CLAUDIA RUGGERI - DOCUMENTI: QUATTRO LETTERE E UN PROFILO
Claudia a Franco Fortini
Lecce, 1 Marzo 1990
Caro professore, ma caro veramente
se pur fantasiosamente. Io sono assolutamente incapace di scrivere una lettera, e lo sono soprattutto se con una lettera devo “comunicare” concretamente. E qui, come fare entrare, e subito, il mio nome; oppure, per esempio, il colore del pullover che indossavo quel giorno, e, insomma il senso di un epistolario caduto e la mania di
gerarchia e di aristocrazia che mi prende quando si tratta di “parlarne”, “spiegarne”, di un gesto che è profondo e leggero troppo per non sfuggire ad una qual si sia esibizione.
Insomma ho covato una “dedica” lungo cinque anni; già, perché fu nell’85 che la conobbi e che quella che era stata la predilezione per un poeta s'inverò in un pensiero amoroso e riverente per un uomo. Sentii come un richiamo strano una parentela iniziale una “con esistenza” di destini ed una “elezione” radicale.
Anche lei mi guardò spostando appena il Corriere della Sera ed io fui troppo certa che in quello esercitò una comprensione e forse una condivisione di tale “affatata” circostanza. E infatti dopo poco lei mi chiamò in corridoio e lì parlammo, attimi, in piedi, come ladri, soli.
Esco da due anni infernali in cui sono stata affetta da una malattia alla tiroide che mi ha portato crisi di nervi e che mi ha bloccata su tutti i fronti. Ora riprendo a studiare, a scrivere non ancora, a vivere ed a fuggire da questa maledetta città per ritornarvi tuttavia; riprendo riprendo ma non riprendo tutto, forse. Oggi ho 22 anni ed ho concluso le prime 22 pagine del mio personale dizionario. Le sono destinate. “Bello ventiduenne / come aveva predetto il suo tetrattico”, Majakovskij si mise a dormire “a piene gambe a pieni malleoli” (Blok). Ma questa è superstizione.
Le invio il mio “Inferno minore”, le chiedo di leggerlo; non le piacerà, lo indovino, per il tipo di scrittura (specialmente non le piacerà la I sezione “il Matto”), epperò non mi biasimi per averglielo dedicato, non se ne offenda. Un’intitolazione collega congiunge individua un maestro, e questo potrebbe infastidirla; ma d’altra parte -il mio inferno essendo perlappunto “minore”- io non sarò famosa: quella dedica rimarrà familiare, un
segno di affetto, un debito
Sua Claudia
Franco Fortini a Claudia
Milano, 10 marzo 1990
Cara Ruggeri, la rammento benissimo e la ringrazio molto del ricordo e della fiducia e dell’invio.
Ho letto Inferno minore con l’imbarazzo di una ammirazione per l’intelligenza, la sottigliezza e la passione, che deve fare i conti con un giudizio molto cauto per quanto è dell’angolo da cui lei guarda le parole e ascolta il linguaggio. Il ‘pastiche’ culturale, prima ancora che linguistico, occupa tutto lo spazio del lavoro: c’è un accumulo, dalle citazioni alle note, che attraversa i testi, una ripresa di modi e vezzi di troppe avanguardie e neoavanguardie, che fa pensare al sovraccarico di collane e gioielli e anelli che il suo buon gusto certo le impedirebbe di portare.
Badi bene, nessuno meglio di me sa che la poesia è anche letteratura e artificio. E che può essere necessario, per parlare, uno spesso trucco. Però in lei, mi pare, domina un ‘sistema’ letterario così fortemente organizzato e tirannico che la comunicazione metaforica e allegorica stenta a stabilirsi.
