Il processo cosmopolitico, le sue radici religiose

di Arrigo Colombo

                                             

 

 

 Chiamiamo processo cosmopolitico quello in cui i popoli riacquistano anzitutto la loro autonomia, diventando stati sovrani; e si uniscono quindi con vincoli giuridici e istituzionali, e anche con vincoli di solidarietà, sino a formare un’organizzazione – quale è ora l’Onu – o più oltre una federazione (magari di comunità, come quella europea) o uno stato planetario (governo centrale con autonomie regionali, sul modello Usa o sul modello tedesco; o in altre forme);  in ordine alla tutela e promozione della loro esistenza e della loro crescita economica e culturale, del benessere, della pace.

Possiamo precisare subito che il modello cosmopolitico è uno dei tre, finora acquisiti, in cui l’umanità va realizzando la sua liberazione e costruendo una società di giustizia; e cioè il modello democratico o della libertà, eguaglianza, sovranità del cittadino; il modello di giustizia sociale o della condivisione dei beni; e appunto il modello cosmopolitico o dell’autonomia, parità, associazione dei popoli. I modelli, come i loro principi, vengono acquisiti  in Occidente, ma sono universalmente umani, coinvolgono nel loro vincolo l’umanità intera. Non avviene con essi un’«occidentalizzazione del mondo», l’espressione usata da alcuni studiosi, la cui verità è solo parziale.

È questo un discorso di utopia storica, cioè del progetto dell’umanità per la sua liberazione e crescita secondo giustizia, progetto-processo, costruzione; rispetto all’utopia filosofico-letteraria di cui solitamente si parla, i progetti degli autori.

 

 

1. Il processo storico-costruttivo

 

Si tratta di un processo recente, che ha il suo momento decisivo e definitivo nella caduta degl’imperi continentali e coloniali e nella fondazione dell’Onu. Gl’imperi continentali crollano con la prima guerra mondiale (l’asburgico, il prussiano, il russo, l’ottomano; il cinese già nel 1912, con la rivolta di Sun Yatsen; il giapponese nel 1945). Gl’imperi coloniali con la seconda; ma si giunge fino agli anni 1960-70, e la Francia combatte due guerre per non perdere le sue maggiori colonie, Indocina e Algeria; un caso di riflusso sciovinistico e dispotico nel paese che per primo, nella grande rivoluzione del 1789, aveva affacciato il principio di autonomia e di fraternità dei popoli.

Il processo ha però un prologo importante nel 1776 con la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, la prima colonia a rendersi autonoma con una guerra di liberazione. Poi con una serie di vicende che, tra il 1810 e il 1824, portano all’autonomia le colonie dell’America Latina. Prologo che potrebbe anche considerarsi un inizio, se non fosse seguito da un secolo d’imperialismo trionfante proprio in Occidente, dov’era nato e andava imponendosi il modello democratico, coi principi e con la coscienza che lo avevano generato, e che erano fondamentalmente gli stessi del modello cosmopolitico. Dove a costruire i maggiori imperi coloniali, assoggettando a sé popoli, erano proprio Inghilterra e Francia, i paesi nei quali erano avvenute le prime due rivoluzioni moderne, e si era acquisito il modello democratico, con quei principi e quella coscienza. Una strana discrasia nel processo liberatorio moderno, questo negare agli altri ciò che si voleva per se stessi, questo affermare e negare gli stessi principi.

D’altronde il processo aveva dietro a sé quello che altrove ho chiamato il blocco storico della società ingiusta, nel senso che ha bloccato per millenni quella tensione verso la giustizia, il progetto implicito di una società di giustizia, ch’era presente nell’umanità e che si andava manifestando in fenomeni di grande rilievo come la rivolta popolare, i processi di democratizzazione (Atene, la plebe romana, i comuni medievali), poi le rivoluzioni moderne. Si manifestava e prefigurava nei miti utopici, il mito edenico-aureo, il mito escatologico, il mito geografico, più tardi il millenarismo, movimento mitico-storico; dove sempre compare una società di giustizia, benessere, pace. Si esplicitava nei progetti utopico-letterari, prima nella fase ellenica che viene di solito incentrata  in Platone; poi nella fase moderna, fecondissima, che parte dall’Utopia di Thomas More. La tensione verso la società di giustizia aveva una base etica, la giustizia essendo un dovere per l’uomo, per la dignità, la pari dignità e diritto della persona umana.

Punto nodale di quel blocco storico è il dispotismo, cioè il dominio incondizionato di un solo, il monarca, il padrone d’uomini – e con lui (o anche senza di lui) l’aristocrazia, che detiene la ricchezza fondiaria. Dominio che tende ad affermarsi anche su altri popoli e  porta così alla guerra, uno dei fatti più atroci della storia, il macello umano, eppure tanto frequente che si può parlare di guerra perenne; e porta quindi all’assoggettamento di quei popoli e alla formazione degl’imperi.

