La guerra, la costruzione della pace
di Arrigo Colombo
Quando oggi parliamo di utopia della pace, la parola utopia è intesa nel suo nuovo e più profondo senso di progetto dell’umanità, progetto-processo, costruzione di una società di pace. Progetto e costruzione perseguiti dall’umanità lungo l’intera sua storia, e che si vanno concretando lungo la modernità, il cammino delle rivoluzioni, la modernità più recente, il contemporaneo.
L’utopia è il progetto di società: questo significa la parola che nel «non luogo» indica la società che non c’è, o meglio non c’è ancora, in quanto è il progetto e il costruirsi di una società di giustizia e di pace nella giustizia, i due termini e principi essendo inscindibili poiché non vi può essere pace se non nella giustizia; mentre la storia dell’umanità è dominata dalla società ingiusta, e dominata quindi dalla guerra; e solo con le moderne rivoluzioni inizia la costruzione di una società di giustizia che sarà anche una società di pace. L’opera in cui l’umanità è impegnata.
Perciò non i progetti degli autori, non i progetti mentali, fantastici, irreali; non l’utopia come il bello ma impossibile, la concezione corrente che ancora pervade il pensiero popolare come il pensiero dotto; i progetti degli autori (da Platone a More, a Campanella, a centinaia di altri) essendo un fenomeno accessorio, anche se ricco d’idee e di progettualità; progetti, tuttavia, incapaci di trasformare la società umana. Ma il progetto di pace che l’umanità formula e persegue, e da una certa fase in poi va realizzando. La costruzione della pace (ho sviluppato il discorso della nuova utopia nel volume L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari 1997).
1. Le radici della guerra
Nella visione biblica dei primi undici capitoli della Genesi, un testo fondamentale, forse l’unico che ci offra un abbozzo di storia-mitostoria dell’umanità fin dal suo supposto primo inizio (poiché in seguito, a partire da Abramo, si svilupperà la storia di un popolo, che è Israele), prende risalto quello che altrove ho chiamato il maleficio di Babele. Quella vicenda per cui tra gli uomini, usciti tutti dalla prima coppia adamitica, e poi dalla famiglia noachica salvatasi dal diluvio, «formanti un sol popolo e parlanti una sola lingua», a un certo punto interviene l’incomprensione, e con essa la dispersione sulla faccia della Terra. Questo fatto è attribuito al Dio, a Jahvéh, è un castigo per il loro orgoglio, la loro presunzione di costruire «una torre che penetri i cieli», la previsione che a questo punto «nessun disegno sarà più irrealizzabile per loro» (11, 4-9).
Il testo non è abbastanza chiaro nello spiegare questa collera e questo castigo del Dio. Tuttavia il fatto rientra in quella mitostoria di male, di degenerazione che consegue al peccato, racconto delle conseguenze di quello che si presenta come il primo peccato. I cui punti salienti sono l’omicidio di Caino, la violenza di Lamek, la longevità e vitalità sempre minore dei patriarchi che si succedono nelle due liste, il diluvio come castigo di un’umanità corrotta, e che però resta tale (8, 21); e infine la maledizione di Babele.
Dispersione, dunque, e incomprensione; quindi estraneità, e nell’estraneità l’avversione, estraneo perciò nemico. Dove interviene pure il formarsi dell’identità di un popolo che si afferma come superiorità: giudeo e gentile, disprezzato come adoratore d’idoli, di manufatti, di apparenze; greco e barbaro, «per il greco ogni barbaro è schiavo». Interviene l’avidità, la volontà di potenza; avidità di terra e di beni, volontà di sopraffazione e di conquista; soprattutto col formarsi di società aristocratico-monarchiche, di ceti dominanti su base fondiaria, ma la cui attività prevalente è la guerra. Col formarsi, quindi, delle civiltà monumentali, l’egizia, la mesopotamica, più tardi la cinese e l’indiana.
A questo dunque si giunge, la guerra, quindi il massacro, la schiavitù, la conquista, la formazione d’imperi, di popoli che dominano altri popoli. Si forma così una condizione perversa che permea l’intera storia umana, lo stato di guerra. Si forma quello che altrove ho chiamato il blocco della società ingiusta; al cui vertice stanno il dispotismo, cioè il dominio incondizionato di un solo, e con lui di un’aristocrazia, la guerra di conquista, l’asservimento di popoli, la formazione d’imperi. Che giunge sino a noi, se si pensa che gl’imperi si dissolvono lungo il ‘900.
E però nella visione biblica, che appartiene sì originariamente ad un piccolo popolo ma passa poi nella società cristiana e occidentale, questa condizione consegue al peccato, cioè alla finitudine e fragilità umana che nel peccato cade e nel tempo vi si consolida: in costumi (cioè comportamenti abituali), istituzioni, ideologie. Il blocco della società ingiusta; o quello che nell’evangelo è detto «il peccato del mondo», cioè l’insieme di tutto il male umano, consolidato, istituzionalizzato, ideologizzato. Per cui l’intera storia umana è vista, in quel breve famoso brano biblico che sta nella maledizione di Jahvéh dopo il primo peccato, come una lotta tra il bene e il male, in cui però il bene infine trionferà: «Porrò inimicizia tra te e la donna, tra il tuo seme e il suo; questo ti schiaccerà il capo, mentre tu [invano] attenterai al suo calcagno» (3, 15).
La visione biblica è dunque utopica, benefica. La guerra consegue alla casualità del male. Che solo in seguito sarà collegato ad un permanente dissesto interiore; nello sviluppo della dottrina del peccato originale, che si ritroverebbe nell’uomo già al suo nascere, come colpa e come concupiscenza, contrasto di ragione e passione, «che dal peccato proviene e al peccato inclina» (Concilio Tridentino, V, 5 – Enchiridion Symbolorum, 1515). In un’umanità che tuttavia è redenta, e possiede i doni di grazia che possono vincere il male, e di fatto lo vincono.
Non però nella dottrina luterana, che pervade poi la Riforma e il suo mondo, per la quale la corruzione è radicale: l’uomo, corrotto, non può che peccare; il peccato diventa necessario. Sì che, nella società luterana e protestante, si passa dalla casualità alla necessità del male; per cui si può parlare di necessità della guerra. Ciò avviene, ad esempio, nel pensiero di Hobbes, che vede lo stato di natura dominato da una cupiditas naturalis la quale porta allo stato di guerra, «di ognuno contro ognuno»; il cui rimedio sarebbe un patto che trasferisce l’intero originario diritto d’uomo ad un sovrano – «un dio mortale», egli dice, ma anche un mostro divoratore, un Leviatano –. Un pensiero che è poi la giustificazione ideologica del dispotismo, e dell’assolutismo moderno (Leviathan, 13 e 17).
2. La sua trasfigurazione ideologica
D’altra parte, in tutta la storia umana, dominata da despoti conquistatori, da aristocratici per i quali la guerra era professione, il loro unico mestiere, essa subisce una manipolazione, o se si vuole una trasfigurazione ideologica. Diventa scontro eroico tra popoli. Diventa l’eroica conquista in cui un popolo si fa grande, costruisce un impero. Tra tutti l’Impero romano, che Agostino vede come compenso divino alla virtù degli antichi; dimenticando tutta l’atrocità di secoli di guerre, di massacri; dimenticando la perduta autonomia, la schiavizzazione di tanti popoli; ciò ch’egli stesso aveva chiamato un «brigantaggio», «che cos’è un impero se non un grande brigantaggio»? Compenso, poi, ad una virtù dubbia, la virtù dell’aristocrazia «padrona»; se si pensa con quale tenacia essa resiste alla plebe che reclamava il suo diritto a gestire la città, così come il diritto alla terra; resiste ad una domanda di giustizia; resiste ad oltranza. L’Impero romano, che nel medioevo diventa modello supremo di grandezza, sino a che viene rifondato e restituito dal papato nel cosiddetto Sacro Romano Impero; che però non è dominativo ma egemonico, raccoglie e coordina stati sovrani. E però la parola «sacro» vi è certo fuori luogo.
V’interviene l’idea di un’arte, l’arte militare, che è poi l’arte di uccidere; l’idea di una strategia, di grandi gloriosi strateghi come Annibale o Napoleone; grandi, incoscienti, ambiziosi macellatori.
Arte e strategia teorizzate da opere famose, come L’arte della guerra del cinese Sunzi, circa il V secolo a.C.; o l’Epitoma rei militaris del romano Vegezio, tra il IV e il V secolo d.C.; o il trattato Della guerra di Clausewitz, pubblicato postumo nel 1832 (muore nel 1831, era nato nel 1780, dal 1818 al 1830 era stato direttore dell’Allgemeine Kriegsschule).
Sunzi vede la guerra come una disarmonia che deve ricomporsi nell’armonia universale; che perciò deve infrangere l’armonia il meno possibile; sì che «il suo risultato supremo sta nel piegare la volontà del nemico senza combattere» (3, 2, nella tr. it. dell’ed. Giles, Napoli 1988).
Vegezio, autore compilativo e approssimativo, è noto per l’effato si vis pacem para bellum (o qui desiderat pacem, praeparet bellum, III, Prol.), se vuoi la pace prepara la guerra. Un effato profondamente falso, perché se prepari la guerra finirai col farla, come tutta la storia dimostra (così quella pseudoliberatoria degli Usa in Vietnam, voluta dai militari e dai fabbricanti d’armi).
