giuridico. Ma il popolo, attraverso le rivoluzioni, andava elaborando e sancendo delle «carte», stabiliva dei principi e vincoli etici su cui la legge doveva fondarsi. Come si vedrà in seguito.

Il soggetto-capitale si appropria in particolare della ragione scientifico-tecnologica come dello strumento universale atto a realizzare la propria illimite tensione espansiva, produttivo-distruttiva, la propria incondizionata affermazione di valore economico che in sé risolve ogni altro valore. Una ragione strumentale sotto cui sussume l’uomo come lavoro e come consumo, com’esistenza-coesistenza, individuo e società; sussume la fabbrica, la città, la natura. Ma già la ragione moderna, pur nella sua pretesa di dominio, è strumentale; soggetta a un principio che ne fa quello che vuole, poi che non riconosce ragioni; a una incondizionata volontà di potenza. Coinvolta quindi in un contesto, una rete di rapporti, un modello irrazionale che è poi il modello «liberista» o dell’incondizionata libertà dell’iniziativa individua, l’incondizionata libertà del capitale. Un modello non «economico», di gestione razionale dei beni (il nomos), ma «eco-anomico», di anomia, assenza di norma; anarchia, assenza di principio. In questa condizione la presuntuosa ragione moderna in realtà si nega in modo molteplice: in quanto strumento, in quanto asservita a un modello irrazionale, in quanto distruggendo la realtà distrugge anche la propria realtà, il proprio essere. Perciò si estenua e finisce nel nulla.

 

Su questo versante la modernità si rivela intrisa di totalitarismo e di nihilismo; fin dall’inizio, nella tensione di totale assorbimento e distruzione del soggetto-capitale, nell’analoga tensione della ragione. Heidegger lo intuisce – pur essendo lontano dal poter comprendere l’azione e l’essenza del capitale –: l’intero pensiero moderno è volontà di potenza, ed è nihilismo, è «il nulla che annulla». Lo avevano intuito i giovani hegeliani. Così Feuerbach vede l’evacuarsi della natura in «un pensiero estrinsecato», «un predicato del pensiero che pensa se stesso», la cui «realtà» è ancora soltanto pensiero. Dove, annota Marx, «la natura come natura […] è nulla, è un nulla che si riprova come nulla». Dove il filosofo moderno, dice Feuerbach, è «il pensatore», è «una facoltà strappata dalla totalità del reale essere d’uomo e isolata in se stessa»; che pensa «come un monarca assoluto, come un indifferente dio extramondano»; pensa «nel vuoto dell’astrazione». L’«astratta figura dell’uomo alienato che si pone come misura del mondo alienato» – annota Marx – «il pensatore alienato dal suo essere […], i cui pensieri sono coagulati fantasmi dimoranti fuori dalla natura e dall’uomo» (Feuerbach, Vorläufige Thesen zur Philosophie der Zukunft e Grundsätze der Philosophie der Zukunft, ed. Bolin-Jodl, II, Stuttgert, 1959, pp. 238-239 e 314; Marx, Oekonimisch-philos. Manuskripte, MEGA, I, III, Berlin, 1932, pp. 171, 154 e 169).  

Totalitarismo e nihilismo. Le due forme a un certo momento si concreteranno anche a livello politico ed esploderanno in sistemi dogmatico-dispotici, violentemente repressivi e distruttivi, in guerra e sterminio: fascismo, nazismo, comunismo sovietico. Sistemi che saranno annientati o imploderanno. Mentre l’originario principio del processo, il capitale, continuerà la sua azione e anzi la rafforzerà, la svilupperà in termini globali.

La vicenda della ragione moderna si è così dispiegata in un processo più ampio che presenta due livelli, ideologico e pragmatico; dei quali il primo è plasmato dal secondo in ordine al suo dominio. Un’interpretazione che può sembrare di tipo storico-materialistico, e certo dell’esperienza del materialismo storico si avvale; pur senza assumerlo né riconoscerlo come modello interpretativo; tanto meno come modello universale. Già lo stesso Engels, nelle lettere della maturità, lo aveva demitizzato, ricondotto a un utile sussidio per la comprensione della storia, che però deve di volta in volta esser verificato.

 

 

3.3. La società postindustriale e il processo di umanizzazione

 

Veniamo alla società postindustriale, cioè alla società il cui pragma operativo-produttivo, il cui lavoro (in senso globale) non s’incentra più nell’industria perché l’industria, la fabbrica in particolare, è divenuta (o sta divenendo) un grande automa vuoto; la macchina sviluppa la sua autonomia costitutiva, di modello riproduttivo-produttivo del fenomeno, strumento produttivo autonomo che abbisogna solo di materia prima e di una fonte di energia. La sua funzione produttiva non diminuisce ma aumenta, come parte dello sviluppo economico; diminuisce la presenza umana, di lavoro umano; in rapporto, certo, alla complessità delle operazioni (altro è produrre una scatola, altro un’automobile). Ma alla fine le resta solo una piccola frazione di presenza e lavoro umano per certe funzioni residue: di programmazione, controllo, riparazione, stoccaggio del prodotto. E anche nel management dell’impresa, nella struttura direttiva, amministrativa, commerciale, di progetto e programma, il razionalizzarsi e informatizzarsi dei servizi espelle lavoro umano. In questa fase l’industria espelle continuamente lavoro, attraverso pensionamenti e prepensionamenti, disoccupazione (cosiddetta tecnologica), trasferimento nel settore terziario. Daniel Bell, il sociologo americano che negli anni Sessanta per primo individua questo fenomeno, e lo elabora poi in una importante opera (The coming of post-industrial society. A venture in social forecasting, New York,  1973), congettura che come in America il lavoro agricolo in un secolo, tra il 1850 e il 1950, è passato dal 55 al 5%, poi al 3%, diventando affatto marginale, così debba avvenire per il lavoro industriale.

Il venir meno del pragma industriale come pragma prevalente cambia i connotati della società: questo è abbastanza chiaro. Meno chiara è la denotazione del pragma che gli succede. Bell dice pragma di scienza, alla società industriale succede la società della scienza; pragma egemone diventa quello scientifico (o «cognitivo»). In senso stretto: università, istituti di ricerca, servizi di ricerca progetto programma delle imprese di ogni tipo; razionalizzarsi della produzione, dei servizi, dello stato; previsione, programmazione, gestione dello sviluppo. In senso lato: tutto il campo della formazione, informazione, cultura; e cioè scuola, media, istituti culturali, arti. Ma con le arti siamo già fuori dalla scienza, siamo anzi nell’altro dalla scienza: intuizione, immaginazione, emozione. Con le arti, con la scuola stessa, con la sanità, con i servizi in genere (compreso il commercio) siamo piuttosto in un campo in cui hanno un forte ruolo i rapporti umani; in cui più che un pragma di scienza si sviluppa un pragma degli affetti. L’enorme disponibilità di lavoro provocata dall’espulsione dalla fabbrica pone il problema di un potenziamento del settore terziario nel quale è dubbio possa avere un posto preminente la scienza, bensì servizi di grande coinvolgimento popolare come la scuola e la sanità, che potrebbero ulteriormente espandersi; come potrebbe espandersi una formazione e attività culturale autenticamente popolare, che ancora manca, formazione alle arti ed esercizio dell’arte (se si pensa che grandi città hanno oggi una sola orchestra sinfonica e un solo teatro d’opera; che manca ancora la formazione musicale nelle scuole). Il pragma scientifico resterebbe probabilmente egemone ma si potenzierebbe soprattutto il pragma degli affetti.