Interviene qui anche quello che può dirsi il maleficio di Babele, cioè quella dispersione dei popoli che è vista nella Bibbia come un male, una conseguenza del primo peccato; che porta i popoli all’estraneità, all’avversione (estraneo quindi nemico), e a un complesso di superiorità per cui ogni popolo si sente da più degli altri (tipico il dualismo di greco e barbaro, di ebreo e gentile), e tende ad assoggettare gli altri.

Il dispotismo (o quella sua forma analoga che è detta assolutismo, e che riconosce una legge divino-naturale ma non una legge positiva, essendo il monarca legibus solutus) domina l’intera storia dell’umanità fino al crollo degl’imperi; anche se nel frattempo, con la Rivoluzione inglese del Lungo Parlamento, poi con la Rivoluzione francese, si è introdotto e diffuso il modello democratico o di sovranità popolare, e gli stessi imperi hanno dovuto concedere una costituzione con un parlamento come organo della legge.

Inoltre in Europa si era sviluppata quell’altra forma di dominio dei popoli che era il colonialismo; il quale percorre tutta la modernità e convive col modello democratico, giustificato dall’ideologia dell’incapacità di autogoverno di quei popoli, del loro bisogno di guida e di protezione; idea presente nel Patto della Società delle Nazioni (art. 22), e almeno implicitamente anche nel Patto dell’Onu (nel sistema di amministrazione fiduciaria dei «paesi che non hanno ancora raggiunto il pieno autogoverno»).

 

Con l’autonomia, che si stava infine raggiungendo per tutti i popoli, s’introduceva anche il processo unitivo, quella organizzazione planetaria che aveva come fine primario la pace – dopo la tragica esperienza di due guerre mondiali –, ma anche la cooperazione universale; che potesse portare alla crescita culturale ed economica di tutti i popoli, in particolare di quelli arretrati: portare tutti al pieno impiego, ad un buon tenore di vita, al benessere.

S’imposta così il modello cosmopolitico, ancora incoativo, con limiti e vizi (la composizione elitaria del Consiglio di sicurezza, le egemonie, gli armamenti, in particolare il club dell’arma nucleare); un modello che deve crescere e svilupparsi. Pure il modello democratico ha limiti e vizi, anche gravi; pur esso ha bisogno di sviluppo.

 

 

1.1. Il processo storico-costruttivo: l’apporto della scienza-tecnologia, del capitale, dell’economia

 

Sul processo unitivo interviene l’apporto della scienza-tecnologia e dell’industria, con la sua produzione in termini universali; del capitale, che ne costituisce la base materiale indefinitamente espansibile; dell’economia, che gestisce i beni. Interviene con la presenza dei prodotti, quindi dei comportamenti d’uso, che vanno unificandosi. Interviene ancor più con le tecnologie di trasporto, di comunicazione, d’informazione, che portano a forme di rapidità nello spostamento delle persone e dei prodotti, e a forme di ubiquità e compresenza della notizia, dell’immagine, della persona; della vicenda dei popoli che viene così condivisa; sì che i popoli vivono sempre più insieme.

Un apporto recente, che diventa sensibile dopo la seconda guerra mondiale, soprattutto dopo la guerra fredda, con la cosiddetta «globalizzazione». Dove però l’azione predatoria  del capitale tende a stabilire nuove forme di dominio come di emarginazione; così come tende ad eclissare non solo lo stato ma ogni potere politico che lo possa gestire; ad eclissare la stessa cosmopoli. Anche perché riprende forza il liberismo, l’idolatria del libero mercato, di un’economia che si autogestisca e che, essendo anomica, porta al disordine, è fonte di squilibrio come d’ingiustizia. E questo in particolare da parte degli Usa e dell’egemonia ch’essi esercitano sulle agenzie economiche Onu, le quali dovrebbero equilibrare l’economia mondiale e favorire la crescita di tutti i popoli.

 

 

2. Il processo ideologico

 

Alla base del processo storico v’è un processo ideologico, nel senso lato di questa parola, cioè d’idee, di principi e vincoli etici, di progettazione (in senso stretto l’ideologia è il dominio dell’idea da parte di un principio di potere); processo che ha una vicenda molto più lunga.

I filosofi di solito fanno leva sul cosmopolitismo stoico e su quello illuministico. Al primo viene pure riconosciuta una base storica nel cosmopolitismo pragmatico alessandrino, che rompeva i confini del mondo ellenico e penetrava il vicino e medio Oriente fino all’India facendone un solo grande impero. Un cosmopolitismo evidentemente spurio, fatto ancor sempre di conquista e dominio, con solo piccole aperture su quel mondo; come del resto poi l’impero romano. Cui però corrisponde una teorizzazione più profonda ed autentica, che introduce un principio di fraternità universale. Anche se l’uno e l’altro sono destinati ad estinguersi e a restare storicamente isolati.