Cose che lei ha ben chiare: “amo la tua continua consegna mondana...”, “amo le tue cadute benché siano finte...” Questo ‘romanzo’ psicologico non manca davvero di ritmo, di percussioni interne, di passaggi ‘forti’; mi p are che, piuttosto, ci sia una tendenza a saturare ogni singola composizione con tutti gli strumenti disponibili, con èsiti di soffocazione e di autoannullamento. Mi pare di poter dire che il ‘punto’ non è di scrittura ma di esistenza. Credo intendere che cosa voglia dire essere stata così ammalata e quali tensioni quella specifica alterazione possa avere, non dirò prodotto, ma coltivato; ma ho buona memoria di quel che Giacomo ha scritto per non procedere oltre su questa via banale. E tuttavia vorrei che lei sapesse uscire dal corridoio di specchi delizioso, terrificante e anche infame (“Inferno minore”, appunto) non verso una “salute” e una “salvezza” ma verso una maggiore attenzione (nel senso di ‘risparmio’, di klassische Dämpfung, di limitazione volontaria dei mezzi) alle escursioni dei livelli di linguaggio, di discorso e di esperienza, una minore fiducia nella ‘impunità’ della parola letteraria qua talis. Non ho consigli fuor di questo: di uscire pro tempore verso la prosa più banale e convenzionale prima di tornare al verso.
Mi accorgo di non averle parlato dei versi suoi ma di quel che li precede o li segue. Una lettera non può far altro.
Lei è una ‘testa forte’ e saprà valutare questa lettera quanto merita, cioè pochissimo; la mia vanità, lusingata dal suo ricordo, ne potrà soffrire. Ma proprio di questo lei ha bisogno: di rovesciare quanti modelli porta in sé e fare piazza pulita. Io, per fortuna sua, modello non posso né voglio essere ma invece, e con molta stima e simpatia, il suo
Franco Fortini
Claudia ad Arrigo Colombo
Lecce, 15.10.'88
Caro Professore,
minuscole distanze esistono capaci di un’invadenza insostenibile che non sai più dove far entrare (o interrogare come) un nome caro una smania un tic di dire di spiare la precisione di una presa come col tocco snida cose e quanta tovaglia si stendeva così da commuovere come portava bicchieri e bottiglie e polpastrelli che non dicevo della voglia di maestri di una mania di nobiltà e di gerarchia se mi prendeva quando tutto di Lei gli atti le parole si spiegavano in una incredibile continuità di segno; forse c’è della letteratura in quel bisogno e in questo modo di vederLa come il maestro cercato e scoperto anzi è letteratura senz’altro e va benissimo e io La penso come l’Epstein di Atlante Occidentale di Del Giudice e a proposito le chiedo di leggere o di rileggere il libro perché sì Lei somiglia proprio a Epstein. ecco perché ora vorrei spiegarLe un po’ mentre cerco di spiegare a me stessa ora che sto sperimentando l’ansia la fatica le inquietudini ma anche quella specie irripetibile di piacere senza requie che ti prendono quando dici porca eva qui cambia tutto devo dire altre cose soprattutto devo dire e il modo che ho tenuto finora a dire non serve affatto. in tutto questo c’entra la memoria e napoli che della mia memoria è stata la maniera importante la “misura” e della sua orbita etica e, in una implicazione certa, di quella della mia scrittura.
napoli era lontana pure mi suicidavo nei suoi LUOGHI e il verso ne ebbe un’agonia ché lo commuovesse come tutto si mutava e come una voce chiamava che sbocciava contorno con contorno, e perché, ancora, con la mia morte e per quella del verso, la distanza specialmente cessasse; e l’agonia alla scrittura dava peso che è “ombra” e infatti la città intera si sollevava a segnarla a dito la scrittura era straniera, era senza memoria perché la sua memoria non conosceva scarti, nel funzionamento dal meccanismo aberrante delle Forme e solo le Forme tenevano la memoria e la scrittura, e la “finzione bruta” (quella che inerisce all’equivocità in re dell’esistente) fu l’esito perniciosamente immorale di questo sacrificio consumato sull'altare della Voce. napoli l’ebbi strana ed il porto e le sbronze testuali (se al periodo capitavano cose strette e altissime) ed un naso così in disordine ebbe la sposa a guardarla dalla giostra ed ancora ebbe un lutto nella forma se d’attorno tanto s’agitavano i colori così Bianca fu lenta fu violenta non proprio fu un corpo piuttosto fu un’antiforma: così per le luci s’era formato un Castello a guardare napoli dall’alto e fu il primo nome che per lei si finse, che mi confuse... era una visione ma era una falsa demenza come quando un pensiero piccolo piccolo, un pensiero senza centimetro si porta col naso per aria sotto un trionfo barocco e si fa altissimo ma quello è un pensiero animale...