Clausewitz vede la guerra come un atto politico, poi che «nasce sempre da una situazione politica e viene provocata solo da uno scopo politico», di cui è mezzo e strumento; sì che la guerra «altro non è che la continuazione della politica con altri mezzi». La frase famosa e cinica, anch’essa profondamente falsa. Perché la politica è gestione della polis (e della cosmopoli), in ordine alla tutela e promozione dei cittadini che ne stabiliscono l’entità giuridica attraverso una cessione di diritto; essendo la persona l’originaria sorgente e detentrice del diritto. Per cui la guerra, che annienta la persona, si presenta come suprema distorsione della politica (I, 1, 23-24, pp. 36-38 dell’ed. it. Bollati-Canevari, Milano 1988).
La guerra, il fatto più atroce che la storia conosca, il massacro, il macello umano. Macello intenzionale; condotto con determinazione, con ingegno e perizia, con strumenti e macchine escogitate e costruite per l’omicidio e la distruzione. Specie dopo l’introduzione della polvere pirica; e soprattutto con la scienza-tecnologia, il massacro e la distruzione scientifica, le armi di distruzione di massa, l’arma atomica e nucleare. Tutto questo veniva occultato e trasfigurato dalla volontà di potenza e di conquista dei despoti, dei ceti dominanti, che vi sottoponevano i ceti subalterni, il popolo. Volontà di potenza e conquista, volontà di sanguinosa e falsa grandezza, di suprema ingiustizia. Che permaneva e anzi si potenziava nelle moderne democrazie, eredi insensate di quella ideologia, fino alla tragedia delle due guerre mondiali; fino alle ultime guerre coloniali; fino alle guerre scatenate dalla potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, contro i pretesi «stati canaglia».
Dove però la guerriglia annienta la potenza conquistatrice trascinandola in un vortice da cui non sa più come uscire. La guerra si avvita su se stessa, rivelando la sua radicale insensatezza, radicale irrazionalità e inutilità. Che del resto avevano già rivelato proprio le armi di distruzioni di massa, la cui atrocità estrema le rendeva inservibili, profondamente inutili. Sono state magari prodotte a migliaia o a decine di migliaia, e il loro numero compare di tempo in tempo sulla stampa; sono gelosamente custodite dalle nazioni detentrici; ma sono inutili, attendono solo che si addivenga ad un accordo globale di smontaggio, di rottamazione.
La concezione eroica della guerra anima i grandi poemi epici, dall’Iliade di Omero all’Eneide di Virgilio, ai poemi cavallereschi, alla Gerusalemme liberata del Tasso.
Ma la ritroviamo in Kant, e stranamente nello stesso famoso trattatello Per la pace perpetua. Dove lo «spirito di guerra» sembra innestarsi nella stessa natura d’uomo come «qualcosa di nobile», cui l’uomo è spinto dalla «pulsione di onore»; ed è ritenuto ovunque di valore grande, sì da guerreggiare anche solo per mostrarlo, e da dare alla guerra «un’intima dignità»; per cui i filosofi hanno visto la guerra come «una certa nobilitazione dell’umanità», e l’hanno esaltata. La guerra tra popoli, inoltre, è il mezzo che la natura (e la provvidenza) ha usato per popolare l’intero pianeta; ed è anche quella che spinge i popoli a darsi un ordinamento statale, a farsi stato, per acquistare potenza contro gli altri popoli che hanno accanto e che premono su di loro: una ben strana spiegazione dell’origine dello stato (ed. Akademie, VIII, pp. 365-366). Ma anche altrove l’antagonismo è visto come quello che risveglia le forze dell’uomo e, attraverso la pulsione all’onore, al potere, al possesso, lo sottrae alla pigrizia e lo spinge a crearsi un ruolo; donde poi lo sviluppo del talento, del gusto, e quindi il formarsi delle civiltà (Idee einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht, Ivi, pp. 20-21). Non sembra che a Kant sia chiara la costitutiva socialità umana; mentre vi permangono le categorie dell’ideologia bellica.
Per Hegel la guerra non dev’essere considerata sulla base delle passioni dei potenti e dei popoli, delle ingiustizie ecc.; che sarebbero «soltanto casualità esterne». Perché tutto ciò che è finito – la vita, i beni – è caduco e mortale; e nella guerra, come opera dello stato, è voluto come tale, è assunto in libertà; così come il singolo, con la sua vita e i suoi beni si sacrifica, e ha il dovere di sacrificarsi, per l’indipendenza e la sovranità dello stato. Con la guerra si mantiene la «sanità etica dei popoli»; così – ed è la famosa espressione – «come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, mentre una durevole quiete, o addirittura una pace perpetua, ve li precipiterebbe». Il trapasso dalla guerra di difesa in quella di conquista sembra ovvio; è il tutto (dei cittadini) che diventa potenza e, per la sua stessa intima vitalità, è trascinato verso l’esterno. Nella deduzione hegeliana anche l’arma da fuoco non è «un’invenzione casuale», ma l’espressione della fortezza come universale e impersonale, del tutto contro un tutto, di cui la persona è solo un membro. Il cinismo di Hegel, nella sua implacabile deduzione logico-illogica, nella sua ostentata certezza, diventa straziante (Filosofia del diritto, §§ 324-328).
La guerra assume qui un carattere di necessità, e però falsamente benefica; mentre d’altronde si collega con la finitudine e caducità umana, da cui si genera il male. Sono soltanto alcuni esempi (illustri, se si vuole) di come l’ideologia della guerra abbia dominato la storia, di come sia penetrata nello stesso pensiero filosofico, nella sua alienazione, il pericolo cui più spesso è soggetto, e in cui decade. Per cui, mentre avrebbe dovuto criticarla e demolirla, tentava di fondarla con una ragione che sragionava, diventava déraison.
E così si compiva l’inganno in cui i figli del popolo venivano portati al sacrificio e alla morte, la loro vita veniva spezzata, calpestata, annientata. A migliaia, a milioni. Mentre la classe dominante progettava, dirigeva, e infine trionfava; per i monarchi, come ricorda Kant, la guerra era una «partita di piacere».
A questo punto possiamo dire che, sino a tempi recenti, la guerra è considerata un fattore permanente della storia umana, fattore costitutivo del blocco della società ingiusta che sostanzia e insieme opprime l’umanità; e che però è lungi dall’esser riconosciuto nella sua perversione. Come fattore permanente ha una duplice e contrastante motivazione ideologica: sul piano politico com’espressione della potenza e virtù della classe dominante, e come grandezza di un popolo; su di un certo piano religioso come conseguenza della condizione di peccato in cui giace l’uomo; in cui nella sua consistente finitudine e precarietà e caducità è decaduto; con una corruzione di fatto o di natura. La guerra è parte del «peccato del mondo». Questo piano religioso è proprio della tradizione cristiana e occidentale, in cui è in atto sì una redenzione, che però non prende risalto in quanto proiettata prevalentemente in sede escatologica, cioè al termine e quindi al di fuori della storia; e in quanto la chiesa, che la incarna, si è politicizzata e ha assunto quella ideologia. Come si vedrà in seguito.
3. L’epopea della pace nel messianismo ebraico
Il rifiuto della guerra e il supremo bene della pace, il suo affermarsi nel mondo si presenta anzitutto nel messianismo ebraico, cioè in quel movimento profetico che si estende dalla metà del 700 a.C. (Amos e Osea, i primi profeti; la vocazione d’Isaia nel 740) fin verso la fine del secolo IV, l’età alessandrina. Si presenta qui per la prima volta, e in termini grandiosi.
Nell’età precedente, e nei testi biblici che vi si riferiscono, il Dio d’Israele, Jahvéh, compare come signore della guerra, «Jahvéh è un guerriero» (Esodo, 15, 3). In alcuni tra i maggiori testi della legge biblica, il Codice dell’alleanza nell’Esodo e il Codice Deuteronomico, Jahvéh si dichiara «il nemico dei nemici e l’avversario degli avversari d’Israele», ch’egli sterminerà. Quando Israele si avvicinerà ad una città, se essa non accetterà la sua pace, «il tuo Dio l’abbandonerà in tuo potere e tu ne passerai tutti i maschi a fil di spada. Mentre le donne, i bambini, il bestiame, tutto ciò che nella città si trova, […] lo prenderai come bottino». Nelle città, poi, che Jahvéh tuo Dio ti dà in eredità «non lascerai sussistere nulla di vivo» (Esodo, 23, 22-23; Deuteronomio, 20, 10-16). Compare qui, ad evidenza, la prassi barbarica di certa guerra antica, che viene surrettiziamente attribuita alla volontà del Dio. Come avviene di altri usi e costumi, la legge del taglione, il supplizio dell’adultero e del sodomita.
La pace, dunque, è un annunzio che ritorna con forza nel corso di questa lunga età messianica. C’è un «giorno di Jahvéh», c’è un inviato di Dio che ha diversi nomi, come Emmanuel cioè «Dio con noi», o il «germe di Jahvéh», il «germe giusto», e sarà detto poi Messia, cioè il consacrato; c’è un futuro che si profila, su cui si protende l’annunzio profetico.