Avremmo nell’insieme una società più umana. Nella lunghissima fase preindustriale il lavoro era quasi tutto manuale e gravato per lo più da una dura fatica (duro lavoro agricolo, soprattutto), oltre che dalla scarsità dei beni. La macchina lo allevia, assumendo via via porzioni di fatica; lo arricchisce anche di connotazioni tecnologiche, quindi d’intelligenza; e però lo sussume sotto di sé, la sua ripetitività, il suo ritmo, i suoi tempi, il suo macromorfismo (la grande fabbrica, la catena di montaggio); quindi anche lo nevrotizza. Ha una funzione liberatrice ma pure di asservimento, che diminuisce col processo di automazione. Una libertà più alta si prospetta nel pragma scientifico e nel pragma degli affetti, dove la macchina interviene per lo più come strumento, il lavoro si fa più altamente umano.

 

La società postindustriale rientra dunque nel processo di umanizzazione ch’è il processo dell’utopia; come si vedrà. L’apporto della macchina al processo sta in due punti: nell’assunzione del lavoro manuale e del lavoro mentale ripetitivo, che libera l’uomo per la ricerca, la creatività, la vita di relazione; nella illimite capacità di produzione, quindi di risposta al bisogno umano,  superamento della scarsità per una società prospera; ch’è una delle strutture dell’archetipo utopico. Ma il processo è in corso e presenta ancora forti lacune, di lavoro inumano (asservito, sottopagato e nero, infantile, pesante e sordido), d’ineguaglianza, di povertà.

Colombo considera la società postindustriale sotto due differenti ipotesi, di sviluppo e di recessione planetaria. Né poteva essere diversamente, dal momento che il capitale si presentava come fattore per se stesso distruttivo; e con una tensione illimite, come illimite era lo strumento tecnologico. Distruttivo della natura ambiente, in particolare. Marx lo aveva notato. E però è solo nel 1973, in seguito alla prima crisi del petrolio e al primo Rapporto del MIT al Club di Roma, che si apre la discussione sui «limiti dello sviluppo»; sulla contraddizione in atto tra la tensione illimite del capitale e della tecnologia, della produzione e dei consumi, e il sistema in cui opera: il pianeta, le terre coltivabili, le foreste, le specie vegetali e animali, le materie prime, la capacità di assorbimento di scorie rifiuti inquinamento. Una tensione illimite in un sistema finito, che non può reggerla; la contraddizione palese, il dissesto del sistema; che ormai è già avanzato e difficilmente recuperabile.

Colombo tocca alcuni punti nodali dell’ipotesi di sviluppo, in particolare la liberazione del lavoro, vista nel lavoro stesso (non al di fuori, come taluni pensano), nella sua corresponsione alla persona, in cui la persona si adempie, in cui si attesta nella società, nella cooperazione sociale, nella grande intrapresa umana. Accanto al lavoro le attività elettive, in cui si esplica la molteplice potenzialità della persona. Quindi l’ozio nel suo senso nobile, latino, in cui si collocano anzitutto le forme elementari dell’essere-coessere, del vivere-convivere, l’amicizia, l’amore, la famiglia; ma anche i molteplici ulteriori interessi; e infine il riposo, lo sport, il gioco. Il quale però trapassa nel lavoro stesso, il lavoro-gioco, quando raggiunge una piena corresponsione alla persona, e quindi la spontaneità.

 

L’ipotesi di recessione planetaria si sporge su quello che si presenta, forse, come il più probabile futuro dell’umanità. E un suo affrontamento prospetta difficoltà enormi perché deve rovesciare interamente la tensione illimite che cozza contro il sistema finito e ne minaccia la rottura irreparabile; la tensione del capitale individuo, il soggetto-capitale, il capitale-profitto, la potenza che domina il mondo. Sostituirvi una gestione razionale e insieme solidale del sistema uomo-natura; che miri al riequilibrio del sistema natura, e al riequilibrio del sistema uomo in armonia con la natura. Il progetto comprende due decisioni di partenza: per il risparmio, per l’equità (il risparmio non deve avvenire a danno dei poveri, dei popoli poveri); quindi una serie di stabilizzazioni: popolazione, alimenti, terreni agricoli (non più intaccabili), risorse non rinnovabili (che in un’economia di risparmio, con tecnologie di risparmio e tecnologie sostitutive, diventano praticamente inesauribili), sistemi di natura di ogni tipo, equilibrio ambientale. Egli non parla tuttavia di «stasi» o di «stato stazionario», ma di «crescita controllata»; e non soltanto in senso culturale ed etico-politico, ma anche economico, in quanto vi opera pur sempre la creatività umana, il lavoro, la tecnologia. Un punto di delicata apertura.

La prospettiva della recessione planetaria, abitualmente occultata dal potere capitalistico e dagli altri poteri a lui asserviti, quello mediatico e quello politico, esalta il processo utopico perché senza un riassetto etico, sociale, politico, senza la società giusta e fraterna l’umanità non potrà salvarsi. Nello stesso tempo ne evidenzia le difficoltà, in particolare la demolizione del capitale, della sua potenza.

 

 

4. L’utopia, la sua rifondazione in senso storico, la costruzione della società di giustizia

 

Nel novembre1982, il gruppo di allievi e collaboratori che con Colombo fin dal ‘73 avevano formato una comunità di ricerca, si costituisce in Gruppo di ricerca sull’utopia e viene in seguito riconosciuto come Centro interdipartimentale. Trasferisce la sua attività in questo campo e vara due iniziative: i Convegni utopici internazionali ad anni alterni, necessari per la verifica delle posizioni raggiunte, per il confronto e lo scambio con altri studiosi; la Collana di studi e testi «L’utopia – Per una società giusta e fraterna» (prima presso Angeli, Milano; poi definitivamente presso Dedalo, Bari). Dall’82 parte per Colombo un lungo periodo di studi utopici che avrà un primo esito importante nel 1997 con la pubblicazione del volume L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia (Bari, Dedalo, pp. 454), la sua opera più significativa.