ed è un pensiero maniaco se lo porta la scala che porta a spiare e i neri nei dadi si fanno profondi la scala diventa rotonda, discanta
fu così che per l’ultimo lutto alla sposa diedi i modi perfetti del Poeta ed il soffitto della catastrofe dove tutto si compone dentro distanze forsennate che si cominciano con l’ala di Gabriele che batte l’esatto corteo di apokolokýntosis a parabola e dalla cornice ancora s’attende il sorgere d’un seno enorme sole. anche questo si segna ai soffitti se sonno o danza non li disfanno.
l’assenza possiede soste tanta aria ed un preciso consumo di fughe ma se nella poesia è necessaria la dizione della forma sperimentata un tempo e ormai vacante però la scrittura vi si esercita come un modo alternativo di cessazione dell’io perfezionandosi sull’assolutamente falso (ciò che - insegna Dante - è chiamato a sostituire l’assolutamente dimenticato). Questa è la funzione (e la “finzione”) nobilissima della memoria, il reale esce fortemente lavorato, “circulato”, da una simile operazione di messa in cosmo, pure, nella sua nuova coerenza, la Figura è capace di conservare e di preservare dell’antica Storia almeno qualcuna delle direzioni e molte molte evasioni. è così che la memoria si fa Mente (per dire giocando: se è capace di mentire tout court).
questo dico nel poemetto che le invio, dicendo degli scambi Carta-Carta finché il Matto solo rimane sul tappeto allora che l’inferno delle interrogazioni si è consumato e allora solo può iniziarsi la scrittura il romanzo, ma altrove, lontano dal luogo che la teneva orrendamente come le zingare legano la fortuna che ti collassa tutta in un sacchetto rosso; come nella Torre (il Castello per sineddoche) dell’excessus avvengono i lutti strabilianti della mente - ma la vita è estranea a quella forma cresciuta senza gradi o atti O noi alla vita non un solo getto di memoria...).
lontano da Sanfelice delle scale devo fingermi cose che crescono e muoiono lontano da napoli l’unica maniera possibile per bloccarla perché mi muoia per raccontarla l’unico possibile suicidio si celebra nella distanza; le darò un ricino ed al ricino apici e animali che ne spuntino l’ombra in una sola ora... così Dio apprese a Giona la distruzione
con affetto sua
Claudia
Arrigo Colombo a Claudia
Claudia cara,
dunque tu cercavi un maestro; o forse proprio non lo cercavi ma l’hai notato, l’hai intravisto “quando tutto di lui gli atti le parole si spiegavano in una incredibile continuità di segno”. Questo dici, anche se poi aggiungi che forse v’è in ciò della letteratura, che anzi è letteratura senz’altro. E però ciò che tu dici è vero nel senso che io l’ho cercato lungo l’intera mia vita: la continuità di segno, la coerenza. Interiore anzitutto, poiché tutto procede dall’interiorità; ma poi coerenza di pensiero e di azione, di principi professati e vissuti. Coerenza forte, inesorabile.
E, con la coerenza, l’armonia dell’essere, della persona, del micro-macrocosmo umano che la persona racchiude e realizza. Armonia, quindi serenità, gioia di vivere. Armonia e gioia non posseduta stabilmente e quasi assicurata per sempre, ma costruita e ricostruita ogni volta che lo scacco, la prova, l’ingiustizia, il dolore veniva a turbare la vita in modo anche duro; recuperata ogni giorno attraverso il lavoro interiore che scioglieva i nodi dell’esistenza.