Diverso è il ruolo del cosmopolitismo illuministico, che sta già immerso nel processo storico moderno; ha dietro a sé i principi e vincoli etici della modernità, quelli stessi che operano nella rivolta e Dichiarazione americana, e si rafforzano poi nella Rivoluzione francese, vi si esplicitano. Pur riconoscendo che la teorizzazione qui avanza molto e raggiunge il progetto associativo: già con l’abbé de Saint-Pierre, ripreso da Rousseau, e  più tardi con Kant; anche se per lo più non tocca i diritti dei popoli schiavi e la loro emancipazione. E spesso nell’idea erronea di un processo universale della ragione, di una «legge» che muove la storia intera.

 

Ma il processo ideologico in senso forte, come affermazione non teorica ma vincolante di principi, di diritti e vincoli etici; vincolante anzitutto la nazione e i suoi cittadini; ma anche, almeno implicitamente, l’umanità in quanto quei principi sono universali, concernono l’uomo come tale; quel processo inizia con la Rivoluzione inglese del lungo parlamento, con le Carte dei diritti che vi vengono emanate: il Patto del popolo del 1647-49; Le fondamentali leggi e libertà d’Inghilterra del 1653. In modo analogo le affermazioni contenute nei Dibattiti di Putney del 1647, che attestano le convinzioni maturate in quel popolo e che hanno sostenuto la rivoluzione, cioè l’eversione di una società ingiusta. Le Carte dei popoli sono un fenomeno nuovo e tipico, che corre lungo tutta la modernità.

Qui si affermano i fondamentali principi. Il principio d’uomo, quella che in seguito sarà chiamata dignità e diritto della persona umana,  quindi ragione e libertà, quindi eguaglianza nella dignità e nel diritto, quindi sovranità popolare. Come diritti originari e naturali, che competono all’uomo per la sua stessa «natura», il suo  stesso essere e modo d’essere; perciò ad ogni uomo; principi universalmente validi.

 «La mia dignità d’uomo», «nobile e libero per natura». «I suoi diritti naturali e originari, la sua libertà»; «ogni uomo è per natura libero»; «per legge naturale noi siamo liberi, quindi anche eguali». Perciò non ha senso il potere del monarca, come il dominio di un altro popolo, se «ogni governo dipende dal libero consenso del popolo» (questi passi in U. Bonanate, I Puritani, Einaudi, Torino 1975, pp. 136, 142; V. Gabrieli, Puritanesimo e libertà, Ivi 1956, pp. 74, 78, 83).

Nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 gli uomini nascono e «rimangono liberi e uguali nei diritti»,  «diritti naturali e imprescrittibili», il primo dei quali è la libertà. Per cui «il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione>.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                    

Ma nei lavori della Convenzione avviene anche il passaggio – ovvio del resto – ai diritti dei popoli. Negli atti preparatori alla Dichiarazione dei diritti annessa alla Costituzione del ’93, vengono presentate delle «Dichiarazioni dei diritti dei popoli», da parte di Blaviel e del vescovo Grégoire, il quale fin dal ’90 aveva condotto un’azione in proposito; dichiarazioni che non vengono accolte per l’opposizione dei coloni, e in genere dell’ala borghese (i testi in A. Pisanò, Il diritto dei popoli nella Rivoluzione francese. L’abbé Grégoire, Giuffré, Milano 2002, pp. 447-450).

Ma vi sono anche proposte, come quella di Robespierre del 24 aprile 1793, in cui si afferma che tutti gli uomini e tutte le nazioni sono fratelli, sono «un’immensa famiglia», sono come «cittadini di uno stesso stato»; e si devono mutua assistenza; e colui che opprime una nazione è nemico di tutti, chi fa guerra ad un popolo dev’essere combattuto da tutti (in. L. Jaume, Les déclarations des droits de l’homme, Flammarion, Paris 1989, pp. 254-261).

Dunque tutti gli uomini sono liberi, per natura cioè per come son fatti – la dignità e diritto della persona umana –, un diritto inalienabile, che nessuno può infrangere. Sono per se stessi  eguali, hanno eguali diritti. Sono sovrani, nessun potere può esercitarsi su di loro se non proveniente da loro stessi. In questi principi si contiene l’autonomia dei popoli. E lo si vede nella Dichiarazione d’indipendenza americana alla cui base sta il principio che «le leggi della Natura e del Dio della Natura le danno diritto» ad essere «potenza separata ed eguale» tra le potenze della Terra; ad essere «stato libero e indipendente»; poiché «tutti gli uomini sono creati eguali» e dotati di certi inalienabili diritti tra cui la libertà; e «i governi traggono i loro poteri dal consenso dei governati».