 

 

4.1. Il paradosso dell’utopia letteraria

 

L’intuizione che l’utopia dovesse intendersi come progetto storico, e non solo né prevalentemente come progetto filosofico-letterario; non il progetto elaborato da un autore, ma quello che l’umanità elabora e porta poi a graduale realizzazione lungo la sua storia, per la sua redenzione terrena; questa intuizione era presente fin dal Destino del filosofo; e ancor più nelle Società del futuro (v. pp. 20-21, 51). Ma era un’intuizione elementare, non scientificamente elaborata e fondata. Entrando negli studi sull’utopia, e quindi anche in contatto con gli studiosi dell’utopia, con quella che può dirsi la comunità utopica internazionale, egli scopre che quel campo è interamente occupato dall’utopia letteraria, che quello è il senso della parola, universalmente acquisito. Nessuno pensa a un’utopia storica; al punto che il semplice parlarne provoca incomprensione e fraintendimento; persino ilarità, come di una strana idea. Anche perché gli studiosi dell’utopia sono nella quasi totalità letterati. Le storie dell’utopia, quelle più vicine a noi, della seconda metà del ‘900, che segna anche un rinnovato interesse per questi studi, sono dedicate all’utopia letteraria. Così in Italia il piccolo volume di M. Adriani, L’utopia, Roma, 1961; in Francia Histoire de l’utopie, Paris, 1967 di J. Servier; Voyages aux pays de nulle part, Bruxelles, 1979, del belga R. Trousson; Utopian thought in the western world, Oxford, 1979, di F.E. Manuel e F.P. Manuel, l’opera più ponderosa. Esse riservano tuttavia qualche paragrafo o capitolo a movimenti di salvezza come il messianismo ebraico, l’apocalittica e il millenarismo, l’«utopia cristiana»; a movimenti rivoluzionari come la Guerra contadina del 1524-25, alle rivoluzioni moderne (i Manuel alla sola Rivoluzione inglese, ma con la vecchia espressione Civil war, scettici sulle rivoluzioni; Servier alla Francese e alla Russa); ma solo per rilevarvi la presenza d’idee utopiche analoghe a quelle letterarie, o anche il tentativo di realizzarne alcune.

Proprio da queste presenze parte la riflessione di Colombo: il fatto che quegli autori trovino le stesse idee in libri e in movimenti, ma non si accorgano che nei movimenti si disegna un’altra storia dell’utopia, di ben altra portata: se si considera che il messianismo ebraico coincide con almeno otto secoli della storia di quel popolo; che cristianesimo e millenarismo si sviluppano per duemila anni e coinvolgono popoli e continenti; che le rivoluzioni moderne trasformano l’Europa e poi, universalizzandosi il processo, l’umanità. Non si accorgono, quegli autori, dell’incomparabilità tra libri e movimenti di popolo, tra una corrente filosofico-letteraria e una storia di civiltà. Non sospettano che sotto i progetti dell’uno o dell’altro autore, o accanto ad essi, scorra una progettazione ben più imponente, elaborata e portata da movimenti di popolo, decisiva per l’umanità. Da questa riflessione parte la ricerca volta a ricostruire quest’altra storia, questo particolare percorso della storia umana.

Una ricerca lunga e laboriosa che si protrarrà, come si è detto, per quindici anni, e dura tuttora. E però l’itinerario di partenza era già abbozzato nell’autunno dell’84, e Colombo lo presenta nella relazione base del primo convegno utopico organizzato dal Gruppo, 1984: Utopia e distopia; suscitando forte opposizione. Lo pubblica poi nel volume che da quel convegno proviene, da lui curato, Utopia e distopia (Milano, Angeli, 1987: L’utopia, il suo senso, la sua genesi come progetto storico, pp. 129-162). In seguito egli ricostruirà il sottile filo di penetrazione dell’utopia storica che corre lungo il ‘900, in tre studiosi tedeschi che portano in sé la tensione utopica del messianismo ebraico: Karl Mannheim, nel quale per la prima volta l’utopia emerge come fattore di storia, il fattore creativo-eversivo, di contro all’ideologia che è il fattore di conservazione (Ideologie und Utopie, Bonn, 1929); Martin Buber, i pensieri sparsi nel piccolo libro Sentieri in Utopia, la giustizia su cui si protende l’intera tensione della storia (Heidelberg, 1946); Ernst Bloch, per il quale l’utopia non è più solo un fattore ma un «processo», l’intero processo della storia umana, anzi della realtà intera, a partire dalla materia; che porta a forme sempre più complesse e coerenti; fino all’uomo, alla società, alla civiltà, alle sue espressioni molteplici; fino al superamento di ogni alienazione e contraddizione. Il principio speranza, l’opera grandiosa e farraginosa, il cui vizio di fondo sta nell’apriorismo del modello storico-materialistico in cui Bloch forza la storia; modello oltretutto obsoleto (Frankfurt a.M., 1953-59). Un filo sottile, dunque, il cui antefatto stava in quell’osservazione di Marx ed Engels nella critica del socialismo «utopistico»: che un progetto che possa trasformare la società non può uscire bell’e fatto dalla testa di un autore ma deve elaborarsi nella dinamica storica in cui quella società realmente si trasforma (Manifesto, III, 3; ripreso in Anti-Dühring, Introd., I – MEW 4, 489-90, 482; 20, 17-18).

Bisognava dunque ricercare nella storia, individuarvi e ricostruirvi un autentico percorso storico; un percorso coerente in cui si elabora il progetto, si sviluppa il processo liberatorio.

 

 

4.2. I  movimenti di popolo, un percorso e progetto storico, la società di giustizia

 

La ricerca porta Colombo ad individuare due grandi filoni di movimenti di popolo, i «movimenti religiosi di salvezza» e i «movimenti rivoluzionari moderni»; cioè da un lato il messianismo ebraico, l’annunzio evangelico, il millenarismo, l’eresia medievale e moderna; dall’altro la Rivoluzione inglese, la Francese, il movimento operaio, il socialismo, la Rivoluzione russa, la Contestazione degli anni 1960-70.

Un percorso di circa tremila anni di cui il messianismo ebraico prende l’intero primo millennio (se le sue prime voci risalgono all’età davidica: così l’oracolo di Nathan a David in 2Samuele 7, 1; 1Cronache 17). Su di esso s’imposta l’annunzio evangelico all’inizio dell’era volgare e cristiana; mentre il millenarismo parte anch’esso intorno all’era volgare (il «millennio» compare espressamente per la prima volta nell’Apocalisse di Giovanni, 20, 2-7) e pervade il medioevo come l’evo moderno; l’eresia medievale s’inserisce subito dopo il Mille, si distende per cinque secoli, si continua nell’eresia moderna. Trapassa nei movimenti rivoluzionari attraverso il puritanesimo inglese, un movimento religioso e politico insieme; che trasferisce nel politico il progetto religioso e scatena la prima delle rivoluzioni.

Questa continuità tra movimenti religiosi e rivoluzionari può sembrare anomala all’opinione corrente che considera le rivoluzioni avverse alla religione; ma non è così. In particolare la prima delle rivoluzioni moderne, l’Inglese, animata dal puritanesimo, è profondamente religiosa; la Rivoluzione francese è anticlericale ma non irreligiosa, avversa alla chiesa gerarchica in quanto parte integrante del sistema monarchico-aristocratico, sistema di potere discriminativo e oppressivo, ch’essa combatte e demolisce. La Rivoluzione russa è certo irreligiosa ed atea ma per motivi analoghi; la famosa espressione «religione oppio del popolo», che si formula nell’ambito dei giovani hegeliani, allude all’operazione ideologica con cui il potere ecclesiastico induce il popolo oppresso alla rassegnazione con la prospettiva del compenso celeste.