Le armi, questi strumenti di morte che ancor oggi gli stati, specie i più avanzati e ricchi, sviluppano con ostinazione, impegnandovi la ricerca scientifica e tecnologica; in cui disperdono somme favolose che potrebbero servire alla giustizia e al benessere dei loro popoli; le armi saranno distrutte. «L’arco, la spada, la guerra io li spezzerò»; «ogni calzatura da combattimento, ogni mantello rotolato nel sangue sarà bruciato, divorato dal fuoco»; «toglierò dal tuo seno i tuoi cavalli, farò scomparire i tuoi carri [da guerra], sopprimerò le tue città, distruggerò le tue fortificazioni»; «sopprimerò da Efraim i carri, e da Gerusalemme i cavalli; sopprimerò l’arco da guerra, proclamerò la pace alle nazioni»; «con le loro spade forgeranno vomeri, e con le loro lance falci. Le nazioni non leveranno più la spada l’una contro l’altra, non si eserciteranno più alla guerra» (Osea, 2, 20; Isaia, 9, 4; 2, 4; Michea, 5, 9-10; Zaccaria, 9, 10). Questo processo è ora iniziato, nella seconda metà del ‘900, sia pur timidamente e con arresti: distruzione di armi, dissoluzione o riduzione di eserciti permanenti. Per la prima volta nella storia.
La guerra scompare, dunque, le nazioni che con accanimento hanno portato innanzi una guerra perenne, lungo i secoli e i millenni, non si combattono più. Jahvéh è compreso come colui che frantuma le guerre. Così nei canti di Giuditta: «Il Signore, frantumatore di guerre. […] Il Signore è un Dio che frantuma le guerre» (9, 7; 16, 2). Così nei Salmi: «Egli mette fine alle guerre sino all’estremità della terra; l’arco l’ha spezzato, ha frantumato la lancia, ha bruciato nel fuoco gli scudi». Donde l’invocazione «disperdi i popoli che vogliono la guerra», invocazione forte (46, 10; 68, 31).
La pace si stabilisce nel mondo, tra le nazioni; una pace perenne. «In quei giorni fiorirà la giustizia e una grande pace sino alla fine del tempo»; nei giorni del consacrato, del liberatore, annunziato come «principe di pace»; il cui impero «si estende in una pace infinita, […] egli lo stabilisce e lo afferma nel diritto e nella giustizia»; annunziato come «un re giusto e vittorioso, un re umile, che cavalca un asino, cavalca un asinello, il piccolo di un’asina. […] Egli proclamerà la pace per le nazioni». Altri passi si collegano al ritorno d’Israele dalla deportazione di Babilonia, alla ricostruzione d’Israele, ma si estendono sempre alle nazioni, le quali s’illuminano della stessa luce, riconoscono in Jahvéh il vero unico Dio (Salmi, 72, 7; Isaia, 9, 5-6; Zaccaria, 9, 9-10). La categoria monarchica assume qui un significato trascendente, e del resto è presente solo in una fase del profetismo (quello detto appunto «regale», legato particolarmente alla figura di David come figura esemplare); il Cristo dirà in proposito «il mio regno non è di questo mondo».
Si annunzia dunque una universale riconciliazione che abbraccia il mondo umano come quello animale, come la natura intera. In Osea: «In quel giorno io farò […] un patto con le bestie dei campi, con gli uccelli del cielo e i rettili della terra. […] La terra risponderà al grano, al mosto, all’olio fresco» (2, 20. 24). Nel lungo famoso passo d’Isaia: «Il lupo abita con l’agnello, la pantera si sdraia accanto al capretto, vitello e leoncello pascolano insieme sotto la guida di un ragazzino. La vacca e l’orsa stringono amicizia, i loro piccoli giacciono insieme. Il leone mangia paglia come il bue. Il lattante gioca sul buco del cobra, nel covo della vipera il bambino mette la mano» (11, 6-8). In Ezechiele: «Concluderò con loro un’alleanza di pace, farò sparire dal paese le bestie feroci. […] Le bestie del paese non li divoreranno più» (34, 25-28). Un tema che ricompare con stupenda bellezza e candore in Francesco d’Assisi, nel suo Cantico delle creature, in tanti suoi gesti, ma vi resta isolato; riprende in termini storico-epocali nel ‘900, e cresce, e crescerà ancora molto.
Un tema edenico, questo, richiamato da Ezechiele, «questa terra, un tempo devastata, è divenuta come un giardino di Eden»; dal Deuteroisaia, «di questo luogo deserto farò un Eden» (36, 35; 51, 3). Ma altri temi edenici ritornano, specialmente nel libro d’Isaia, là dove il mondo si rinnova nell’immagine di «nuovi cieli e nuova terra», della nuova Gerusalemme. Scompare la sofferenza, «non si sentirà più rumore di lacrime né voci di grida». La vita si allunga, «morire a cent’anni sarà morire giovani». Ed è ciò che sta avvenendo, nella pacifica Europa anzitutto, la vittoria sulla malattia, il lungo vivere in una seconda e terza giovinezza. La visione gioiosa della vita, la nuova Gerusalemme si chiamerà «gioia» e il suo popolo «allegrezza»; «tu hai moltiplicato la loro allegrezza, hai fatto scoppiare la loro gioia; essi gioiscono davanti a te come si gioisce alla mietitura». La pace ne è la causa, la pace portatrice di gioia, portatrice di benessere (65, 17-20; 8, 2. 4).
Il benessere, la prosperità che consegue alla pace è un grande tema messianico; spesso si riferisce immediatamente al ritorno d’Israele dalla deportazione, ma assume valenza messianica. Nel libro d’Isaia anzitutto: «Egli ti darà la pioggia per il seme che tu avrai seminato in terra, e il pane che procurerà la terra sarà gustoso e sostanzioso. In quel giorno il tuo bestiame pascolerà su vasti prati. I buoi e gli asini che lavorano la terra mangeranno un foraggio saporito, spulato alla pala e al ventilabro. Su di ogni alto monte e ogni alto colle vi saranno ruscelli e corsi d’acqua. […] Allora la luce della luna sarà come la luce del sole, e la luce del sole diventerà sette volte più forte»; «allora il deserto diventerà un frutteto, e il frutteto si muterà in foresta. Nel deserto abiterà il diritto e la giustizia abiterà il frutteto; la giustizia produrrà la pace, e il diritto una perenne sicurezza»; «Non avranno più fame né sete, non saranno in preda al vento bruciante né al sole. Perché colui che ha pietà di loro li guiderà, verso sorgenti d’acque li condurrà» (30, 23-26; 32, 15-17; 49, 10).
In Amos, in un brano più tardivo, messianico: «Ecco venire dei giorni – oracolo di Jahvéh – in cui lavori e messi, torchio e semina seguiranno d’appresso. I monti coleranno vin nuovo, i colli a ruscelli. […] Pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno i frutti» (9, 13-14; brano che ritorna in Gioele 4, 18, «quel giorno i monti stilleranno vin nuovo, dai colli a ruscelli il latte»). In Osea il già citato passo in cui la terra risponde col grano, il mosto, l’olio. In Ezechiele: «Farò cadere la pioggia a suo tempo, e sarà una pioggia di benedizione. L’albero dei campi darà i suoi frutti e la terra darà i suoi prodotti»; «chiamerò il grano e lo moltiplicherò; non vi manderò più la carestia. Moltiplicherò i frutti degli alberi e i prodotti dei campi» (34, 26-27; 36, 29-30). Nel Salmo messianico 72, che già ho citato: «Monti, e voi colli, apportate la pace al popolo. Con giustizia egli giudicherà il piccolo, salverà i figli dei poveri, schiaccerà i loro oppressori. […] Nei suoi giorni fiorirà la giustizia, e una grande pace sino alla fine del tempo. […] Profusione di frumento sulla terra fino in cima alle montagne; abbondanza come in Libano, il suo frutto e il suo germoglio prosperi fino alle cime dei monti» (3-4.7.16).
La pace porta per tutti la prosperità. Anche questo sta avvenendo nella pacificata Europa: popoli che avevano sofferto la povertà lungo l’intera loro storia, nella pace e nell’aiuto reciproco raggiungono il benessere. E questo avverrà con la pace nel mondo intero.
La visione messianica di pace è ecumenica; già in parte lo si è notato: l’avvento della pace è per tutte le nazioni. Anche se questo avviene in quanto le nazioni riconoscono Jahvéh, il vero unico Dio, riconoscono la sua verità e la sua legge; si associano in questo modo a Israele. Vengono acquisite al regno messianico, il regno universale che salva; di cui già ho notato il significato trascendente e simbolico.
Lo si è visto: «Proclamerà la pace per le nazioni»; «Le nazioni non leveranno più la spada l’una contro l’altra, non si eserciteranno più alla guerra»; «Egli mette fine alle guerre sino all’estremità della terra».