 

Questi principi ritornano più di un secolo dopo nella Carta Atlantica, proclamata da Roosevelt e Churchill nell’agosto del 1941, quando la seconda guerra mondiale era ancora in pieno corso: il primo documento della fase ultima e decisiva dell’autonomizzazione. Dove si riconosce «il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere»; si parla di restaurare «i diritti sovrani e l’autonomia dei popoli» che ne sono privi; la partecipazione di tutti gli stati «in condizioni di parità» al commercio, alle materie prime, al benessere economico; sì che tutte le nazioni possano vivere «libere dal timore e dal bisogno». Ritornano poi con insistenza nella Carta delle Nazioni Unite, «l’eguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli», «l’eguaglianza di sovranità di tutti».

Diritti, dunque, che s’introducono dapprima all’interno di un popolo, ma che valendo per l’uomo come tale, valgono per ogni uomo, quindi per ogni popolo. Si giunge così all’autonomia; mentre già opera l’istanza dell’associazione dei popoli come garanzia di pace di fronte al flagello della guerra nei progetti illuministi e rivoluzionari di cui si è parlato; garanzia di crescita e benessere per tutti; e più oltre, e più profondamente, in forza del principio fraterno.

 

 

3. Le radici religiose del processo cosmopolitico e dell’intero moderno processo di liberazione

 

È questo un punto che la coscienza occidentale, la quale da un lato ha subito la lunga tirannia del potere ecclesiastico, dall’altro se ne è liberata – almeno in parte – con l’impostazione dello stato laico e di un’etica e cultura laica, tende a non accettare. E non lo ha accettato, ad esempio, quando si trattò di redigere il testo della Costituzione europea. La coscienza occidentale si è molto laicizzata, anche nel senso della laicità esclusiva e negatrice, del laicismo, perché la religiosità dell’Occidente cristiano, cattolico in particolare, si è molto mondanizzata. Ma di questo si parlerà.

 

 

3.1. Le radici religiose del processo di liberazione

 

Queste radici religiose possono essere ricostruite a partire da quel che può chiamarsi il progetto di liberazione dal blocco storico della società ingiusta, cui già si è accennato; e cioè dispotismo, dominio dei popoli, guerra perenne, formazione degl’imperi; schiavitù, asservimento della donna, discriminazione del popolo nella scarsità, sfruttamento, oppressione; blocco millenario che domina l’umanità fino a tempi recenti. Attraverso la ricostruzione di un percorso  storico che vede il progetto di liberazione formarsi in due grandi movimenti religiosi, movimenti di salvezza: il messianismo ebraico e l’annunzio evangelico. Movimenti che costituiscono una delle due componenti da cui si forma l’Occidente, l’altra essendo quella ellenico-romana; ma storicamente la più decisiva.  

 

Il messianismo ebraico – che va dal sec. VIII al IV a.C., l’età dei profeti, ma permane come patrimonio e attesa della nazione, e si sviluppa poi anche in altre forme – s’incentra nella categoria di giustizia, la più forte, specie nei maggiori profeti, come Isaia e Geremia, in molti passi. Categoria che nella Bibbia si riferisce anzitutto a Dio come a colui che agisce secondo un diritto, una norma di giustizia, che s’identifica con lui stesso, per cui egli è il diritto; onde il suo agire è incondizionatamente giusto, tale cioè da dare a ciascuno il suo e da doversi riconoscere come tale; donde l’incondizionata fiducia nell’azione morale divina. Mentre l’uomo giusto, e l’azione giusta, è quella che si attiene alla sua legge, e come tale è riconosciuta da Dio. Ed è anche il senso che qui assume, e  che già aveva nel contesto giuridico dell’antichità (le raccolte di leggi del bacino mesopotamico e anatolico), come poi sempre in seguito.

Il messia, il «consacrato», è atteso come colui che farà giustizia al suo popolo, schiavo dei grandi imperi; una schiavitù che inizia nel 722 a.C. con la caduta di Samaria sotto la conquista assira; cui succede l’impero babilonese con la caduta di Gerusalemme e la grande deportazione; poi l’impero persiano, l’alessandrino, il romano. Il messia, dunque, farà giustizia al suo popolo liberandolo; e insieme costruirà una società di giustizia dove scomparirà il tiranno, il violento, il potente; cesseranno la rapina e il crimine; al povero – all’orfano, alla vedova, figure ricorrenti nei profeti e nei salmi – sarà  resa giustizia, i poveri «mangiano e sono saziati».