La ricostruzione di questo percorso storico è importante perché individua nella storia un itinerario coerente, quindi un senso; ritrova nella storia un senso che la sottrae alla superficiale impressione di casualità ed erranza, quindi allo scetticismo e pessimismo in cui si tormenta oggi molta parte dell’umanità. In una visione globale si può dire che questi movimenti sono portatori di un progetto utopico che è il progetto di una società di giustizia; più oltre di una società fraterna.

 

La giustizia, sia pure in altro contesto, aveva già avuto un ruolo forte nella fase preistorica dei miti utopici, nel mito aureo, di un’età dell’oro ai primordi dell’umanità; almeno nell’elaborazione dei poeti, Esiodo anzitutto, Catullo, Ovidio.  Ma si presenta poi come la categoria dominante del messianismo ebraico; il quale s’incentra nelle fase profetica che va dal 750 circa a.C. (Amos, Osea, i primi profeti) all’età alessandrina (il Deuterozaccaria è l’ultimo, verso il 312), ma – come si diceva – pervade tutto il millennio. Così in Geremia il «messia», il consacrato, ha nome «Jahvéh-nostra-giustizia»; e lo stesso nome ha la sua città (23, 6; 33, 16). Anche in Isaia essa ha nome «città-giustizia» (1, 26), e il tema del ristabilirsi del diritto e della giustizia vi è fortissimo. In tutto il profetismo il «messia» è annunziato come colui che farà giustizia al suo popolo, liberandolo dalla schiavitù dei grandi imperi che da secoli l’opprimono (dal 722, la caduta di Samaria, ininterrottamente): l’impero assiro, babilonese, persiano, alessandrino, romano. E come colui che costruirà una società di giustizia, in cui non vi saranno più né tiranno né oppressore; in cui i deboli – il povero, l’orfano, la vedova, le figure ricorrenti – saranno protetti. Ed è pure significativo, forse, che la figura profetica e carismatica che diede inizio al movimento essenico si chiamasse Maestro di giustizia. Né, in tutto il messianismo, si trattava soltanto della giustizia nel fondamentale senso biblico della trascendente perfezione di Dio in sé e in rapporto alla creatura; cui è proteso ad assimilarsi l’uomo di fede; ma proprio anche della giustizia come corretto rapporto tra gli uomini, nella società e nella città.

 

 

4.3. La giustizia, il suo senso

 

Rapporto corretto. Che cioè corrisponde alla dignità e al diritto della persona umana. Questo il senso che andava emergendo e in cui s’illuminava la giustizia. Non un senso qualunque, come taluni dicono: che cioè in fondo la giustizia non ha senso perché nel tempo è stata intesa in molti modi: bene, ma allora questi modi siano confrontati e discussi. Corresponsione alla dignità e al diritto della persona, di ogni persona ad ogni persona, nel suo essere e coessere. Essendo la persona costitutivamente un coessere; in quanto essere di specie, modello che si riproduce indefinitamente per identità, si sviluppa in nuclei associati (ma non di specie soltanto, bensì di specie-spirito: Colombo pensa che questa parola, oggi occultata, debba esser ripresa con forza). Un coessere strettissimo nei momenti del coito, della gravidanza, dell’allattamento; ma poi ancora sempre nella formazione, nella scuola, nel lavoro, nell’universale cooperare umano. Si sviluppa nei nuclei della famiglia, del parentado; l’amicizia, l’amore; la scuola, l’associazione, l’impresa, la chiesa; nei quali si articola la corresponsione. E infine la polis, che per una cessione di diritto della persona si costituisce come principio di diritto, con la legge e la sua coazione; cui va la corresponsione della persona; come della polis alla persona.

Questo dunque il senso che s’illumina. Se si riprende l’antica definizione di Ulpiano, «constans et perpetua voluntas [egli tratta qui della virtù] ius suum cuique tribuendi», la si ritrova in consonanza con questo senso; solo che s’intenda quello ius suum come proprio della persona in quanto tale, a prescindere da ogni altra sua prerogativa, di possesso, doti di natura e cultura, posizione economica e sociale, ceto. E così lo stato come costruzione e gestione della persona: democratico, non autocratico.

 

Questo senso sarà per certo rifiutato dai postmoderni e postmetafisici, che rifiutano la persona, il suo essere e coessere; o la decostruiscono, sottraendole l’essere, riducendola a «partner del discorso», essendo l’intera realtà ridotta a discorso (la teoria di Habermas), ad «unità narrativa di una vita» (così Paul Ricoeur, Approches de la personne, «Esprit», mar.-apr. 1990, pp. 115-130). Ma i postmoderni non sono che i desolati residui della crisi, di cui s’è parlato a lungo. E così Rawls, con la sua pseudoteoria della giustizia, la finzione mentale del patto, una giustizia fatta di libertà e d’ineguaglianza, la teorizzazione ideologica del sistema borghese.

Impostata dunque la giustizia come corresponsione alla dignità e al diritto della persona, fattori suoi costitutivi si rivelano essere la libertà, l’eguaglianza, la solidarietà. La libertà, il fattore primo e coessenziale, la dignità della persona consistendo nella sua autocoscienza, autodecisione, autocostruzione, autonomia; dove prende corpo il suo diritto, nel quale nessuno può interferire, cui ognuno deve corrispondere; sia pur nel vincolo etico che avvince ognuno. L’eguaglianza, cioè l’eguale dignità e diritto di ogni persona in quanto tale; e però con tutto ciò che questa dignità e diritto comportano in beni materiali, beni spirituali e culturali, beni sociali. La solidarietà ch’è nel coessere, cooperare, nella grande intrapresa umana in cui soltanto la persona può crescere e costruirsi sino al livello storico dei bisogni e della cultura; la necessaria corresponsione di ciascuno, l’impegno operoso di tutti.

 

 

4.4. Il progetto popolare implicito

 

Si può dunque dire che col messianismo ebraico s’imposta il progetto di una società di giustizia per l’umanità; perché la prospettiva è universale, la salvezza si estenderà a tutti i popoli della terra. E non è solo progetto ma profezia, è inteso come un evento che nel futuro si realizzerà. Il prosieguo di questo percorso storico lo conferma.

Emerge però una considerazione previa, quello che Colombo chiama «progetto popolare implicito». Un’ipotesi, anzitutto. Riflettendo sulla condizione popolare di sempre, fino a tempi recenti: condizione di duro lavoro (contadino, per lo più), scarsità, ignoranza e analfabetismo, sprovvedutezza di fronte ai mali della vita (malattia e morte, i tre classici flagelli di «peste, fame, guerra»), dipendenza sfruttamento oppressione; sotto la ricchezza e il potere dei pochi, il privilegio, la discriminazione; più oltre l’asservimento, la schiavitù. Condizione d’ingiustizia, in cui la dignità e diritto della persona è menomata, conculcata; sotto la quale il popolo non soccombe – come taluni pensano – ma sviluppa una coscienza e una tensione verso la giustizia ch’è dimostrata da tre ordini di eventi: la rivolta popolare, presente in tutta la storia umana; i processi di democratizzazione in cui il popolo rivendica il suo potere politico, il diritto alla gestione della città (è il caso di Atene, della Roma repubblicana, dei Comuni medievali); le rivoluzioni moderne, nelle quali il popolo sviluppa non solo la più potente forza propulsiva ma anche la più alta progettualità (si vedano i Dibattiti di Putney nella Rivoluzione inglese, le istanze delle Sezioni del Comune parigino nella Francese).