Nel Deuteroisaia, nei Canti del Servo di Jahvéh: «Ecco il mio servo, che io sostengo, il mio eletto, di cui gioisce la mia anima. Ho posto su di lui il mio spirito affinché apporti alle nazioni il diritto. […] Con fermezza egli apporta il diritto, non vacilla né si abbatte fino a che il diritto sia stabilito sulla terra. […] Io Jahvéh ti ho chiamato nella giustizia, io ti ho preso la mano e ti ho formato, ti ho designato come alleanza del popolo, e luce per le nazioni»; «È troppo poco che tu sia il mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io farò di te la luce delle nazioni, affinché porti la mia salvezza fino alle estremità della terra». E, di fronte alla sofferenza redentrice del Servo di Jahvéh: «Le moltitudini si spaventarono alla sua vista, tanto il suo aspetto era sfigurato – non aveva più apparenza umana – sì che le moltitudini delle nazioni se ne stupirono»; «Con le sue sofferenze il mio Servo giustificherà le moltitudini addossandosi lui stesso le loro colpe. Pertanto io gli attribuirò le moltitudini, […] egli che delle moltitudini sopportò le colpe e per i peccatori intercedette» (42, 1.3-4.6; 49, 6; 52, 14-15; 53, 11-12).
Nei Salmi messianici, il 2: «Chiedi, e ti darò in eredità le nazioni, per dominio le estremità della terra». Il 22: «La terra intera si ricorderà e ritornerà a Jahvéh, tutte le famiglie delle nazioni si prosterneranno davanti a lui. A Jahvéh il regno, al signore delle nazioni! Davanti a lui si prosternano tutti quei che dormono nella terra, tutti quelli che scendono nella polvere».Il 72: «Tutti i re se prostreranno davanti a lui, tutte le nazioni lo serviranno. […] Benedette siano in lui tutte le razze della terra, che tutte le nazioni lo dicano beato» (2,8; 22, 28-30; 72, 11.17).
4. Il significato storico dell’annunzio messianico di pace
È questo il primo grande annunzio di pace nella storia umana; un annunzio che si protrae per secoli, sempre fedele a se stesso; approfondendosi nel tempo.
Un annunzio al mondo, per il mondo. Una profezia anzi, intesa dunque non solo come un dover essere, un vincolo etico per l’uomo, vincolato a costruire la pace; ma come qualcosa che si realizzerà nel tempo, anche se non si sa quando. Un annunzio che può dirsi una celebrazione, una grande epopea di pace.
Questo annunzio avviene in un piccolo popolo, e certo in quel popolo è molto presente perché i profeti costituiscono, insieme alla Legge (la Thorà), la parte più sostanziale del suo patrimonio etico-religioso, raccolto anzitutto nella Bibbia; «la Legge e i Profeti» si dirà sempre. Molto presente perché letta e commentata nelle sinagoghe; e custodita nel suo carattere sacro. E però in un piccolo popolo che dal 721, dalla caduta di Samaria sotto gli Assiri, è schiavo di altri popoli, dei grandi imperi che l’un l’altro si succedono: il babilonese, il persiano, l’alessandrino, il romano.
Un annunzio, dunque, che sta custodito in una cultura marginale ed emarginata; anche se col tempo si sono costituite delle colonie che sono pure culturalmente molto attive: a Babilonia, ad Alessandria, a Roma. E però un popolo che non solo possiede una grande letteratura, non solo un tenore etico-religioso unico e incomparabile (solo la rivelazione di Zarathustra gli si avvicina; e per altro verso l’etica buddista); ma possiede una visione della storia e un progetto storico universali, tesi alla comprensione e alla trasformazione della storia umana. Un progetto di redenzione dell’umanità dai suoi mali. Una vocazione redentrice.
Così quella visione della storia come lotta tra il bene e il male che sta già all’inizio, nei primi capitoli della Genesi, dove il bene uscirà vittorioso; questa visione globale, profonda, positiva della storia umana. La visione globale, ecumenica, che già si dichiara nella vocazione di Abramo: «Per te saranno benedette tutte le nazioni della terra» (Genesi, 12, 2: a rigore «si diranno benedette», ognuna dirà all’altra «sii benedetta»). Ma in seguito, in altri passi della storia di Abramo in cui questa benedizione ritorna, si dirà «per te e per la tua posterità», o semplicemente «per la tua posterità»; sì che fin d’allora si dichiara l’universale vocazione salvifica di questo popolo (22, 18; 26, 4; 28, 14). Un annunzio destinato ad estendersi, una profezia destinata a realizzarsi nella sua universalità, nell’umanità intera. Un processo oggi in corso.
5. L’annunzio evangelico
S’innesta su quello messianico, ne è la continuazione, l’adempimento. Perciò ha lo stesso carattere universale, lo ha anzi più forte in quanto non è rivolto al solo Israele, non è propriamente rivolto ad esso; ma all’umanità come tale. È «la salvezza preparata di fronte a tutti i popoli, la luce da rivelare alle nazioni»; si tratta di redimere «il peccato del mondo», tutto il male in cui l’umanità è caduta e che l’opprime; si tratta di «salvare il mondo» (Luca, 2, 30-32; Giov, 1, 29; 4, 42). Perciò «questo evangelo del regno [cioè della nuova umanità redenta] sarà predicato nell’intero mondo abitato, in testimonio a tutte le nazioni»; dev’essere «insegnato a tutte le nazioni», «nel mondo intero […] ad ogni creatura»; «predicare la metánoia [il cambiamento, il rovesciamento della coscienza immersa nel male] e la remissione dei peccati a tutte le nazioni»; poi che si tratta di redimere appunto il «peccato del mondo», quel cumulo di colpa che il mondo ha accumulato, e che è diventato costume, istituzione, ideologia dell’umanità. Di questo evangelo «mi sarete testimoni […] sino all’estremo della terra» (Matteo, 24, 14; la missione finale nei Sinottici e in Atti, 1, 8).
Questo evangelo è la nuova legge dell’amore, è il principio fraterno, l’amore fraterno [agápe, la parola di tutto quest’ambito; rispetto all’eros e alla plylía ellenica], è la nuova legge dell’amore in cui ogni legge si contiene. Legge etica, vincolo alla coscienza e all’azione umana, deve informare ogni comportamento umano. «Maestro qual è il precetto primo di tutti, il precetto grande nella legge? Il primo precetto è amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, e con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente, e con tutta la tua forza. Il secondo gli è simile, amerai il tuo prossimo come te stesso. Non v’è altro precetto più grande di questi; da questi due precetti dipende tutta la legge e i profeti». Il passo famoso (Marco, 12, 28-31; Matteo, 22, 36-40; ho fuso i due passi).
Il principio che è ripreso da Paolo: «Tutta la legge si adempie in una sola parola, in questa: Amerai il tuo prossimo come te stesso»; «nulla dovete a nessuno se non di amarvi l’un l’altro: chi infatti ama l’altro ha adempito la legge. Perché non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non concupire, e se v’è un altro precetto in questo si riassume: amerai il tuo prossimo come te stesso. L’amore del prossimo infatti non opera il male. L’amore è la pienezza della legge» (Galati, 5, 14; Romani, 13, 8-10). Egli poi lo canta nel suo altissimo inno all’amore in 1Corinzi, 13).
La legge che Giacomo chiama «regale» (2, 8).
Il suo sviluppo sta nel cosiddetto Discorso della montagna, il discorso programmatico. Se dunque si deve amare il fratello, non si può offenderlo; l’offesa è addirittura paragonata all’omicidio; chi offende sarà reo del tribunale, del supremo sinedrio, del fuoco della Geenna.
Né si può rispondere all’offesa offendendo, all’atto malevolo con altro atto di male: «Io vi dico non resistere al male; ma se qualcuno ti percuoterà la guancia destra, offrigli anche l’altra; e a chi vuole contendere con te in giudizio per prenderti la tunica, dagli anche il mantello; e se qualcuno ti costringerà per mille passi [le corvées romane ad esempio] va con lui per altri duemila». Il testo che s’imporrà come principio di nonviolenza, rifiuto della violenza.
Perciò il concetto di nemico scompare. Il preteso nemico dev’essere amato come ogni altro, dev’essere salutato, beneficato. Non v’è più nemico, nessuno può essere nemico.
Il perdono sempre, «non sette volte ma settanta volte sette».
«E se stai facendo l’offerta all’altare e ti sovviene che il tuo fratello ha qualcosa contro di te [non che tu abbia qualcosa contro di lui, questo è ovvio], lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti col tuo fratello, e poi tornando offrirai la tua offerta». Tanto profonda e delicata dev’essere l’armonia che deve regnare tra fratelli (Matteo, 5, 21-24.39-41.43-47; 18, 21-22).
A questo punto, forse, non ci si meraviglia che nell’annunzio evangelico la guerra non sia presente – salvo di passaggio in qualche parabola –, e della pace si parli molto, ma quasi sempre della pace interiore e della pace tra fratelli; molto forte nei discorsi dell’ultima cena in Giovanni, nell’addio del Cristo ai suoi; come poi nel saluto del Cristo risorto; e però questa pace è la fonte della pace tra i popoli; ma non ci si meraviglia perché nell’annunzio universale dell’amore fraterno ogni pace è compresa e trascesa.
La sua nascita, tuttavia, è vista come avvento di pace; nel canto degli angeli «gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra»; e ancor prima il cantico di Zaccaria vede la missione futura del bambino nel «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Luca, 1, 79; 2, 14).
