FILM  DEL MESE  -  2009

 

 

gennaio                                                              Thomas McCarthy, L’ospite inatteso

Vadim Perelman, Davanti agli occhi

Gabriele Muccino, Sette anime

Vincent Garenq, Baby love

Ari Folman, Un valzer con Bashir

Stephen Elliott, Un matrimonio all’inglese

Gus van Sant, Milk

Edward Zwick, Defiance - I giorni del              coraggio

Sam Mendes, Revolutionary Road ●

 

aprile

Pupi Avati, Gli amici del Bar Margherita  

Steven Soderbergh, Che. L’Argentino

-, Che. Guerrilla

Roberto Faenza, Il caso dell’infedele Klara  

Francesca Archibugi, Questione di cuore  

Roberto Burchielli, Sbirri  

Barry Levinson, Disastro a Hollywood  

Massimo Venier, Generazione 1000 euro

Nacho García Velilla, Fuori menù

 

luglio

Mark Waters, La rivolta delle ex

 

ottobre

Neill Blomkamp, District 9

Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria  ●

Gaston Duprat, Mariano Cohn, L'artista

Daniel Alfredson, La ragazza che giocava con il fuoco

Giuseppe Capotondi, La doppia ora

Ang Lee, Motel Woodstock                      

Cristian Mungiu e altri, Racconti dell’età dell’oro

Francesca Comencini, Lo spazio bianco

Donatella Maiorca, Viola di mare ●

Samuel Maoz, Lebanon  ●

Luca Lucini, Oggi sposi

Terry Gilliam, Parnassus

 

febbraio                                                             

Bryan Singer, Operazione Valchiria

Fausto Brizzi, Ex

Baz Luhrman, Australia

Philippe Claudel, Ti amerò sempre

Eran Riklis, Il giardino dei limoni

David Fincher, Il curioso caso di Benjamin Button

Stephen Daldry, The reader ● 

John Patrick Shanley, Il dubbio  

Ago Panini, Aspettando il sole  

Mark Herman, Il bambino con il pigiama a      righe  

 

maggio

Kevin Macdonald, State of play

Steven Soderbergh, Che. Guerrilla (cfr. aprile

Isabel Coixet, Lezioni d’amore

Claudia Llosa, Il canto di Paloma

Marco Bellocchio, Vincere

Lars von Trier, Antichrist

Andreas Dresen, Settimo cielo

                                                                       

agosto

Steven Frears, Chéri

 

novembre

Michael Haneke, Il nastro bianco 

Alessandro Angelini, Alza la testa

Alessandro Di Robilant, Marpiccolo

Michael Mann, Nemico pubblico

Pedro Almodóvar, Gli abbracci spezzati 

Renato De Maria, La prima linea  

Roland Emmerich, 2012

Francis Ford Coppola, Intrighi di famiglia

                                                                   

dicembre

Joel e Ethan Cohen, A serious man

Sergio Rubini, L’uomo nero

Ken Loach, il mio amico Eric

Bobby Paunescu, Francesca

Mira Nair, Amelia

Jim Sheridan, Brothers   ●

 

marzo

Dennis Gansel, L’onda  

Darren Aronofsky, The wrestler  

Constantin Costa-Gavras, Verso l’Eden  

Giuseppe Piccioni, Giulia non esce la sera Clint Eastwood, Gran Torino  

Enzo Monteleone, Due partite  

Courtney Hunt, Frozen River - Fiume di ghiaccio

Tom Tykwer, The International  

Andrzej Wajda, Katyn  

Marco Risi, Fortapàsc  

James Gray, Two lovers  

 

giugno

Niels Arden Oplev, Uomini che odiano le   donne

Todd Phillips, Una notte da leoni

Anne Fontaine, Coco avant Chanel

Vincenzo Marano, La donna di nessuno

 

 

 

settembre

Wayne Kramer, Crossing over

Anne Fletcher, Ricatto d’amore

Francesco Maselli, Le ombre rosse  ●

Werner Herzog, Il cattivo tenente

Jacques Rivette, Questione di punti di vista

Michele Placido, Il grande sogno  ●

Susanna Nicchiarelli, Cosmonauta

Woody Allen, Basta che funzioni

Giuseppe Tornatore, Baarìa

 

 

 

 

                                    dicembre 09

Jim Sheridan, Brothers  

Al  Massimo di Lecce il 26/12/09.

Regista irlandese attivo in Inghilterra, parco, serio. Nel mio schedario In nome del padre del ’94.

Qui egli stranamente rifà il film Non desiderare la donna d’altri di Susanne Bier, la regista svedese del gruppo Dogma; la storia è la stessa. Ma l’intonazione è diversa e il film è notevole nella fattura e nella drammaticità.

Qui non c’è tanto il desiderio della donna d’altri, del fratello Sam dichiarato morto in Afghanistan, da parte del fratello Tommy che sta in qualche misura vicino alla moglie Grace (Natalie Portman) e alle due bambine. C’è solo un piccolo bacio; e del resto Tommy pensa di avere anche in quello sbagliato e ricompare poi con una sua ragazza.

Il tema dei due fratelli è certo presente: l’uno serio, costruttivo, prediletto dal padre, con moglie e due figlie, capitano, ora per la quarta volta in Afghanistan; l’altro ubriacone, forse ladro, esce in quel momento dal carcere, e  ha però  la faccia pulita e simpatica del buon ragazzo Jake Gyllenhaal. I due fratelli s’amano.

Ma il vero nodo drammatico è l’Afghanistan. È la prigionia talebana, chiusi sotterra a morire di fame, con l’atroce scena in cui Sam con pistola alle tempia è incitato ad uccidere il compagno e, nella follia del momento, lo fa. Ritorna qui il tema de Il cacciatore e di altri film: le atrocità cui sono soggetti i prigionieri, il nessun rispetto per loro. Certo ai Vietcong tutto era permesso per la costruzione della illusiva nuova società; così come tutto e ancor più è concesso ai Talebani nel nome di Allah. La ferocia religiosa è sempre la peggiore.

Segue il ritorno del presunto morto, dell’atrocemente traumatizzato. Affiora la gelosia per moglie e fratello, ma Grace gli confessa il bacio. Più forte e straziante è il rimorso per il compagno ucciso, per quell'atroce cedimento in lui che gridando esortava  i compagni alla forza, a non cedere mai. Egli ha ucciso il compagno, anche se nessuno lo sa. Lo confessa con scarna parola a Grace che lo minacciava di abbandono se non le avesse rivelato l'atroce segreto. «Si può tornare dalla guerra, ma la domanda che insorge è se si può tornare a vivere». Così finisce. Forte il pathos.

 

 

Mira Nair, Amelia

All’Odeon di Lecce, il 25/12/09.

La regista indiana di Salaam Bombay  e di Monsoon Wedding, qui completamente americanizzata fa un film sulla prima donna pilota trasmigratrice dell’Atlantico ed eroina del volo, Amelia Earhart. Impersonata da Hilary Swank, la ragazza Oscar di Babys don’t cray e di Million dollars baby.

Non riesce a costruire una storia unitaria e coerente, e anche i personaggi ne soffrono. Resta in qualche misura la suggestione dei grandi voli, della grande passione (non resa però), dell’ultimo volo che avrebbe voluto circumnavigare la Terra ma finisce misteriosamente nell’Oceano.

 

 

Bobby Paunescu, Francesca

Al Santa Lucia di Lecce il 13/12/09.

Opera prima di un regista rumeno. Un film che vorrebbe affrontare il problema dell’emigrazione, e il rapporto Romania-Italia e italiani, e insieme la vecchia società corrotta e la nuova corruzione.

In realtà qui c’è un unico personaggio significativo, ed è Francesca, la trentenne maestra di scuola materna che vuole emigrare in Italia per aprire una scuola materna per emigrati rumeni; che sono un milione. Una donna intelligente, schietta, volitiva, libera. L’unico personaggio vero, mentre gli altri sono piuttosto sfuocati. A parte il padre, che esprime il risentimento rumeno per l’emarginazione e persecuzione dell’immigrato in Italia (quella stronza della Mussolini, quello stronzo del sindaco di Verona); un uomo che teme per la figlia ma che però non le si oppone.

Ma intorno a Francesca c’è la vecchia società corrotta che proviene dalla burocratizzazione pseudocomunista; e c’è la nuova malavita, in cui è impigliato il ragazzo di cui lei è innamorata, e cieca nel suo amore. Una figura sbiadita, del resto, presa in questioni di denaro prestato e non restituito; che va verso la feroce lezione mafiosa, o anche verso la morte.

Francesca parte e ha un posto di badante sicuro a Sant’Angelo Lodigiano, con alloggio e vitto e 900 euro al mese. Ma non arriverà. Una telefonata l’avverte di qualcosa di atroce accaduto al ragazzo (vediamo il suo pianto disperato) e alla fine la troviamo sulle panchine di una stazione dove attende il treno del ritorno.

Film che resta a metà, che si perde in inutili lentezze, e non riesce a costruire una storia limpida e ben condotta.  

 

 

Ken Loach, il mio amico Eric

All’Odeon di Lecce il 12/12/09.

Ritorna il film proletario di Loach. Eric,un postino dalla psiche malata e dalla personalità scarsa, che ha abbandonato la moglie ventunenne, Lily, la quale lo amava e aveva appena partorito una figlia; non si sa perché e neppure lui lo sa; e sono passati trent’anni. E anche l’altra donna che ha avuto, e con essa due figli, se n’è andata. Lo troviamo dunque solo, fragile, incerto, insipido; coi due figli adolescenti che di lui non si curano. Un marginale della vita.

Ha però una prima risorsa, sicura certo, la comunità dei postini che gli è solidale; uomini per lo più robusti, forti, l’opposto di lui. E la seconda solidarietà è onirica o immaginaria, ed è il grande campione di calcio del Manchester United Eric Catona, di cui egli ha in camera un poster a grandezza naturale; e che dal poster esce e si trattiene con lui, e lo sostiene, lo incoraggia, lo consiglia. È lui l’amico Eric, il grande amico.

Ci sono poi due vicende ricostruttive: la figlia che deve laurearsi affida alla madre e a lui il suo piccolo; ciò che lo riavvicina alla donna ch’egli aveva abbandonato e con la quale finirà per riconciliarsi. Il figlio scapestrate, colluso con un mafioso, da cui lo libererà la solidarietà dei postini in una spedizione memorabile (con tre autobus, la folla dei postini in maschera che umilia e annienta il mafioso), restituendogli l’affetto dei figli.

Ma la figura di Eric il postino è troppo scialba, troppo insignificante, e lascia perplessi. E la vicenda manca di solidità costruttiva. Resta sempre la grandezza morale di Loach, la sua vicinanza ai diseredati; tanto più forte quanto più il personaggio è debole.

 

 

Sergio Rubini, L’uomo nero

Al Massimo di Lecce il 10/12/09.

L'uomo nero che dà il titolo è una figura affatto marginale. Ritorna qui la difficoltà dei registi italiani di questa fase a dare titoli significativi ai loro film

La storia di una famiglia pugliese in un piccolo borgo, marito e moglie (Valeria Golino) e figlio ragazzo. Un ragazzo piuttosto scarso ma molto amato, e che diventerà poi un serio professionista; lo incontriamo nella scena iniziale della morte del padre.

Una famiglia che vive nella stazioncina del borgo, di cui il padre è capo. E però la storia è quella della sua passione di pittore, del suo amore per Cézanne, di un autoritratto di lui che la pinacoteca di Bari ha acquistato e di cui egli vuol fare una copia che possegga la stessa vitalità e forza del grande maestro; copia che dominerà la sua mostra personale. Che il critico locale stroncherà provocando in lui un momento di sconforto in cui fa a pezzi i suoi quadri; e però poi si riprenderà e farà una copia più viva, che anzi sostituirà all’originale, compiendo il furto nella pinacoteca deserta.

Una storia di scarso rilievo umano e passionale. Ben condotta certo, con un Sergio Rubini positivo e simpatico, che non tende a strafare

 

 

Joel Cohen, A serious man

Al  Massimo di Lecce l'8/12/09.

Un uomo serio. O piuttosto un matematico e marito nevrotico, sperduto nell’esistenza e nel suo mondo, nei suoi problemi, incapace di affrontarla, o anche solo di capirla, che disperato e disperso si aggira e si agita senza mai trovare o capire. Tale è Larry, che la moglie vuole abbandonare per un più maturo amante, saggio e fors’anche simpatico; e pranzano anche insieme, pur se egli non comprende perché; ma che poi muore. I figli sono due macchiette, la figlia sempre a lavarsi e curarsi i capelli, il figlio ragazzo che ascolta musica durante la lezione di ebraico e fuma spinelli; ambedue senza carattere e senza senso. Nell’insieme il personaggio stralunato non è molto credibile.

Il film tende al macchiettistico. Un film molto ebraico, di una comunità ebraica che vive in villette, forse zona residenziale di una città o cittadina, una zona molto isolata e sola. Vi sono tre rabbini, cui il desolato protagonista si rivolge per consiglio, il giovane, il maturo, il supposto carismatico; ma da nessuno riceve una risposta sensata. Mentre il ragazzo distratto e scapestrato è accolto nella comunità in una cerimonia sontuosa. Un ebraismo tanto insistente quanto di scarsa consistenza. Una satira.

Nell’insieme il film non soddisfa.

 

 

                       novembre 09                            

Francis Ford Coppola, Intrighi di famiglia

All’Odeon di Lecce il 29/11/09.

Coppola tenta di riprendere il film d’autore, in bianco e nero; in una storia tutta sua, in parte anche autobiografica.

Qui un padre grande direttore d’orchestra. e grande patriarca. Ma il mistero sta nel figlio fuggito a Buenos Aires, donde pure ha origine la famiglia. Fuggito, scrittore mancato, tormentato. Tetro è il suo nome, che dà anche il titolo originale al film. Ha un fratello più giovane a lui legato e che lo raggiunge. E lì il mistero si scioglie dolorosamente perché non è suo fratello ma suo figlio.

La storia non si dispiega tuttavia nella sua pregnanza umana ed etica. Stilisticamente pregevole, umanamente manchevole.

 

 

Roland Emmerich, 2012

Al  Massimo di Lecce il 25/11/09.

Emmerich, di origine tedesca, il regista delle catastrofi, dei kolossal catastrofici. Nel ’96 Indepence Day, dove però c’era il problema dell’alieno, sempre ostile, sempre nemico, una distorsione etica molto diffusa; nel 2004 The day after  tomorrow, una catastrofica glaciazione.

Qui sembra essere la fine del mondo umano, che sarebbe stata prevista nel calendario maya e da altri profeti e veggenti, e con una data precisa, il 21/12/2012. E avviene per un surriscaldamento del sole, un aumento delle radiazioni di neutrini di cui irradia la terra, che subiscono poi una reazione anomala la quale produce calore; per cui la crosta terrestre  si dilata  e si fende in crepe via via enormi che tutto travolgono, tutto distruggono. Mentre lo stesso fenomeno in mare provoca enormi tsunami, onde anomale di gigantesca altezza che tutto sommergono, financo i monti. Questa vicenda catastrofica è condotta con saggezza, diremmo, con gradualità; e poi con grande perizia, con grandiosi effetti distruttivi. Sotto questo aspetto il film è pregevole e avvince.

Si salvano pochi, che in aereo raggiungono la Cina, la quale ha preparato delle grandi potenti arche, le quali resistono allo tsunami. Si salvano gli stessi scienziati e tecnici che conducono l’operazione; e i governanti che con grossi aerei raggiungono la Cina (ma non il presidente  USA che, stranamente, nel 2012 non è Obama ma un nero anziano – si sacrifica col suo popolo; e non il presidente italiano, cosa ancora più strana in questa fase di egoismo berlusconiano; e il papa). Si salvano i grandi ricchi, che possono permettersi potenti aerei (ma uno di questi, anziché uomini, vi ha stipato una decina di automobili, di cui forse è collezionista); e con essi, per vie misteriose, la famiglia del protagonista, uno scrittore mediocre con moglie (separata e nuovo compagno, che però perisce tra i macchinari rotanti di un’arca) e due figli. È la fuga, prima su di un piccolo aereo, poi su quello enorme, con sei motori, del riccone. Ma l’arca viene aperta anche alla folla dei presenti sull’ampio piazzale, che grida e invoca. Sempre pochi, pochissimi.

Ma non è la fine del mondo, bensì la fine di un mondo. Il cataclisma ha provocato lo spostamento dei poli, ha rivoluzionato la crosta terrestre, ma l’umanità delle arche, per quanto piccola, è salva. Come nel diluvio noachico. Nel finale le arche navigano tranquille su di un nuovo mare.   

 

 

Renato De Maria, La prima linea  

Al  Santa Lucia di Lecce il 22/11/09.

Un regista che ha lavorato soprattutto in televisione, ma che avrebbe dovuto dedicarsi di più al grande schermo; poi che ne ha le doti.

Un film notevole, questo, che riprende con forza la storia di un gruppo giovanile armato degli anni 1970-80 e della sua follia rivoluzionaria, «Prima linea»; follia perché la rivoluzione può essere soltanto un fatto eversivo popolare, mentre qui è la velleità atroce di un piccolo gruppo. Storia condotta sotto il segno della condanna. Che è quella della voce recitante del giovane capo, Sergio, il quale parla dentro le sbarre del carcere; voce che corre lungo tutto il film. Voce dolorosa, consapevole dell’errore, del crimine.

Su questa voce scorrono prima i filmati delle Brigate Rosse, i loro scontri con la polizia, le uccisioni. Poi le atroci imprese del gruppo. L’uccisione del magistrato che accompagnava a scuola il piccolo figlio, cui risponde la grande manifestazione popolare ai suoi funerali; l’uccisione del compagno «giovane, debole», che preso ha ceduto, ha parlato; «uccisione inutile» perché altri saranno presto presi e parleranno. Infine l’episodio che scorre lungo gran parte del film, la liberazione dal carcere di Susanna, la compagna amata da Sergio, il suo amore poi di sempre, amore austero, segnato già dal rimorso, dalla coscienza dell’errore; che a un certo punto Sergio dichiara a lei ancora infatuata. Episodio che scorre nelle campagne del Polesine, negli ampi orizzonti di quelle terre, sulle piccole strade fuorimano per evitare i controlli. Liberazione che avviene con venti chili di esplosivo che aprono una breccia nel muro, ma soprattutto con sparatorie che uccidono e uccidono. E dopo la quale egli dichiarerà l’errore, la sconfitta, la necessità della fuga; e lei non oserà più contraddirlo. Ma invece della fuga ci sarà il carcere.

Revisione lucida e amara di un brano dolorosissimo della nostra storia, in cui la tensione rivoluzionaria generata ma non attuata dalla Sinistra esplode nei giovani, carnefici e vittime insieme. Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno sono i due protagonisti.   

 

 

Pedro Almodóvar, Gli abbracci spezzati 

Al Massimo di Lecce il 20/11/09

Los abrazos rotos, una storia quasi usuale nel  suo fondo: la segreteria legata al capo, un uomo maturo e ricchissimo, un imprenditore, e da lui mantenuta – un fatto talmente frequente –, che non disdegna neppure qualche incontro venale (per la famiglia,  il padre malato, cui è legatissima; ma perché? se dispone del denaro del capo? una caduta di stile, e della figura morale della donna?) che poi trova l’amore, la passione intensa, la gioia estasiante di amare; e però insieme la morte.

Storia intrecciata nei tempi. Perché noi seguiamo anzitutto il regista ch’è diventato cieco, ed è ora scrittore e sceneggiatore; seguiamo il suo dolore di vivere e la sua solitudine interiore; ciò ch’è avvenuto dopo l’incidente, la piccola macchina investita nella sera dalla grossa e violenta; dopo la duplice perdita. E seguiamo insieme ciò ch’è avvenuto prima, la vita della giovane donna legata al boss, impersonata da Penelope Cruz e dalla sua smisurata passione; che poi fa un provino presso l’uomo che abbiamo visto cieco, ed è regista e l’accoglie nel suo film e di lei perdutamente s’innamora. E seguiamo questo amore, contrastato e spiato dal maturo boss (e dal giovane debole figlio), lo seguiamo fino alla tragedia. Amore e morte, un tema classico. Dopo di che restano delle spiegazioni  finali.

Film di forti passioni  come di forti colori, molto spagnolo e molto almodovariano.

 

 

Michael Mann, Nemico pubblico

Al Massimo di Lecce l’11/11/09.

Titolo abusato, nell’originale Public enemies.

Regista ormai settantenne, di grande esperienza ma ineguale, portato al film d’azione. Nel mio schedario Insider, del 2000, contro le multinazionali del tabacco e i loro pericolosi inganni.

Qui un film su Dillinger, il rapinatore di banche degli anni trenta, ch’egli conduce con stile e freddezza. Noterei tuttavia due ammanchi: l’eccesso di sparatorie, che nuocciono allo stile del film come alla sua dignità morale ed umana; e sono anche troppo ovvie. E il troppo facile incontro del protagonista con la ragazza cui si legherà sino alla morte che rapida sopraggiunge; legame di scarsa consistenza, così come inconsistente è la figura della donna.

Dillinger è magnificamente impersonato da Jonny Depp: la figura distinta, inappuntabile il vestito, il viso fine sempre un po’ teso, perché tesa è la sua vita, tra il colpo in banca, il carcere, la fuga, la polizia che lo bracca ovunque. Forse doveva essere dato più spazio all’uomo e alla sua vita umana; forse il film avrebbe dovuto alternare le due vite e anche saperle congiungere. Tradito troppo presto, troppo giovane, dal suo amore per il cinema, colpito alla schiena da un poliziotto appena fuori dalla sala. Ma è chiaro che il crimine deve avere la sua pena.

 

 

Alessandro Di Robilant, Marpiccolo

All’Odeon di Lecce l’8/11/09.