 

L’annunzio evangelico (non il cristianesimo, vicenda troppo complessa e contrastata) raccoglie l’eredità della giustizia messianica, in particolare col rifiuto della ricchezza e della potenza, la ricchezza espropriatrice e il potere oppressivo, che fin dall’inizio (dall’episodio delle tentazioni) compaiono come forme del male; due grandi temi in tutto l’evangelo. E però la trascende con un vincolo etico più alto, che è la legge dell’amore fraterno e universale, quella che in sé contiene ogni legge, che tutti coinvolge perché tutti gli uomini sono fratelli, sono figli dello stesso Dio Padre amoroso. Perciò anche colui che è ritenuto nemico dovrà essere amato e beneficato; perché in realtà non v’è nemico. Perciò rifiuta la violenza, cui dovrà opporsi la risposta buona e generosa (porgere l’altra guancia, dargli anche il mantello). Condanna l’offesa e l’ingiuria come fatti gravi. Esige sempre il perdono, in ogni caso. Esige il rapporto cordiale, tanto che se uno sta per far l’offerta all’altare e viene a sapere che l’altro, il suo fratello, ha qualcosa contro di lui, deve lasciare l’offerta e riconciliarsi prima con lui.

 

A questo punto noi possiamo dire che il progetto di liberazione e di ascesa dell’umanità è impostato nei termini di una società di giustizia e di una società fraterna. Anche se, in quel contesto, non si tratta solo di progetto ma di annunzio e di profezia, e anzi di redenzione dell’umanità; redenzione che già si è originariamente compiuta nel sacrificio del Cristo, e si deve realizzare poi nel tempo.

Nel principio di giustizia  e nel principio fraterno sono contenuti e trascesi i grandi principi etici moderni. Il rapporto giusto tra persone come tra popoli, cioè la corresponsione alla dignità e al diritto, la parità nella dignità e nel diritto. Libertà, eguaglianza, sovranità popolare. Quella dignità che nella Bibbia è espressa nell’«immagine di Dio», l’uomo fatto ad immagine di Dio; che il Siracide 1, 11, spiega in termini moderni, diremmo: «A sua immagine li ha creati. […] Diede loro un cuore per pensare, […] accordò loro la conoscenza, […] li riempì di scienza e d’intelligenza e fece conoscere loro il bene e il male».

 

 

3.2. Le radici religiose del processo cosmopolitico

 

Nel principio fraterno, nella fraternità universale degli uomini come dei popoli, è contenuto anche il modello cosmopolitico.

 Il quale però era in certo modo già presente al messianismo, nel senso che l’annunzio messianico era destinato a tutti i popoli, la salvezza era per tutti. Diciamo che la visione messianica è sempre ecumenica. E tuttavia in una prima fase – quella in cui la monarchia è forte, in cui s’irradia ancora la grandezza del regno davidico – si configura come conquista delle «nazioni», che così sono associate a Israele nell’adorazione del vero di Dio e nell’osservanza della sua legge; e sono così ristabilite nella giustizia, nella pace (tema fortissimo, esteso anche al mondo animale e alla terra intera), nella prosperità. Ma in una fase più matura, dopo la fine della monarchia e l’esperienza dell’esilio, Israele è piuttosto il popolo che col  suo sacrificio porta alle nazioni «la salvezza», «la luce», porta il diritto, la pace; la porta sino ai confini estremi della terra (cfr. Isaia, 42, 1.6; 49, 6; 52, 14-15; 53, 11; Salmi, 22, 28-30).

V’è qui sempre una preminenza d’Israele, che però è portatore di salvezza attraverso la sofferenza e il sacrificio di sé (questo il senso dei Canti del Servo di Jahvéh nel Deuteroisaia, 42, 1-7; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-53, 12). D’altra parte il principio della fede nel vero Dio, di contro all’idolatria delle nazioni, che è anche causa della loro perversione, è in questo contesto insuperabile. Solo in questa fede le nazioni potranno redimersi.

 

L’annunzio evangelico non è più rivolto al solo Israele, la prospettiva fin dall’inizio è universale. È «la salvezza messa a disposizione di tutti i popoli, la luce da rivelare alle nazioni»; si tratta di redimere «il peccato del mondo», tutto ciò che di male opprime l’umanità; si tratta di  «salvare il mondo» (Luca, 2, 30-32; Giov, 1. 28-29; 4, 42).

Il nuovo grande precetto dell’amore fraterno, quello in cui ogni altro si raccoglie, «sarà predicato su tutta  la terra, in testimonio a tutte le nazioni»; dev’essere «insegnato a tutte le nazioni», «nel mondo intero […] ad ogni creatura»; «predicare la metánoia [il cambiamento, il rovesciamento]  e la remissione dei peccati a tutte le nazioni». Poi che si tratta di redimere il «peccato del mondo», quel cumulo di colpa che il mondo ha accumulato e in cui abitualmente si muove; «mi sarete testimoni […] sino all’estremo della terra» (Matteo, 24, 14; la missione finale nei Sinottici e in Atti, 1,8).