Un’ipotesi, dunque, che non è più solo tale. Per cui si può dire che l’umanità intera in tutta la sua storia persegua la giustizia, la società di giustizia, mentre vive e soffre nella società ingiusta; che questa tensione a un certo momento emerga e si formuli nel progetto messianico, le cui strutture sono appunto la giustizia nel senso detto, la pace (anche col mondo animale), l’unificazione dei popoli dalla dispersione e conflittualità di sempre, la prosperità. Si sviluppa in quella catena di movimenti di cui si è detto, in un processo che parte dal vicino Oriente e si trasferisce poi in Occidente; ma ha dietro a sé una coscienza e tensione planetaria, appartiene all’umanità intera.

 

 

4.5. Ripresa sui movimenti religiosi di salvezza

 

Il millenarismo si genera dall’attesa messianica, dal suo esasperarsi nella fase apocalittica degli ultimi secoli; e trapassa poi nel cristianesimo come attesa della seconda e gloriosa venuta del Cristo, e di un millennio di giustizia, di pace, di prosperità con cui saranno premiati quaggiù gli eletti, sarà premiata la loro fede e la loro sofferenza prima dell’ingresso nella gloria. Un movimento poco noto, ma che corre poi lungo tutta l’era cristiana e raggiunge la sua più forte espansione nell’800 americano. Il suo progetto è lo stesso del messianismo ma con una più forte valenza terrestre e materiale; e con una metamorfosi mitica, poi che certo l’idea del millennio è mitica. Ha però una forte presa popolare, su quel popolo che, immerso nell’ingiustizia, sospira verso la liberazione e, proprio nell’attesa del millennio, nell’imminenza che incombe, a tratti si scatena nella rivolta, nella rabbia contro i padroni, nella distruzione dei loro ingiusti beni. Un’ulteriore riprova del «progetto popolare». Anche perché il millennio è riservato ai giusti ed eletti, che sono poi i poveri; mentre gli empi vengono annientati nella battaglia escatologica.

 

L’annunzio evangelico (non si parla qui di cristianesimo in quanto lo si ritiene un fenomeno troppo complesso e contrastato, e degradato) riprende il progetto messianico; anche se la parola giustizia vi è poco presente, e per lo più in quel trascendente senso biblico di cui si è detto. Lo riprende con forza nel rifiuto dei due fondamentali fattori della società ingiusta, la ricchezza e la potenza; che fin dall’inizio compaiono come forme del male (nell’episodio delle tentazioni: «i regni del mondo e la loro gloria»: «tutto questo potere è stato dato a me e io lo do a chi voglio», dice il diavolo, Matteo 4, 8; Luca 4,6). La ricchezza espropriatrice, quella che sfrutta, accumula, discrimina; non certo l’universale prosperità umana. Il vangelo è annunziato ai poveri, la beatitudine è del povero; ed è poi la sua redenzione anche materiale, come accade nella primitiva comunità gerosolimitana descritta dagli Atti, la più vicina all’evangelo, dove i beni vengono distribuiti a tutti; sì che «nessuno più tra loro era indigente» (2, 42-47; 4, 32.35). Il ricco non può entrare nel regno, cioè nella società di salvezza, la società fraterna; «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli», l’espressione famosa, fortissima nel paradosso; la quale però non è un’espressione isolata ma un tema che corre lungo tutto l’evangelo.

L’atteggiamento verso i potenti è simile, i «grandi del mondo», «che tiranneggiano le genti» e «sono chiamati benefattori» (Luca 22, 25 e parall.); «voi però non così, ma chi vuol essere grande tra voi sia il vostro servo» (Marco 10, 43; Matteo 20, 26). Anche questo un tema: ogni forma di preminenza, di potere intellettuale e sociale è rifiutata, farsi chiamare signore o maestro, prendere i primi seggi nelle sinagoghe, i primi posti a mensa. Ogni prerogativa dev’essere intesa soltanto come servizio ai fratelli.

Emerge così l’annunzio in cui l’evangelo accoglie sì il progetto messianico ma insieme lo trascende: il rapporto fraterno, la legge dell’amore. Il tema più alto, il più proprio dell’evangelo, su cui interamente si sviluppa il più importante discorso programmatico che vi sia contenuto, il «discorso della montagna»; tema particolarmente presente poi al vangelo di Giovanni, ai discorsi e colloqui ch’egli copiosamente riporta; alle sue lettere. Per cui si può dire che l’annunzio evangelico accolga sì il progetto messianico della società di giustizia, ma lo trascenda nella società fraterna; che a questo punto il progetto dell’umanità per la sua redenzione terrena sia impostato in queste due forme, la società di giustizia, la società fraterna. Impostato, non definito; neppure compreso, se non incoativamente. Non come i progetti letterari che tutto fissano, tutto stabiliscono; per un futuro che non conoscono, per un’umanità ch’è sempre un farsi creativo, ed è insieme sempre limitata e finita. Perciò un progetto che si dovrà sempre ricomprendere, sempre riprogettare.

Nell’evangelo è annunzio di ciò che viene, è fondazione («fonderò la mia ekklesía», la mia comunità assembleare) e costruzione comunitaria. Un inizio. Che però, nell’altezza della sua prefigurazione fraterna e amorosa, viene presto alterato in quella stessa società che avrebbe  voluto trasformare; si sviluppa una struttura gerarchica le cui tracce sono già evidenti nelle Lettere pastorali, le ultime del corpo paolino; struttura che si potenzia nella decadenza dell’impero, assume una funzione vicaria dell’impero stesso, finisce per assimilarsi al modello imperiale che a un certo punto essa stessa ristabilisce: il papa un imperatore e superimperatore, da cui proviene l’investitura del nuovo impero; i vescovi principi; il tutto concluso nella feudalità. Una struttura che nella sua sostanza autoritaria permane tuttora; struttura di potere assoluto.

 

L’eresia medievale (a parte la parola: si dovrebbe piuttosto parlare di comunità ecclesiali alternative) altro non è che il tentativo di riprendere l’annunzio evangelico nella sua autenticità, la comunità ecclesiale nella sua originaria purezza; in una fase di forte degrado della struttura ecclesiastica, quella fase che dalla seconda metà del primo millennio si trascina fino alla Riforma; la cui desolante vicenda è nota. Perciò suo carattere preminente è la povertà (i poveri di Lione, di Arnaldo, i poveri di Lombardia); o anche lo «spirito» (in Gioacchino da Fiore e in tutta la corrente «spirituale»); e il laicato, cioè il rifiuto più o meno forte della gerarchia per una comunità fraterna, ciò che le provoca l’avversione della gerarchia stessa, la persecuzione feroce. Dal primo di questi movimenti, la Pataria milanese, del 1056, ch’è una rivolta popolare contro un clero mondano e corrotto, si snoda una catena di movimenti, sempre annientati, sempre risorgenti; che giunge fino a Wyclif e ai suoi «poveri preti», a Hus, al Bundschuh, al 1517, l’anno delle tesi di Lutero.