Di Robilant ha 58 anni e ha fatto almeno sei film con risultati ineguali.

Qui l’idea era di lavorare su Taranto, città di grande tradizione e di grande bellezza naturale ma orrendamente devastata dai miasmi del siderurgico e della raffineria, oltre che da quartieri dormitorio in cui è impossibile vivere decentemente – come il Paolo VI che compare qui – e da un tessuto sociale malavitoso di piccolo e medio calibro molto diffuso.

Il regista non riesce a raccogliere una visione d’insieme (c’è solo la protesta delle donne per l’antenna che si vorrebbe collocare davanti alla scuola) e si affida alla figura di un ragazzo la cui famiglia è dissestata (ha una madre dolce e affettuosa, e una sorella piccola ch’egli adora; ma v’è un forte contrasto col padre) e che vive di espedienti e di furto, fino all’omicidio impostogli da un boss, che lo porta nel carcere minorile. Figura primitiva, rude, ignorante, scarsamente espressiva. Lo stile è un po’ quello di Gomorra, di cui però non ha la complessità e la forza.

Uscito dal carcere il ragazzo ritrova la ragazza con cui aveva già simpatizzato e con essa decide la fuga; partono per Bologna. Ma nessun mutamento interiore è avvenuto perché il cambiamento di luogo possa significare una nuova vita.

 

 

Alessandro Angelini, Alza la testa

Al Massimo di Lecce il 7/11/09.

Il secondo film, dopo il notevole L’aria salata  del 2007, che già introduceva il rapporto padre-figlio. Il titolo allude al figlio oppresso dal padre? Sono quei titoli ermetici e scarsi di senso che i nostri registi, specie i giovani, sembrano preferire.

Qui un padre (Antonio, Sergio Castellitto) che ha concentrato tutto se stesso nel figlio Gabriele, dopo la mancata carriera come pugile, la perdita della moglie (una giovane e simpatica albanese), le insoddisfazioni del lavoro. Vive col figlio e vuol fare di lui un pugile, un campione. V’è una  pressione molto forte su di lui, un ragazzo snello, non robusto, una pressione anomala che certo lo danneggia, e lo può danneggiare anche nella sua crescita come pugile; perché schiaccia la sua personalità. Si avverte già una tensione, pur nella docilità del figlio.

La tragedia scoppia quasi improvvisa, ma non inattesa. C’è una ragazza rumena con la quale Gabriele simpatizza, passano una serata insieme, stabiliscono un legame affettivo; che il padre subito spezza in malo modo, la ragazza non vuole più saperne. C’è un match che il ragazzo perde, nella discussione che segue  rinfaccia al padre l’intrusione sulla ragazza, poi infuriato salta sul motorino. È una notte tempestosa,  pioggia e vento, il motorino scivola, il ragazzo batte la testa, c’è un ematoma che non può essere operato, il ragazzo è in coma e condannato.

Il medico chiede l’espianto del cuore che potrebbe salvare un’altra vita. Il padre esita, poi annuisce. La disperazione lo fa piangere a lungo. Ma soprattutto lo prende un desiderio ossessivo di conoscere la persona che ha avuto quel cuore, che poi è una ragazza goriziana piuttosto efebica, ch’egli trova e insegue e persegue come uno spiritato. È la seconda parte del film, un po’ dispersiva, dominata da questa ossessione. Il finale non convince, il bambino che nascendo ha causato il coma della madre e ch’egli le pone in grembo per ridestarla, forse pensando al coma del figlio.

Opera fortemente drammatica, intensa e tesa sempre.

 

Michael Haneke, Il nastro bianco 

Al Santa Lucia di Lecce, il 4/11/09.

Haneke riprende qui il tema del male, che domina i suoi film e ha avuto la sua vicenda estrema, e insieme pacata e in apparenza cortese, in Funny games, il film del male gratuito, il male per il male; ma era forte anche nel La pianista. Un tipico tema luterano, il male necessario.

Qui l’austerità di un film in bianco e nero, senza musiche. La società austera di un villaggio tedesco del primo Novecento. Dove il male domina  nella severità e nell’ipocrisia. Nella famiglia del pastore che atterrisce t figli con la sua parola dura e li castiga con le vergate. Nella famiglia del medico, che abusa della figlia e scaccia con parole sprezzanti la giovane donna che ha accudito alla sua casa. Nel barone che tutto domina, il padrone del villaggio che sfrutta i contadini. Una società dominata dal male, che gli adulti compiono e i bambini assorbono. Che inoltre opera in fatti criminosi e inspiegati: il filo teso che fa cadere il medico da cavallo; la morte inspiegata di una donna; il piccolo figlio del barone riempito di botte. Fatti che restano insoluti, opera di una forza occulta, di una malvagità che opera nell’occulto.

Grande rigore stilistico, grande bellezza, fredda e ambigua. Alcuni critici hanno ragionato sul fatto che questi bambini sarebbero stati poi, a suo tempo, gli aguzzini obbedienti, disciplinati, seri dell’orrore nazista; ma l’intento di Haneke sembra essere più profondo, metafisico, non storico. La sua società vive certo in un tempo, ma e assunta a puro simbolo.

 

 

                           ottobre 09

Terry Gilliam, Parnassus

Al Santa Lucia di Lecce il 25/10/09

Il titolo dice bene, Imaginarium of Dr. Parnassus. Perché qui Gilliam scatena l’immaginazione oltre ogni limite, e anche oltre ogni decenza artistica; in territori da film d’animazione, di pura stranezza, di nonsenso. È davvero il delirio dell’immaginazione.

Simpatico il carrozzone che aprendosi diventa palco; dove vivono, viaggiano, recitano – ma in realtà non recitano nulla, e per lo più non hanno pubblico, quindi anche non hanno da mangiare – quattro figure estrose e scombinate: il vecchio Parnassus, la sua giovane figlia Valentina – una bambola belloccia –, il nano, il ragazzo. Non v’è spettacolo, o meglio lo spettacolo sta nello specchio magico, dove chi entra trapassa in un magico regno d’immaginazione, in cui avvengono le cose più varie e più inattese, i paesaggi fantasmagorici, talora grandiosi, talora banali.

Dietro a tutto questo c’è il famoso “patto col diavolo”, il tema faustiano, ma qui piuttosto terra terra, dell’uomo che ottiene l’amore e la figlia, la quale  però dovrebb’essere definitivamente preda del male al sedicesimo anno. Un patto un po’ balzano; come la figura di Parnassus, beone e ubriacone, senza quella dignità che sarebbe necessaria alla lotta col male.

Il temperamento di Gilliam lo si sente, e non manca di forza; manca però di misura e di senso.

 

 

Luca Lucini, Oggi sposi

Al Massimo di Lecce il 24/10/09.

L’ultimo film di Lucini era buono, Solo un padre, meglio di altri del suo passato, tra cui il giovanilistico Tre metri sopra il cielo. Qui invece ricade nella mediocrità, in un percorso del resto altalenante. La critica ne ha parlato bene, come di un film commerciale e cassettiero ma divertente.

E però divertente fino ad un certo punto; del resto divertire non basta. C’è ad esempio una polizia burlesca, e perché poi? Così come il film è spesso macchiettistico, manca di misura, la misura giusta, il senso del limite; tanto più in una commedia, che non deve scadere nel farsesco.

Quattro coppie che preparano le nozze e poi si sposano; tra peripezie varie, nulla di serio tranne che per il maturo signore (e qui ritroviamo il simpatico Renato Pozzetto) che all’ultimo momento viene soppiantato dal figlio (un magistrato, una macchietta). Divertente davvero. e anche bella, è la danza indiana che si alterna alla pizzica pugliese, nella festa di nozze della figlia dell’ambasciatore d’India.

 

 

Samuel Maoz, Lebanon 

Dai Salesiani di Lecce il 27/10/09

Opera prima (?) di un regista israeliano. La guerra è la prima libanese del 1982.

La singolarità del film è il suo collocarsi interamente all’interno di un carroarmato; dell’esterno si vede solo ciò che vede il puntatore del carro stesso, si odono talora ordini dati all’altoparlante, oppure conversazioni telefoniche, scarse. Il regista ha scelto questo piccolo ambiente tutto chiuso, tutto corazzato, come l’abitazione di quattro ragazzi  di cui uno è un comandante di scarsa forza e scarso prestigio, cui i ragazzi talora ribattono, e con forza. Ragazzi giovani, timorosi, sofferenti, non alieni dal pianto. Nessuna virtù guerriera, nessun orgoglio eroico. Solo la vita chiusa, sudata, fetida all’interno del mostro. Che del resto spara solo qualche raro colpo e alla fine ne riceve uno che uccide il giovane pilota.

Dagli ordini che risuonano la guerra è distruttiva, con bombe al fosforo camuffate come fumogeni, con volontà di distruzione e di annientamento. Ma i quattro ragazzi no, sono piuttosto ragazzi e non altro, costretti al duro compito, al pericolo estremo, alla morte.

Film di grande rigore, film austero. Film antiguerra. Leone d'oro a Venezia.

 

 

Donatella Maiorca, Viola di mare

Al Santa Lucia di Lecce il 18/10/09.

Dopo aver collaborato con vari registi, nel 1998 fa un film, Viol@, non male; poi si dedica al telefilm per dieci anni, finché gira questo.

Un film notevole: per il tema, un amore lesbico nella seconda metà dell’800 in Sicilia; da notare l’immaturità del tempo, del luogo, col suo esasperato maschilismo. Per l’ambientazione, un terra aspra e dura, come aspri e duri sono gli uomini che l’abitano. Per le caratterizzazioni, a cominciare da Angela, la ragazza forte, la sua caratteristica femminilità appena un po' efebica, il volto terreo bruciato dal sole eppure fine, bello; la decisione incrollabile (Valeria Solarino, molto bene); ma anche l’amica Sara e soprattutto il padre (Ennio Fantastichini) con la sua rude violenza. Per il modo in cui è condotta la storia.

Ha dietro a sé un romanzo, Minchia di re, di Giacomo Pilati.

Il punto decisivo è quando la donna rifiuta il maschio, rifiuta di sposarsi: Angela, anzitutto. Cui segue il castigo atroce, la reclusione nella cella serrata da una botola, in cui lei resiste e protesta; da cui viene liberata per l’intercessione della madre, e però a patto che non sarà più ragazza ma ragazzo, e lavorerà col padre nella cava di pietra, e anzi gli succederà. Con Sara si sono amate fin da bambine, poi Sara è stata lontana per lavoro, ma al ritorno si ritrovano decise a riprendere il loro amore. Anche Sara rifiuta il maschio, rifiuta di sposarsi, ma non ha un padre con cui lottare perché il suo è morto in guerra. Storia drammatica, finale drammatico, doloroso. Hanno voluto un figlio, e Sara s’è fatta ingravidare, ma poi le doglie giungono improvvise nella notte, e non c’è un medico, lo devono raggiungere con la barca; alla fine c’è il figlio ma la madre è morta. Così Angela ha perso il suo amore di sempre.

 

 

Francesca Comencini, Lo spazio bianco

Al Massimo di Lecce il 17/10/09

Francesca è la sorella di Cristina, le figlie di Luigi Comencini, il regista di Pane amore e fantasia e di Tutti a casa, di molte altre opere significative. Nel mio schedario, di Francesca, Pianoforte dell’84, Và dove ti porta il cuore del 96, Liberate i pesci del 2000, Mi piace lavorare del 2004, A casa nostra del 2006.

Qui, essenzialmente, la storia di una  bimba che nasce prematura, quindi la storia di una madre in attesa. Dal libro di Valeria Parrella, lo stesso titolo.

La madre è una Margherita Buy molto intensa e anche molto sola, che forse ha sprecato gli affetti, e vive in una discreta desolazione. Anche la bimba le giunge da un rapporto incerto, con un padre che non vuol saperne. Eppure lei è insegnante in una scuola serale per adulti, un ruolo serio, importante; anche se il film lo tratta piuttosto casualmente; un ruolo che non sembra incidere su di lei.

Il nucleo della storia sono i due mesi di attesa, quando non si sa  se seguirà la vita o la morte, quando si attende e basta. Difficile da condurre, tuttavia risolto non male. Anche se il montaggio è forse troppo nervoso, spezza molto la vicenda. Il grande schermo è eccessivo; preferiremmo uno schermo piccolo per questa storia.                     

 

 

Cristian Mungiu e altri, Racconti dell’età dell’oro

Al Santa  Lucia di Lecce il 15/10/09

Conosciamo Mungiu dal suo 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, film dello squallore dell’età di Ceausescu; film artigianale, un po’ rude, ma certo significativo. Qui, con altri quattro, costruisce un film ad episodi, diviso in capitoli i cui titoli compaiono sulla scala di un tipico condominio di quell’età ironicamente aurea. Povertà, squallore, rudezza; albagia dei capi, sottomissione e servilismo degli altri, cioè di tutti. Anche il film è povero, piuttosto rozzo. Alcune volte la storia è giocosa, come quella giostra su cui tutti sono saliti per volere del capo, per cui non v’è più nessuno per fermarla e girerà fino ad esaurimento del carburante. Altre volte è sospesa tra il ridicolo e il tragico, come in  quella foto ufficiale, che deve comparire sul giornale del mattino, dove Ceausescu, già piccolo rispetto a Giscard in visita ufficiale, si è levato il cappello a salutare l’ospite, il che potrebbe significare una deferenza del socialismo verso il capitalismo; ma poi, corretta e stampata in tutta fretta, Ceausescu vi compare con due cappelli, uno in testa e uno in mano. Altre volte è tragica, il caso del trasportatore di pollame nel camion sigillato, la suggestione dell’ostessa di approfittare delle uova che le galline fanno durante il  viaggio; che non sono poche; per cui l’uomo finisce in prigione. E però chi si prendeva altrimenti quelle uova se non qualche membro del partito?

Lo squallore e la rudezza del film impediscono di gustarlo.

 

 

Ang Lee, Motel Woodstock                      

All’Odeon di Lecce l’11/10/09.

Ang Lee, regista di valore ma versatile, affronta qui un’impresa cui era  impari. Non basta un libro sul grande evento, quello di Elliot Tiber, per capirlo e farlo rivivere; specie per un regista dell’Estremo Oriente.

Il quale si affida al filo conduttore del giovane Elliot, figlio di una coppia di ebrei dell’EstEuropa, con un motel che va verso il fallimento. L’anziana coppia è strana, caricaturale, specie la donna, rabbiosa e taccagna; e per nulla ospitale. Sarà il figlio, che è anche capo della camera di commercio locale, con l’alleanza dell’ampio terreno di una fattoria, a salvare il motel cogliendo al balzo l’offerta degli organizzatori dell’evento che hanno già venduto 100.000 biglietti e pagano in contanti.

Ma questa storia è marginale e non possiede nessuna vibrazione umana. Ricostruire l’evento era certo una difficile impresa; l’evento, il suo spirito di gioiosa libertà, di fate l’amore non fate la guerra, di estrosa trasgressione. Spirito e valori. E all’interno dell’evento doveva svolgersi la storia. Di cui il film offre solo una panoramica (500.000 persone, migliaia di macchine) e alcuni frammenti anche simpatici.

 

 

Giuseppe Capotondi, La doppia ora

Al Massimo di Lecce il 10/10/09.

Debutto di un quarantenne che ha lavorato con successo nei video musicali dedicati a cantanti e nella pubblicità. Il titolo, come spesso capita a certi registi, non significa nulla, riferendosi ad un particolare marginale del film. Che è stato lodato da molta critica.

Il quale film è invece una storia piuttosto confusa, dove una ragazza slovena (nata a Lubiana), Sonia (Xenia Rappoport; ha avuto la coppa Volpi a Venezia, certo immeritata) che fa la cameriera d’albergo, in realtà è legata ad un gruppo di malavitosi svaligiatori di ville, e in questo attrezzatissimi; che già hanno svaligiato la villa del padre (donde la rottura), e nel film svaligiano una grossa villa in periferia. Legata ad uno di loro col quale si dilegua infine in Argentina; che però compare nel film solo due  volte, e assai tardi, in rapidi baci. E questo lo fa mentre è apparentemente in amore con un ex-poliziotto e detective privato, e con lui in parte convive: Guido, che custodisce la villa e vi rischia la vita, e anzi è dato per morto (oltre al funerale c’è la tomba al cimitero), ma probabilmente sottratto dalla polizia. Guido, che crede di aver trovato in lei il suo amore.

Figura ambigua questa Sonia, figura amorale, abile nell’inganno. Nella sua apparente dolcezza. Abile e decisa nel sottrarsi alla frequente tentazione dei maschi; anche perché ha già la sua vita e il suo piano. Inspiegato l’episodio in cui viene rapita e sotterrata viva, forse da una banda rivale; salvata poi da Guido.

Altre figure nel film spariscono e ricompaiono (l’amica Margherita, che si dice si sia gettata dalla finestra) e sarebbero momenti della psiche malata di Sonia, che avrebbe sofferto del primo suicidio su cui si apre il film. Scarsamente credibile.

 

 

Daniel Alfredson, La ragazza che giocava con il fuoco

Al Santa Lucia di Lecce il 9/10/09.

Il secondo film della trilogia di Millennium, dall’opera di Stieg Larsson. La prima è Uomini che odiano le donne. E però il regista è mutato: a N.A. Oplev è  succeduto Daniel Alfredson, un debuttante, che però costruisce un notevole film d’azione; anche se non può competere col primo, con la sua forza, la sua carica etica.

Il tema dell’odio maschile per la donna permane. Parte infatti da Millennium, la rivista che dà il nome al   film, un’inchiesta sullo sfruttamento delle ragazze che provengono dall’Est. Ma è soprattutto Lisbeth, la ragazza già incontrata, che incarna questa lotta. Ragazza che ha già tentato di uccidere il padre (gli ha lanciato una busta di benzina, incendiandola), l’esponente dei servizi segreti sovietici passato alla Svezia, con molti privilegi; la sua violenza con la madre che l’ha portata alla morte. Lisbeth, ragazza indomita, forte nella lotta, riuscirà a scovare il padre, e lo colpirà essendone colpita; e però nessuno dei due morirà. Noomi Rapace è  il suo nome d’arte, nome d’assalto.

Michael Blomqvist è l’altra figura centrale, il giornalista direttore di Millennium, che in lei crede (la polizia la incolpava di tre omicidi) e infine la salva.

 

 

Gaston Duprat, Mariano Cohn, L'artista

All’Odeon di Lecce il 4/10/09

Due registi argentini che hanno finora lavorato nel documentario e nel corto.

La prima linea del film è la truffa. Un infermiere d’istituto geriatrico si porta in casa un paziente (ma non risulta come possa portarvelo), un anziano in carrozzina, muto probabilmente per degenerazione senile, ma attivo nel disegno. Non si sa se abbia intenzione di sfruttarne l’attività perché l’infermiere è quasi altrettanto muto, volto immobile, inespressivo, a stento gli esce un sì o un no, totalmente introverso si direbbe. A un certo momento si vede uno scaffale con decine di disegni su carta arrotolati, e lui che si presenta ad una galleria d’arte, i disegni sono ritenuti interessanti, si fa la mostra personale, sale la stima, le vendite, intervengono altre gallerie anche a livello internazionale, ecc. Il ragazzo si è appropriato dell’arte del vecchio; quando il vecchio ha interruzioni o pause lui lo esorta, oppure tenta d’imitarlo. Il suo mutismo non impressiona perché l’artista in genere non è buon parlatore, parla con le sue opere.

L’altra linea è probabilmente di critica dell’arte del nostro tempo, totalmente degradata, al punto che qualunque oggetto può esser ritenuto arte, una sedia in mezzo alla sala, un vaso da notte, una “merda d’artista”. Compaiono qui difatti alcune espressioni classiche, che ciò che fa l’arte è il gesto dell’artista, che l’arte non sta nell’oggetto ma nel fruitore; sì che l’oggetto d’arte può essere qualunque.

C’è poi un tentativo stilistico, il film ha un preciso stile. Tipica l’andatura lenta, l’atmosfera grigia o giallastra, gl’interni poco illuminati (il film è claustromaniaco), il taglio dell’immagine per cui si vede solo la metà del volto, solo una parte della figura, il ritorno della stessa immagine. Un’estetica del brutto e dell’informe, ma un informe geometrico; e anche una musica inespressiva.   

 

 

Quentin Tarantino, Bastardi senza gloria 

Al Massimo di Lecce il 3/10/09.

Il miglior film di Tarantino? forse; da ricordare però Jackie Brown del ’98, che probabilmente è più fine.

Qui il bisogno di una giustizia radicale che fermi la barbarie nazista, ne annienti i capi ancor prima della storia, ne soffochi il disegno perverso e folle. Giustizia condotta da ebrei, il commando americano che li attacca nelle retrovie francesi, la giovane ebrea sfuggita al massacro nella piccola fattoria.

Una storia che avvince in ogni sua parte, con l’intrigo e con l’ironia (i cento scalpi che ogni soldato deve riportare), con la tensione, con l’attesa del grande colpo.

Esemplare il primo episodio, dov’entra in gioco il “cacciatore di ebrei”, l’ufficiale gentile (Christoph Waltz, attore austriaco, forse il migliore) che raggiunge lui solo la piccola isolata fattoria e discorre amabilmente col padre, e parla amabilmente francese, e tutto sembra svolgersi come se nulla dovesse accadere – ma la tensione è forte perché sotto le doghe del pavimento ligneo sono nascosti gli ebrei e quasi si vedono attraverso le fessure – ; ma poi giunge improvvisa la domanda atroce, col padre che non si sente di negare, e l’irrompere dei soldati che traforano di colpi il pavimento. E tuttavia la ragazza Soshanna riesce a sgattaiolare e fuggire, ed egli, uscito, la vede ormai lontana e vorrebbe spararle ma non servirebbe.