È chiaro da tutto questo che l’annunzio evangelico è un annunzio di pace. Un annunzio di amore universale tanto profondo, tanto intenso, tanto avvolgente e onnicomprensivo, che dovrà essere portato a tutti i popoli, all’umanità intera nel mondo; un annunzio di amore e di amoroso rapporto fraterno che contiene e trascende l’annunzio di pace. O si vuole di più? che l’evangelo parli come i profeti, sviluppi un’epopea analoga? ma l’epopea dell’amore non basta? non basta il Discorso della montagna, non basta l’inno di Paolo all’amore? C’è quella frase del Cristo: «Non sono stato inviato se non alle pecore perdute della casa d’Israele»; in cui precisava il limite della sua personale missione; non certo del suo annunzio (Matteo, 15, 24; cfr. 10, 6).
Il messianismo ebraico e l’annunzio evangelico sono i due movimenti di popolo in cui s’imposta il progetto utopico, cioè il progetto dell’umanità per la sua liberazione, la sua redenzione terrena. Progetto di una società di giustizia e di una società fraterna ch’è anche società di pace; perché solo nella giustizia vi può essere la pace; e solo nella solidarietà e nel rapporto fraterno essa raggiunge il suo compimento. Qui dunque s’imposta il grande progetto, ch’è anche profezia e annunzio. Di esso la moderna età delle rivoluzioni avvierà la realizzazione, la costruzione di una società di giustizia e di pace, un processo che oggi è già molto avanzato, forse non lontano dall’adempiersi.
6. La società cristiana e il suo soggiacere alla guerra
Sappiamo che dall’annunzio evangelico proviene una comunità fraterna, la quale cresce lungo il primo secolo e diventa una chiesa gerarchica; e in seguito, almeno in Occidente, e attraverso le vicende del primo millennio, assume il modello imperiale che s’incentra nel papa romano. Questa chiesa avrebbe dovuto trasformare la società secondo l’annunzio e il progetto evangelico; anzitutto quella romana, del romano impero,. Dissolvendo così quel blocco storico della società ingiusta di cui si è parlato, e di cui l’impero romano era un’incarnazione. Dispotismo, guerra perenne, conquista di popoli, formazione d’imperi; schiavitù, asservimento della donna, discriminazione e oppressione del popolo sotto la ricchezza e il potere della classe dominante. La guerra era appunto uno dei caratteri salienti di questo blocco.
Questa chiesa gerarchica si va diffondendo e organizzando nei primi secoli, e con l’editto di Milano del 313 viene riconosciuta nell’impero, dopo essere stata osteggiata e perseguitata; mentre nel 392, con la proibizione da parte di Teodosio di ogni cerimonia pubblica pagana, ne diventa l’organizzazione religiosa ufficiale. Questa chiesa non riesce a trasformare la società ma piuttosto si trasforma secondo quella società. Accetta il dispotismo imperiale, accetta in esso l’asservimento dei popoli, accetta la guerra con cui vengono asserviti.
Così Agostino, la cui dottrina è in certo modo la più significativa e definitiva in Occidente, ritiene sì che i regni e gl’imperi siano «grandi brigantaggi», ma solo se vi manca la giustizia. Potremmo rispondergli che nel dispotismo dei regni, come negl’imperi, la giustizia manca per definizione, perché il regno dispotico è oppressivo del cittadino, e l’impero lo è dei popoli che si assoggetta formandosi; e li assoggetta attraverso la guerra e il massacro. Agostino ha un debole per l’impero romano, come lo avrà poi il medioevo, dalla cui grandezza è abbagliato. Pensa che Dio lo abbia voluto, nella sua ampiezza e grandezza, anzitutto come premio per l’antica virtù romana; in quanto i romani avrebbero represso i molti vizi di cui soffrono i popoli (così l’avarizia, o la stessa libidine) per amore della patria e della gloria. Pensa inoltre che l’impero sia utile se vi regnano e operano i buoni, che portano ovunque l’onore del vero Dio e il vantaggio di una vita virtuosa, «i veraci e buoni costumi». Che anzi per i buoni, che sono circondati da perversi, la guerra «è una necessità» (De civitate Dei, IV, 2-4; 15; V, 12-13; 15-17 - PL 41, 113-115, 124, 160-161, 254-258). Egli dimentica l’asservimento dei popoli.
In genere la guerra è vista da lui come opera della divina provvidenza, che vi emenda ed elimina i corrotti costumi umani (Ivi, I, 2 - PL 41, 25). Nella lettera a Bonifacio, ufficiale romano, dice che sarebbe un errore pensare «che chi milita nelle armi belliche non possa piacere a Dio». Alcuni lottano contro nemici invisibili (i demòni), voi contro i barbari visibili; dove l’appaiamento di demòni e barbari è certo fuori luogo. Soprattutto ci stupisce dicendo che «poiché la guerra si conduce per acquisire la pace, anche guerreggiando tu sei pacifico, perché conduci quelli che vinci al vantaggio della pace» (Epistolae, 189, 4-6 - PL 33, 855-856).
Ma anche altrove: le guerre sono condotte nell’intenzione della pace, il loro fine è la pace; per cui «l’uomo anche guerreggiando cerca la pace». Ciò è falso: scopo della guerra è la conquista, la soggezione dei popoli (non parliamo della difesa, che già suppone l’attacco; né della liberazione, che già suppone la conquista e/o l’oppressione – De civitate Dei, XIX, 12; 15 - PL 41, 637-638, 643).
C’è poi il principio della guerra giusta; affermato, ma non chiaro. Perché giuste sarebbero le guerre che vendicano i danni ricevuti (dove è chiaro l’oblio del principio evangelico). Inoltre giusta è la guerra comandata da Dio; come quelle condotte da Israele per possedere la terra a loro da Dio promessa. E anche le guerre con cui i romani hanno costruito l’impero erano giuste (una vera enormità), l’impero essendo un dono di Dio (In Heptateuchum, IV, 44; VI, 10 - PL 34, 739, 781; De civitate Dei, IV, 15 - PL 41, 124).
Il principio della guerra giusta corre lungo tutta la storia della società cristiana e occidentale, e giunge fino a noi. Come difesa dall’aggressore, come liberazione dall’oppressore. Lo troviamo nel Vaticano II, che parla di legittima difesa; e più tardi nel Catechismo del ’92 (e nel Compendio del 2005), che parla di «legittima difesa con la forza militare» e di «guerra giusta» (2308-10; Compendio, 483-486; Gaudium et spes, 79). Mentre il principio che si afferma nel Trattato dell’Onu del 1946 è che i conflitti tra popoli non devono mai esser risolti con la guerra ma con la trattativa o, più oltre, con mezzi pacifici di pressione. È la linea lungo la quale sta evolvendo l’umanità: quella in cui si riconosce che la guerra, il macello umano, intenzionale organizzato scientifico, è un fatto talmente atroce che non può mai essere lecito; non si dà guerra giusta. Il forte precetto e vincolo etico «non uccidere» viene più profondamente compreso e si allarga a «non fare la guerra»; come già nel ‘700 si era allargato a «stato non uccidere il cittadino», l’illiceità della pena di morte.
C’è qui un’arretratezza etica in quella chiesa che si considera detentrice e maestra della verità etica; c’è una disattenzione macroscopica al cammino lungo il quale stava maturando l’umanità in seguito alla dolorosa esperienza delle due guerre mondiali. C’è soprattutto l’oblio dell’evangelo, che pur veniva letto e commentato nelle chiese, l’oblio totale del rapporto fraterno e della legge dell’amore che escludevano ogni forma d’inimicizia; l’oblio totale del principio di nonviolenza………………………………………………………..
L’accettazione della guerra inizia con l’età costantiniana, quando il riconoscimento imperiale richiede una controparte, e la chiesa gerarchica è pronta a concederla. Si rafforza nel medioevo, quando i vescovi sono coinvolti come principi nel sistema feudale, e hanno talvolta eserciti e guerreggiano. In particolare quando il papa si costruisce un potere temporale, uno Stato Pontificio, che difende guerreggiando con gli stati vicini.
Qui la chiesa gerarchica ha tradito l’evangelo acquisendo quel potere politico che il Cristo ha sempre rifiutato, ha sempre considerato come altro rispetto al suo potere, e a quei «poteri» che assegnava alla sua comunità. «Date a Cesare ciò ch’è di Cesare e a Dio ciò ch’è di Dio»; «il mio regno non è di questo mondo».
Potere politico che nell’evangelo è spesso contrassegnato come forma del male, e condannato, in quanto ingiusto e oppressivo. «I re delle nazioni le dominano, e quei che han potere su di loro son chiamati benefattori» (titolo effettivamente assunto da diadochi e re; dove si fa palese l’ipocrisia del dispotismo, e l’ironia con cui la rievoca il Cristo); «sapete che quei che son ritenuti comandare sulle nazioni le tiranneggiano e i loro grandi vi esercitano un duro potere» (Lc 22, 25; Mc 10, 42). Perciò «i regni del mondo e la loro gloria» compaiono, nell’episodio delle tentazioni, come dominio del Satana, come forme del male. «Non è così tra voi. Ma se qualcuno vorrà tra voi essere un grande, sarà vostro servo, e se vorrà tra voi essere primo, sarà schiavo di tutti» (Mc 10, 43-45 e parall.; Lc 22, 29-30).