Trapassa così nell’eresia moderna, Lutero appunto, Calvino, le correnti dell’anabattismo, quella hutterita in particolare, la «fattoria fraterna». Il progetto è sempre il medesimo, anche se oscilla sul suo asse. Così non si può dire che Lutero e Calvino prefigurino una chiesa dei poveri, l’uno appoggiato ai principi e feroce avversario della Guerra contadina; l’altro appoggiato alle municipalità borghesi; e però una chiesa di popolo certamente. Ma non importa che il progetto oscilli, importa che sia sostanzialmente lo stesso quando è assunto dal puritanesimo, e diventa progetto politico, scatena la prima delle rivoluzioni moderne.

 

 

4.6. La fase costruttiva, le rivoluzioni moderne, la costruzione della società di giustizia

 

Non vi sono rivoluzioni nella storia prima della modernità; e le rivoluzioni moderne sono quattro, l’Inglese del Lungo parlamento, la Francese, la Russa, la Contestazione degli anni 1960-70. Non vi sono altri movimenti di popolo globalmente eversivi dell’ingiusto potere politico costituito, per costruirne uno più giusto; ché questo, a rigore, è il senso della rivoluzione.

Il progetto delle rivoluzioni è ancora sempre la società di giustizia. Anche se la parola giustizia non ricorre spesso nei dibattiti e documenti, nelle «carte»; vi ricorrono altre parole, libertà, diritto, eguaglianza che – lo si è visto – non sono altro che strutture della giustizia. Compaiono dunque queste strutture della società di giustizia, della sua costruzione. Perché, se la fase dei «movimenti di salvezza» è una fase prevalentemente progettuale, la fase dei «movimenti rivoluzionari moderni» è la fase costruttiva. Inizia la costruzione della società di giustizia; è questo il fatto forse più sorprendente che emerga in questa ricerca: inizia la costruzione, lungo gli ultimi tre secoli avanza, pur tra tante difficoltà, ma risolutamente, sotto l’impulso delle rivoluzioni; è in atto nel nostro tempo. Sì che può dirsi che in questa fase noi abbiamo avuto la fortuna di vivere.

 

Si tratta ora di delineare il processo costruttivo. Al primo posto stanno i grandi principi etici che si affermano nella coscienza moderna: il principio d’uomo, dignità e diritto della persona umana, che compare prima nell’Umanesimo del ‘400, e si sviluppa lungo la modernità; principio su cui si fonda ogni altro. Il principio di libertà e delle libertà (coscienza, pensiero, parola, stampa, azione, associazione), di eguaglianza, di sovranità popolare, nella Rivoluzione inglese. Il principio di ragione e interiorità, il diritto-dovere di agire in forza di una ragione interiore. Il principio di solidarietà, che avanza nella solidarietà rivoluzionaria e operaia, nel processo di unificazione dell’umanità.

Il loro svilupparsi e sancirsi nelle «carte dei popoli», che vanno rinnovandosi lungo tutta la modernità: un tratto tipico di questo processo. A partire dal Patto del popolo inglese del 1647; la Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776; la prima Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; le Costituzioni democratiche dei popoli a cominciare da quella americana e da quelle della Rivoluzione francese; la Carta atlantica, il Patto dell’Onu, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000.

Qui sta il segno, qui il luogo della coscienza etica moderna. Non nel pensiero e negli scritti dei filosofi, spesso alienati, aberranti; specie dopo la crisi della ragione di cui abbiamo a lungo parlato, e che tuttora perdura. Nel rifiuto del fondamento, nell’impotenza a una fondazione, nel rifiuto della verità e della certezza (sia pur finita, ché tale soltanto può essere la verità umana) il vincolo etico perde il suo carattere perentorio, «categorico» secondo l’espressione kantiana; diventa «debole», affidato al consenso preteso universale della «comunità del discorso» (ancora Habermas e il suo improbabile tentativo). Si tratta allora di capire se il vincolo «non uccidere», «non asservire il tuo simile» sia o no un vincolo perentorio, insuperabile; perché se è debole, se non astringe  insuperabilmente la finita libertà umana, l’uomo può uccidere; se non è accettato dalla comunità del discorso potrà uccidere allo stesso modo. E poi quale forza insuperabilmente vincolante sulla persona e sulla sua autonomia può avere la «comunità del discorso»? Se i vincoli etici non sono categorici prevale l’arbitrio individuo e l’uomo è abbandonato al caos sociale. Bisogna sempre ricordare, e risolutamente affermare, che il pensiero filosofico è solo una piccola parte del pensiero umano. 

La Rivoluzione inglese imposta il modello democratico cioè del potere di popolo. Attraverso la legge, che astringe tutti, anche il monarca e l’aristocratico; il parlamento come organo della legge, parlamento eletto dal popolo, sì che autore della legge sia il popolo stesso attraverso i suoi rappresentanti, sì che nessuno sia soggetto se non ad una legge ch’egli stesso ha voluto; infine un sistema giudiziario unico e valido per tutti. All’inizio la base elettorale è ristretta e una delle due Camere è ereditaria nell’ambito dell’aristocrazia; ma la base si allargherà via via fino al suffragio universale, e quel tipo di Camera resisterà solo proprio in Inghilterra, ma con potere soltanto consultivo; fino ad essere poi soppressa; e questo modello democratico s’imporrà a livello planetario.

Restando però sempre una democrazia rappresentativa e mediata, un potere che il popolo esercita solo nel momento delle elezioni, ogni quattro cinque anni. Perciò il modello è proteso a trascendersi nella democrazia diretta; tensione che si ripresenta costante lungo la modernità, particolarmente nei momenti della creatività rivoluzionaria.

 

V’è una serie di passi ulteriori nella costruzione della società di giustizia. Nella Rivoluzione francese l’annientamento del modello monarchico-aristocratico che aveva dominato, con solo poche eccezioni, l’intera storia umana; le monarchie, gl’imperi, l’inizio epocale della loro fine. Con le rivolte del 1848 i monarchi iniziano a cedere il loro potere alla legge e al parlamento.

Con la Prima guerra mondiale la fine degl’imperi continentali – asburgico, prussiano, russo, ottomano; l’impero cinese era caduto nel 1912, l’impero giapponese finirà con la Seconda guerra mondiale; quando anche gl’imperi coloniali avranno fine, s’imporrà il principio di autodeterminazione dei popoli. L’umanità si è liberata dagl’imperi, che si costruivano asservendo altri popoli; restano le egemonie, oggi praticamente una sola, quella americana.