Analogo l’episodio nel bistrot, dove il maggiore è colto dal sospetto per l’accento di uno dei falsi ufficiali, che però afferma essere l’accento montanaro di Piz Palù, e lo conferma la grande attrice che siede con loro. Anche qui la tensione sale mentre gli avversari conversano e bevono (whisky, del migliore, o champagne), fino a che scoppia la sparatoria e il massacro (che però non si vede; spunta poi solo l’attrice, che si è nascosta ma è ferita).

Da un certo punto in poi tutto si concentra nel piccolo cinema in cui sarà proiettato il film del soldato glorioso che dassolo, dall’alto di un campanile, ha ucciso trecento persone; e sarà una celebrazione, e tutti i maggiori capi, Hitler compreso, vi converranno. Lì si prepara il duplice attacco, quello del kommando, ma soprattutto l’incendio provocato bruciando le trecento pellicole che il cinema ha in archivio, e che sono altamente infiammabili. L’idea di Soshanna, che quel cinema possiede, ereditato dalle zie; e che morirà in uno scambio di colpi col soldato eroe che per lei simpatizzava. Così come morirà la grande attrice, strozzata dal gentile ufficiale cacciatore di ebrei. Lui che tutto ha intuito, e che scambia la sua intuizione con la salvezza garantitagli attraverso una telefonata al comando americano; lui, il servitore impeccabile del Reich. Mentre si sviluppa la scena finale del grande incendio e della grande strage; l’annientamento dei malvagi.

Film talvolta un po’ rude (approssimativa e caricaturale la figura di Hitler), talvolta fine. L'idea di colpire i malvagi, anticipando la storia. Ma la storia ha i suoi tempi, e ha la sua nemesi: il bunker di Berlino, il colpo di pistola di Hitler, la famiglia di Goebbels e l'avvelenamento dei bambini, il grande crollo.

 

 

Neill Blomkamp, District 9

Al Massimo di Lecce il 1°/10/09.

Un regista di origine sudafricana passato in Canada, attivo nella pubblicità e nel cortometraggio, qui al suo debutto. Molto lodato per l’uso libero e vario della macchina da presa, e per altri particolari tecnici.

Ritornano qui gli alieni come nemici, dopo che per una volta tanto c’era stato l’approccio armonioso di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg; che però poi ritornava alla visione malefica con La guerra dei mondi, presa da Wells. Qui gli alieni sono esseri ibridi, dalla testa da insetto, dal corpo umanoide e insieme insettoide; sono chiamati gamberoni. Soprattutto sono percepiti come estranei e nemici, e relegati in un’immensa orrenda baraccopoli (District 9 ne è il nome), dalla quale tendono ovviamente ad evadere. Perciò la gente si fa ancor più insofferente e il governo decide di trasportarli a circa 200 km dalla capitale. Siamo in SudAfrica; lì si è arrestata la grande astronave che li ha trasportati, dopo essere passata sull’America.

L’impostazione della storia è confusa. L’arresto dell’astronave sembra dovuto alla perdita di un pezzo che è caduto; e gli alieni sarebbero addirittura 1.800.000, una cifra enorme, incompatibile con le dimensioni del mezzo di trasporto. Soprattutto resta ignoto il motivo del viaggio, che sarebbe poi una migrazione. E non v’è nessun incontro con gli umani, con le autorità, nessuna trattativa. Sono come degl’immigrati del tipo che chiamano clandestini, gente che abusivamente è sbarcata sul pianeta; né si vede o si sa nulla dello sbarco.

Quando il film inizia tutto questo è già avvenuto, e siamo alla fase della traduzione forzata. L’ufficiale incaricato dell’operazione è persona umana e simpatica, va di casa in casa chiedendo che firmino l’adesione all’ordinanza; operazione impossibile, vista la grandezza della baraccopoli. Questo ufficiale è gentile e ben disposto, e diventa amico di questi esseri, contro i quali, per la loro resistenza, si scatenano brutalmente le forze di polizia. Anche perché egli si è contaminato attraverso una ferita, e il suo corpo si va in parte trasformando nel corpo alieno; per cui medici folli e crudeli decidono di farlo a pezzi e usarlo per manovrare le armi aliene, che esigono un contatto biologico. Ma egli sfugge ed è inseguito.

C’è una specie di attacco finale contro alcuni resistenti, e lui che è riuscito ad entrare e manovrare una specie di grande robot umanoide. Attacco nel quale padre e figlio che erano con lui, riescono a risalire nell’astronave e a rimetterla in moto; e così infine essa riparte verso la sua patria, anche se solo con pochi; mentre l’ufficiale scompare.

Film brutale, inumano, deprimente.  

 

 

                               settembre 09

Giuseppe Tornatore, Baarìa

Al Massimo di Lecce il 27/09/09

Vorrebbe essere un film epico, la storia di una città (Bagheria), la città di Tornatore, lungo settant’anni, dagli anni trenta a fine secolo. Quindi il fascismo, la guerra, la liberazione americana, la nuova repubblica. Di queste fasi le prime tre sono giocate con troppa rapidità e dispersione, talvolta solo accennate. Anche se la città vi permane come protagonista con  le sue strade polverose, i suoi carretti e carrozzelle, il latte munto direttamente dalle vacche davanti alle case; le case basse, la povertà, l’analfabetismo. O anche i greggi di pecore sulla montagna. Strana la quasi assenza della mafia?

Il filo che vi corre è la storia di un bambino che cresce rapidamente (solo l’infanzia ha due scene suggestive, quella del bambino che corre e corre; e il bambino solo nel gran piazzale della scuola, dove anche perde una scarpa, e dove finirà punito dietro la lavagna). Il bambino cresce rapido, è Peppino (Francesco Scianna) che diventa un giovane comunista; è la sua vita, l’innamoramento e il matrimonio, i figli, la militanza; diventa consigliere comunale, fa un viaggio nell’URSS per conto del partito e ritorna dicendo di aver visto “cose terribili”,  non riesce a entrare in parlamento; forse si disaffeziona, forse perde il posto di militante stipendiato e va perciò a lavorare (a fare il muratore) in Francia; poi torna. Poi compare largamente brizzolato, apparentemente deluso: forse nulla è accaduto di ciò ch’egli aveva sperato. L’ultima e più lunga fase è dominata da questa vicenda di partito, non ben costruita tuttavia, e di cui si presume il declino.

Questa storia personale e familiare potrebbe dirsi la parte più viva del film; non priva di pathos nel suo declino politico. Intanto la città è cresciuta, è profondamente mutata: i palazzi, le auto che la invadono e la ingorgano. Mutamento che avviene con una certa gradualità, ma che a un certo punto troviamo esploso.

Nel finale la corsa del bambino è trasportata nella nuova città; così come vi è trasportato il bambino che si risveglia dietro la lavagna, e il gioco delle trottole su cui il film s’è aperto. Un ricordo? che vuol chiudere il ciclo?

 

 

Woody Allen, Basta che funzioni

Al Massimo di Lecce il 24/09/09.

Whatever works è il titolo, espressione di un pragmatismo che ha rinunziato ad ogni principio. Difatti il protagonista è un fisico settantenne, un universitario che si ritiene un genio e disprezza l’intero genere umano, così come tutte le persone che incontra; ha rifiutato e dissolto ogni principio, ogni ragione di vivere. Perciò ha già tentato una volta di suicidarsi gettandosi dalla finestra; perciò è stato abbandonato dalla moglie e vive solo in una vecchia casa modestissima con mattoni a vista.

Alla base del film v’è dunque un nihilismo totale. Con cui però il film tenta di convivere, tanto quanto ci  riesce; e in realtà ci riesce discretamente.

Il professore con una ragazza fuggita di casa che ospita per una notte e infine, dopo un anno, la sposa.

Ma ecco che arriva la madre, sulle tracce della figlia, e per la sua passione fotografica guadagna la simpatia di un robusto collega letterato del professore, e insieme di un esperto di fotografia; e formano una unione amorosa a tre (forse troppo rapida e improbabile), e fa carriera come fotografa.

Ma ora arriva il padre, sulle tracce della figlia e della moglie e, rifiutato da ambedue, incontra un desolato gay che ha perso il compagno, e parlando con lui capisce la causa delle sue disavventure femminili, e fa coppia col gay.

Intanto la madre ha individuato un bel ragazzo per la figlia e la spinge verso di lui, e la figlia infine cede, e lascia l’anziano marito; il quale, avendo persa la sua nuova ragione di vivere, si getta un’altra volta dalla finestra; ma cade sopra una donna che in quel momento passava, e la schiaccia e la riduce in ospedale tutta ingessata; ma sarà il suo nuovo amore. Così, con questi tre amori di diversa natura e fattura, ognuno si appaga e il nihilismo è perlomeno sospeso; si trova una provvisoria ragione di vivere.

Film simpatico, anche se complicato e posticcio nelle varie soluzioni; commedia vecchio stile, delle sorprese. Buono il testo, il dialogo.

 

 

Susanna Nicchiarelli, Cosmonauta

Al Santa Lucia di Lecce il 20/09/09.

Opera prima di una trentenne che ha lavorato finora come attrice, sceneggiatrice, autrice di corti.

Qui fa uno strano film sul partito comunista degli anni sessanta, un partito di borgata romana, o peggio un partito di adolescenti, dove ciò che conta non è la lotta di classe, la questione sociale, la liberazione dal bisogno e dalla povertà; anche il capitalismo è nominato appena. Ciò che conta è l’impresa spaziale dell’URSS, i suoi trionfi di quegli anni, la cagnetta Laika, Gagarin, Valentina Tereškova.; l’impresa in cui l’Urss si rivela più forte degli USA, la centrale del capitalismo. Un’Urss dogmatica e dispotica, che opprime la classe operaia, avendo concentrato il potere nel partito. Ma tutto questo, tutto ciò che di veramente significativo v’è nel modello sovietico, come nel Partito comunista italiano, in negativo o in positivo, il film lo ignora; condividendo la mente dei suoi sprovveduti adolescenti.

Per i quali, in particolare per la protagonista Luciana, la sedicenne che a suo tempo ha rifiutato la prima comunione, fuggendo quando già si trovava nella chiesa vestita da sposina – come usava allora –; figlia di un padre comunista scomparso e di cui ha raccolto l’eredità; per questa ragazza ha più importanza il possibile rapporto amoroso col compagno leader dei gruppo giovanile; sì che quando si sente da lui tradita è pronta a sfasciare la sede del partito stesso, in cui s'introduce di notte; tentativo che finisce in un amplesso con quel compagno.

Non si capisce se per caso il film abbia intenti parodistici, o scettici, visto com’è finito il grande partito dopo il crollo dell’URSS. O se sia soltanto ingenuo. Il finale con lo sbarco americano sulla luna è tropo breve e affrettato per ricavarne un senso.

 

 

Michele Placido, Il grande sogno 

Al Massimo di Lecce il 19/09/09.

Film notevole. La stampa insiste sul carattere autobiografico per il fatto che davvero Placido visse quegli anni in polizia, dove si era arruolato come tramite per raggiungere Roma e a Roma l’arte drammatica. Ma è un’angolatura errata: il film dev’essere visto senza pregiudiziali.

Qui il filo conduttore è la lotta per un’università democratica e concretamente formativa; lotta che si colloca nella Grande Contestazione che percorre l’Occidente. Una lotta che deve affrontare i professori; ma deve soprattutto affrontare la polizia, il fatto più strano e becero, di una politica insipiente, che si attesta sul fatto che gli studenti occupano una struttura pubblica e devono esserne scacciati; mentre la occupano per migliorarla. Qui gli scontri, fino alla grande battaglia che sta al centro del film.

Dopo di che, passato il ’68, la lotta si sposta, si allarga; alle fabbriche, all’alleanza con gli operai sfruttati; ai proprietari mafiosi che sfruttano i braccianti ad Avola; dove la polizia commette la follia di sparare sulla gente. E il passo ulteriore è la molotov, l’attacco alle banche, ai poteri forti.

È questa la grande storia, il tessuto del film. Il cui carattere più significativo è la gioia, la lotta gioiosa dei giovani, nella sicurezza dei principi e degl’ideali; cui s’intrecciano i rapporti amicali ed amorosi, le esperienze amorose. Questa gioia invece della rabbia (che pure non manca) è una singolare e felice intonazione del film.

Ovviamente questa lotta non è anonima: vi sono figure, personaggi. V’è Libero, il ragazzo torinese, il grande sorridente leader (Luca Argentero). V’è Laura, la ragazza dai saldi principi, dalle idee forti, la forte personalità; e con lei il quadro della sua famiglia, il padre autoritario, la madre timorosa, i fratelli un po’ timidi ma che tuttavia partecipano; l’infarto del padre, il dolore che lo ammorbidisce. E però Laura percorre decisa la sua strada; decisa e dolce ed espansa nei rapporti amorosi; con Libero, poi con Nicola. Figura di singolare rilievo (Jasmine Trinca). V’è infine quel Nicola poliziotto, che ha scelto la polizia per Roma, per fare l’attore (e sarebbe la figura autobiografica); infiltrato tra gli studenti si assimila sempre più a loro, si lega a Laura; mentre per altra via riesce ad entrare nell’Accademia; ed è Riccardo Scamarcio.

Il film finisce in un momento di grande dolore, il fratello che cede infine e si consegna alla polizia che lo reclama, il padre malato che lo lascia dopo averlo a lungo abbracciato. Laura che, in queste condizioni, non può aprire a Nicola e piange in ginocchio dietro la porta, lei così forte.   

 

 

Jacques Rivette, Questione di punti di vista

Al Santa Lucia di Lecce il 18/11/09

Il titolo italiano non ha senso alcuno. Il francese, 36 vues sur le pic Saint-Loup, esprime garbatamente una certa insensatezza; anche se il picco Saint-Loup ritorna, così come il paesaggio di una campagna un po’ rude, forse nel Sud della Francia. Rivette è autore fine, attratto dall’inconsistenza (si veda La storia di Marie e di Julien del 2004).  Qui fa un film molto teatrale, molto parlato, praticamente senza storia.

Un piccolo circo vagante per piccoli e piccolissimi paesi, dove non attira se non poche persone, restando desolatamente vuoto; alcuni clown e acrobati con variazioni sullo stesso sketch, simpatico certo, ma ripetitivo. Un senso di desolazione pur tra persone fini e gradevoli. Un’atmosfera irreale o surreale. Qui la vicenda di una donna (Jane Birkin), Kate, la figlia maggiore del capocomico improvvisamente morto, che ha lasciato il circo per dieci anni e ora torna, ma incerta, tormentata da quella perdita che ha scombinato il suo animo e il suo vivere.  

In quest’ambiente compare Vittorio (Castellitto), un italiano che vaga per la Francia su di una potente macchina, uno sfaccendato e spaesato che si unisce al circo, forse per curiosità, forse per simpatia verso la donna. Una simpatia scontrosa, un distacco empatico, una fondamentale estraneità.

Questo piccolo affresco, realizzato con tocco leggero e sapiente, ha forse un significato simbolico, un piccolo mondo in cui si è sperduti.

 

 

Werner Herzog, Il cattivo tenente

All’Odeon di Lecce il 13/09/09.

Herzog è uno dei maestri della scuola tedesca. Nel mio schedario L’enigma di Caspar Hauser e Cuore di vetro, due film visti in TV, e Fitzcarraldo dell’82.

Un film dallo stesso titolo era stato girato da Abel Ferrara nel ’92, simile e diverso, violento, contrastato.. Herzog dice di non averlo mai visto.

Qui notevole l’interpretazione di Nicolas Cage in quel trascinarsi quasi di traverso, una spalla abbassata, il volto fissato nel disagio del dolore fisico e della decadenza morale.

Una strana storia. Parte con un atto di bontà e di coraggio, si getta nell’acqua dell’uragano Katrina a New Orleans per salvare un prigioniero che lo supplica e la cui morte sarebbe certa; si guadagna la promozione a tenente e un dolore acuto alla colonna vertebrale che lo seguirà sempre. Da qui parte la sua degradazione: la cocaina forse dapprima per compensare i farmaci; presa ai consumatori, agli spacciatori, al deposito della polizia in cui lavora, fino al patto col boss, un patto di coca e di denaro in cambio di protezione; ha anche il vizio della scommessa, coi relativi debiti. Uno strano legame amoroso con una prostituta, incurante del suo mestiere, dei suoi clienti.

Questa discesa agli inferi dovrebbe condurre al dramma finale. Invece, stranamente, si risolve nel lieto fine. La cattura di quello stesso boss cui era legato; colpevole della strage di cinque persone tra cui due bambini, il caso che al cattivo tenente era stato affidato; e lui stesso partecipa alla cattura del suo amico (un comportamento sleale?). Quindi la poco credibile promozione a capitano (gli era stata persino tolta la pistola perché violento con una donna malata e con l’anziana che la curava), e insieme la guarigione del padre alcolizzato e della sua compagna che affogava ogni giorno nella birra; e la sua cara puttana incinta di un figlio.

In questo finale Herzog si smarrisce. Il cattivo tenente, promosso, premiato, felice con la sua strana famiglia, felice-infelice, pronto a riprendere il suo cammino di autodistruzione.

 

 

Francesco Maselli, Le ombre rosse 

Al Massimo di Lecce il 6/09/09.

Un film un po’ rude, come rude è l’ambiente in cui si svolge, il vecchio cinema abbandonato e diventato centro sociale giovanile autogestito. Forse è proprio il centro sociale con la sua spontaneità, la sua vitalità giovanile, la sua molteplice azione (musica, arte visiva, accoglienza d’immigrati, scuola per bambini) a costituire un modello di ciò che dovrebb’essere la Sinistra italiana, ora ridotta all’ombra di se stessa; estremamente divisa dalle posizioni ideologiche, impantanata nella ricerca di se stessa, incapace di azione, di colloquio e confronto con la gente.

Il professore che la visita e ne resta ammirato è l’intellettuale alienato e distruttivo. Poiché egli propone il “centro culturale”, la casa della cultura, quella creata dall’infido Malraux, lo psudocomunista che è finito gollista; certo poco adatto all’esemplarità. L’idea è raccolta e diffusa dai media; è ripresa dal grande architetto, che ne ha già disegnato il progetto e che una fondazione americana legata ai petrolieri finanzierebbe. Ma il grande architetto non si accorge della contaminazione, dell’immoralità della cosa? Il denaro del capitale, accumulato con lo sfruttamento e la speculazione, che finanzia l’opera del proletariato ch’egli sfrutta? Si muove la grande banca che vi farebbe un supermercato, un grande centro di acquisti; e così finanzierebbe il centro sociale ricostruito dietro. E la discussione continua, dominata dagl’intellettuali alienati, e porta tra i giovani il rifiuto ma anche lo scompiglio, porta alla dissoluzione del centro sociale. La distruzione si compie mentre gl’intellettuali continuano a discutere incoscienti. E intanto il governo di Centrosinistra è caduto, ci sono state nuove elezioni, e altri hanno vinto.

Nel finale compare un grande vecchio edificio abbandonato in campagna e due ragazze ne stanno prendendo le misure. Forse pensano ad un nuovo centro sociale? la speranza rinasce? o forse solo un barlume? poi che il film è troppo fortemente scettico, e rispecchia con forza il presente della Sinistra italiana dove nessuna speranza è dato concepire, ma solo una desolazione che via via si accresce.

 

 

Anne Fletcher, Ricatto d’amore

Al Massimo di Lecce il 5/09/09.

Sceneggiatrice e coreografa quarantenne americana al suo terzo film. Titolo originale modesto, The proposal, la proposta. Ricattatoria in quanto la manager canadese di un centro editoriale, donna di carattere che terrorizza i suoi dipendenti, minacciata dall’ufficio immigrazione per scadenza visto, costringe il suo assistente alla finzione matrimoniale (o anche al matrimonio cui segue divorzio) con promessa di promozione.

La manager è Sandra Bullock, figura di rilievo. La vicenda è scontata: ricatto, visita in famiglia con peripezie varie, conclusione amorosa (qui è l’assistente che s’innamora, con scarsa convinzione). La visita in famiglia è allietata da insoliti paesaggi alaskiani. Non v’è altro

 

 

Wayne Kramer, Crossing over

Al Santa Lucia di Lecce il 3/09/09.

Sceneggiatore sudafricano operante in USA, qui al suo secondo film. Notevole in questo affresco di storie intrecciate dove infuria il dramma degli immigrati che non hanno ancora la green card, la sicurezza di restare. E vengono da ogni parte del mondo. L’azione della polizia e dei servizi d’immigrazione che non dà loro tregua, irrompe nelle case, minaccia l’espulsione, l’adempie. Gente di ogni dove, non solo messicani e latini. Siamo a Los Angeles e la città è spesso presente coi suoi grattacieli, ma soprattutto col suo intrico di autostrade, quasi un simbolo dell’intrico in cui l’immigrato sta prigioniero, la tela si ragno che l’avvolge.

V’è una famiglia d’islamici, e uno dei fratelli sta nella polizia d’immigrazione; v’è il duro giudizio della famiglia sulla sorella troppo disinibita, e il fratello avvocato la uccide. La tragica condizione della donna nell’Islam. Ma un bracciale lo tradisce ed egli è preso proprio durante la cerimonia della nazionalizzazione, cerimonia grandiosa del giuramento alla nazione americana, mentre risuona l’inno nazionale.

V’è una ragazza islamica che nella scuola intesse le lodi degli attentatori alle tori gemelle, gli eroi di Al Qaida; ed è espulsa, accompagnata nel viaggio dalla madre, nel dolore, nello strazio della famiglia. Troppo tardi, certo. Bisognava essere più saggi.

V’è una ragazza australiana che ha fatto piccoli saggi e vorrebbe entrare come showgirl; e capita sotto le grinfie di un funzionario che le promette la green card a patto che gli sia disponibile per due mesi; ma poi cede, nauseato dalla freddezza di lei, e però le darà ugualmente la green card. Ma sotto l’esame dell’altro  funzionario che deve provare le sue doti artistiche la ragazza cade e deve andarsene.