Il potere politico comportava la milizia e la guerra. Che la chiesa ha però usato anche come strumento per diffondere la fede, per reprimere l’eresia non riconoscendo la libertà di coscienza, per combattere gl’«infedeli». Così le crociate contro l’Islam, le prime e più tristemente famose (sette, lungo due secoli, 1095-1291; ulteriori tentativi fino al 1518). Nel 1208 la predicazione della crociata contro i catari della Francia del Sud e quindi l’inizio di una guerra che durerà vent’anni, con orrende stragi. Dal 1305 al 1307 la crociata contro Fra Dolcino e gli Apostolici. Dove la guerra diventa «santa»; forse l’abuso più orrendo che si sia compiuto di questa parola.
7. l progetti ideologici di pace nella modernità
La modernità, che è tipicamente europea e occidentale, è dominata dagli stati-nazione che nel frattempo si sono formati, e in parte stanno formandosi o si formeranno; alcuni dei quali assumeranno carattere imperiale; e da una consistente guerra per il predominio. Che talora si fa più intensa, come nella Guerra dei Trent’anni, nelle Guerre di successione, o nel terribile periodo napoleonico; per poi culminare e insieme estenuarsi nelle due guerre mondiali.
V’intervengono anche particolari teorizzazioni ideologiche come la Ragion di stato. Lo stato avrebbe una sua ragione, una ragione particolare che non sottostà all’universale, e quindi non sottostà al vincolo etico; e coincide infine con il suo interesse e la sua potenza. O addirittura, per Hegel e Ranke, incarna in sé l’assoluto della ragione e volontà, del divino; e trascende ogni vincolo. Questa ideologia rappresenta l’autoesaltazione dello stato moderno, che si è liberato dalla tutela ecclesiastica e imperiale, la sua autonomia che pretende all’incondizionato. È certo un’ideologia assurda e rovinosa, in cui il disordine moderno, con la sua sequela di guerre, tenta di giustificarsi.
La Realpolitik dell’800 tedesco ne è un analogo, perché anch’essa elide la ragione e il suo vincolo, per l’interesse concreto. Anche se di fatto mira, da parte di Metternich e di Bismark, ad un equilibrio delle potenze europee, che consenta loro di affermarsi e rafforzarsi senza ricadere nella catastrofe bellica.
In questa età, dominata da ideologie di potenza e di guerra, lo spirito di pace ha dapprima una presenza esigua. In Erasmo, che lo sviluppa nella sua Querela pacis, lamento della pace, del 1516 (ma il tema gli è molto presente: così negli Adagia, Dulce bellum inexpertis; nei Colloquia, La confessione del soldato, Il soldato e il certosino). Anche se risulta strano che nell’Enchiridion militis christiani, del 1503, egli abbia sviluppato l’educazione cristiana, la pietà cristiana, che sentiva certo profondamente, in termini militari.
Quest’opera è un appello, non un progetto. Parte dal sovrano ordine che regna nella natura, dove tutto è mirabilmente armonioso; ma soprattutto dalla dottrina del Cristo, che dovrebbe animare la società cristiana: quindi il principio fraterno e la legge dell’amore; perciò l’amore anche del nemico; e l’invocazione della pace da parte del Cristo, dell’unità, l’insistente augurio di pace.
Trova invece che lo spirito della guerra pervade tutto l’ambito umano: guerra tra principi, lotte tra cittadini, tra vescovo e capitolo, tra ordini monastici, lotte nel chiostro, conflitti nelle famiglie, e infine e soprattutto nell’anima umana il conflitto tra ragione e passione. Trova sacerdoti, vescovi, cardinali, papi che conducono guerre. Trova preti che predicano la guerra e benedicono le armi; trova che nei due campi avversi si celebra l’eucaristia e si rende presente il Cristo, quasi a consacrare gli eserciti che si massacreranno a vicenda.
Erasmo supera l’ideologia perversa che trasfigurava la guerra e afferma con chiarezza che la guerra è massacro; per primo, forse, nella modernità. Mette in chiaro l’enorme contraddizione in cui giacevano la chiesa e la società cristiana.
Un appello ai principi, al potere ecclesiastico; ambedue insensibili al richiamo. Di guerra i principi si nutrivano; e il potere ecclesiastico era insieme principesco. Purtroppo, anche se il libretto ebbe grande diffusione e presumibilmente fu letto da molti (cfr. l’ediz Welzig degli Scritti scelti, V, Darmstadt 1968) .
Nel ‘600, col Trattato di Westfalia (che concludeva nel 1648 la Guerra dei trent’anni), compare per la prima volta l’idea che gli stati europei possano costituire, nella parità dei diritti e nell’autonomia di ciascuno, un sistema politico comune, legato da un vincolo di solidarietà; sistema di cui dovevasi tutelare l’equilibrio.
Ma già nel 1623 era apparso il primo dei moderni progetti di pace, Il nuovo Cinea ovvero discorso politico concernente le occasioni e i mezzi di restaurare una pace generale e la libertà di commercio in tutto il mondo, di Éméric Crucé, un umanista francese. Egli pensa ad una pace universale e perpetua che abbracci il mondo intero (questa visione universale sarà per lo più assente dai progetti seguenti) attraverso un organo di composizione dei conflitti; un Consiglio di ambasciatori di tutte le monarchie e le repubbliche sovrane (come Venezia e la Svizzera); alle cui decisioni a maggioranza i sovrani si obbligheranno con giuramento, e che perseguirà con le armi il fedifrago. In questo Consiglio entrano stati di tutto il mondo, enumerati secondo un ordine gerarchico che corrispondeva alle idee del tempo: Papato, Impero romano, Impero turco, Francia, Spagna, Persia, Etiopia, Tartaria, Cina, Moscovia, Gran Bretagna, Polonia, Danimarca, Svezia, Giappone, Marocco, India o regione del Gran Mogol.
Questo Consiglio siederà in permanenza a Venezia, prescelta per la sua neutralità e centralità, e apertura sull’Oriente. Crucé ritiene facile questa operazione, in forza dell’amicizia e parentela che unisce gli uomini tutti; ed è questo il suo più grosso errore; così come la supplica ai sovrani di «aver pietà del genere umano che all’unisono chiede la pace»; sovrani che a questa richiesta sono assai poco sensibili (v. l’accurata ediz. italiana a cura di Anna Maria Lazzarino Del Grosso nella Collana utopica di L. Firpo, Napoli 1979).
Nel 1638, col titolo Les Oeconomies royales, inizia la pubblicazione delle memorie di Sully (ediz. definitiva Amsterdam 1723), già sovrintendente alle finanze del re di Francia Enrico IV (assassinato nel 1610), e che contengono il «Grande disegno di Enrico IV». Un progetto di riassetto dell’Europa comprendente 15 stati: sei monarchie ereditarie (Francia, Spagna, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia, Lombardia), sei potenze elettive (Papato, Impero, Venezia, Polonia, Ungheria, Boemia), tre repubbliche federali (Svizzera, Italia, Belgio): una divisione molto approssimativa che soprattutto trascurava l’Austria, grande nemica della Francia; contro la quale era anzi prevista una guerra previa, che l’avrebbe liquidata. Il riassetto avrebbe dovuto essere anche territoriale, con lo scopo di eguagliare il territorio e la ricchezza (impresa evidentemente impossibile). Questi quindici stati formano una federazione, con un Consiglio centrale che ha il compito di pacificare i conflitti, ma anche di affrontare un po’ tutti i problemi civili, politici, religiosi d’Europa.
Nel 1693 William Penn pubblica un Saggio sul presente e futuro della pace in Europa; un opuscolo di una trentina di pagine (cfr. Society of Friends, London 1936). Pensa che gli stati europei debbano costituire una Dieta o parlamento, con deputati che anzitutto stabiliscano «le regole di giustizia da osservare da tutti i principi sovrani». Questo parlamento si riunirà annualmente, o al massimo ogni due o tre anni. Davanti ad esso devono essere portate tutte le contese e i conflitti che insorgono tra gli stati membri. Quelli che si rifiutano di sottoporre le loro questioni, o che ne rifiutano il giudizio, saranno perseguiti da tutti gli altri unitamente, anche con le armi. Parla pure di «stato imperiale».
Gli stati che prende in considerazione sono anche qui 15: Impero tedesco, Francia, Spagna, Italia, Inghilterra, Portogallo, Svezia, Danimarca, Polonia, Venezia, Olanda, Svizzera, Holstein e Curlandia; e ritiene giusto che anche i Moscoviti e i Turchi vi appartengano; ogni stato con una delegazione proporzionale alla grandezza, 90 delegati in tutto; con presidenza a turno. Pensa che questi stati costituiscano un quarto dell’umanità, la più rappresentativa in quanto la più civile e la più ricca.
Penn si rende conto delle difficoltà che avversano il progetto, e ne tenta una discussione.