E però, anche qui, per la salvezza si richiede non solo l’accettazione dell’annunzio, di quel principio fraterno – il che potrebbe pure dirsi  ovvio – ma anche un passaggio rituale: «Colui che crederà e sarà battezzato sarà salvo»; «andate, insegnate a tutte le nazioni, battezzandole». Il battesimo, dunque, quel lavacro simbolico ed efficace in cui si lava il peccato; e congiuntamente si entra nella comunità dei redenti, l’assemblea e comunità fraterna, l’ekklesía.

Nella visione evangelica (come in quella messianica) il progetto e processo di una comunità dei popoli è squisitamente religioso, passa attraverso una comunità religiosa.

 

 

3.3. Le radici e il processo storico

 

La realizzazione del progetto messianico-evangelico è dunque affidata alla comunità fraterna, alla chiesa come tale; essa deve trasformare la società ingiusta. Ma avviene piuttosto il contrario: è la chiesa che va assumendo le strutture di quella società, quindi il blocco storico della società ingiusta. Alla fine del primo secolo la chiesa non è più una comunità fraterna ma una società gerarchica, con una struttura di potere definita nei tre gradi di vescovi, presbiteri, diaconi, e con il popolo dei credenti ad essa soggetto.

Il dispotismo delle monarchie e degl’imperi viene accettato; l’impero romano viene anzi considerato un’opera divina, nella sua grandezza; che Agostino ammira, pur avendo definito i regni e gl’imperi dei «grandi brigantaggi»; la considera un dono di Dio alla prisca virtù romana; un’opera provvidenziale che, riunendo sotto di sé i popoli, ha favorito la diffusione del cristianesimo; considerazione assurda perché non si può favorire il principio fraterno opprimendo i fratelli (De civitate Dei, IV, 2-4; V, 12-13 - PL 41, 113-115, 154-158). In tutto il medioevo la Roma imperiale viene esaltata come suprema grandezza; e, consumatosi l’impero romano d’Occidente, proprio il papa lo rifonderà nel Sacro Romano Impero. Non solo, ma la stessa chiesa romana assumerà in sé il modello imperiale, di un potere supremo e incondizionato che s’accentra nella persona del papa; una struttura gerarchica piramidale mutuata da quella degl’imperi. Sarà un’impresa lenta e faticosa, che impiegherà tutto il primo millennio. I despoti, re e imperatori, verranno consacrati nelle chiese; il papa sarà il supremo tutore dell’impero.

Con l’età costantiniana la chiesa accetta la guerra, il macello umano, il più orrendo dei crimini. Agostino sofisticheggia dicendo che si fa la guerra per ottenere la pace; quindi anche guerreggiando si è pacifici (Epist. 189, 6 – PL 33, 856). In seguito papi e vescovi avranno milizie, faranno guerre. Le più tristemente grandiose saranno le crociate contro l’Islam (sette, lungo due secoli, 1095-1291; ulteriori tentativi fino al 1518), con l’insano obiettivo di riconquistare i luoghi detti «santi», dov’era vissuto il Cristo; in realtà per opporre una dimostrazione di forza all’Islam guerriero e conquistatore; annientando così il pacifismo evangelico. Ma vi furono altre crociate: quella contro i catari, una guerra sanguinosa di circa vent’anni; quella contro gli apostolici.

La chiesa accetta la schiavitù, mentre avrebbe dovuto porre la liberazione degli schiavi come condizione per l’ingresso nella comunità e nel tempio, per il battesimo. Accetta l’asservimento della donna, la sua soggezione all’uomo: Paolo è il grande teorico di questa nequizia, coi suoi ragionamenti spesso contorti. Accetta la discriminazione di ricchi e poveri: non chiede più al ricco, come fa il Cristo e come fa la comunità primitiva, di distribuire i suoi beni ai poveri, di metterli in comune, redimere così la povertà. L’esistenza di questa  discriminazione è evidente nella Prima Lett. ai Corinzi (11,  20-22) e nella Lett di Giacomo. La Prima a Timoteo non dice ai ricchi di distribuire i loro beni ma di non insuperbirsi della loro ricchezza, di beneficare, essere generosi, liberali (6, 17-19). Al grande principio liberatore affermato dal Cristo è subentrata l’elemosina.

 

Perciò l’annunzio evangelico resta disatteso; è presente nei testi, nella lettura e nell’ascolto, ma viene ideologicamente manipolato secondo l’ordinamento e comportamento vigente. Talora ripreso da spiriti profetici che rimproverano alla chiesa la sua mondanizzazione. Attende comunque di realizzarsi, preme in tal senso.