Altre storie s’intrecciano. V’è la figura del poliziotto buono, Max Brogan (un Harrison Ford che ha perso carattere e grinta), che aiuta e talora salva questi poveri perseguitati. E tutti i servizi d’immigrazione sono severi ma corretti, onesti. V’è qui una visione insolita della polizia americana.

Resta il dolore acuto di questi poveretti cui non è ancora stato riconosciuto il diritto di accoglienza.

                               

 

                                    agosto 09  

Steven Frears, Chéri

Al Massimo di Lecce il 29/08/09.

Steven Frears, un regista inglese partito bene trent’anni fa con la famosa My beautiful laundrette, poi con Le relazioni pericolose, con Rischiose abitudini, Un eroe per caso (ma è Hero, il falso eroe massmediale del nostro tempo). E tuttavia un regista ineguale, dalla mano talora insicura.

Come in questo Chèri, derivato dal romanzo famoso di Colette. L’ambiente delle cortigiane di alto bordo di fine secolo, la Belle Époque, legate a monarchi, aristocratici, grossi borghesi; dai quali accumulano denaro e ricchezza. Frears ricostruise quell’ambiente con un eccesso di fasto, un ciarpame pesante; e le musiche sono pessime. E se Michelle Pfeiffer, che impersona Lea, è ancora bellissima e raffinata nel vestire, ma soprattutto nel carattere; la madre è troppo indecentemente grassa e il figlio, lo Chéri protagonista, è troppo infantile e pacioccone. Doveva essere più sottile e nervoso, e davvero bello, anche se fatuo.

Ma cruciale è l’amore di una donna quarantenne che nel suo mestiere non ha mai amato; che davvero s’innamora del ventenne, e vive con lui sei anni di vita. Poi il ragazzo la lascia per un matrimonio combinato e ricco; si sposa in chiesa, parte con la giovane moglie per l’Italia.

Lea si allontana il più possibile da Parigi, si rifugia a Biarritz, seduce un altro ragazzo, e però sempre perseguitata dal suo amore. E quando ritorna a Parigi riprende il rapporto amoroso, che tuttavia non dura perché Chéri non sa amare; non ha mai imparato ad amare, nel suo infantilismo ha appreso solo il piacere, che lo divora lasciandolo insoddisfatto.

A questo punto manca il finale. Frears lo improvvisa con una voce fuori campo che annunzia la guerra in cui la Belle Époque tragicamente crolla, e dopo la guerra il suicidio di Chéri. Perché poi? È vero che Colette aveva scritto nel 1926 una Fin de Chéry  (il romanzo era del 1920); ma Frears lo risolve e dissolve brutalmente.

           

 

                                   luglio 09         

Mark Waters, La rivolta delle ex

Al Massimo di Lecce il 5/07/09.

Opera di un regista statunitense di medio calibro, con propensione al fantastico. Titolo italiano scarso di senso, poiché non v'è rivolta. Ghosts of girlfriends past, fantasmi dei legami del passato., è l'originale.

Qui la storia di un libertino (Mathiew McConaughey) che disprezza apertamente l’amore come ogni sentimento, e disprezza il matrimonio; partecipa al matrimonio del fratello per farlo saltare. La storia della sua conversione.

Che il regista complica nel fantastico. Così la rievocazione della sua fanciullezza e adolescenza, passata accanto a Jenny, e la cui perdita può essere considerata il trauma che lo ha scombinato, potrebb’essere fatta  in termini di un flash-back realistico, senza quell’ingombrante letto volante che l’accompagna. Così lo zio (Michael Douglas), che ha fatto la sua stessa esperienza e ora gli comunica la sua saggezza, potrebb’esere meglio un personaggio reale anziché un’apparizione. Oppure, come di fatto avviene in due casi, realizzarsi in incubi notturni: quello della schiera infinita delle sue vittime; e quello, ancor più forte, del suo funerale e della sua sepoltura. Che è anche la reale morte del libertino, morte che si consuma lungo la meditazione un po’ dispersa e dispersiva del film; e quindi il passaggio ad un nuova vita: il salvataggio del matrimonio del fratello ch’entrava in crisi per un errore di lui; il brindisi al loro matrimonio d’amore; il reincontro con Jenny, di cui agli riscopre ora l’amore di sempre.

Il film avanza e demolisce i falsi cliché del matrimonio tomba dell’amore, del piacere senz’amore e senza coinvolgimento come quello di una vita felice (invece solitaria e desolata); rispetto alla grandezza e profondità dell’amore, del matrimonio, della famiglia. Sia pur partendo dal libertino. Questa era la sua linea. Sfrondato però dal ciarpame fantastico di cui il regista l’appesantisce, togliendogli credibilità.  Un’operazione che gli avrebbe dato uno stile, oltre che un più alto senso e una più convincente serietà.

 

                                        

                                         giugno 09

Vincenzo Marano, La donna di nessuno

Al Massimo di Lecce il 28/06/09.

Opera  prima di regista italiano operante in Francia, già attivo nelle serie televisive.

Opera notevole per la costruzione della storia, per le caratterizzazioni, per lo stile.

I titoli compaiono sullo sfondo di un acquario abitato da squali, molto significativo.

Ambiente di prostituzione di alto bordo, e insieme di tribunale e polizia.

Lo squalo è anzitutto il giudice Delvaux, giovane giudice sposato con la figlia di un grosso imprenditore. Un giudice anomalo, libertino, spregiudicato. Legato ad una delle prostitute che fanno capo all’agenzia di Tante Louise, Sarah Rousseau, la quale però ha stabilito con lui un vero legame amoroso, un legame profondo cui non vuole rinunziare. Mentre Delvaux la scarica senza riguardo alcuno, come una puttana qualunque. E intanto ha tentato di legarsi ad una giornalista che di Sarah è amica, persona leale che non accetta lo scambio. Un tipo che approfitta del suo ascendente sulle donne per indurle a testimonianze false, che dovrebbero imprimere al processo una certa direzione.

Il processo, come l’inchiesta, corre lungo tutto il film. Poiché una di quelle prostitute, la prima teste di Delvaux, è probabilmente stata gettata da una finestra ed è morta; mentre già era in corso l’inchiesta per prostituzione e droga del gruppo.

Delvaux è perseguito dal poliziotto del crimine Grégoire, tipo duro, che ha scoperto i suoi legami; e ad un certo momento c’è tra loro uno scontro durissimo. Nella scena finale Sarah, dopo aver tentato invano di recuperare Delvaux, si uccide con un colpo di pistola. Era stata lei a spingere la compagna dalle finestra, forse senza volerlo. La scena si svolge davanti all’acquario degli squali, il simbolo di un mondo, che tuttavia l’amore di Sarah aveva tentato di redimere.

Suggestivo l’uso del grande schermo e gli scorci su Parigi, sempre grandiosi anche se spesso cupi. La <donna di nessuno> è forse la prostituta senz’amore, non certo Sarah che ama intensamente

 

 

Anne Fontaine, Coco avant Chanel – L’amore prima del mito

Al Massimo di Lecce il 21/06/09.

Regista di origine lussemburghese operante in Francia, prima attrice, poi dagli anni ’90 regista non spregevole, anche se un po’ ineguale. Di lei nel mio schedario Nathalie del 2004, opera fine, anche se alquanto ambigua, dove le due donne sono Fanny Ardent ed Emmanuelle Béart. Dietro questo film sta il libro di Charles-Roux. Il titolo italiano aggiunto è fuori luogo.

Qui Coco Chanel è anzitutto la piccola ricoverata in orfanotrofio e abbandonata dal padre (poi la ragazza che con la sorella canta in un locale popolare, dove la sorella trova un ufficiale che la vuole sposare); e resta sempre fondamentalmente l’orfanella dal viso severo, dall’abito semplice e austero. Cioè quel carattere che poi svilupperà il suo stile essenziale, che sfronderà e abbatterà il vestire pesante e sovraccarico della Bell’Époque, di fine e inizio secolo. Questa continuità è visibile nel film.

E però la sua storia permane dolorosa e anche ambigua. Il suo rifugiarsi da un nobilotto allevatore di cavalli che ha incontrato nel locale; forse per disperazione-speranza; e diventare così la sua amante, pur senz’amore. Con tutto quel mondo di aristocrazia e borghesia sontuosa e libertina che vi circola e forse fa da controcanto alla sua semplicità. Dove anche incontra un gentiluomo inglese di cui davvero s’innamora ed è ricambiata. Qui un momento d’amore, pur se breve. Qui anche il discorso, tipico di quel tempo, e anche scontato, che amore e matrimonio sono due cose diverse; il matrimonio segue l’interesse e l’amore la passione; o la famosa e cinica espressione, il matrimonio tomba dell’amore; con cui il maschio giustificava  le sue trasgressioni.

E però quell’incontro lancia anche la sua attività di modista (i cappelli per signora) perché il gentiluomo è pronto a finanziarla; anche se lei sembra rifiutare. Ma egli muore presto in un incidente d’auto.

Audrey Tatou non sembra essere l’attrice adatta alla parte. Sostiene molto bene il carattere schivo ed austero della ragazza; ma vi è come fissata, immusonita; con quel viso scarsamente mobile, poco espressivo.

 

 

Todd Phillips, Una notte da leoni

Al Massimo di Lecce, il 20/06/09.

Titolo originale The hangover, Dopo la sbornia, molto più fedele alla storia; perché della notte qui non si vede nulla, cancellata dalla droga; e non ci sono leoni (c’è una tigre, per soprammercato).

Film pessimo di un regista mediocre, che la critica non ha stroncato come doveva.

Sarebbe l’addio al celibato di uno sposando con tre amici, in una notte a Las Vegas. Notte convenzionale e improbabile, se si considerano le foto finali. Sballata e noiosa, come sballato e noioso è il film.

 

 

Niels Arden Oplev, Uomini che odiano le donne

Al Massimo di Lecce il 17/06/09.

Danese quarantenne, attivo come attore, questo il suo primo film. Da Millennium dello svedese Stieg Larsson.

Opera di grande rilievo, condotta con mano sicura e stile coerente (si veda ad es. la scena iniziale); è un’inchiesta in cui avvengono ed emergono crudeltà atroci, e che tuttavia va verso una catarsi finale. Opera complessa, dura due ore e mezza.

La storia di una grande e potente famiglia svedese, i Vanger, in cui all’inizio emerge solo il problema della scomparsa della fanciulla dal volto angelico, che il regista mostra fin dall’inizio, e di tanto in tanto rimostra, Harriet, amata dallo zio come una figlia; scomparsa senza lasciar tracce, e che lo zio non ha cessato di cercare dopo quarant’anni.

Compare qui la figura di un giornalista famoso, ma soprattutto onesto e limpido, Mikael Blomqvist (Millennium è appunto il giornale), condannato in seguito ai suoi articoli di denunzia per un potente gruppo industriale, e che la corte ritiene infondati. In quel momento interviene lo zio, il quale pensa sia l’uomo adatto per risolvere il tormentoso problema della scomparsa di Harriet. E inizia l’inchiesta.

In cui quasi subito s’introduce la giovane Lisbeth, una hacker che spiava Mikael nel suo lavoro; una giovane nevrotica, che ha subito abusi sessuali e ancora ne subisce proprio da quello che è il suo tutore, in scene di dura crudeltà (la madre sta in clinica psichiatrica); un carattere forte anche se sofferente (si veda come reagisce immobilizzando nudo il tutore perverso), una collaboratrice preziosa, estremamente abile e tenace.

Inizia ad emergere il quadro della grande famiglia, dove alcuni dei fratelli hanno aderito al nazismo, e sono  antisemiti. La ricerca s’incentra su alcune foto di una sfilata dove il volto di Harriet si gira e s’impaurisce, alla vista di un uomo che però risulta sfuocato; e sulla sua Bibbia, dove compare una serie di nomi (o sigle) e numeri, che a poco a poco si capirà riferirsi a versetti della Bibbia concernenti pene per la donna peccatrice; e infine a donne scomparse, uccise nella zona; donne dai nomi ebraici.

L’inchiesta si apre allora sull’antisemitismo dei prepotenti fratelli Vanger e si giunge alla scena in cui uno di loro sta per uccidere il giornalista, ma è fermato dai colpi di Lisbeth, fugge in macchina ed è travolto da un camion, la macchina rotola giù per la china e s’incendia. Si scoprono i suoi delitti, che ha registrato con tanto di foto della vittima, nome e data. Si scopre che Harriet è fuggita in Australia; fuggita dal padre e dal fratello che la violentavano; Mikael, la trova, la riconduce allo zio. In tutta l’inchiesta ha un grande ruolo la ricerca su internet, oltre che su documenti di ogni genere; e  la grande abilità di Lisbeth.

La vediamo nel finale ritrovare e riabbracciare la madre, la vediamo rinnovata anche nell’acconciatura, quasi un’altra persona. Su tutto questo ha certo influito Mikael; il quale trova infine i documenti che inchiodano il gruppo truffatore. Così è stato battuto questo mondo di orgoglio, di perversione, di cinica crudeltà.

Buone le musiche, ritmate con sapienza.

 

                               

                                 maggio 09

Andreas Dresen, Settimo cielo

Al Santa Lucia di Lecce il 30/05/09.

Regista quarantenne tedesco al suo quinto film; con uno di questi, Catastrofi d’amore, ha ottenuto alla Berlinale l’orso d’argento.

Qui tenta un film sull’amore tra anziani, un tema di grande attualità anche utopica. Una sessantenne, sposata, che s’innamora di un settantaseienne. Si tratta di un uomo molto vitale, sportivo, in forma; e però delle  doti di spirito, di morale e di cultura, ma anche delle sue doti di sensibilità e di passione, si sa poco. Un personaggio piuttosto amorfo pur nella sua avvenenza, su cui il regista non ha lavorato.

La donna è in certo modo l’opposto: robusta, pienotta, volto insignificante; anche qui il regista ha trascurato il carattere.

Perciò la storia non acquista molto senso né forza. La donna discute col marito della sua decisione di lasciarlo; e anche il marito ha la stessa personalità povera; e lo lascia. Ma la vicenda amorosa non si esplica in quella che potrebbe essere la sua intensità e bellezza. Resta piuttosto amorfa.

Il film è troppo claustrato in interni; manca di respiro, di varietà e ricchezza.

Titolo originale Wolke 9, nuvola 9, ermetico; l'italiano Settimo cielo è davvero eccessivo, il settimo cielo sarebbe la più alta beatitudine.

Non vi sono musiche, una decisione originale, anche se ne aumenta la monotonia.

 

 

Lars von Trier, Antichrist

Al Santa Lucia di Lecce il 24/05/09.

Von Trier, il teorico di “Dogma”, del nuovo cinema nordico, ci dà qui un’opera di alto tenore  per lo stile, l’immagine, la forza dei personaggi (due soli attori, Willem Dafoe in particolare, col suo volto drammatico), il pensiero.

Un’opera divisa in capitoli: prologo, il dolore, la pena, i tre mendicanti, la persecuzione della donna, la fine, l’epilogo. E sempre col sopratitolo l’Anticristo. Il prologo è in bianco e nero, ma quasi l’intera opera lo è per il prevalere dei colori cupi.

Singolare il prologo, in cui la coppia è impegnata in un incontro amoroso, di grande efficacia iconica, mentre risuona uno stupendo corale di Händel; laddove il piccolo figlio si risveglia, è attratto da una finestra aperta mentre nevica, vi sale e precipita insieme al suo orsacchiotto. Anche qui la figurazione è sospesa tra il reale e il fantastico.

Segue il dolore, che nella madre assume carattere nevrotico e induce il marito, psicoanalista, ad una terapia che, dopo il mese passato in ospedale, si svolge in casa. Terapia che raffredda alquanto il loro rapporto, il calore dello spazio affettivo. Mentre il dolore appare insanabile; e tanto più quando la coppia si ritira in una casetta nella foresta, l’Eden. La donna a un certo punto si dichiara guarita, ma il marito non le crede; e infatti subito dopo si scatena l’odio di lei, forse una metamorfosi del dolore, un odio atroce che, dopo averlo colpito duramente fino a fargli perdere i sensi gli trapassa una gamba col perno cui è attaccata una mola. Una sofferenza estrema. L’uomo si trascina nel bosco e si nasconde in una tana di volpe; teme in lei un furore satanico, il tema che percorre l’intera storia. E però, quando infine riesce a liberarsi dalla mola, l’assale e la strozza, e ne brucia il cadavere.

Il tema satanico domina più i titoli che non la vicenda. La quale è semmai percorsa da un senso di paura cosmica, rumori, colpi di vento, apparizioni di animali (da notare l’uccello implume che cade dal nido ed è subito rapito dal falco che lo divora; che però sembra riferirsi alla tragedia del figlio); da certe affermazioni isolate, come quella che la natura è pervasa da Satana ed è Satana, anche la natura umana (dove riappare l’antico tema zarathustriano e poi gnostico e manicheo, del mondo corporeo come dominio dello spirito del male). Ma è piuttosto il tema del male che pervade l’uomo e lo tormenta, e infine lo spinge al crimine; prima nella donna, su cui la critica ha ricamato circa la misoginia di Trier; ma il crimine estremo e decisivo è quello dell’uomo che consuma la sua definitiva vendetta, e non ha compassione alcuna per la malattia dell’amata.

Il mondo umano e cosmico è pervaso e dominato dal male, né a questo v’è rimedio. Un tema di derivazione luterana, tipico del luteranesimo nordico. Si veda Kierkegaard, seppure in altri termini. L'Anticristo sarebbe una incarnazione del male nella fase apocalittica, un falso profeta; ma qui assume solo un significato simbolico.

Charlotte Gainsbourg, la donna, riceve il premio a Cannes per la migliore attrice ma non lo merita, con quel volto immobile, inespressivo. Il premio andava piuttosto a Giovanna Mezzogiorno di Vincere; le è forse stato dato come compenso al mancato premio a Von Trier.   

 

 

Marco Bellocchio, Vincere

Al Massimo di Lecce il 23/05/09.

Bellocchio, grande maestro del cinema italiano, ritorna qui con un film complesso e grandioso, costruito con grande coerenza e grande forza, un capolavoro.

Vincere è il titolo amaro di una perdita totale. Dopo una guerra disastrosa che è resa con pochi tratti distruttivi, la fine del dittatore, la sua grande testa schiacciata da una pressa; dopo che già il figlio l’aveva fatta rotolare per terra, quella testa presuntuosa e truce.

Nella prima parte del film si sviluppa la storia di una passione; un Mussolini appassionato pur nel distacco essenziale, nel senso supremo di se stesso (reso egregiamente da Filippo Timi). Con passaggi di estrema e ridicola presunzione come la sfida al Dio che se esistesse dovrebbe manifestarsi nei cinque minuti concessigli; il disprezzo vantato per il re e per la chiesa. Qui compare la figura della trentina Ida Delser, che poi dominerà il film, una straordinaria Giovanna Mezzogiorno, grande attrice come non mai. Qui la passione si scatena in ampie scene amorose, ed è la passione di lei, profondamente innamorata, ma anche di Mussolini, che giunge al matrimonio e al riconoscimento del figlio Albino (il nome del nonno) Benito. E però v’è un’altra donna, Rachele Guidi, e un altro figlio, che a tratti appaiono, come una visione o un fantasma.

La guerra interviene come un incubo, con quella scritta che fuoresce e quell’orrido fragore.

Poi l’ascesa al potere e il tempo del potere, che Bellocchio racconta con filmati d’epoca accentuando l’istrionismo e la vuota insana retorica del Duce, cui rispondono le solite folle oceaniche. Retorica ripresa e ricalcata nelle imitazioni del figlio ormai adolescente agli amici, che finiscono in alte e folli grida.

A questo punto Ida è emarginata e rinchiusa in manicomio; così come è rinchiuso a un certo punto il figlio. Rinchiusi senza speranza fino alla morte. Si svolge così la seconda parte del film; nel dolore estremo in cui si traduce il potere del dittatore, la sua ipocrisia, la sua ferocia; così come l’ipocrisia e la ferocia di quanti ne eseguono il truce disegno, queste suore, questi ecclesiastici, questi psichiatri che tradiscono il loro compito. Il manicomio è ricostruito con grande misura. Ida, forte, spera sempre, e ad un certo momento, aiutata da una suore, si traveste e fugge e raggiunge la sua casa accolta dal paese intero. Una fuga senz’esito. E però la donna non si piega a rinnegare quel passato che ha profondamente vissuto e di cui è fiera: il matrimonio, di cui conserva il certificato in un luogo segreto, il figlio. Essa l’eroe vero, di fronte al piaggiato eroe del fascismo che sconta i suoi crimini nella sconfitta e nel disonore.

Molto belle, fortemente espressive le musiche.

 

 

 Claudia Llosa, Il canto di Paloma

All’Odeon di Lecce il 17/05/09.

Secondo film di una regista peruviana che già si era fatta notare col suo primo film Madeinusa; e che qui costruisce un’opera di grande originalità, forza, bellezza, suggestione, e ottiene l’orso d’oro a Berlino.

Il canto risuona in vari momenti del film e le sue parole si leggono sullo schermo. Quasi sempre originale e suggestivo.

Qui una ragazza, Fausta, che ha subito il trauma dello stupro mentr’era nel seno della madre; stupro da parte di bande terroriste; e certo poi anche nel racconto e nell’angoscia della madre stessa; e che è come bloccata in quel terrore che fa parte del suo essere, è lei stessa. Non v’è quasi altro nella sua storia. V’è la morte della madre e la sua volontà di seppellirla al paese; volontà impotente perché manca il denaro; lo zio ha consumato i suoi risparmi nel matrimonio della figlia; e lei è assunta come cameriera da una pianista ma non ottiene l’anticipo che sperava. Intanto conserva il cadavere della madre sotto il letto avvolto in teli, presenza amata e macabra. Nella casa della pianista sta sola e silenziosa, si muove cauta come in un mondo ignoto e pauroso, certo a lei estraneo.