Qui la fede rappresentava una fondamentale risorsa, la certezza dell’amore misericordioso del Padre, amore senza limite, amore per il suo piccolo figlio l’uomo. E quindi l’accettazione del dolore, e anzi l’abbandono alla sua volontà amorosa, nella certezza di questo divino amore, sublime amore in cui ogni dolore si redimeva, si compensava, si sublimava.
Non so a che punto sia la tua fede; e però anche senza di essa penso che questa esperienza interiore che ora ti comunico possa aiutarti nel tuo cammino. Un comunicare fraterno, più che un magistero.
Ma venendo al poemetto, certo ch’esso rappresenta un passo grande. Tu dici “cambia tutto”, ed è profondamente vero. Il poemetto, la sua ampiezza, la sua architettura, la grandezza del disegno e della realizzazione.
Io ho solo cominciato a leggerlo, e incontro grosse difficoltà dal tuo discorso allusivo, fortemente ermetico; discorso che ti è proprio, presente sempre. E però rileggendo e riflettendo raggiungerò certamente gradi di comprensione, riuscendo nel passaggio dall’allusione all’alluso.
Il nostro discorso poetico presenta forti differenze. Forse tu hai imparato da me il poemetto; perché io scrivo solo poemetti, anche se non così articolati ed ampi come “inferno minore”; ma il poemetto è tipico del mio discorso poetico. Forse l’hai imparato, forse è nato da una tua esigenza, non so.
Ma la differenza di cui dicevo sta nella mia intenzionale e dichiarata volontà e ricerca di chiarezza, di trasparenza, di comprensività, sì che ognuno possa leggere, ognuno capire. E quando, all’inizio, nella fondazione de “l’incantiere”, nel primo numero, io enunziavo quel “principio di popolarità”, intendevo anzitutto questo: una poesia che la gente potesse leggere e comprendere, e godere ed elevarsi, gioia dello spirito, sublimazione del pensiero e del sentire. Senza un eccesso di sforzo, uno sforzo troppo grande, che la scoraggiasse, l’allontanasse dal sublime discorso.
Ma è solo una differenza di stile e d’intento, non una differenza di valore. Sì che ho sempre ammirato la tua poesia, e ancor più questo poemetto, questo “inferno minore” che hai voluto donarmi. Un dono grande, che ricevo con gratitudine, e con l’augurio che la tua poesia possa crescere sempre, attraverso la ricerca e il gusto e l’impegno; che certo non ti mancano. E in questo cammino, come nell’intero camino dell’esistenza, io ti sarò sempre accanto, sempre disponibile, volonteroso di aiuto, se e quanto tu vorrai, in quella misura che riterrai confacente; e certo ti sarò comunque sempre accanto nel pensiero e nella preghiera, nell’unione e comunione interiore.
Ricevi dunque un saluto fraterno da Arrigo Colombo
Un profilo morale: interiorità creatività solitudine
di Arrigo Colombo
Questo profilo fu letto nella commemorazione della scomparsa di Claudia, e omaggio alla sua persona e poesia,
tenuto nell’Università di Lecce, sala Ferrari, nel dicembre 1996. Pubblicato poi ne "l'incantiere", n. 39-40, dicembre
1996, anno X.
Ricostruire l'intero da frammenti: il mondo, il cosmo che v’era in Claudia ed era Claudia. Il cosmo ch’è ogni essere umano, anche il più meschino e spregiato, e spregevole. Ma proprio per Claudia la parola “cosmo”, ordine-bellezza; piuttosto che mondo, il suo corrispondente latino, che passa attraverso la tradizione cristiana e occidentale, e giunge a noi come regno del disordine e del male.
Cosmo, dunque, ordine e bellezza, questo il ricordo che sta nell’animo e oggi rivive tra noi; pur introflettendosi nel disordine cui nessun essere umano può sfuggire, e che pure in Claudia era presente e sordamente operava e cresceva, sino a portarla alla tragedia. Il gesto tragico. E gli anni di sofferenza che lo precedettero. Quel disordine che trafigge il nostro animo e lo fa sanguinare; che oggi ci fa piangere; oggi e sempre finora, da quel mattino di domenica in cui ci ha lasciato. Pianto interiore che sgorga sempre dolorosamente nell’animo, pur non vedendosi, pur quando ridiamo e giochiamo.