Il tentativo di riprenderlo nella sua autenticità si ha dopo il Mille, in quel grande movimento alternativo che viene chiamato  l’«eresia» medievale, poi moderna. L’eresia medievale (a parte i catari, che sono manichei) è una catena di movimenti che, in una chiesa mondanizzata, tentano di riprendere l’annunzio evangelico nella sua autenticità; così l’annunzio ai poveri (i poveri di Lione, i poveri di Arnaldo, i poveri lombardi, i poveri preti di Wyclif, gli apostolici, i fraticelli) e il principio fraterno che rifiuta il sistema gerarchico. Perciò vengono ferocemente perseguitati  e l’uno dopo l’altro annientati (la chiesa gerarchica ignora la libertà di coscienza). E però si rinnovano per cinque secoli fino a raggiungere (col Bundschuh tedesco, un movimento contadino) l’eresia moderna, cioè la Riforma, con tutto il suo ampio articolarsi; la quale è pure il tentativo d’instaurare una chiesa di popolo.

Qui assume un particolare ruolo il puritanesimo inglese, che acquista valenza politica e trasferisce nel politico quello ch’era stato fino ad allora un progetto religioso, i grandi principi della società di giustizia e della società fraterna; e scatena così la prima delle rivoluzioni moderne, la Rivoluzione inglese del lungo parlamento; e avvia così il processo di liberazione, la costruzione di una società di giustizia. Come già si è visto. Le rivoluzioni sono movimenti popolari eversivi di una società ingiusta per costruirne una di più avanzata giustizia.

Questa assunzione dei principi evangelici, e della loro forza eversiva per trasformare la società, era già stata tentata dal movimento contadino tedesco del 1524-25, dai progetti politici da esso elaborati; movimento soffocato dagli eserciti dei principi, e che però costituisce come un prologo del moderno processo di liberazione (cfr., ad esempio, I dodici articoli, che seguono passo passo i testi della Scrittura; o L’ordinamento regionale di Gaismair per il Tirolo; in Riforma protestante e rivoluzione sociale, a cura di H. Eilert, tr. it., Milano 1988, pp. 84-85, 212);

 

Perciò la Rivoluzione inglese è profondamente religiosa, profondamente animata dai principi evangelici, sì da esser detta «la  rivoluzione con la Bibbia in mano».

Se ad esempio consideriamo i Dibattiti di Putney, di cui già parlavo. Il potere dei re, il potere laico ed ecclesiastico sul popolo vi compare come «mistero d’iniquità», in quanto ingiusto; il potere dei ricchi che «tengono i poveri sotto la più grande tirannia». L’azione liberatrice del parlamento e del suo esercito è l’«opera di Dio»: «Considero questo esercito […] come il portatore del nome di Dio, dell’interesse del popolo di Dio, e dell’interesse che è l’interesse di Dio, l’onore del suo nome, il bene, la libertà, la salvezza e la felicità del suo popolo». «Parliamo da uomini che desiderano avere davanti agli occhi il timore di Dio, da uomini […] che a fondamento di tutte le loro azioni pongono la volontà di Dio». Anche nel  Patto del  popolo la rivoluzione è vista come ispirata e guidata da Dio (in V. Gabrieli, Op. cit., pp. 23, 52, 64, 75, 135; U. Bonanate, Op. cit., pp. 168, 172, 174).

Il puritanesimo è l’anima anche del processo di autonomia delle colonie inglesi d’America e la Dichiarazione d’indipendenza è fatta in nome di un diritto di natura e «del Dio della natura». I diritti fondamentali provengono da Dio in quanto «tutti gli uomini sono stati creati uguali; e il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà e la ricerca della felicità».

La Rivoluzione francese è fortemente anticlericale perché ha contro di sé un clero che è parte del potere monarchico-aristocratico, del potere dispotico che dev’essere abbattuto. E però il principio fraterno sta nel suo motto come terzo dei grandi principi, insieme a libertà ed eguaglianza; i principi evangelici stanno nel suo spirito e nella sua azione positiva – non in quella repressiva –, il principio di nonviolenza o quello del perdono.

Ma a questo punto non importa più la presenza esplicita del progetto messianico-evangelico; né ha senso perché quel progetto è stato assunto dallo stato moderno, che lo ha laicizzato, lo ha rifondato sulla ragione e sui suoi principi e vincoli etici, che è andata proclamando nelle Carte dei popoli; lo ha strutturato nella costituzione e nella legge, e lo va ancora strutturando; nel modello democratico, nel modello di giustizia sociale, nel modello cosmopolitico: modelli che va realizzando non senza grandi difficoltà e alterne vicende. Stato moderno che si è riconosciuto come laico, autonomo rispetto alla chiesa che lo aveva tutelato in passato, e ad ogni potere e autorità religiosa.