Poiché il suo mondo è quello delle favelas, mondo della povertà, che si stende in quello strano e suggestivo paesaggio di monti brulli dove lunghe e strette scalinate portano fino in alto. Suggestione cui si collega il folclore dei matrimoni, che ritornano insistenti nel film, momenti di abbondanza e di gaudio nella povertà e nel dolore di sempre; le spose in bianco col lungo strascico, spose opulente che scendono maestose da scaloni posticci; danze e canti.

Ma Fausta percorre tutto il film chiusa nel suo dolore e nella sua paura, né altro può essere. Perciò, anche, ha chiuso la sua vagina con una patata che peraltro germoglio, come osserva il medico; e che lei taglia ogni tanto. Particolare certo strano, e però in un mondo che a noi risulta tutto strano; talora ermetico.

Opera di  grande bellezza, di grande finezza estetica, nell’insieme come nel dettaglio: la figura che si rispecchia, le perle nel piatto della bilancia, il vaso. Con la carezza ad un fiore si chiude.

 

 

Isabel Coixet, Lezioni d’amore

Al Massimo di Lecce il 16/05/09.

Terzo film di una regista spagnola che opera ora a Hollywood, da un racconto di Philip Roth, protagonisti Ben Kingsley e Penelope Cruz.

Opera notevole, più di quanto pensi certa critica.

La storia di un professore universitario libertino, dopo la separazione da moglie e figlio, che approfitta delle sue allieve, sempre dopo l’esame, per rapporti di piacere senza coinvolgimento amoroso; e ha anche una donna più matura che incontra una volta al mese, ma sempre senza coinvolgimento. Anziano ormai, solo, cinico: abbiamo condotto una vita da adolescenti, vita immatura, dice la donna. Kingsley, a questo punto, è proprio il tipo adatto per questa ronda inumana.

E però s’innamora di un’allieva, una cubana; difficile dire in che grado, per una scorza così dura; c’è della gelosia perlomeno, c’è affetto. E però quando l’allieva, che fa sul serio, vuole presentarlo ai suoi nell’occasione di una sua festa, non osa, ed è fin troppo chiaro che non può osare, anche e tanto più che la ragazza ha parlato di lui. Così il rapporto si spezza ed è di nuovo solo, tranne gl’incontri mensili con la donna più matura.

La sua vita si fa più amara, più dura. Muore l’amico poeta con cui si confidava, resta ancora più solo. Passano due anni e una notte di capodanno ricompare la ragazza. Malata, colpita da tumore al seno, sfatta, angosciata. Non v’è più posto per l’amore. Viene perché vuole che le fotografi i seni (la fotografia è una sua passione, anche se debole ormai) prima che l’intervento li martirizzi. Poi c’è l’ospedale, l’intervento, la sua visita a lei, l’affetto.

Opera complessa ed amara, nella egoistica cinica immoralità del maturo professore; nelle vicende di dolore in cui sfocia. Dolore che purifica in parte una vita tutta trasgressiva. Dolore e affetto che la purifica e la nobilita.

 

 

Kevin Macdonald, State of play

Al Massimo di Lecce il 2/05/09.

Grande documentarista quarantenne inglese, qui al suo terzo film (dopo La morte sospesa e L’ultimo re di Scozia dedicato alla follia di Amin Dada), che però deriva da una fiction in sei puntate.

Film condotto con mano sicura. Potremmo dire che è la ricerca della verità condotta con onestà ed estrema determinazione da un giornalista militante; rappresentato tuttavia dalla figura pacata di Russell Crowe. Intelligenza, tenacia, pacatezza.

La storia ha il suo solito percorso tortuoso che in extremis raggiunge il deputato amico ed ospite (compagno di college, si rifugia a casa sua per sottrarsi all’assedio mediatico), Stephen Collins (che presiede il comitato spese della difesa), la cui giovane assistente e amante è  morta sotto il metrò, e però lui l’ha fatta spingere sotto per liberarsene. E finirà arrestato.

Vita pericolosa del giornalista che due volte sfugge alla morte e però continua calmo e sicuro la sua ricerca. Amore della verità, ci piace credere, e insieme amore dell’avventura e del rischio. In uno spirito tranquillo e forte che questo amore e questa pacatezza c’insegna.

                                 

 

                                aprile 09

Nacho García Velilla, Fuori menù

Al Santa Lucia di Lecce il 26/04/09.

Film d’esordio di un regista spagnolo. Un ristorante, il suo proprietario e chef altamente creativo, ne La Chueca, il quartiere gay di Madrid.

Dunque il problema omosessuale in un uomo che s’è sposato, ha avuto due figli, ha lasciato la sua famiglia come quella stessa di origine, si è completamente eclissato. Ma la morte della moglie lo costringe a riprendere i figli, fortemente odiato dal ragazzo sedicenne. Siamo in un ambiente dove l’omosessualità è ancora clandestina e oggetto di scherno; ambiente arretrato dove l’uomo Maxi, forse cinquantenne, è solo. Durante il film avviene l’incontro con un argentino volto della televisione, bel ragazzo che si rivela gay e gli corrisponde, e anche a un certo punto e dopo molte esitazioni si dichiara. Siamo lontani da Saturno contro di Ozpetek. V’è alla fine la riconciliazione col figlio e la prospettiva di una vita nuova.

Commedia sovraccarica di eccessi, come di linguaggio scurrile; quasi che quello fosse il linguaggio degli omosessuali. Non ben condotta la storia. Tentativo tuttavia di porre il problema.  

 

 

Massimo Venier, Generazione 1000 euro

Al Massimo di Lecce il 25/04/09.

Venier è il regista di Aldo, Giovanni e Giacomo, non male nei primi film.

Qui s’impegna in un quadro sulla generazione dei trentenni precari, sulla loro alterna vicenda. In realtà precario è il protagonista Matteo (Alessandro Tiberi), trentenne matematico di valore, che come cultore della materia tiene lezioni gratuite all’università ma non può godere della protezione del suo anziano professore ch’è ormai alla pensione (o forse il professore non si cura degli allievi), e in un concorso è battuto da un raccomandato; e precaria è la ragazza che capita in casa dei due amici, Beatrice, insegnante supplente. E però l’amico Francesco ha un lavoro stabile come operatore in un cinema; e l’altra donna che entrerà in gioco, Angelica, è addirittura una dirigente.

Ma la vicenda segue il Matteo che ha un impiego a tempo nel settore marketing di una grossa impresa, e più che cercare l’occasione per imporsi (tra l’altro arriva spesso in ritardo al lavoro) è dominato dalla paura del licenziamento. E quando la dirigente che lo ha preso in simpatia, e ne è nato un rapporto, gli offre un posto sicuro con lei a Barcellona, esita e poi rifiuta. Forse teme la donna, una bionda decisa; forse pensa di star meglio a Milano con Beatrice; ma insomma non è solo uno sfigato bensì anche un rinunziatario. Non è in gioco solo la società con la sua corruzione, con la sua scarsità di posti di lavoro, e l’offensiva del capitale in questa fase contro il lavoro stabile. C’è anche una volontà debole, che non è pronta ad affermarsi, non coglie l’occasione, non è pronta a trasferirsi all’estero neppure con doppio stipendio,  non è pronta al sacrificio, alla rinunzia.

Tentativo di un affresco un po’ esile e incerto, talora ripetitivo, talora noioso (ripetitive e noiose le scene in ufficio), con cadute di stile (tipica la buca nel pavimento), con personaggi non ben caratterizzati a cominciare dal protagonista. Tentativo non privo d’interesse d’indagare sui mali di una generazione.

 

 

Barry Levinson, Disastro a Hollywood  

Al Santa Lucia di Lecce il 22/04/09.

Titolo italiano balordo e irreale. Il vero titolo, What just happened?, che cosa insomma accadde? si riferisce probabilmente alla vicenda principale di questa storia, un film che viene proiettato a Cannes col finale che la produzione aveva eliminato: fatto piuttosto inverosimile. Un finale esageratamente sanguinoso, con in particolare l’uccisione del cane, inutilmente vendicativa; finale contestato nella proiezione di prova, e quindi cambiato.

Un affresco del mondo di Hollywood, mondo di cinema per eccellenza; affresco tormentato, e tuttavia condotto attorno alla figura del produttore Ben, Robert De Niro (con le due ex-mogli e i salati assegni di divorzio da pagare; con ancora una certa affezione per la seconda, Holly, e però sdegnato da lei) figura tuttavia pacata, in quella continua bufera, ben adatto ad affrontarla. Con dentro essenzialmente due storie: la reazione tempestosa del regista Jeremy al cambio del finale, reazione esasperata, folle; che poi a un certo punto sembra placarsi e accettare; ma si vendicherà a Cannes nel modo detto. L’opposizione di un attore che costa venti milioni di dollari, Bruce Willis, a tagliarsi la barba, le sue verbali reazioni feroci; e il suo burlesco comparire infine con la barba tagliata a metà.

Vicende anche caricaturali nel film di un regista di valore, di grande esperienza; che costruisce un’opera sontuosa, scorrevole, piacevole. Che in fondo non graffia, né sviluppa una vera critica. Con una presenza anche della città, presenza soprattutto notturna con le sue luci

 

 

Roberto Burchielli, Sbirri  

Al Santa Lucia di Lecce il 19/04/09.

Documentarista, sceneggiatore e autore televisivo, giunge qui con uno strano film, a mezzo tra documentario e storia. Strano anzitutto il titolo, dispregiativo, mentre si tratta qui di un gruppo di polizia antidroga che lavora con umanità, passione e quasi missione.

Certi critici hanno valutato la parte documentaria e accusato la parte narrativa e propriamente filmica di melodramma e simili. Al contrario questa parte è il buono del film. Una coppia romana perde all’improvviso un ragazzo ucciso dall’ecstasi durante un breve soggiorno diversivo a Milano e si dispera. La madre in particolare si dispera e dispera, ed è forse questa insistenza che è dispiaciuta a quei critici; ma in questi casi la disperazione non si misura. Altrettanto disperato il padre, Raoul Bova, con quel suo viso serio, scavato dal dolore. Questo è il fatto drammatico che riemerge sempre, accanto ad altri momenti di vita del e col figlio, amato e perduto.

Il padre, che è giornalista itinerante, sempre in viaggio, sempre lontano, sta sotto la dura condanna della madre, così come è divorato dalla sua pena. Decide di partire per Milano per un documentario sulla droga, aggregandosi ad una squadra di polizia; in realtà vorrebbe anche scoprire come è morto il figlio e chi porta la colpa di quella pastiglia mortale; vorrebbe fare giustizia al figlio. Della squadra ammiriamo l’umanità e la dedizione, per quanto confuso ci riesca il loro operare in questo che non è un documentario ma la loro attività antidroga da cui il giornalista trarrà il documentario; confusa, poco comprensibile, di scarso senso.

La parte viva è quell’altra.

 

 

Francesca Archibugi, Questione di cuore  

Al Massimo di Lecce il 18/04/09.

Regista intelligente e sensibile, con film notevoli: nel mio schedario Verso sera del 91, Con gli occhi chiusi del ’95, L’albero delle pere del ’98. Di tutti questi Questione di cuore (che ha dietro a sé un romanzo di Umberto Contarello) è forse il meno riuscito.

Questione di cuore in senso biologico, l’infarto che colpisce contemporaneamente i due uomini; e però insieme l’amicizia che ne nasce. Alberto ed Angelo. Due uomini molto diversi: uno sceneggiatore robusto (Antonio Albanese), buontempone e ciarliero, anche libertino, con una ragazza che lo lascia, e che in seguito al trauma entra in crisi, incapace di far nulla più, ad è accolto nella carrozzeria (dove lavora) e nella casa dell’altro; un magrolino dalla parola scarsa (Kim Rossi Stuart) che ha montato una carrozzeria di auto d’epoca, guadagna bene, acquista appartamenti, ha una famiglia con madre, moglie e due figli (ma la ragazza adolescente è chiusa e scontrosa), una vita normale e felice, si direbbe, tranne che il male lo perseguita e lo consuma.

L’amicizia nasce in rianimazione tra i due letti contigui (un po’ irreale quella chiacchiera e caciara in quelle condizioni) ed è un’amicizia vera e profonda, anche se obliqua; anche se giova soprattutto allo sceneggiatore estroverso e alla sua crisi; dalla quale si redime, ritorna dalla ragazza, e traduce in sceneggiatura la vicenda; quella vicenda in cui il semplice generoso amico muore.

Difficile capire che cosa questo film voglia dire. Semplicemente l’amicizia e la sua grandezza? che però non convince, non solo per la diversità dei tipi, l’estroverso e l’introverso, il grasso e il magro, il colto e inconcludente mentre l’ignorante è costruttivo; ma perché è a senso unico, l‘uno dà e l’altro riceve. Né si può dire che sia un’amicizia bella, espansa, gustata. L’amicizia e la sua capacità salvifica? per l’uno, mentre l’altro si consuma e muore.

 

 

Roberto Faenza, Il caso dell’infedele Klara  

Al Santa Lucia di Lecce il 15/04/09.

Faenza è regista intelligente e raffinato. Nel mio schedario Prendimi l’anima del 2003, Alla luce del sole del 2004, I giorni dell’abbandono del 2005.

Qui il romanzo di Michal Viewegh lo porta a Praga, città tra le più singolari d’Europa. Il tema dichiarato è la gelosia. Che tormenta Luca, musicista e insegnante di musica in una classe di bambini; ma Claudio Santamaria non sembra essere il tipo adatto, il tipo passionale; la passione manca, la gelosia resta in lui piuttosto superficiale, così come l’amore proclamato. Diversa, invece, e forte nel suo ruolo la ragazza Klara, studentessa di architettura (Laura Chiatti), bellezza fredda e ambigua, sfuggente; legata in qualche misura al suo tutor, almeno nella prima parte, mentre a Venezia, nel viaggio per la visita del Mose, si unirà al maturo detective.

Il quale detective dovrebb’essere l’opposto del geloso, colui che con la moglie vive la coppia aperta, e si dice felice dei suoi rapporti alternativi; ma è strano che questi rapporti li abbia solo la moglie; se si eccettua la notte veneziana. Ma poi questa coppia felice ad un certo punto crolla e si sfascia, anche se il motivo resta oscuro.

È questo detective, psicologo anche, uomo non privo di saggezza, che Luca, dopo esserne stato cliente, sceglie come amico che dovrà sorvegliare l’amata nel viaggio a Venezia; e che invece con l’amata lo tradisce. E però Luca ha inviato un altro detective e scopre il tradimento.

La pretesa sua guarigione non è credibile, e irreali risultano le nozze finali.

Una storia complessa e anche godibile; eccessive le scene di sesso nell’economia dell’insieme; ma di una complessità che non si amalgama e lascia perplessi.

 

 

Steven Soderbergh, Che. L’Argentino  

All’Odeon di Lecce il 12/04/09.

Soderbergh è regista intelligente che tuttavia non riesce a costruire film veramente significativi. Forse il suo migliore è ancora Sesso, bugie e videotape, premiato a Cannes, e che lo fece conoscere. Gli altri, Traffic (sul traffico di droga visto come inarrestabile), il confuso Intrigo a Berlino, e infine i tre Ocean’s Eleven apertamente commerciali.

Qui tenta un’opera di grande impegno, un film di oltre quatto ore diviso in due parti, su uno dei maggiori eroi e miti del nostro tempo. Impresa non facile. In questa prima parte la guerriglia cubana, dall’incontro con Castro in Messico alla via per l’Avana. Difficile certo ricostruire la guerriglia, specie i due anni sulla Sierra Maestra; che Soderbergh intreccia col Guevara vittorioso e ministro, negli USA per l’assemblea ONU; in bianco e nero; quasi a marcare la differenza dei due mondi. In particolare l’intervista e il discorso all’Assemblea. Dove alcune sue idee maestre. Dove interrogato sullo spirito della rivoluzione, risponde l’amore; sì, amore per l’umanità, poi aggiunge per la giustizia e per la verità.

Ma la nobiltà del suo spirito è presente sempre, il suo senso di una rivoluzione pura, mai ingiusta verso nessuno, il rispetto che esige per i contadini, l’amore del popolo. Ma anche la sua neutralità rispetto al modello e potere sovietico, che certo era l’opposto del suo ideale di  libertà e di giustizia; per cui si può dire che Guevara non avrebbe commesso l’errore di Castro di gettarsi nelle braccia dell’URSS, assumendone il modello autoritario, dittatoriale, oppressivo.

Presente sempre anche la sua fragilità, l’asma che lo tormenta; una figura seria, decisa, nobile, fieramente anticapitalista e antimperialista. Il film è tutto in questa figura, quella stessa che profondamente amiamo.

 

 

Steven Soderbergh, Che. Guerrilla

All’Odeon di Lecce il 3/05/09.

La seconda parte dell’epopea del più universalmente amato eroe del nostro tempo. Il film non si sofferma sul grande passo, grandioso, l’abbandono di Cuba, delle cariche nel partito e nel governo per riprendere la rivoluzione in America Latina; v’è solo la pubblica lettura della sua dichiarazione da parte di Castro. Non si sofferma sui motivi che al passo lo indussero. V’è il suo viaggio e l’ingresso in Bolivia da travestito. V’è subito la foresta boliviana.

Forse il Che non ha mai pensato che la rivoluzione non può essere il moto eversivo di pochi, la guerrilla armata di un pugno d’uomini; come risalta nel film; perché è per se stessa un movimento popolare; senza di questo non v’è rivoluzione, senza che il popolo si muova, anche sotto la leadership di intellettuali e borghesi, ma sviluppando la sua forza incomparabile e la sua creatività. Qui invece un pugno d’uomini soli, che hanno contro di sé il partito comunista il quale non crede in questa lotta armata; e il popolo, in particolare i contadini, troppo ignoranti e troppo succubi del potere, gelosi dei loro beni e prodotti di cui i guerriglieri abbisognano per sfamarsi, pronti a denunziarne la presenza all’esercito.

Il film è percorso da questa tensione d’insuccesso e di morte; dalla tristezza di una consapevole fine; di un’inutilità del grande sacrificio, anche se resterà sempre esemplare; inutile e insieme fecondo sempre.

La figura del Che è sempre nobile ed alta. Egli non crede in Dio ma crede nell’uomo.

Non si vede la cattura ma la prigionia, seppure breve. Si vede il soldato che lo uccide, si sentono i tre colpi, non si vede la mattanza. S’intravede il cadavere, S’alza allora un canto e il film chiude. Soderbergh è sobrio e rispettoso nel racconto della proditoria uccisione del grande prigioniero.

 

 

Pupi Avati, Gli amici del Bar Margherita  

Al Massimo di Lecce il 5/04/09.

Avati ci ha abituati a questi film strapaesani, a queste atmosfere e personaggi di quartiere; ma questa volta passa ogni limite e non riesce a costruire né una storia, né un’atmosfera convincente. Né il suo si può dire un film corale perché, a parte il luogo, non c’è nulla che unisca i personaggi; e i personaggi stessi sono troppo strampalati, troppo scombinati per essere credibili; c’è un eccesso di bizzarria che tutto sconvolge.

Anche i sussidi ch’egli introduce non s’amalgamano: il racconto in prima persona di un adolescente aspirante al gruppo del bar; un adolescente troppo inconsistente e impersonale; oppure la macchina da presa che segue la vicenda e ferma il momento nella foto in bianco e nero per ricordi di scarso risalto; o la banale foto di gruppo di ogni anno che poi viene appesa al muro del bar.

V’è un solo episodio che sorprende per il cinismo dell’adolescente; che celebra il suo compleanno con amici e amiche mentre il nonno è morente e poi morto; e disconosce persino la madre che lo chiama e infine irrompe nella sala della festa disperdendola. Quell’adolescente insulso che accompagna il film col suo insulso narrare. Un cinismo che poi non si motiva.

Perché l’altro episodio dello scherzo al mezzo scemo presunto cantante di San Remo è troppo stupido per essere significativo. O la presunta e insistita ninfomania del siciliano che finisce in galera.

Film mediocre e noioso, film inverosimile.

                             

 

                                marzo 09

James Gray, Two lovers  

All’Odeon di Lecce il 29/03/09.

Regista americano attivo dal ’94 con tre film di crimine. Questo è il suo quarto, in cui cambia registro.

Storia dolorosa di un uomo che ha perduto il suo amore per incompatibilità genetica (un morbo che avrebbe ucciso i figli), ma anche perché la donna non ha accettato l’adozione; ciò lo ha gettato in una depressione profonda in cui tenta più volte il suicidio. Su di un tentativo di suicidio si apre il film, l’uomo si getta in acqua da una passerella ma poi si pente e risale, grida aiuto e viene salvato; ma conserva sempre, sul volto come nel comportamento, le stigmate del dolore, il disagio del vivere, quasi una goffaggine.

In questa sua condizione cade nella rete della bella bionda fine ed elegante (Gwyneth Paltrow, attrice singolare nel tipo, ma scarsa nell’espressività), ricca, drogata, legata ad un grosso avvocato nel cui studio lavora e che però è sposato e tarda a lasciare per lei la moglie; donde il prospettarsi di un legame che però si spezza la sera stessa in cui i due dovevano partire insieme, perché in quella stessa sera l’avvocato cede.

Allora il suicidio di nuovo incombe, mentre passeggia lungo il mare (siamo a Brooklyn, Brighton Beach); lo salva il guanto che gli aveva regalato la donna che veramente lo ama, e lo attende, Sandra, figlia di amici; guanto che gli era caduto di tasca e che ritrova sulla riva.

Film notevole, la cui forza sta nella figura di Leonard, nel suo tipo segnato dal dolore (Joaquin Phoenix, l’attore preferito da Gray), nella costruzione e coerenza del carattere. Il titolo Two lovers non centra la vicenda, anche se vi è una donna amata da due uomini, la figura dell'altro amante essendo marginale. 