Arriviamo così al ‘700 e alla vasta e pletorica opera dell’Abbé de Saint-Pierre (sono anzi due, Le projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe, del 1713; Le projet de traité pour rendre la paix perpétuelle entre les souverains chrétiens, del 1717, considerato però come un terzo tomo). Saint-Pierre ha partecipato ai negoziati per il Trattato di Utrecht, che concludeva in parte la prima di quelle Guerre di successione che avrebbero travagliato il secolo. L’assolutismo monarchico era nella pienezza del suo dominio. L’idea di un sistema d’equilibrio degli stati europei affacciata dal Trattato di Westfalia si rivelava debole. Cominciava a farsi sentire la stanchezza della guerra, di quella che anche Saint-Pierre chiama «una guerra quasi continua».
Il suo è un progetto di confederazione europea in cinque punti. Un patto di alleanza perpetua tra i sovrani europei. Ogni stato contribuirà all’alleanza in misura proporzionale alla sua grandezza. Le controversie tra stati non saranno mai risolte con le armi, ma attraverso la mediazione degli alleati. Saranno represse con la armi le violazioni dell’alleanza. Un comitato di plenipotenziari in seduta permanente regolerà i problemi insorgenti. Le conseguenze saranno immediate: fine dei massacri reciproci; diminuzione delle spese militari che «riducono i popoli in miseria»; miglioramento del benessere sociale: vivere in pace, «vivere più felici» (cfr. l’ed. Fayard, nei classici del pensiero francese, Paris 1986).
Rousseau ha scritto un Giudizio sul progetto di pace perpetua di Saint-Pierre ch’è rimasto inedito, ed è uscito poi nelle sue opere complete (ora ed. Pléiade, III, pp. 591-600). Rousseau ha per Sain-Pierre una grande stima, per quello «zelo di missionario che non l’abbandona mai su questo punto, malgrado l’evidente impossibilità di successo, il ridicolo di cui si copre giorno per giorno, e i disgusti ch’ebbe ad inghiottire senza posa». E però era «un’anima sana, unicamente attenta al bene pubblico, […] che non si lasciava bloccare dagli ostacoli, né pensava all’interesse personale».
D’altronde che cos’attendersi da un Re? impegnato in due sole cose, estendere il suo dominio all’esterno e renderlo più assoluto all’interno. Perché poi la guerra e le conquiste da un lato, e il Dispotismo dall’altro, si aiutano a vicenda. Né si può pensare che si sottomettano ad un tribunale superiore persone che si vantano di un potere che viene loro dalla spada. D’altronde i loro ministri hanno bisogno della guerra per rendersi necessari al Principe, e per vessare e sottomettere meglio il popolo. Perciò il progetto è saggio, ma la proposta dei mezzi per realizzarlo è ingenua.
Passa poi ad una breve discussione del progetto di Enrico IV e Sully, dei suoi intenti e delle sue ambiguità. E conclude che se oggi un progetto di pace perpetua ci sembra assurdo, ecco che al presentarsi di un Enrico IV e di un Sully diventa un progetto ragionevole. Egli guarda al passato; avrebbe dovuto guardare al futuro.
Nel 1782, a cura di Benjamin Franklin allora ambasciatore in Francia, viene stampato un Conciliatore di tutte le nazioni ovvero Progetto di pace perpetua fra tutti i Sovrani d’Europa e i loro vicini; un opuscolo opera di Pierre-André Gargaz, scrittore ed educatore, accusato di crimine e condannato a trent’anni di galera. Anch’egli pensa ad un Congresso o assemblea permanente per la soluzione dei conflitti, compostata da un membro per ogni stato europeo e per gli altri stati vicini, con voto a maggioranza; composta dagli uomini «più pacifici, più autorevoli e integerrimi», «l’élite degli spiriti migliori», con «deliberazioni giuste ed imparziali». Tra le misure suggerite l’integrità del territorio di ogni stato, l’armamento nella misura che serve all’ordine e alla difesa; e che i nobili – i guerrieri per eccellenza – abbiano una professione come gli altri: misura nuova, e certo ottima.
Caduta la monarchia, Gargaz riscrive più brevemente il suo progetto che chiama Contratto sociale, per un’«Unione Framassonica fra tutte le nazioni unite, e fra queste e le altre» (cfr. l’ed. it. Sellerio, Palermo 1992).
Il Piano per una pace universale e perpetua di Bentham, del 1789, concerne l’Europa, la «fraternità europea». Prevede una Dieta, con due membri per stato, per la discussione e decisione dei problemi; e una Corte di giustizia per la soluzione dei conflitti. Esclude però che la Corte abbia potere coercitivo e uso delle armi (precisazione molto coerente: non si può usare la guerra per vincere la guerra; la quale dev’essere esclusa in ogni caso): chi è refrattario alle decisioni comuni sarà bandito dall’Europa, e sarà questa una misura di estrema gravità. Esclude pure la segretezza delle decisioni: la Dieta dev’essere pubblica, le sue decisioni devono essere ampiamente diffuse, devono circolare tra la gente; e polemizza a lungo contro la regola del segreto nelle transazioni del Ministero degli esteri inglese.
Bentham introduce inoltre misure nuove: devono essere eliminate le colonie; con trattati generali e perpetui devono esser ridotti gli armamenti e le forze navali. L’opinione pubblica dev’essere guadagnata all’unione col fatto che questa porterà a diminuire la tassazione, a stabilire una più ampia eguaglianza, ad aiutare i deboli.
Di questa serie di progetti, quello kantiano, Zum ewigen Frieden, per la pace perpetua, del 1795, è il più famoso (cfr. ediz. Akademie, cit.). Kant parte dal principio che i rapporti tra stati devono esser retti da leggi come lo sono i rapporti tra cittadini; non può esserci tra i due rapporti il divario che c’è tra uno stato di natura, anarchico e caotico, e uno stato civile, dove la legge assicura a ciascuno il suo diritto.
Ciò si ottiene attraverso un Völkerbund, una federazione tra stati, che contiene un Friedensbund, un patto di pace; il quale deve estendersi a tutti gli stati e portare alla pace perpetua (pp. 354-355). Il punto di arrivo potrebb’essere un Völkerstaat, uno stato mondiale, le cui leggi saranno coercitive per tutti (p. 357). Perché la ragione condanna la guerra come via al diritto; la violenza non può creare diritto, ne è anzi l’opposto; e perciò la pace si pone come un immediato dovere per i popoli.
Kant traccia alcune norme per questa federazione; norme che considera più o meno coercitive. Così uno stato non può essere acquisito da un altro per eredità, dote, compera, scambio¸ perché è una società d’uomini (la dignità e diritto della persona), di cui nessuno può disporre se non loro stessi (p. 344). Così gli eserciti permanenti devono scomparire perché costituiscono un uso strumentale di uomini per la morte, uccidere o essere uccisi; uomini usati come cose (p. 345). Così nessuno stato può intromettersi in un altro con la forza perché ne lederebbe l’autonomia (il principio di non-intervento, p. 346).
Il punto più problematico è quella che Kant chiama repubblica. La pace sarebbe garantita solo da una costituzione repubblicana, dove i cittadini sono liberi ed eguali davanti alla legge, e decidono essi stessi attraverso il parlamento; dove, se decidono i cittadini, la guerra sarà difficile perché sono essi che ne subiscono i mali. Mentre per il sovrano, il padrone dello stato, la guerra è come «una partita di piacere» (p. 359). E però, non solo egli distingue repubblica da democrazia – il che sarebbe ovvio in quanto la repubblica può essere aristocratica od oligarchica – ma considera la democrazia come una forma di dispotismo popolare, un potere in cui tutti decidono, in cui legislativo ed esecutivo sono una cosa sola; il che è falso Ignora anche la democrazia diretta, conosce solo la rappresentativa. Pensa che la monarchia sia meglio perché quanto meno sono i detentori del potere, tanto più grande è la rappresentanza, quindi la possibilità di repubblica (pp. 351-353). V’è qui un grumo d’incomprensione, d’immaturità storica.
Abbiamo dunque in questa fase una sequenza di progetti ideologici (in senso lato, l’ideologia in senso stretto essendo la distorsione dell’idea da parte di un principio di potere) o ideali, non pragmatici; che in parte ho riportato. Progetti d’autori, non di stati, o di movimenti di popolo, come le rivoluzioni moderne che partono in quella stessa fase, con la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento. Appartengono all’utopia filosofico-letteraria, più che all’utopia storica, al progetto dell’umanità. Introducono tuttavia quello che sarà il principio pragmatico per eccellenza, e cioè che i conflitti tra popoli non si devono mai risolvere con la guerra ma con la trattativa. Trattativa che affidano ad un organo rappresentativo di tutti gli stati – o almeno di quelli europei; e che prevede sanzioni punitive. O che, più oltre, risolvono in una federazione, dove stati sovrani sono uniti da vincoli giuridici permanenti.
Sul piano pragmatico, cioè nella politica concreta, non avviene nulla, se non quel principio di equilibrio tra stati di cui s’è detto; che però non ha efficacia alcuna. Prevale il principio di potenza, quindi espansione territoriale, conquista e asservimento di altri popoli, formazione d’imperi continentali; conquista di colonie, formazione d’imperi coloniali. Che ha alla sua base l’aggressività del dispotismo moderno, di monarchi padroni di popoli, monarchie e aristocrazie il cui mestiere e il cui vanto è la guerra. Principio di potenza presente anche nelle democrazie che vanno formandosi, l’inglese, la statunitense, la francese, le altre democrazie europee; per cui l’800, oltre che un secolo di guerre, è un secolo di esasperato colonialismo. La pretesa superiorità del bianco, il razzismo che pervade gl’imperi coloniali, e per altro verso – e ancor più duramente – la società statunitense col suo corredo di schiavitù nera; razzismo criminale sempre; raggiungerà il suo acme, il suo stato di esaltazione e di crimine folle nel nazismo.