 

 

4. Il processo cosmopolitico e le altre religioni profetiche

 

Religione profetica operante nell’era cristiana, nella modernità in cui parte il processo di liberazione, di costruzione di una società di giustizia, quindi anche di una società cosmopolitica, sarebbe l’Islam. Fors’anche il Buddismo, originariamente concepito solo come un’etica e una disciplina per la liberazione dell’uomo dal dolore, una disciplina monastica; che però era calata nella religiosità induista, e vi assunse poi il carattere di una religione autonoma. Difficile riconoscere come religioni il Confucianesimo e il Taoismo, anche se nel tempo si sono popolarizzate in termini religiosi.

Ora l’annunzio coranico potrebbe dirsi un annunzio cosmopolitico in quanto destinato a tutti i popoli, il riconoscimento e l’adorazione di Allah come unico vero Dio, l’adempimento della sua legge. Non però come redenzione dell’umanità dai suoi mali, in quanto manca una problematica del male, e tanto meno della società ingiusta. Per cui manca un progetto e quindi un processo utopico, la costruzione di una società di giustizia e di una società fraterna. Manca perciò un processo di modernizzazione in tal senso; e un processo di secolarizzazione, quale fluisce invece dal principio evangelico che vede la comunità ecclesiale in alterità da quella politica; mentre qui i due principi sono commisti, e con  essi i due poteri.

Unico male sembra essere il rifiuto dell’annunzio, della sua fede e dei suoi precetti; quindi l’incredulità, l’idolatria; o anche la ricchezza e potenza quando distolgono dalla fede; e l’inosservanza dei precetti. La prospettiva è appunto di portare i popoli alla fede  islamica, ai doveri rituali ad essa inerenti (i cosiddetti cinque pilastri: professione di fede, preghiera rituale, elemosina legale, digiuno,  pellegrinaggio), alla precettistica del Corano; portarveli anche e soprattutto con la coercizione, con la guerra, perché ogni altra religione dev’essere annientata; tranne l’ebraismo e il cristianesimo che saranno sottoposti a tributo. Quella che è chiamata «guerra santa», che viene anche considerata il sesto pilastro. «Vi è prescritta la guerra», «getteremo il terrore nel cuore degl’infedeli»; «una religione diversa dall’Islam non è accetta ad Allah», «uccidete gl’idolatri dovunque li troviate» (Corano, 2, 216; 3, 151. 85; 9, 15). La pace è una categoria escatologica, propria del giardino paradisiaco; come  tale molto presente.

Maometto è profeta ma anche guerriero, che assoggetta al dominio islamico gran parte dell’Arabia; e a lui succede il califfato con una guerra di conquista che dilaga nel vicino e medio Oriente, nel Nordafrica, passa in Spagna e in Francia, finché è fermata con la battaglia di Poitiers. Si estende nell’Europa Orientale e in Asia. Sempre protesa al grande inumano disegno di assoggettare il mondo intero.

La precettistica del Corano riprende quella arcaica delle tribù arabe di allora. Così la donna è inferiore e soggetta all’uomo; il matrimonio è poligamico quindi lede la parità di uomo e donna; la schiavitù è un fatto pacifico; i poveri devono essere aiutati, non redenti. Così vige la legge del taglione (per l’omicidio e per il furto, 2, 178-79. 194; 5, 38) e la vendetta privata.

In conclusione l’Islam sembra proteso a sviluppare una sua cosmopoli, che potremmo forse dire spuria in quanto non  riconosce l’autonomia e autodeterminazione dei popoli; e in quanto opera una fusione coercitiva.

 

Il buddismo non presenta modelli sociali, tranne quello monastico di cui si è detto. Presenta però due principi che possono profondamente ispirare la compagine umana nella sua costruzione. Il primo è l’ahimsā, la nonviolenza, universalizzato da Gandhi e dal movimento da lui suscitato; non senza un nesso evangelico, attraverso Tolstoj. Principio che proviene dalla tradizione induista, in particolare dal Jainismo. Il secondo è la karunā, la compassione attiva e il servizio (dietro cui sta  la visione dolorosa dell’esistenza soggetta al travaglio delle trasmigrazioni, il samsara; perciò i due principi si estendono al mondo animale). Il buddismo, che vive profondamente questi principi, può operare in senso unitivo, pacifico, benefico nei popoli in cui è diffuso; e ovunque nel mondo Può anche supplire all’oblio cui il mondo cristiano ha abbandonato il supremo principio fraterno; può contribuire al suo richiamo.   

 

                                                          

       Relazione al Convegno sul Cosmopolitismo, Lecce, ott. 2008; poi nel volume  Cosmopolitismo contemporaneo. Moralità, politica, economia, Morlacchi, Perugia  2009, a cura di Laura Tundo.