Ancora nella Rivoluzione francese, nel 1794, viene per la prima volta abolita la schiavitù, che lungo l’800 sarà abolita ovunque: un così vergognoso obbrobrio umano. Dal 1789 inizia l’abolizione della pena di morte, che avrà un itinerario più lungo e difficile. Lo stato non ha diritto di uccidere il cittadino, perché il suo potere si genera da una cessione di diritto del cittadino stesso; il quale, come già spiegava Beccaria, cede solo una piccola parte del suo diritto di persona, nel quale sussiste («minime porzioni della privata libertà di ciascuno», Dei delitti e delle pene, 28). Né l’uomo ha su di sé un diritto di vita e di morte che possa cedere.

Un passo di enorme portata, forse il più grande e decisivo nella storia umana è, lungo l’800 e il ‘900, l’ascesa della classe operaia e della condizione popolare; quella condizione di sempre di cui si è detto, duro lavoro, scarsità di beni, ignoranza e analfabetismo, nuda imprevidenza, sfruttamento, oppressione; attraverso l’associarsi del lavoro nell’industria e la sua lunga lotta; il suo redimersi in dignità del lavoro, dignità del reddito, istruzione, sicurezza sociale, benessere sia pur modesto. La Rivoluzione russa rientra in questa lotta e certo la rafforza, come anche la presenza dei partiti socialisti e comunisti; pur restando ancora molto da raggiungere, a cominciare dalla dipendenza (il contratto salariale), dalla precarietà del posto, dallo sfruttamento.

Col concludersi della Seconda guerra mondiale, caduti gl’imperi continentali e coloniali, il costituirsi di una comunità universale dei popoli, l’Onu (pur coi vizi che la travagliano), segna un forte avanzamento nel processo di unificazione dell’umanità, e quindi nella sua pacificazione. Dalla dispersione, infatti, e dall’estraneità nasceva il conflitto; dall’equivalenza di straniero e nemico; che s’inaspriva nella conquista e nell’asservimento. Il processo viene ritardato dalla formazione dei due blocchi ideologico-politici (comunista e liberale), dalla «guerra fredda»; ma non s’arresta. L’Onu viene fondata espressamente per evitare le guerre, vi si sancisce il principio che i conflitti tra i popoli non devono mai esser risolti con la guerra ma con la trattativa; vi s’instaura una prassi di prevenzione e soluzione dei conflitti. Lungo il secolo la coscienza e volontà di pace si rafforza, lo scoppio di una guerra (a parte certi limitati conflitti etnici) suscita oggi un forte risentimento tra i popoli; la distruzione degli armamenti (fatto nuovo nella storia umana) è iniziata, la riduzione degli eserciti permanenti, si va verso una forza internazionale di pace. Zone pacificate vanno estendendosi nel mondo: oltre l’Oceania e il Nordamerica, l’Europa occidentale, e ora anche l’orientale.

 

La Contestazione degli anni 1960-70 è un evento complesso che copre quasi trent’anni; è la quarta delle rivoluzioni moderne, anche se pochi lo riconoscono; rivoluzione atipica, non propriamente popolare, non eversiva di un ordinamento politico ma profondamente eversiva del costume. Segna la fine della società repressiva, di quella società che anche quando riconosce in linea di principio un diritto, ne impedisce l’esercizio con la pressione del costume, dell’ideologia, della legge; per motivi di privilegio e potere: potere maschile, potere religioso, potere dell’adulto, del «normale», di una razza (parola di uso comune ma d’incerto significato), di un’etnia. La Contestazione segna l’affermarsi del diritto del figlio, del giovane, della donna, del diverso in genere: l’omosessuale, il disabile, il malato (specie mentale: la riumanizzazione della follia in tutti i suoi gradi); la dignità e i diritti del nero in una società di bianchi (in America la grande lotta per i diritti civili, la rivolta negra); i diritti delle minoranze razziali etniche religiose; la revisione dell’etica sessuale,  fortemente repressiva.

Con la crisi del petrolio del 1973 e la discussione sui «limiti dello sviluppo» – di cui s’è parlato – l’aprirsi della coscienza ecologica. La fine dell’idea proterva di un dominio dell’uomo sulla natura: idea insensata perché l’uomo è un ente di natura e non può vivere se non in una natura ambiente che gli corrisponda; quindi l’uso strumentale, l’abuso tecnologico della natura da parte del capitale a scopi profittuali, la distruzione insensata che porta all’autodistruzione. Inizia ora il riconoscimento della natura come principio, inizia la salvaguardia dei sistemi di natura, la ricostruzione dei sistemi danneggiati. Un duro compito, del quale si è pure trattato.

Con la perestrojka, con la fine dei due blocchi contrapposti e della guerra fredda, un nuovo apporto al processo di pace, la pacificazione dell’Europa orientale. E però il crollo del comunismo sovietico, una tragica esperienza, il fallimento di un attacco radicale al sistema capitalista e liberista, porta a un rafforzamento di questo stesso sistema, a una fase incerta nella lotta contro la sua egemonia; anche perché nel frattempo si va riducendo (e in prospettiva estinguendo) la classe operaia, il portatore storico della lotta. Una stasi, un riflusso su questa linea; un’incertezza; mentre il processo avanza su altre linee, come s’è visto.

 

La ricostruzione di questo percorso, questo grandioso processo, la progettazione e costruzione di una società di giustizia, ha bisogno di alcune precisazioni. Il processo costruttivo è in corso da appena tre secoli (dopo millenni di storia umana-inumana); molto si è costruito, molto resta da costruire; enormi scompensi affliggono ancora l’umanità. Il suo corso è eterogeneo nei diversi continenti e popoli; più avanzato in alcuni, arretrato anche enormemente in altri; in Africa, ad esempio. Un corso accidentato, non lineare; se non nella sua globalità; presenta svolte, soste, rientri, riflussi; anche se globalmente avanza. Il processo si sviluppa in Occidente, nella fase costruttiva soprattutto; mentre la fase progettuale è asiatica, nel vicino Oriente. Ma queste collocazioni non sono decisive perché il processo è universale, il suo progetto, le sue strutture, i suoi vincoli etici: società di giustizia, società fraterna; dignità e diritto della persona umana; libertà, eguaglianza, sovranità popolare. Non è che l’uomo possa essere giusto in Occidente e ingiusto in Oriente; o che il vincolo «non uccidere», «non fare schiavo il tuo simile» astringa l’uomo occidentale e non quello orientale. Per quel che concerne la società di giustizia non è in gioco nessuna «occidentalizzazione del mondo» (qui il limite dello studio di Latouche, tr. it., Torino, 1992) ma solo la sua umanizzazione. «Uomo, sii uomo». Costruire un mondo umano, da un mondo ancora troppo inumano.