E però noi crediamo che quel cosmo sia rimasto intatto, l’ordine-bellezza del suo animo, del suo essere (non sempre del suo volto che i farmaci avevano alquanto gonfiato), che da lei s’irradiava, ci affascinava.
Ricostruirlo da frammenti: incontri e colloqui, i momenti più ampi, colloqui telefonici, interventi nella discussione del Laboratorio di poesia. La poesia, frammento di più alto tenore, ma trasfigurato, e obiettivato. Le recitazioni, coi loro toni singolarissimi. Il volto il gesto il portamento.
Ricostruirlo. Impresa incerta, minacciata dal rischio, dal naufragio, del resto scontato. Cui mi accingo.
L'abito era il nero. Non ho mai visto Claudia altro che in nero; tranne la sera in cui la conobbi e portava un cappello rosso a tesa; si preparava allora uno spettacolo di poesia, era il dicembre dell’85 e Claudia aveva diciott’anni, poi ch'era nata nel ‘67. Il nero era già allora gran moda tra le ragazze, e lo è ancora. Ma credo che in Claudia, nel suo perdurare, nella sua insistenza, nella preferenza per le gonne lunghe esprimesse una serietà interiore, una volontà d’essere più che di apparire, volontà d’interiorità, di beni e valori interiori. Così come i suoi capelli mai espansi, sempre tagliati corti all’androgina.
Perciò anche il volto era composto, così come il tratto, il portamento; più portata al sorriso che non al riso.
Questi beni e valori interiori erano l’intelligenza limpida, acuta, penetrante; i suoi interventi nella discussione sempre originali, forti, vivi. L’intelligenza. L’amore del sapere, quindi la cultura, la sua assimilazione, la vastità del sapere pur nella giovinezza e acerbità degli anni. La creatività, che risplendeva sempre nella sua parola, nel suo riplasmare le idee e le cose. La poesia come vocazione e impegno creativo, come forma espressiva profondamente sentita e intensamente elaborata; come forma elettiva del suo dire e fare. La poesia, una delle forme più alte della creatività e prassi umana; per l’intensificazione di senso che vi si compie, nell’arditezza della metafora, del simbolo, nel ritmo e nella musicalità che la pervade.
Essere naturalmente poeta
naturale connaturale capacità espressiva
bisogno connaturato.
La recitazione. Particolarissima, nella conduzione della voce, nei toni spesso altissimi, nell'intensità di vibrazione. Diversa dal recitare anche dei grandi maestri che leggono poesia, Gassman, Carmelo Bene. Diversa, personale, inimitabile.
Tante volte le dissi perché non fai teatro? perché non t’iscrivi all’Accademia d’arte drammatica? non vai a trovare uno di quei maestri che tengono scuola? tu di scuola non hai bisogno, ma il maestro ti aiuterebbe comunque a entrare nel teatro; sia pure in quel teatro classico e d’alto tenore che sembra essere a te più consono; non la commedia borghese.
Negli spettacoli di poesia l’abbiamo sentita tante volte, ogni volta con stupore e ammirazione.
Un tentativo l’aveva fatto. Marcello Primiceri l’aveva invitata nel gruppo teatrale "Astragali" ch’egli aveva fondato e diretto con grande sapienza e grandi obiettivi. Ma morì poco dopo in un incidente, e Claudia non poté restare.
Della sua poesia parlano in queste pagine Donato Valli e Walter Vergallo; del poemetto Inferno minore che apre queste pagine. In cui sentiva di aver compiuto un salto di qualità, come dice in una lettera: "Sto sperimentando l’ansia la fatica le inquietudini ma anche quella specie irripetibile di piacere senza requie che ti prendono quando dici porca eva qui cambia tutto devo dire altre cose soprattutto devo dire e il modo che ho tenuto finora a dire non serve affatto" (Lett. del 15/10/1988). Poi l’ultimo poemetto che ci ha lasciato, )e pagine del travaso, scritto in una lucida esaltazione che nel testo si purifica appieno.