 

 

Marco Risi, Fortapàsc  

Al Santa Lucia di Lecce il 28/03/09.

Fortapàsc, il nome che Siani dava a Torre Annunziata nelle sue cronache. Marco Risi, figlio di Dino Risi, regista significativo con sensibilità politica. Nel mio schedario Colpo di fulmine dell’85, che appartiene alla prima fase, della commedia giovanile; Meri per sempre dell’89;  Il muro di gomma del ’91; Tre mogli del 2001.

Un film non propriamente di mafia, anche se la mafia è presente, la camorra napoletana, coi suoi boss, le sue lotte intestine, i delitti e le stragi. Ma qui è più la lotta contro di essa, condotta da un ragazzo, un giovane giornalista che dalla mafia sarà ucciso a 26 anni. Giancarlo Siani, una storia vera che Risi recupera dall’oblio.

Film di forte pathos nella figura di questo ragazzo semplice, schietto, che porta innanzi con semplicità e immediatezza la sua lotta in un ambiente devastato dalla malavita, dalla corruzione e connivenza dei politici, dalla meschinità dei giudici, dalla mediocrità del suo direttore all’agenzia del “Mattino” di Torre Annunziata; poi a Napoli. Immune, diverso, pulito. Figura luminosa questo ragazzo (Libero De Rienzo), la sua naturalezza, il suo impegno quasi ovvio, la sua forza di penetrazione, la sua tenacia spontanea. Fino alla sera in cui due sicari lo annientano nel cortile di casa. C’ in questa figura una forza, una luce, una speranza.

 

 

Andrzej Wajda, Katyn  

Al Santa Lucia di Lecce il 22/03/09.

Un film come questo ci voleva, per celebrare l’olocausto polacco, i 20.000 ufficiali massacrati dal macellaio Stalin, dai russi, dai giovani soldati buoni ragazzi di famiglia con un solo colpo di pistola alla nuca, e sepolti in grandi fosse nella foresta. Ci voleva per rinnovare in tutti noi la memoria dell’enorme crimine, dell’enorme mutilazione e sofferenza di quel popolo. Condividerne il dolore.

E ci voleva un grande regista come Wajda per condurlo con mano sicura, per costruire una complessa vicenda umana, al centro della quale c‘è certo la storia dolorosa che a tratti compare nel suo cammino verso la morte atroce; ma una storia colta in gran parte di riflesso attraverso la gente che sta a casa, le mogli, i figli piccoli che attendono e sperano.

Fino al primo colpo di scena, i tedeschi scoprono le fosse di Katyn (ma si vedono solo vecchi filmati) e raccolgono tutto ciò che questi poveri corpi straziati portavano con sé  e li identificano, e arrivano le liste; e la tragedia si dispiega nella sua immane ferocia. E però il nome di Jerzy, il capitano, non compare (aveva indossato il maglione di un amico, fattogli dalla madre, col suo  nome) e Anna, con la piccola figlia, continua a sperare. E così sua madre. Mentre sulla moglie del generale si abbatte un dolore invincibile.

I tedeschi incolpano i russi; ma poi arrivano i russi e incolpano i tedeschi, e la Polonia sta sotto il tallone sovietico e si sovietizza. La verità circola ma non si può dire, soprattutto nei documenti ufficiali. E il ragazzo Tadeusz, che gioiosamente si è salvato, si rifiuta di firmare la domanda all’Accademia di belle arti, e strappa anche un manifesto che esalta l’armata rossa e, visto, fugge e una ragazza lo salva su di un tetto, e sembra nascere un amore; ma ha dimenticato di togliersi la giacca di pelle ed è riconosciuto, e finisce contro una camionetta e muore. Ma anche Agnieszka, che ha fatto la resistenza, e ha fatto incidere la lapide per il marito con la fatidica data (la vorrebbe in chiesa ma è rifiutata perché pericolosa; è rifiutata al cimitero), finisce in prigione. E l’amica le ha detto che non vi sarà più libertà, che mai la verità si potrà dire.

La verità emerge dal taccuino di Jerzy, ritrovato, e Anna la legge: sono i russi che li prendono, e li chiudono in vagoni merci  fino a Smolensk, a 400 chilometri da Mosca. E infine vediamo il fatto atroce, il colpo alla nuca, uno dopo l’altro, veloce; nella stanzetta oscura dove il sangue scorre e viene lavato con secchi d’acqua; sul ciglio delle grandi fosse, in cui subito si cade, e la ruspa enorme vi rovescia valanghe di sabbia.

Qui il film chiude con un grande coro che traduce e trasfigura il dolore immenso. Le musiche sono di Penderecki, il grande musicista polacco, uno dei maggiori del secolo.

 

 

Tom Tykwer, The International  

Al Massimo di Lecce il 21/03/09.

Tykwer, il regista tedesco di Lola corre e di altri film di una certa caratura; passato a Hollywood.

Questo è un film d’azione che si muove su molti topoi comuni a questi film. Si avvale del grande schermo e di riprese dall’alto di grandi città, suggestive certo; o di altri luoghi suggestivi. Raggiunge effetti grandiosi, o anche di bellezza.

Pone espressamente il problema della potenza del denaro come di qualcosa che nessuno può fermare, non solo per i mezzi di cui dispone, ma perché coinvolge con la corruzione le strutture istituzionali, la polizia, la politica. È il discorso che fa il professore, che proviene però dall’ambiguo comunismo della Germania Orientale; che fa il presidente della banca quando sta per essere ucciso.

Qui una potente banca lussemburghese che finanzia il mercato delle armi ovunque nel mondo, fomenta le guerre etniche in Africa, il terrorismo di alto livello. Una banca criminale, quale è difficile possa esistere, che dispone di killer professionisti; contro la quale lotta un gruppo di agenti americani, e in particolare uno di loro, Salinger (Clive Owen). Ci sono momenti spettacolari, come sempre in questi film: su tutti la sparatoria all’interno del Guggenheim Museum a New York; l’uccisione di un commerciante d’armi e politico della Destra in un comizio davanti alla stazione centrale di Milano; la fuga del presidente sui tetti di Istambul.

Ma si sa che si tratta di una lotta impari, che non condurrà a nulla.

 

 

Courtney Hunt, Frozen River – Fiume di ghiaccio

Al Santa Lucia di Lecce il 18/03/09.

Opera prima di una regista americana quarantenne che ha vinto il premio della giuria al Sundance Festival.

Un film essenziale, duro. Il fiume ghiacciato è il San Lorenzo, tra USA e Canada. Qui una riserva indiana, famiglie povere che vivono in roulottes, donne sole con figli, donne dure e coraggiose che campano la vita trasportando immigranti clandestini sul fiume nel baule della macchina, in collegamento con le gang dell’immigrazione; li caricano, ritirano metà della mazzetta, li scaricano, ricevono l’altra metà; non una parola, salvo incidenti. Certo amano i loro figli, ma non c’è tempo e modo per gli affetti. Alla fine la bianca si sacrifica per l’indiana che ha un bimbo piccolo, e finisce in prigione.

Solitudine, desolazione, viaggi notturni, freddo e gelo.

 

 

Enzo Monteleone, Due partite  

Al Massimo di Lecce il 15/03/09.

In realtà solo nella prima parte si gioca: le quattro signore cha s’incontrano il giovedì per la partita a poker, il the, e soprattutto per stare e discutere tra loro, tra donne. Non nella seconda, in cui s’incontrano le figlie, subito dopo le esequie della madre di una di loro, che si è suicidata.

Il film deriva da una commedia teatrale di Cristina Comencini e il suo  più grosso difetto è di non aver saputo trasporre la struttura teatrale in una struttura cinematografica. In realtà si tratta di due discussioni nello stesso chiuso spazio (tipico spazio teatrale) del salotto in cui si gioca. Il solo momento cinematografico,  suggestivo, è quando alla corsa dell’ambulanza che porta Beatrice al parto segue subito il cimitero dove si celebra il suo funerale. 

Due generazioni, anni Sessanta la prima. Condizione tragica della donna: abbandono del lavoro per la vita casalinga; estinzione dell’amore e anche del colloquio col partner; doppia vita del maschio (moglie e amante) o anche, per rivalsa, della donna; solitudine, insoddisfazione, rivolta interiore. Il maschio ha il dominio, anzitutto economico. La discussione è un po’ sopra le righe, troppo verbosa.

La condizione delle figlie è meno chiara. Giulia, pianista affermata, rivendica la professione ed è pronta a rinunziare alla maternità; ma ciò non è palese nelle altre. Cecilia è in fecondazione artificiale, e pronta anche a vivere con un’altra donna. Il maschio sta in secondo piano, non domina né conta molto. Ma siamo anche nel momento che segue subito alla tragedia, momento di dolore e desolazione.

Tentativo interessante, anche se solo in parte riuscito.

 

 

Clint Eastwood, Gran Torino  

Al Massimo di Lecce il 14/03/09.

Gran Torino è il nome della macchina cult dell’anziano e burbero signore protagonista del film.

Il quale film ci lascia perplessi, nonostante la serietà dell’autore e protagonista; la storia che si risolve nella lotta del fiero combattente di Corea con una gang giovanile.

Nodo del film è semmai la figura austera di quest’uomo, figura solitaria, sdegnosa, sprezzante; eccessivo certo nel disprezzo. Ha amato la moglie Dorothy di cui vediamo le esequie all’inizio, ma non ha nessun rapporto coi figli; punto che resta inspiegato. E preferisce vivere solo col suo cane, seduto in veranda a leggere il giornale e a bere birra; gran bevitore. Buon vecchio americano razzista, disprezza i neri come gli asiatici; né disdegna il linguaggio grossolano e scurrile, lo ritiene anzi segno di virilità.

C’è però in lui un segreto. La malattia, di cui non si sa nulla tranne che sputa sangue; ma probabilmente la morte gli è vicina. C’è il dolore di aver ucciso, i tredici morti di Corea, uno colpito a bruciapelo, un rimorso acuto che lo tormenta. C’è una vita ormai inutile. Perciò decide di morire e alla morte si prepara: si confessa, per la prima volta in tutta la sua vita, e dalla reazione alle parole del parroco si sente quanto sia severa la sua moralità; si fa un vestito nuovo, su misura; si rade barba e capelli. Poi si offre alla sparatoria della gang, quasi vittima sacrificale, sapendo tuttavia che solo così la gang sarà sgominata, condannata al carcere. Consapevole dell’orrore di uccidere, preferisce essere ucciso.

Film austero e un po’ inconsistente. V’è però il tema della morte che lo sottende; e v’è l’inconsueta figura del vecchio burbero, della sua vita forte ed inutile, che val la pena troncare.

 

 

Giuseppe Piccioni, Giulia non esce la sera  

All’Odeon di Lecce l’11/03/09.

Piccioni,un regista dotato, che si muove mondo dei sentimenti: nel mio schedario Chiedi la luna dell’81, fragile film d’esordio; Condannato a nozze dell’93; Luce degli occhi miei del 2001, notevole, anche se maltrattato dalla critica; La vita che vorrei del 2004, intenso.

Qui invece un’opera esile, quasi inconsistente, con caratterizzazione debole, dialoghi scarsi.

Giulia non può uscire la sera perché è in carcere per aver ucciso il marito; un fatto raccontato con estrema leggerezza, quasi fosse nulla: lui le disse che la lasciava, lei lo uccise. Esce di giorno e lavora come istruttrice in una piscina.

Guido (Valerio Mastandrea) è la figura scialba di uno scrittore che concorre ad un importante premio che non vincerà; e intanto scrive brani che non hanno risalto alcuno. È semiseparato dalla moglie, andata ad abitare nella nuova casa; ha una figlia che tende all’obesità, forse perché sofferente negli affetti. La sostituisce in piscina – dato che il canone annuo era stato pagato – e lì conosce Giulia e ne nasce un rapporto scarso, incerto, senza passione,. che non conduce a nulla.

Film debole, anche un po' noioso.

 

 

Constantin Costa-Gavras, Verso l’Eden  

Al Santa Lucia di Lecce l’8/03/09.

Costa-Gavras, regista di talento con una particolare sensibilità politica, maturo ormai; strano che sbagli un  film su di un tema forte come l’immigrazione. Lo risolve nella fuga di un ragazzo (Riccardo Scamarcio) verso una città cha non è un Eden né un sogno, ma semplicemente un filo di speranza, poi che il mago o prestigiatore gli ha detto, se sei a Parigi vieni a trovarmi al Lido, ed egli non sa che è il grande teatro di varietà della capitale. Né tanto meno, nella sua ingenuità, capisce che quella parola di un momento, quando gli faceva da assistente in un lussuoso villaggio turistico, non aveva valore alcuno; come tante parole che si dicono a caso; e che la sua era un’illusione destinata a svanire nel momento stesso in cui reincontrava il famoso mago.

Verso l’Eden, titolo troppo grande anche se fascinoso; meglio però dell’originale Eden à l’Ouest. Dunque Parigi è il grande obiettivo del ragazzo greco che dalla nave individuata dalla polizia ha raggiunto la riva a nuoto. Un ragazzo sperduto in un mondo che non conosce, nessuna lingua con cui poter parlare, italiano francese inglese, belloccio e quindi considerato e anche aiutato dalle donne; ma aiutato pure da uomini come i due camionisti turchi che lo porterebbero fino ad Amburgo. Ma egli persegue il suo obiettivo che suscita piuttosto un’incredulità scettica e derisoria. Pronto nell’afferrare vestiario e cibo, veloce nella fuga ogni volta che incontra la polizia. Arriva infine al termine dell’illusione che ha perseguito con tanta tenacia, alla sua delusione.

Che cosa vuol dunque dire Costa-Gavras? che tutta questa emigrazione non ha senso? che non raggiunge nulla? ha ragione il compatriota che gli dice a Parigi non c’è lavoro e io preferisco tornare a casa dove ho la famiglia? Ma l’emigrazione è tutt’altro che illusione: è il cammino verso le società del benessere e la loro umana grandezza, che questi popoli sentono  come qualcosa che gli è dovuto; qualcosa che, come è posseduto da altri, così dev’essere per loro. Non un’illusione ma la coscienza di un diritto che, pur con tanti sacrifici, deve realizzarsi.

 

 

Darren Aronofsky, The wrestler  

Al Santa Lucia di Lecce il 7/03/09.

Regista statunitense di origine ebraica al suo quarto film; l’ultimo L’albero della vita del 2006, dove uno scienziato cerca nei secoli passati e nel futuro stesso la via per guarire il cancro della moglie; film tra incubo e sogno, allucinato, eccessivo.

Qui è la decadenza di un lottatore, impersonato da Mickey Rourke, figura estrema e insieme pacata, almeno a tratti.

Il wrestling, questa lotta spietata che dovrebbe essere proibita perché di una violenza inumana; dove il disprezzo della persona è totale, così come il suo massacro. Che persiste in America, quasi residuo di un passato selvaggio.

Un corpo enorme ma ormai flaccido e sfiancato, colpito da infarto; dopo l’interdizione medica il ritiro. Un'anima rozza, affondata in quella carne flaccida. Poi la solitudine, che una vita disordinata ha provocato. V’è una figlia che lo odia, e che però ad un certo punto sembra arrendersi alla sua insistenza; ma la sera in cui dovrebbero cenare insieme lui la passa a sbronzarsi e farsi di droga con donne facili; ciò che la figlia, che lo ha atteso invano per due ore al ristorante, sente come un ennesimo tradimento e lo scaccia per sempre. V’è una donna, danzatrice di lap dance, e anche meretrice, con un bambino; v’è una simpatia reciproca, un tentativo suo di un contatto cui lei resiste, e quando poi si decide è troppo tardi. Manca il denaro, vive in una roulotte, trova lavoro al banco alimentari di un supermercato ma non ci resiste. Decide di tentare di nuovo il wrestling, l’unica cosa che gli resta, sale al combattimento improbabile. Qui coerenza vorrebbe che fosse pestato e annientato, che fosse davvero finito; ma il film chiude mentre si sta gettando dall’alto sul corpo dell’avversario, e lascia incerti.

Opera condotta con mano sicura, profondamente dolorosa.

Premiato. a Venezia e col Golden Globe.  

 

 

Dennis Gansel, L’onda  

Al Santa Lucia di Lecce il 1/03/09.

Regista tedesco al suo secondo film (il primo, Ragazze pom pom, non era significativo).

Qui il tentativo di un esperimento di autocrazia o dittatura massificante in una classe di liceo.

Ma il tempo è troppo breve, una settimana di quelle a tema. Con elementi piuttosto esteriori: il rispetto del capo (lo chiameranno Signor Wenger), si alzeranno in piedi per parlargli; una divisa, la camicia bianca per tutti; un nome, l’onda; un logo, che i ragazzi diffondono in città riportandolo sui muri, o con autoadesivi; un crescente spirito di corpo; che però non sembra esclusivo (c’è una festa notturna in cui anche altri sembrano partecipare), né trapassa a forme di violenza come nelle gang (vengono semmai assaliti da una gang). Anche nella lettura che Wenger fa di alcuni  dei temi da loro scritti su L’onda, emerge soprattutto lo spirito di corpo, di solidarietà, dell’isolamento superato, dell’aiuto reciproco. Manca il rigore della disciplina, l’esclusione del dissenso, soprattutto l’aggressività e la violenza .

Il finale è tragico perché uno dei ragazzi, privo di famiglia, e che già aveva cercato rifugio da Wenger, si rifiuta allo scioglimento e alla separazione – la settimana essendo finita, e con essa l’esperimento –, ed estrae la pistola; prima colpisce un compagno, poi minaccia il maestro, poi si suicida. Il maestro è arrestato. Ma il gesto tragico consegue al travaglio e alla debolezza del ragazzo, più che alla formazione di una massa violenta.

Il film non convince, la storia è spesso dispersiva.

                                    

 

                                febbraio 09

Mark Herman, Il bambino con il pigiama a righe  

Al Santa Lucia di Lecce il 28/02/09.

Regista e sceneggiatore inglese, con Grazie, Signora Thatcher del 2006 diventa un esponente della nuova commedia britannica. Ma qui, riprendendo la Shoah e i suoi orrori, con un soggetto tratto dal romanzo omonimo di John Boyne, costruisce una storia tragica, lucida e insieme nuova, e ancora più dolorosa perché protagonista e vittima è un bambino. La costruisce con mano ferma.

Qui un ufficiale tedesco, un berlinese, è stato promosso, e festeggia alla grande la promozione (con un cantante inglese, distratto il regista). Ma quale promozione? a comandante di un campo di sterminio; davvero un macabro avanzamento. E vi si trasferisce con tutta la famiglia, moglie e due figli, con un .lungo viaggio forse in Polonia, in una villa tetra, custodita e frequentata da militari antipatici se non feroci, e da poveri inservienti ebrei del vicino campo. Disprezzati, oltraggiati, malmenati.

C’è, poco dopo, la dolorosa ribellione della moglie, non appena sospetta (i camini dal fumo denso, dall’orrido fetore), poi viene a sapere. E fuori di sé piangendo si oppone, chiede e ottiene il trasferimento; e siamo alla vigilia della partenza quando la tragedia accade.

Dove protagonista è Bruno, il bambino di otto anni dai grandi occhi, bambino avventuroso (in apertura del film  corre coi compagni a braccia distese come volando), che tra gli alberi intravede quella che pensa sia una fattoria con possibili amici coi quali giocare. E correndo tra gli alberi riesce a raggiungere quel filo spinato che non impressiona il suo animo ingenuo. E lì c’è appunto quell’altro bambino con il “pigiama a righe”, il cui nome è Shmuel, che diventa il suo compagno, con cui s’intrattiene ogni giorno. Fino a che, proprio l’ultimo giorno, ha deciso di entrare da lui (ha portato una pala per scavare sotto il recinto e passare), rivestendo anch’egli il pigiama a righe, per aiutarlo a trovare il padre che è scomparso. Pensa ad una ricerca avventurosa il piccolo. Ed entra infatti, e cercano nella baracca dove sono ammassati i prigionieri che attendono; e proprio in quel momento giunge l’ordine dello sterminio e sono tutti sospinti verso lo stanzone dove pendono le fatidiche docce; c’è un temporale e il piccolo pensa che li abbiano fatti riparare lì fino a che spiova. E li fanno spogliare, e sopra di essi chiudono la grande porta di ferro, e dall’alto viene liberato il gas. Sulla grande porta che rinchiude la morte sosta il finale, mentre risuonano le note del dolore e della pietà.

 

 

Ago Panini, Aspettando il sole  

Al Santa Lucia di Lecce il 25/02/09.

Esordio di un giovane regista, ben accolto dalla critica, ma che delude totalmente.

C’è un hotel un po’ fuori mano, nelle cui stanze avvengono cose piuttosto noiose. È notte, ma non è vero per nulla che  si aspetta il sole.

Nelle varie stanze due cineasti di bassa tacca  girano con due attori un film porno, le cui posizioni ci vengono risparmiate, per cui non vi accade quasi nulla. Due rapinatori di tabaccheria attendono un complice, sembra, l’uno spaparanzato su di un divano s’addormenta, l’altro conversa al telefono con lo speaker di una televisione privata, in un discorso  ripetitivo e più o meno insensato. Un tipo conversa a non finire al telefono con una certa Alice, senza che mai si riesca a capire nulla della conversazione. Un signore piuttosto compito tiene con sé di nascosto un cane (poiché è proibito) , cui dedica tutte le sue affettuose attenzioni. Una meretrice è accolta in camera da un uomo, e lei vuole il gioco forte, ma in questo gioco, di cui poco si vede,  a un certo punto gli dà un vigoroso calcio che lo manda a sbattere con la testa sullo spigolo di un mobile e lo fa morto; dopo di che lei si adopera con vari gesti più o meno senza senso, con l’intenzione di liberarsene. Un farraginoso e disordinato insieme di storie vuote, immobili, sconclusionate, in cui nulla in realtà accade; tranne che nel caso della meretrice, che però si muove nella stessa confusa temperie.