 

 

4.7. Il senso della storia, il fondamento della speranza

 

A questo punto Colombo raggiunge una ricomprensione altamente positiva della storia. Rigettando con forza la visione scettica e distruttiva che pervade il nostro tempo; e che ha certo delle ragioni contingenti nella storia stessa dell’ultimo secolo, le due guerre mondiali, i crimini efferati del nazismo, del comunismo sovietico (cento milioni di morti, secondo Le livre noir du communisme, Paris, 1997, p. 14), delle dittature sudamericane; i crimini del capitalismo, non certo minori; gli eccidi etnici, quelli del fondamentalismo e terrorismo islamico; le disperate condizioni dei popoli poveri di fronte al noncurante spreco dei ricchi; e immensi altri mali. Ma quella visione distruttiva ha ragioni più profonde e inconfessate nella crisi della ragione moderna, nel distruggervisi della realtà come dei valori e vincoli etici, dell’uomo e della storia stessa; nel nihilismo in cui sfocia. Che coinvolge poi l’intellettualità intera; cui si accodano infine i mass media.

La storia riprende senso, si risensa. In quanto va costruendo il suo senso. Perciò un senso non apriori come nei modelli che invalsero nel passato. Il modello provvidenziale, di una storia condotta e costruita da un principio trascendente; fatta da Dio e non dall’uomo. Il modello razionalistico, di una ragione e libertà indefinitamente espansibile ed espandentesi; modello contraddittorio in quanto la libertà si stacca dalla ragione, o altrimenti viene necessitata e negata; la razionalità induce necessità; modello parziale in quanto non considera le componenti di un’altra necessità, quella di natura, e della casualità. Il modello materialistico, marxiano e soprattutto marxista, che pretende legare la storia al fatto produttivo, dal quale sarebbero «causati» i livelli più squisitamente e altamente umani di società, coscienza, cultura; un modello che amplificava oltre ogni limite il ruolo della base economica e ricadeva nella necessità. Sulla cui linea si poneva Bloch, vanificando la sua grande intuizione.

Invece il rifiuto del modello per un semplice percorso di storia: i movimenti religiosi di salvezza, i movimenti rivoluzionari moderni; il progetto, che tuttavia sempre si riprogetta, né può essere diversamente nella finitudine e nella creatività umana; la costruzione. Dove la storia, l’umanità che fa la storia elabora un progetto e si protende a costruirlo, a costruirvisi; perché il progetto contiene un vincolo etico, un dover essere cui l’umanità sa di essere vincolata: la giustizia, il rapporto fraterno. E così sviluppa un percorso sensato.

Su questa ricomprensione altamente positiva si fonda per l’umanità la speranza, la sua speranza terrena; sul processo millenario e secolare la fiduciosa attesa del futuro. Ridare all’umanità la speranza. Questa categoria è stata pure reintrodotta da Bloch e veniva a compensare l’altra fondamentale Stimmung, fondamentale intonazione dell’esistenza nella sua finitudine, nel nulla di sé, l’angoscia. Kierkegaard l’aveva per la prima volta indicata all’uomo, enucleando qualcosa che tutti nella loro finitudine e nulla sentivano; non potevano non sentire. Ma oltre il nulla v’è l’essere, v’è l’operare; l’essere di un nulla di sé, certo, ma vivamente e intensamente essente e operante; impegnato nella grandiosa intrapresa umana di sempre; impegnato, da un certo punto in poi, a costruire una società di giustizia, una società fraterna.

 

 

5. Ricerche utopiche ulteriori: il diavolo, la società amorosa

 

Dopo L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Colombo ha condotto a termine due ricerche particolari, apparentemente eterogenee, che portano il sovrattitolo Materiali per l’utopia. La prima è Il diavolo. Genesi, storia, orrori di un mito cristiano che avversa la società di giustizia (Bari, Dedalo, 1999, pp. 225); la seconda La società amorosa. Appunti a Fourier per una revisione dell’etica amorosa e sessuale (Bari, Dedalo, 2002, pp. 195).

 

Colombo incontra il diavolo nella ricerca sull’annunzio evangelico dove la sua presenza è forte, ed è quella di un personaggio, non solo di un simbolo; ed è il «principe di questo mondo», che ha assoggettato l’umanità al suo dominio. È tale in tutta la tradizione cristiana ed ecclesiastica. E subito apre un grave problema perché se l’umanità sta sotto il suo dominio la società di giustizia non è possibile; o è possibile solo per quella piccola minoranza di eletti che Agostino chiama «città di Dio», mentre l’intera umanità è «massa dannata». Ma la sua presenza è contraddittoria anche perché introduce nella creazione un nucleo di male insuperabile, che resiste alla potenza di Dio, alla immensa dolcissima forza del Dio amore. Si sospetta subito un fattore estraneo alla coscienza evangelica e biblica (è assente dal Testamento antico), che provenendo da altre culture penetra nella cultura e coscienza ebraica del tempo, quindi nel contesto evangelico. La ricerca ne dimostra la genesi mitica (il peccato carnale degli angeli) e l’ascesa nella letteratura apocalittica; la sua provenienza dalla cultura iranica, dalla rivelazione zarathustriana. Il diavolo è dunque un mito, una figurazione simbolica del male; l’umanità non ha nulla da temere da lui. La ricerca delle radici del male al di fuori dell’uomo, della sua finitudine e fallibilità, è comune nelle culture antiche; ricerca ingenua e insieme deresponsabilizzante; che ha poi conseguenze durissime, come la storia del demonismo cristiano dimostra.

 

L’idea di una revisione dell’etica amorosa e sessuale proviene dalla Contestazione, cui si raccorda gran parte del pensiero di Colombo (lo si è visto). Un’etica fortemente repressiva, che ha le sue probabili radici nella temperie stoica e gnostico-manichea in cui si sviluppa la Patristica (si pensi ad Agostino), e diventa l’etica della società cristiana e occidentale; per il potere ecclesiastico uno strumento di dominio della coscienza e del costume, della legge stessa. Perciò la sua revisione rientra nel moderno processo di liberazione, nella costruzione di una società di giustizia. In tal senso Colombo l’affronta, partendo dall’esperienza della Contestazione e dal grandioso eversivo progetto fourieriano.

Nel quadro etico ch’egli ricompone si afferma anzitutto il principio di dignità e diritto della persona, pari dignità e diritto di donna e uomo; principio di persona di contro al principio di natura che la tradizione ecclesiastica ha sempre anteposto. Principio d’integrazione, dell’amore come integrazione dell’essere umano «dimidiato», diviso nei due sessi; cui consegue il ruolo di sempre del momento amativo, mentre il momento procreativo dovrebbe subentrare solo al seguito di una precisa decisione e programmazione (donde l’uso dei contraccettivi nella gestione razionale dei due momenti in rapporto alla fecondità). Il principio della sessualità come incontro tra persone, perciò mai puramente fisico, mai violento o venale, sempre congiunto ad una misura di amore, anche debole; il principio dell’amore come fondamento del matrimonio, cui consegue il nonsenso dell’indissolubilità quando l’amore vien meno. Il principio dell’indefinita potenzialità di amore della persona, cui consegue l’apertura sulla pluralità dei rapporti amorosi (sempre nel rispetto della dignità del partner, quindi nella mutua consapevolezza e consenso, nella piena trasparenza).

Liberazione non significa anarchia, la libertà umana si esplica sempre nella legge; ma questi principi e vincoli etici disegnano un quadro ampiamente liberatorio; in una comprensione altamente positiva dell’amore, della sessualità, dell’intimità ed estasi fisica, del piacere.