L’abito nero, dicevo. L’interiorità, i beni e valori interiori. L’abito nero come segno di un’interiorità che non si diffonde e disperde, ma si concentra nel profondo di sé, nell’abisso in cui s’inabissa l’essere.
In questo abisso luminoso Claudia sembra concentrata. Forse si può parlare d’introversione. Nei colloqui che con una certa frequenza s’intessevano non si raggiungeva, non si toccava se non di passaggio il nocciolo interiore. Si parlava, è vero, soprattutto di poesia e discorso poetico; si parlava anche d’esistenza. Ma non si toccava mai il nocciolo duro in cui stavano racchiusi i conflitti che tormentavano il suo vivere, i dubbi che lo paralizzavano. Alcune radici le avevo subito intuite, ma dovevo rispettare il suo riserbo. Anche se lei aveva individuato un maestro, come dice in quella sua lettera: "Quando tutto di Lei gli atti le parole si spiegavano in una incredibile continuità di segno; forse c'è della letteratura in quel bisogno e in questo modo di vederLa come il maestro cercato e scoperto". Ma il maestro scelse la discrezione, rispettò il riserbo; e forse sbagliò, forse ora non gli resta se non piangere l’errore.
Solitudine. Ogni essere umano è solo, ognuno di noi, perché nessuno può penetrare nell’interno, nell’intimo dell’essere e dell’anima e della mente e del cuore. Ogni altro essere umano si conosce solo dall’esterno, anche quelli che più ci sono vicini, che più ci amano, che più amiamo. Solo dall’esterno. Soltanto Dio sta nell’intimo del nostro essere, "intimior intimo meo", più intimo di ciò che in me c’è d’intimo, dice Agostino, che forse più di ogni altro ha sentito e vissuto l’interiorità cristiana.
Forse non si erra se si dice che Claudia ha vissuto la solitudine, ha vissuto di solitudine, era una solitaria. Perché raccolta nella sua interiorità, introversa in tal senso. Perché era una diversa. Questa parola è propria del nostro tempo e tutti la possiamo comprendere. Il diverso. La sua intelligenza, la sua serietà, il suo interesse per i valori alti la rendevano forse una compagna e un’amica difficile. Perciò non aveva amiche, soprattutto non aveva amiche stabili consistenti sicure. Perciò, forse, anche i suoi amori non duravano, i suoi ragazzi improvvisamente la lasciavano, la tradivano in tal senso. Un rapporto di amore è biunivoco, lo è nel modo più profondo, teso all’assimilazione dell’essere; non può esser rotto unilateralmente, non si ha diritto, nessuno ha il diritto di farlo, i ragazzi che scompaiono, che piantano la ragazza con una telefonata; le ragazze che scompaiono allo stesso modo; no. Solo discorrendo, discutendo insieme, nel comune dolore di lasciarsi; se veramente si è amato, se non si è giocato.
La fede la ritrovò negli anni della sofferenza estrema, gli anni che seguono la morte prematura del padre, la rottura di quel legame singolarissimo fortissimo di figlia unica e immensamente amata; quel nodo edipico così stretto da non accettare la perdita, da coinvolgervi l’esistenza. Ritrovò la fede in quel Dio che trascende la morte, quel Padre che non viene né può mai venir meno; nel quale poteva reincontrare suo padre. Fu la fede a salvarla. Quel sabato pomeriggio, tornata dalla comunità di Alessano, partecipò all’eucaristia nella chiesa di San Lazzaro e si comunicò. Poi attese la sera, la notte. L’attese nell’attesa del Padre e del padre. Non si gettò dall’alto verso quella terra che tanto dolore le aveva provocato nella sua pur giovane vita. Si lanciò verso l’alto, a ricongiungersi con quel Padre celeste che aveva reimparato ad amare, con quel padre terreno e celeste che amava tanto. Il corpo non la sostenne e cadde. Ma l’anima ritrovò quel duplice e tanto sospirato e sofferto amore.
Così noi pensiamo, crediamo. Un pensiero, una fede salda.