Intanto nella reception due ragazzotti, entrati con la scusa delle sigarette, importunano il portiere con vari scherzi pesanti e stupidi.

Alla fine l’albergo crolla. Non che  lo si veda crollare: si vede un tremolio di cose e di persone con polveri cadenti, e si viene a sapere che l’albergo è crollato, ma nulla si sa dei suoi abitanti. Crolla probabilmente divorato dalle termiti di cui tanto si discorre alla reception; si parla anche di una fuga di gas ma non si sente scoppio alcuno.

Un film maldestro, ripetitivo, noioso, che induce al sonno. Con un buon cast totalmente sprecato: Raoul Bova, Claudia Gerini, Vanessa Incontrada.  

 

 

John Patrick Shanley, Il dubbio  

Al Massimo di Lecce il 22/02/09.

Commediografo e sceneggiatore americano, che qui traspone in film una sua commedia del 2006. Aveva già fato un altro film senza molto successo; ma qui la trasposizione è seria, pur risentendo della teatralità da cui deriva.

Ed è lo scontro tra un parroco cattolico aperto e di idee progressiste (siamo nel 1964, dopo la morte di Kennedy, il Concilio Vaticano II è in corso) e una superiora e direttrice di scuola estremamente conservatrice e autoritaria; estremamente dura; quasi caricaturale. E alquanto caricaturale è l’interpretazione di Meryl Streep. Così come il film non è privo di un certo automatismo e di una freddezza di fondo. Piuttosto l’artificio che la vera passione.

Il nodo drammatico è l’accusa rivolta al parroco di attenzioni affettuose per un allievo; tra l’altro l’unico afroamericano della scuola; iscrittovi dalla madre per sottrarlo alla violenza di altre scuole (e tuttavia vittima della violenza paterna. Siamo nel Bronx). Accusa basata su ambigui indizi; dietro alla quale c’è un’avversione di fondo, uno scontro di carattere e d’idee. Accusa dalla quale il parroco non sa difendersi in modo convincente; e ci lascia perplessi; e che lo costringe a ritirarsi dalla parrocchia, al trasferimento.

La superiora ha dunque raggiunto il suo scopo, dichiarato, sbattuto in faccia all’uomo. E però nel finale, seduta sulla panca del giardino, è rosa dal dubbio e piange. Ha sostenuto con violenza l’accusa, ha anche mentito su di una telefonata ad una consorella di una parrocchia precedente, come tranello e trappola; ha raggiunto lo scopo; ma ecco che l’uomo è stato promosso ad una parrocchia migliore; e lei è infine tormentata dal dubbio. Troppo tardi.

Questa superiora, anche per il 1964, è piuttosto fuori dal tempo; come anche il collegio e la disciplina che vi regna. Suo contrappeso è una sorella di grande dolcezza (Amy Adams), che però non osa contrastarla e anzi l’asseconda; solo nel finale ha parole più forti.   

 

 

Stephen Daldry, The reader  

Al Massimo di Lecce il 21/02/09.

Daldry, regista  teatrale e cinematografico inglese, al suo terzo film, dopo Billy Elliott e il bellissimo The hours, incentrato nel suicidio di Virginia Woolf ma in cui tre storie s’intrecciano.

Qui un grande film, condotto con mano sicura; il soggetto proviene dal bestseller di Bernard Schlink, Der Vorleser, il lettore appunto. Siamo nella Germania postbellica. Dove l’incontro di un ragazzo, un liceale garbato, con una donna semplice, controllore di tram, la prima esperienza femminile di lui, con una donna fine, ma che rivela momenti di umore instabile e certo nasconde un segreto; che oltre l’incontro fisico vuole da lui la lettura, insistente; perché non sa leggere, è analfabeta si scoprirà poi. È lui il lettore, Michael Berg.

Una strana avventura che sembra chiudersi con l’improvvisa partenza di lei (Hanna Schmitz, la straordinaria interpretazione di Kate Winslet), la sparizione, e la delusione del ragazzo. Ma che invece precipita nella tragedia perché nel frattempo il ragazzo è studente di legge e, nell’ambito di un seminario, è portato dal suo professore ad un processo, e nel processo c’è Hanna, con altre cinque, SS e sorveglianti nel famigerato campo di Auschwitz, dove sceglievano le donne da inviare alle camere a gas, le più deboli e malate. Nell’interrogatorio di Hanna si sente la sua sprovvedutezza - di una persona in cui l'ignoranza diventa amoralità - che s’è arruolata nelle SS come in un lavoro qualunque, e ha adempito poi con ovvietà il suo compito di mortale selezionatrice. 

Ma ecco che è accusata di avere steso il rapporto per la  morte di 300 donne nell’incendio di una chiesa colpita da un bombardamento; le donne chiuse là dentro, la porta mantenuta chiusa sbarrata; il rapporto scritto che prova la sua responsabilità. Le è chiesto il confronto della scrittura, che lei rifiuta così accusandosi, perché si vergogna di dichiararsi analfabeta; ed è condannata all’ergastolo. E il ragazzo in quel momento capisce che quella sua insistente richiesta di lettura proveniva dal fatto che non sapeva leggere; e così ora il rifiuto di scrivere. È analfabeta, non sa né leggere né scrivere. E però non si rivolge al tribunale, o a un avvocato, al suo stesso professore (che pure lo richiama, se sa qualcosa che debba esser detta alla corte)  per  farli avvertiti che la donna ha mentito per vergogna, e così salvarla da quella pena. Ma così tutto il resto della sua vita, la sua stessa figura mesta di adulto, sarà segnata da quella colpa; e insieme dal trauma di quel passato atroce scoperto nella donna che amava.

Perché poi il film fa un salto di vent’anni e il ragazzo Michael è ormai un avvocato del foro berlinese (è Ralph Fiennes, lo splendido interprete del crudele ufficiale tedesco di Schindler’s List). Un uomo triste, quanto il ragazzo era gioioso; uomo solo, perché la moglie lo ha lasciato, schiacciato dalla vita, da quel trauma e da quella colpa. Siamo negli anni Novanta, nella Berlino pienamente rinata e splendida. E incide per lei delle cassette, tutti i libri che le aveva letto, e gliele invia senza mai però scriverle, forse perché sa che non può leggere. Ma Hanna impara a leggere e a scrivere, e gl’invia lettere cui egli non risponde mai; la donna lo ama ancora ma egli non può più amarla.. E va a trovarla solo perché la direttrice del carcere gli si rivolge dicendogli che la donna sta ormai per uscire, dopo trent'anni, e non ha punto di riferimento alcuno, non casa, non lavoro. Tranne lui. E va a trovarla, ma non c’è nulla di umano nell’incontro. E così, il giorno dell’uscita, la donna s’impicca, preferisce morire. Le è mancato quel poco di affetto, quel minimo di umanità che l’avrebbe salvata dalla morte; così come le era mancato prima quell’intervento che l’avrebbe salvata dalla pena. Il film si chiude in questa oscura atmosfera di colpa, di soggiacenza alla colpa.

La storia è costruita nel ricordo di Michael uomo maturo, che compare già all'inizio, e altre volte in seguito.

V’è una distrazione del regista: i libri della biblioteca carceraria su cui Hanna impara a leggere e scrivere in quella che sarebbe la sua lingua, il tedesco,  sono invece in inglese, e in inglese sono i biglietti da lei scritti. Musiche di Nico Muhli, americano vicino a Philip Glass, monotone alquanto; v'è un singolare  motivo iniziale, e che ritorna alla fine, forse il motivo dell'amore sofferente.     

 

 

David Fincher, Il curioso caso di Benjamin Button

Al Massimo di Lecce il 18/02/09.

Fincher, regista di un certo talento, seppur ineguale; così in Seven, storia di un serial killer colto e feroce, in parte anche in Fight Club. Qui costruisce un singolare film partendo da un racconto del 1922 di Scott Fitzgerald, ma trasformandolo profondamente. Un film notevole, di circa tre ore.

La storia di un uomo che nasce vecchio (a ottant’anni, il giorno stesso in cui finisce la prima guerra mondiale) e percorrerà la vita a ritroso fino alla prima infanzia. Quasi la ripresa del mito platonico del Politico, dove il percorso vero è quello dell’uomo che nasce anziano e quindi saggio, mentre il nostro percorso parte dall’inesperienza e ci porta alla decadente vecchiaia; è quello di un mondo alla rovescia, decadente, come in tutta la grecità.

Nel film preme piuttosto il tema di una vita cui scarseggia il tempo, nella sua bizzarra stranezza. Per cui la persona che nasce vecchia deve attendere di raggiungere la virilità e la giovinezza per immettersi in una vita normale. E passerà quindi quella prima fase, appena ne avrà la forza, fuori dalla  società, imbarcato su di un rimorchiatore che parteciperà alla seconda guerra mondiale in Estremo Oriente. Anche se avrà già fatto un incontro che si rivelerà poi decisivo, con una ragazza adolescente, Daisy, figura luminosa (Cate Blanchett), che alla sua partenza per l’imbarco gli chiede di scriverle ad ogni approdo. Ciò ch’egli farà, legandosi profondamente a lei. Ma lo stesso accadrà poi, quand’egli sentirà la sua giovinezza scendere verso l’adolescenza, e lascerà tutto, e viaggerà sulla sua motocicletta per il mondo, fino a che finirà in un ospizio, bambino che ha perso la memoria del suo passato e la sua stessa identità; e lì sarà ritrovato e ripreso dalla sua donna e amore di sempre, ora materno, che lo accompagnerà all’infanzia e alla morte.

Nel mezzo v’è la vita intensa. Ritrova Daisy, ormai ballerina étoile, attiva nei più grandi teatri in giro per il mondo; la rivede a Parigi, dove s’accorge che difficilmente può essere sua; dove però accade l’incidente, è travolta da una macchina, e la ritrova all’ospedale che ormai non potrà più danzare e sarà quindi tutta per lui. E inizierà così la loro intensa vita di amore, giornate intere, notti intere passate ad amarsi, a cogliere quel tempo, vivere totalmente quel tempo breve nell’estasi amorosa. E però sempre con una singolare saggezza; Benjamin (Brad Pitt) essendo figura di grande stupenda saggezza, forse perché proviene da quella saggezza platonica dell’età matura. Avranno anche una figlia che coronerà il loro amore. Poi, sistemati gli affari, i beni che ha ereditato dal padre (che alla nascita lo aveva abbandonato), egli parte silenzioso; e Daisy sa che così dev’essere.

Notevole la vicenda dell’incidente, narrata nelle coincidenze che all’incidente portano; perché essa in quel momento è scesa, e si è fermata con l’amica che doveva allacciarsi una scarpa, mentre quel taxi s’era fermato al caffè ecc.; quest’analisi del caso, delle incidenze che portano l’essere umano alla tragedia senza ch’egli nulla ne sappia.

L’intera storia è inquadrata nella Daisy anziana e vicina a morire, che chiede alla figlia di leggerle il diario di Benjamin, lei che vuol ripercorrere prima di morire quella straordinaria vicenda, e lo straordinario amore che l’ha animata ed estasiata. Amore e tempo, fuga a ritroso del tempo, è il pathos del film. 

 

 

Eran Riklis, Il giardino dei limoni

All’Odeon di Lecce il 15/02/09.

Lemon tree, meglio il titolo italiano. Regista israeliano emerso con La sposa siriana, premiato a Locarno e a Montréal; attento al conflitto, ai paradossi e alle ingiustizie ch’esso provoca, e proprio da parte israeliana.

Qui il paradosso è forte perché il ministro israeliano della difesa prende casa proprio accanto a questo stupendo e pericolosissimo giardino dei limoni in territorio palestinese (vi si possono annidare attentatori e terroristi); giardino che i servizi segreti pensano ovviamente di distruggere.

Ma il giardino resiste, troppo bello, coi suo grandi alberi, i suoi grossi turgidi frutti; un giardino edenico in cui fiori e frutti si succedono ininterrotti, quasi fosse sempre primavera. Un tesoro di bellezza, vitalità, freschezza che resiste alla distruzione. Come resiste la donna che lo possiede, che vi è cresciuta, vi ha passato una fanciullezza gioiosa col padre profondamente amato. Resiste fino all’appello alla Corte suprema.

Donna sola, triste; il marito morto che occhieggia da un brutto ritratto sospeso al muro; il figlio emigrato in USA (v’è un piccolo idillio con l’avvocato, la donna vorrebbe un uomo). E ora quel tesoro del giardino che i servizi hanno recintato con l’arroganza tipica d'Israele in tutta la fase conflittuale; gliel’hanno sottratto quasi non fosse suo.

L’arroganza israeliana. Il giardino diventa simbolo del furto, dell’occupazione indebita, dell’invasione che Israele ha fatto senza rispetto alcuno per l’identità e sovranità di un popolo. Compare di quando in quando il muro spettrale che gl’israeliani hanno eretto; muro della follia.

La sentenza finale consacrerà il paradosso: i limoni resteranno, ma ridotti a 30 cm. d’altezza; e sarà eretto anche lì un muro. Il ministro, affacciandosi dalla sua villa, non avrà più davanti agli occhi la bellezza doviziosa del giardino ma quell’odioso muro e, guardando dai pertugi, lo squallore dei moncherini di limoni.

Così avanza la follia distruttrice. Un film semplice, ricco di simbolo e di senso. Israele distrugge stupendi giardini per erigere muri.

 

 

Philippe Claudel, Ti amerò sempre

Al Santa Lucia di Lecce il 14/02/09.

Titolo enigmatico, Il y a longtemps que je t’aime, è da molto che ti amo, sarebbe un verso di una filastrocca, ma a chi si riferisce qui? all’amore della sorella più giovane che l’accoglie con vero amore di sorella e la porta infine a sgravarsi del suo peso?

Debutto di un romanziere e sceneggiatore francese. Un film costruito con grande rigore, forse troppo; rigore e grigiore. Ma anche stile, uno stile molto sobrio. Che riflette l’animo della protagonista (Kristin Scott Thomas), il suo segreto, il muro che vi ha eretto intorno,  dopo il fatto terribile dell’uccisione del piccolo figlio di sei anni affetto da un male che l’avrebbe portato alla morte, che lei come medico aveva capito, e che le era stato anche diagnosticato. Il marito già l’aveva lasciata. L’ha dunque ucciso per pietà? ma l’uccisione ha poi segnato di un  trauma insuperabile il suo animo materno? Poi è seguito il processo in cui lei ha taciuto sempre, in una probabile volontà di espiazione, e il carcere di quindici anni; e l’ostracismo dei genitori che l’hanno considerata morta; dei genitori e di tutto il mondo dei rapporti e degli affetti. Quindi la solitudine totale col  dramma nell’animo.

Ora ha scontato ed esce, accolta nella casa della sorella minore che l’ama, nella vita e nel calore di quella casa (ci sono due bambine vietnamite adottate). Ma lei vive ancora sempre nel suo dramma, nella solitudine del mondo che l’ha rifiutata, nel silenzio. Assenza di parola, quasi. Nel dolore, un dolore profondo atroce. Riesce ad avere un posto di segretaria in un ospedale; incontra un uomo che le dimostra una qualche simpatia; gli telefona anche, ma trova che non è disponibile. Pensa di prendersi una casa sua, di sottrarsi quindi alla sorella e al calore della sua famiglia, di mantenersi nel suo gelido grigiore. Infine la confessione alla sorella che aveva trovato casualmente il foglio della diagnosi.

Così chiude il film: forse quella confessione ha aperto il suo animo, ha iniziato la sua liberazione.     

 

 

Baz Luhrman, Australia

Al Massimo di Lecce l’8/02/09.

Regista australiano che vorrebbe celebrare un’epopea australiana con attori australiani come Nicole Kidman e Hugh Jackman. Regista spesso sospeso tra il grandioso e l’informe, tra il bello e il kitsch, la cui opera più significativa resta forse ancora il Romeo e Giulietta di Verona Beach, sospeso tra l’alto tenore poetico ed umano del testo di Shakespeare e il kitsch di ambiente e vicenda; con però anche la freschezza dell’amore dei due ragazzi.

Qui un’aristocratica inglese, Lady Ashley, che negli anni quaranta (la guerra) va in Australia per recuperare il marito e lo trova morto. Strano che non vi sia nessun interesse della polizia per questa morte; oppure la polizia era nelle mani del suo potente rivale e grande proprietario terriero Carney, che lo ha fatto uccidere; ma non v’è neppure particolare attenzione alla cosa, né riti funebri o espressioni di dolore. Il regista si distrae.

Una Nicole Kidman tutta fronzoli, per tutta la prima fase del film evidentemente fuori posto; poi entra con coraggio in azione; pur restando troppo esile e scarsamente credibile, mancandole il physique du rôle; così come la mobilità ed espressività del volto. Si tratta di riprendere in mano con coraggio e forza la fattoria con le sue mandrie; di entrare in gara col rivale battendolo in velocità in una fornitura all’esercito nel porto di Darwin. Qui punto di forza è il mandriano, col quale nasce anche un rapporto amoroso. La transumanza del bestiame ha momenti di alta suggestione per la grandiosità e bellezza forte del paesaggio; mentre più spesso il paesaggio viene sprecato.

La seconda parte, e più intensa, è il bombardamento di Darwin da parte dei giapponesi – dopo Pearl Harbour –  la navi, gli edifici del porto, i quartieri, gl’incendi, il fumo che tutto avvolge, una desolazione immensa; e in essa l’angosci per la perdita della Lady, e del ragazzo meticcio ch’essa ama e avrebbe voluto adottare se la legge non lo vietasse. Sono salvi, invece.

Il tema dell’emarginazione dell’indigeno, l’originario proprietario di quella terra, tipico del colonialismo, non prende forza. V’è quella figura di bambino,  molto presente ma non chiara; vi sono diversi negri, la proibizione di entrare nel pub coi bianchi, di bere in un bicchiere; fatti isolati; v’è appena accennato il tema della magia.

Difficile parlare di epopea di un popolo, l’idea stessa essendo troppo grande per questo regista. Perciò anche il paragone che taluni hanno fatto con Via col vento non regge.   

 

 

Fausto Brizzi, Ex

Al Massimo di Lecce il 7/02/09.

Quarantenne, sceneggiatore legato a Neri Parenti e ai film panettone, poi regista che raggiunge un certo successo con la commedia adolescenziale La notte prima degli esami, del 2006.

Qui un film sugli ex dell’amore: amanti, fidanzati, sposati. Sei coppie. Per concludere che, per lo più, se nelle coppie si sviluppa il conflitto, negli ex, quando il conflitto si è sedato, l’amore, che era più profondo del conflitto – spesso dovuto a capricci e banalità, ad intolleranza e suscettibilità – rinasce e le coppie si ricompongono. Come qui è il caso della prima coppia che rifiutava l’affidamento dei figli; la coppia dello psicologo (Carlo Bisio, dove la moglie è morta in un incidente forse voluto, ma il marito attraverso le figlie ne riscopre l’amore), del giudice (Silvio Orlando), del prete che ritrova l’amore della sua ragazza di prima mentre ne sta celebrando il matrimonio (vicenda ricostruita con delicatezza e simpatia); nel caso della giovane coppia franco-italiana, dove la ragazza da Parigi finisce all’ambasciata di Neo-Zelanda, c’è solo qualche incertezza finché i due, che si ricercavano, si ritrovano a Hong-Kong. L’unico caso in cui la ragazza sparisce è quello del medico timido che ha contro di sé un ex violento poliziotto. Nell’insime, dunque, una visione positiva e che sorregge la fiducia.

Impianto maschilista, visto sempre dalla parte del maschio; fors’anche perché il regista, che è maschio, conosce meglio il lato maschile.

Le storie s’intrecciano con sufficiente chiarezza. Personaggi un po’ sopra le righe, ma non sempre. Musiche per lo più assordanti.   

 

 

Bryan Singer, Operazione Valchiria

Al Massimo di Lecce il 1/02/09.

Regista di un certo talento, cresciuto nel cinema, I soliti sospetti è il suo film migliore.

Questo è la ricostruzione attenta e dignitosa della famosa cospirazione che mirava ad eliminare Hitler, elidere le SS, formare un nuovo governo, concludere la guerra; la quindicesima delle rivolte contro Hitler, l’ultima, la più famosa. Sua anima era Philip von Stauffenberg, un colonnello che s’era battuto in Tunisia, dove aveva perso un occhio, una mano e due dita dell’altra; aveva compiuto il sacrificio. Ma era anche il più consapevole dell’atrocità del regime e dell’errore della guerra, e il più deciso all’azione. Interpretato da Tom Cruise, che non sa dargli né un carattere né, tanto meno, un’anima. Più caratterizzate certe figure di ufficiali maggiori, di generali.

La storia ha la tensione che le conferisce la vicenda reale, e che corre lungo tutto il film, una tensione forte. I contatti e gl’incontri preparatori, il piano, l’azione che si sviluppa in quella riunione di alti ufficiali alla “Tana del lupo”, dove Stauffenberg stesso colloca sotto il tavolo la borsa che contiene l’esplosivo (che un altro ufficiale casualmente sposta), poi esce per telefonare, e avviene lo scoppio, e riesce a fuggire e a raggiungere Berlino. Ed è convinto che Hitler sia morto, e parte quindi il piano, la mobilitazione della riserva, la diffusione della notizia. Poi la radio diffonde l’altra e tremenda notizia, che Hitler si è salvato, l’esplosione lo ha toccato solo marginalmente. E inizia dunque la repressione, le fucilazioni, e così muore Stauffenberg, gridando alla Germania.