8. Esasperazione e consumazione della guerra nel ‘900. Costruzione di un’età di pace
Il punto di esasperazione sono le due guerre mondiali, cui segue la fase pragmatica di costruzione della pace. Con la Prima guerra mondiale cadono gl’imperi continentali: l’asburguco, il prussiano, il russo, l’ottomano; il cinese era caduto nel 1912, con la rivolta di Sun Yatsen; il giapponese cadrà nel 1945. Con la Seconda cadono gl’imperi coloniali; anche se con qualche lentezza e qualche resistenza. La Francia, la grande democrazia, resiste fino agli anni ’60 e sostiene due guerre per mantenere le sue migliori colonie, in Indocina e in Algeria. Le colonie portoghesi cadono negli anni ’70.
Il trauma della Prima guerra mondiale porta ad un primo tentativo di Società delle nazioni, cioè di quel patto federativo che i progetti moderni avevano previsto e proposto. Cui aderiscono 44 nazioni. Che ha come fondamentale obiettivo proprio la pace, quindi il controllo degli armamenti attraverso una costante informazione, e la loro riduzione; quindi la soluzione pacifica dei conflitti (art. 12, che manca di chiarezza); quindi le sanzioni commerciali, personali, armate contro chi infrange il patto con la guerra. Un patto viziato da ipocrisia e da impotenza in quanto non riconosce l’autonomia dei popoli e si pone in un mondo che il colonialismo mantiene in uno stato di guerra; un patto perciò contraddittorio e assurdo; egemonizzato dalle maggiori potenze coloniali, l’Inghilterra e la Francia; inetto di fronte alle guerre che poi scoppiano in Cina, in Etiopia, in Spagna. E che porterà alla Seconda guerra mondiale.
Mentre avanza una maturazione di coscienza, che la guerra stessa nella sua dismisura, nell’enormità dell’aggressione nazista e dei suoi orrori, sollecita. Lo si vede dalla Carta Atlantica, che è del 1941, firmata da Roosevelt e da Churchill; la quale riconosce il diritto di tutti i popoli all’autonomia; non solo, ma alla prosperità, alla «libertà dal timore e dal bisogno». E in questo contesto colloca la pace, quindi la rinunzia all’impiego della forza, «le misure che possano alleviare i popoli dal peso schiacciante degli armamenti». Matura una coscienza in cui il colonialismo diventa intollerabile.
Perciò alla fine della Seconda guerra mondiale, mentre gl’imperi coloniali vanno dissolvendosi, si forma la comunità planetaria dei popoli e degli stati, l’Onu. Il cui primo obiettivo è proprio la liberazione dalla guerra, il mantenimento della pace, il principio che i conflitti tra stati devono essr risolti non con le armi ma con la trattativa. E però nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, dei diritti dei popoli, nell’eguaglianza dei diritti; nel progresso economico e sociale di tutti. Questa comunità s’insedia saldamente, con le sue agenzie, ordinate a tutelare e promuovere i maggiori ambiti dell’attività umana. È un’impresa grandiosa, in fase costruttiva, i cui limiti e vizi dovranno via via correggersi, senza che venga meno la fiducia.
Segue l’età delle egemonie, dei grandi stati egemoni. Anzi in una prima fase lo scontro è tra due costellazioni ideologico-politiche, raccolte nel modello comunista-sovietico e nel modello democratico-capitalista. È l’età della guerra fredda, dell’equilibrio del terrore, in quanto l’arsenale nucleare che le due costellazioni posseggono funge da deterrente e impedisce lo scontro. Anche se due guerre calde scoppiano, in Corea e in Vietnam, dove gli USA come presunti liberatori dal regime comunista aggrediscono stati sovrani; due guerre che vengono bloccate l’una dalla Cina, l’altra dalla guerriglia. È insieme l’età in cui si forma l’Unione Europea come comunità di pace e di solidarietà, come zona definitivamente acquisita alla pace; e in cui l’Occidente pacificato raggiunge un livello di grande benessere economico, di sviluppo culturale.
Col crollo del modello sovietico e il dissolversi della sua costellazione gli Stati Uniti si affermano come unico stato egemone, con la sua ricchezza, i suoi enormi armamenti, le grandi flotte, le basi militari sparse nel mondo; e, attaccati dal terrorismo islamico, programmano e scatenano una serie di guerre, anche qui contro stati sovrani, cominciando con l’Afghanistan e con l’Iraq; anche qui come pretestuosa liberazione da regimi oppressivi ed esportazione della democrazia (che non sembra possa essere esportata, in quanto esige una maturazione della coscienza e del costume popolare, come delle istituzioni); in realtà divorati dal risentimento per l’attacco subito, e decisi a debellare il terrorismo islamico; che non si debella certo con la guerra. Per una seconda volta vengono bloccati dalla guerriglia.
Si pone, in questa fase, il problema delle egemonie; perché oltre gli Usa altri due grandi stati potrebbero maturare posizioni egemoniche, la Cina e la Russia. L’egemonia Usa dev’essere demolita; gli Usa devono riconoscere il principio d’eguaglianza dei popoli, così some l’inviolabilità degli stati sovrani; devono rinunziare ad ogni pretesa egemonica; devono demolire il loro armamentario bellico. Ma la stessa cosa devono fare gli altri stati, a cominciare dal Club dell’arma nucleare, l’armamento nucleare mondiale dev’essere distrutto.
Ecco una serie di proposte per l’età di pace:
1. Che si concludano al più presto le due guerre d’Iraq e d’Afghanistan; che i problemi ancora aperti nella gestione di questi stati siano affidati all’Onu.
2. Che alle Costituzioni degli stati si aggiunga un emendamento con cui si rifiuta la guerra; come avviene nelle Costituzioni di altri stati.
3. Che Usa, Russia, Cina, Unione Europea si facciano promotori di un’intesa tra le nazioni che posseggono l’arma nucleare per la sua eliminazione.
4. Che dall’Onu, dall’Unione Europea, dalle altre maggiori nazioni parta una campagna planetaria di graduale soppressione degli armamenti di ogni tipo. Il blocco dell’installazione dello scudo antimissile Usa sarà il primo passo di questa campagna.
5. Che gli Usa procedano ad un graduale smantellamento delle loro basi come delle loro flotte militari nel mondo intero.
6. Che l’Onu, l’Unione Europea, le altre maggiori nazioni si facciano promotrici di una riconversione delle industrie belliche a produzioni pacifiche ovunque nel mondo.
7. Che si facciano promotrici della pacificazione dell’Africa e dell’America Latina, infestate da guerre di potere, guerre tribali, guerriglie pseudosocialiste, attraverso delegazioni di pacificazione e insieme di promozione economica e culturale di quei popoli; cui cesseranno di vendere armi.
8. Che il risparmio che si ricaverà dalla fine di questo enorme e perverso impegno finanziario, di questo enorme e perverso spreco, sia destinato alla costruzione del benessere dell’umanità intera, a cominciare dai poveri e dai paesi poveri. Un nuovo piano Marshall planetario potrebb’essere destinato alla promozione dell’economia dei paesi poveri attraverso progetti e interventi mirati.
9. Che gli Usa, la Russia, la Cina rinunzino ad ogni pretesa di egemonia nel mondo, riconoscendo e promovendo il principio di eguaglianza, il principio di eguale dignità e diritto di tutti i popoli.
Con questo gli Usa, come gli altri maggiori stati, costruiranno la loro più vera grandezza, una grandezza benefica per l’umanità intera.
Il movimento nonviolento e pacifista, che ha le sue prime origini nell’incontro tra Gandhi e Tolstoj, tra l’annunzio evangelico dell’amore fraterno che rifiuta ogni violenza ed esige che ogni conflitto sia risolto in termini di rinnovato amore; e i principi induisti e buddisti dell’ahimsa (la non-violenza appunto) e della karuna (l’attivo com-patire); che Gandhi portò innanzi in tutta la sua vita nella lotta di liberazione dell’India; che Martin Luther King riprese nella lotta per i diritti civili dei neri d’America; che ha la sua fase universale e popolare nella Grande Contestazione degli anni 1960-70; questo movimento deve organizzarsi e diventare una concreta forza di proposta e di promozione di pace presso l’Onu, come presso l’Unione Europea e gli stati tutti del mondo.
Con la dolorosa esperienza delle due guerre mondiali, con la caduta degl’imperi e la raggiunta autonomia dei popoli, con la creazione di una comunità planetaria di tutte le nazioni, con la fine della guerra fredda l’umanità è entrata in un’età di pace. Zone di pace si distendono nel mondo, dall’Unione Europea al Canada e in parte agli Usa (estremi scatenatori di guerre), all’Estremo Oriente, all’Australia. Restano quei residui di cui si è detto, e quel programma da realizzare.