Film teso e doloroso di una storia che già conosciamo, anche se non nei particolari, che perciò seguiamo con partecipazione, e tristezza, dolore per coloro che hanno osato, e compiuto il sacrificio estremo

                                   

 

                                   gennaio 09

Sam Mendes, Revolutionary Road 

Al Massimo di Lecce il 31/01/09.

Torna il regista di American beauty, di Road to Perdition, un regista di talento che proviene dal teatro,  al suo quarto film. Il quale ha dietro a sé il romanzo di Richard Yates, ma è costruito con singolare forza drammatica.

La crisi tragica di una coppia che vediamo all’inizio nel primo sorriso, poi subito sposata con due figli e una bella casa nei sobborghi di una città del Connecticut. Ma l’uomo Frank (Leonardo di Caprio) compare subito nella folla anonima d’impiegati che affollano un treno di pendolari, e affollano poi l’uscita, l’ingresso al grattacielo della grossa impresa, l’ascensore; folla tutta eguale, tutta con cappello (siamo negli anni Cinquanta), tutta con lo stesso sguardo insignificante. La donna (Kate Winslet) la vediamo come attrice di una modesta filodrammatica di periferia; un insuccesso, cui segue un diverbio in macchina col marito, tipo vivace ma limitato, scarso nell’intelligenza come nelle aspirazioni, mediocre prepotente aggressivo.

Poi la vita di casalinga, la mediocre insignificante attività d'ogni giorno (lei che aveva intrapreso l'attività di attrice), la "solitudine disperata", con qualche mediocre cena coi vicini di casa. Mentre l’uomo vive la sua noiosa vita di travet. Una tipica coppia americana? tipica condizione di donna casalinga dei sobborghi? donna sola, annoiata, e col tempo disperata? ma per lo più rassegnata?

E però qui la donna, nella sua tensione liberatoria, ha  un’idea: raccogliere denaro vendendo la casa, ed emigrare a Parigi, la città del sogno; dove lei lavorerà in un’istituzione internazionale, ben pagata; mentre lui potrà inventarsi una vita sua, libero dalla deprimente routine dell’ufficio. Un’idea esaltante, una vita certo incomparabile con la mediocre periferia di una qualunque insulsa invivibile cittadina americana. Il grande sogno di una donna; ma l'uomo, il mediocre travet  ne è davvero convinto?

Insorgono le difficoltà. Lei si ritrova incinta, vorrebbe liberarsi con un aborto casalingo; ma lui scopre l’aggeggio e s’adonta per un fatto che lo riguardava e gli veniva occultato, e la sua  aggressività si rinnova. Un altro ostacolo interviene: l’impresa gli offre una promozione e con essa un buon aumento di stipendio; e lui decide che la nuova vita può esser realizzata anche qui, magari con una nuova casa, un nuovo ambiente. Il che è falso.

V’è un’accesa e drammatica discussione durante un pranzo con dei vicini il cui figlio e marito ha dei disturbi psichiatrici, che però gli conferiscono una grande lucidità e franchezza nell’affrontare e stigmatizzare il comportamento di Frank; il quale si trova aggredito e messo all’angolo. Segue una spiegazione tra i due: lei gli dice che il loro amore è finito, che non lo ama  più. Poi fugge nel bosco; raggiunta, sosta a pensare sola in giardino fino a sera; e lì probabilmente prende la sua tragica decisione.

Il mattino seguente lo accoglie gentile, singolarmente gentile a colazione, che prendono insieme; lo saluta da fuori l’uscio mentre sale in macchina per l’ufficio. Poi mette in atto la sua decisione: aborto provocato dopo il dodicesimo mese con conseguente emorragia suicida.

Segue l’attesa all’ospedale, la corsa di Frank nella notte, i commenti dei vicini. Frank ha traslocato, si dice che sia molto attento e affettuoso coi figli. Doveva essere più attento e più umano con la moglie, ma non ne era stato capace.  

 

 

Edward Zwick, Defiance - I giorni del coraggio

Santa Lucia di Lecce il 25/01/09.

Defiance, cioè sfida. Zwick, regista mediocre, raccoglie qui una storia di grande intensità e forte senso (dal libro di Nechama Tec), storia vera dell’Olocausto ebraico; e però non d’immolazione ma di resistenza, di lotta. Una storia di grande pathos, grande sofferenza; ch’egli racconta con semplicità, non direi con banalità perché è la storia stessa che non può scadere nel banale.

Storia che rientra anche nella questione dibattuta se gli ebrei non avrebbero potuto e dovuto resistere e organizzarsi con le armi, e contrattaccare l’orrida persecuzione nazista. E certo per le armi il denaro non mancava. Ma forse non lo fecero perché non pensavano che la vicenda dovesse avere un decorso e una fine così atroce; nessuno lo pensava. Ma forse da un certo momento sì, quando le prime voci incominciarono a diffondersi – dei campi, dello sterminio, delle camere a gas – e v’erano ancora ebrei chiusi in ghetti a migliaia.

Qui i tre fratelli Bielski, quando è avvenuta la prima incursione nel loro villaggio e i loro genitori sono stati massacrati, fuggono nella foresta insieme ad altri ebrei (siamo in Bielorussia), e vi s’inoltrano, e lì organizzano una comunità di sussistenza, di resistenza, talora di attacco al nemico. V’è in loro anche una volontà di vendetta, sia pur misurata. Tuvia (Daniel Craig) ne è il capo sin dall’inizio, col fratello Zus. Due volte sono costretti a trasmigrare, ricostruire le capanne, riorganizzarsi; la seconda volta attraverso una vasta palude – quasi un nuovo passaggio del Mar Rosso – e sotto l’attacco aereo e terrestre dei tedeschi, efferati come sempre. Ma si salvano, e con loro oltre mille persone.

Una sfida, certo, una storia di dolore e di coraggio.

 

 

Gus van Sant, Milk

All’Odeon di Lecce il 24/01/08.

Van Sant è un regista non privo di talento, anche se talora ineguale. Nel mio schedario alcuni dei suoi film, come Da morire del ’95, Will hunting - Genio ribelle del 98, Elephant del 2003, Paranoid park del 2007.

Qui un film biografico, la storia di Harvey Milk, che diventa a San Francisco il primo leader della lotta contro l’emarginazione omosessuale e per la parità dei diritti. Lotta nella quale poi soccombe. Van Sant stesso è omosessuale, direttamente coinvolto nella lotta.

La figura di Milk è impersonata da Sean Penn con fine caratterizzazione, misurata resa  della componente femminile del gay; soprattutto con l'incisività della parola. Percorsa d’altronde dalla pulsione di morte, in quanto lungo l’intero film egli sta registrando una dichiarazione cha dovrà servire appunto se sarà ucciso. In realtà ciò avviene (nel ’78, a quarantotto anni), per la follia di un collega consigliere comunale, Dan White, che le votazioni su temi omosessuali hanno lasciato sempre solo, e che il sindaci ha dimesso, scatenando il suo risentimento. Sarà ucciso insieme al sindaco, morirà per la sua grande causa..

Il film non costruisce una storia limpida, scorrevole,  coerente. Sta piuttosto sul versante del documentario. È però percorso sempre dal pathos dell’emarginazione, di un’ingiustizia profonda che s’è consolidata e resiste, di giovani che trovano difficoltà a dichiararsi per la forte ostilità che li perseguita; che toglie loro il lavoro, l’insegnamento, la loro stessa dignità di persone. Pathos che culmina nell’assassinio insensato, e si dispiega poi nella grande e bellissima fiaccolata notturna di migliaia di persone.

 

 

Stephen Elliott, Un matrimonio all’inglese

Al Santa Lucia di Lecce il 19/01/09.

Il titolo vero è un po’ meglio, Easy virtue, virtù facile, o fragile, ma quale? quella della vecchia aristocrazia imbalsamata? o quella dell’americana virtuosa? Con cui si cimenta questo regista australiano, in azione dal ’93 con Scherzi maligni, nel ’94 Priscilla, nel ’99 The eye, l’occhio o lo sguardo; non privo d’intelligenza, e non molto prolifico, il che non è male.

Qui un film universalmente lodato dalla  critica; in realtà una vecchia cianfrusaglia inglese, con la solita grande magione di campagna e  grande tenuta, la moglie acida, il marito alternativo, le figlie bruttine ed insulse; e ancora la caccia alla volpe, le feste, la vita senza senso, persa nelle frivolezze di cui questa gente si pasce; o si pasceva; siamo verso il 1930. Nauseante.

Anche l’americana, che vi capita col figlio maggiore e viaggiatore, non è una novità; così come è ovvio che sarà rifiutata ed espulsa; qui perché ha osato l’iniezione mortale al primo marito con tumore terminale, e non in grado di farsela lui stesso. Simpatica l’americana (Jessica Biel), pur nella vicenda scontata e nell’eccessiva esaltazione della sua bellezza; simpatica  nel suo resistere all’assalto. Non altrettanto il giovane marito belloccio e debole, che non ha la forza di sostenerla, di essere con lei. Che alla fine non può se non andarsene.

Un film di luoghi comuni; con musiche eccessive, ingombranti.

 

 

Ari Folman, Un valzer con Bashir

All’Odeon di Lecce il 18/01/09

Cineasta israeliano con un film, Saint Clara, e una serie televisiva, In therapy, ambedue del 2006 e ambedue notevoli. Qui un film d’animazione, elaborato  in quattro anni di lavoro; uno stile scabro, quasi rozzo, spesso approssimativo; forse voluto come più adatto al soggetto? ma talora un po’ goffo. Solo l’esito finale del massacro proviene da un documentario d’epoca.

Tema è la guerra d’Israele in Libano del 1982 - oltre vent’anni son passati- e i soldati che vi hanno combattuto; soprattutto il massacro e la distruzione dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, compiuto dai miliziani cristiani libanesi (tremila morti) per vendicare l’assassinio del loro capo, Bashir Gemayel; e però con la connivenza d’Israele. Strano il titolo, e un po’ irrisorio: si tratta pur sempre di un morto, stroncato dalla violenza.

Un primo tratto caratteristico è la rimozione. Il sogno ed incubo notturno di un uomo, dove cani inferociti corrono per la città fin sotto la sua finestra (grande scena di apertura, la rabbia, gli occhi dallo splendore cupo, la corsa rabbiosa dei cani); e sono i 26 cani ch’egli ha ucciso in un attacco notturno per impedire che abbaiassero. E però l’insieme della vicenda è stato da lui rimosso. Così come, e ancor più, l’amico cui la racconta, e che ha totalmente dimenticato la sua partecipazione a quel fatto. Che a sua volta ricorre ad un altro amico,  il quale ora vive in Olanda, per ricordare. Israele dunque rimuove le atrocità che ha commesso in questi decenni, nella sua risposta sempre prepotente e feroce, nel suo accanirsi sul popolo palestinese di cui ha occupato la terra. Rimuove le sue atrocità ma ricorda le atrocità dei miliziani cristiani; e qui dunque atroci sono i cristiani, piuttosto che gli israeliani d’oggi. Ma certo non bisogna dimenticare che per secoli i cristiani li hanno atrocemente perseguitati.

Il film non ha una vera storia ma solo brandelli di ricordo, dell’uomo che va via via ricordando; come quando in seguito a un contrattacco resta solo sulla spiaggia dietro una roccia, e fugge quindi via mare a nuoto, e giunge esausto ma tuttavia salvo tra i suoi. In tal senso il film risulta alquanto sconnesso, episodico.

Casualmente giunge nelle nostre sale proprio mentre Israele sta compiendo un massacro a Gaza, col pretesto dei missili di Hamas; una vendetta non solo da legge del taglione, ma del sette e settantasette volte di Lamek, il feroce patriarca biblico prediluviano. Una vendetta spietata su di un popolo di cui occupa abitualmente il territorio con le sue colonie, con angherie varie e continue, senza nessun rispetto della sua sovranità di stato autonomo. E fa uno strano effetto, questo film, proprio oggi.

 

 

Vincent Garenq, Baby love

Al Massimo di Lecce il 12/01/09.

Documentarista e sceneggiatore francese quarantenne al suo film d’esordio. Titolo originale Comme les autres, come gli altri, cioè essere come gli altri? essere un padre pur essendo omosessuale? Poiché è questo il nodo del film: un omosessuale quarantenne, pediatra, che ama i bambini, e che vuol avere un figlio; lo vuole fortemente. Emmanuel, la figura ben costruita di uomo virile ma gay, un carattere morbido, positivo, equilibrato; bella figura simpatica.

Il suo compagno di lunga data, rapporto stretto, rompe con lui per quel motivo. Lui cerca la donna da cui avere il figlio. La trova casualmente in una giovane argentina, una designer, che ha tamponato una sera, ha pagato il danno in contanti; la reincontra e la ospita poiché è rimasta senz’alloggio, le fa la grande proposta: un matrimonio di convenienza che le consentirà di restare in Francia (è senza permesso e, pescata dalla polizia, ha dichiarato di essere vicina a sposarsi con lui), mentre lei gli farà il figlio.

Due incidenti si frappongono: lui risulta sterile, e però il vecchio compagno consente a dagli il seme. La ragazza s’innamora e c’è una notte d’amore tra loro, ma lui le dichiara che non potrà essercene un’altra.

Il matrimonio si celebra, vengono anche i genitori dall’Argentina, ci sono familiari ed amici di lui. Il figlio nasce, è una bambina, ed è figlio di ambedue i compagni gay (un padre giuridico e affettivo, un padre biologico), e ambedue sono presenti, ambedue affettuosi, ambedue paterni. Alla piccola non manca certo l’amore, il nido d’amore in cui crescere.

Film simpatico, ben condotto, che smussa facilmente le asperità, anche per il carattere felice di Emmanuel. Film che affronta con mano leggera un grosso problema, un grosso pregiudizio e lo risolve con una sovrabbondanza d’amore per la figlia anomala – diremmo – ma più amata di molti figli normali.  

 

 

Gabriele Muccino, Sette anime

Al Massimo di Lecce l’11/01/09.

Secondo film americano di Muccino, dopo La ricerca della felicità, sempre con l’attore  nero Will Smith protagonista. Il titolo originale è Seven pounds, sette libbre, di carne si pensa, con richiamo al Mercante di Venezia di Shakespeare, alla richiesta dello strozzino Shylock. E però il senso qui non è chiaro. Qui si tratta di risarcire la vita di sette persone morte in un incidente d’auto ma non rigorosamente con altre vite, con carne viva; semmai con l’aiuto a vivere.

Il film non è ben costruito. Il flash back dell’incidente arriva troppo tardi, né il nesso col comportamento di Ben Thomas (il protagonista) è spiegato; così come non è evidente la morte della moglie in quello stesso incidente, se non forse alla fine. Il film si apre sul suicidio di Ben e la sua telefonata di suicida; che invoca forse aiuto? Alla fine forse si capirà che, nel rimorso (tremendo?) di aver sacrificato sette vite, tra cui quella della moglie, Ben ha deciso di suicidarsi, ma anche di compiere prima sette atti di aiuto alla vita (ma non sembra siano davvero sette). E però nel comportamento di Ben, nel suo eterno benevolo sorriso, non v’è nulla del tremendo rimorso, dell’inaudito dolore che dovrebbe tormentarlo; e in nessun modo si prepara il disperato gesto del suicidio. E in quel sorriso di sempre la sua figura riesce simpatica ma anche troppo monocorde, e un poco melensa.

Presa dunque la sua decisione di aiuto alla vita, egli si fa prestare dal fratello la tessera d’ispettore delle imposte (ma lo si saprà solo alla fine) e compie un giro di visite a contribuenti morosi, e concede loro delle dilazioni che facilitano le loro vite. Una di questi è Emily (Rosario Dawson), la ragazza dal cuore sofferente (poi salvata dal trapianto), la figura umanamente più viva, nella sua fragilità minacciata dalla morte, che cerca in lui un sostegno, e stabilisce un rapporto che raggiunge almeno in lei l’amore. È questa la  storia più  intensa, l’unica; non priva di ambiguità perché se il sentimento di Emily è autentico, non lo è quello di Ben, che si limita alla benevolenza e pensa al suicidio. L’altra storia, più breve e superficiale, è quella della donna vittima delle violenze del compagno e ch’egli salva trasferendola coi due piccoli figli nella sua casa al mare.

Nell’insieme il film, ripetitivo, non si salva del tutto dalla  noia. Il suicidio finale, non essendo per nulla preparato né spiegato, riesce incomprensibile. Le musiche sono talvolta buone, talvolta rumorose e assordanti.   

 

 

Vadim Perelman, Davanti agli occhi

Al Massimo di Lecce il 4/01/09.

Regista canadese di origine russa, al suo terzo film. Il primo, La casa di sabbia e nebbia, del 2002, sulla crisi del sogno americano, è notevole e ha avuto un successo internazionale; segue Il talismano, 2005.

La vita davanti agli occhi è il titolo originale; titolo anche del romanzo di Laura Kasischke che ne è alla base.

Film fortemente drammatico in quanto incentrato nella scena del crimine che sconvolge la vita di lei, la protagonista.: la scena della toilette scolastica (una High School) in cui irrompe il folle compagno di classe armato di mitraglietta che fa strage nella scuola, e intima alle due amiche che una di loro sarà uccisa; donde il dilemma, anche se Maureen, la più solida ed eticamente forte e generosa, risponde che se una deve morire sarà lei; e però anche Diana, la più bella e insieme leggera, dice che lei dev’essere. Ma sarà Maureen a morire, l’amica del cuore e dell’intera vita, con cui tutto era condiviso; e l’animo di Diana sarà straziato per sempre dal trauma e dal rimorso.

Ci si chiede se Perelman abbia voluto riprendere qui il massacro di Columbine, già documentato da Michael Moore, e rivissuto poi da Gus van Sant nel suo Eliphant, un film piuttosto anodino, che non persuade. Molto più originale e forte questo.

Ora Diana è adulta, sposata, insegnante, una bimba; ha sposato un professore universitario che l’affascinò in una conferenza parlando di coscienza. Ma la tragedia si è fissata in lei; quel passato, più forte del presente, e il film è fatto in gran parte di ricordi, di flash-back: la scuola, la vita condivisa con Maureen, il boyfriend, la scena madre del crimine e del rimorso che ritorna e ritorna.

E però questo fatto mostruoso, questo tormento è rivestito qui di bellezza. V’è una espressa ricerca estetica, l’attenzione al dettaglio raffinato, il grande schermo, soprattutto i fiori, che già accompagnano i titoli. Un particolare presenza dei fiori.

Uma Thurman è qui grande attrice; non è la marionetta che taglia teste del Kill Bill di Tarantino.

Il finale è doppiamente drammatico. Mentre cammina in città, Diana vede sull’altro lato della strada il marito  con una ragazza che lo tiene allacciato; e ne è come allucinata, traversa la strada e viene travolta, anche se non gravemente; insensato questo marito, che pur conosce il tormento di lei. La bimba, che ha il vezzo di nascondersi, si è persa nella foresta che sta accanto al loro giardino (è questa l’ipotesi) e lei la cerca disperata, e allucinata la vede per un  istante; e ancora la cerca. O forse nella piccola, che tanto assomiglia a lei fanciulla e adolescente, ricerca se stessa?

Su questa estrema angoscia si chiude il film, storia di una donna che le vicende della vita hanno travolto in modo irreparabile; e ancora travolgono. Storia di un trauma indelebile, di un dolore che non può essere vinto.

 

 

Thomas McCarthy, L’ospite inatteso

Al Massimo di Lecce il 3/01/09.

The visitor il titolo originale. È il secondo film di questo regista, dopo The station agent del 2002, che ha avuto diversi premi.

Un film inusuale. Un professore universitario in pensione (poiché a un certo punto confessa che in realtà non fa nulla, non studi e ricerche, né scrive quel libro di cui ha parlato. Ma all’inizio lo si vede far lezione, e riceve uno studente con scarsa cortesia), vedovo, solo; la moglie era una pianista di talento. Introverso, scarso di parola, sente profondamente ma reprime.

Il fatto singolare del film è la grande umanità verso l’immigrato, il clandestino, il musulmano (siamo a New York dopo il grande attentato, la caduta delle torri gemelle: erano là, dice la ragazza, ma io non le ho viste); un’umanità semplice, spontanea, che si pone spontaneamente sullo stesso paino; che asseconda, accoglie, si dona, si prodiga. Un comportamento tanto modesto quanto esemplare, che perfino ci stupisce.

Al ritorno dal Connecticut dove insegnava, si trova in casa una giovane coppia d’immigrati, lui arabo siriano, lei nera; collocativi da un amico o un amministratore, non certo intrusi, e subito disposti ad andare altrove chiedendo scusa; ma quando già scendono per le scale egli li prega con insistenza di restare, e restano. E diventano amici, ma sempre con quel lieve distacco che gli è proprio; e accetta anche di suonare il tamburo col ragazzo, e suona con lui e con altri nel parco, suona con inconsueta passione.

Poi il ragazzo è fermato dalla polizia e rinchiuso in una prigione di clandestini, nel sospetto del terrorismo ecc.; ed egli va abitualmente a trovarlo, e mobilita per lui un avvocato; e quando lo trasferiscono e nessuno sa dirgli dove, perde il suo aplomb e s’infuria.

Intanto è giunta la madre, preoccupata perché non lo trova più al telefono; donna di singolare finezza e  misura. E anche con lei insiste per ospitarla, e la porta a teatro e al ristorante; e si forma tra loro un certo feeling, ma sempre  con quel suo tipico distacco; e però l’ultima notte (lei torna in Siria per ritrovare il figlio che è stato espulso) entra nella sua camera e nel suo letto; ma solo per trovare conforto al suo dolore.

Con la partenza il film chiude e lascia attoniti perché tutti dovremmo essere così, saperci comportare così con l’immigrato, il clandestino. Saperlo essere con la stessa naturale spontaneità. Una grande lezione ci viene impartita da questa singolare figura di professore, singolare interpretazione (Richard Jenkins).