La multinazionale dello sport annuncia stabilimenti
controllati dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro
"Mai più sfruttare i bambini"
ora la Nike cerca il riscatto
Nuove fabbriche in Cambogia aperte ai sindacati
dal'inviato di Repubblica FEDERICO RAMPINI

SAN FRANCISCO - Per il movimento no-global è una strana vittoria, dover celebrare l'apertura di una fabbrica dell'odiatissima Nike nel Terzo mondo. Eppure di vittoria si tratta. La celebre multinazionale americana sta per tornare a produrre scarpe e abiti sportivi in Cambogia, dopo esserne fuggita per le accuse di sfruttamento del lavoro minorile. Ma se ora può tornarci è perché la battaglia dei no-global, delle associazioni di consumatori e dei sindacati americani ha avuto successo. La Cambogia, infatti, apre le sue fabbriche ai controlli internazionali sui diritti dei lavoratori, e si impegna a debellare la piaga sociale dei bambini-operai costretti a produrre per i paesi ricchi.

Due anni fa l'immagine della Nike subì un duro colpo proprio a causa della Cambogia: tempestata dalle accuse di sfruttare manodopera infantile, minacciata dal boicottaggio dei consumatori "politically correct", l'azienda americana si difese garantendo che i suoi fornitori cambogiani impiegavano solo ragazze sopra i 16 anni, ma fu messa alla gogna dall'inchiesta-verità di una tv americana che riuscì a filmare fabbriche dove lavoravano eserciti di bambine.

Per il "logo" della Nike - il più grosso sponsor di avvenimenti sportivi nel mondo - la macchia era indelebile. La multinazionale Usa per limitare i danni decise di cancellare tutti i contratti con i suoi fornitori cambogiani. Fu una prima vittoria per il composito "popolo di Seattle": l'alleanza fra gruppi terzomondisti, difensori dei diritti umani e sindacati, che nel dicembre 1999 avevano paralizzato il vertice del Wto a Seattle anche per protestare contro il dumping sociale, la delocalizzazione delle produzioni industriali verso paesi con bassi salari e nessuna legislazione del lavoro.

La ritirata della Nike però fu anche una sciagura per la Cambogia. L'industria del tessile abbigliamento frutta a Phnom Penh un miliardo di dollari di ricavi, pesa per più dell'80 per cento delle esportazioni cambogiane e dà lavoro a 180.000 operai, per lo più donne e ragazze emigrate dalla miseria delle campagne che rimandano a casa i loro salari per mantenere le famiglie. Il boicottaggio militante del popolo no-global rischiava di provocare più danni che benefici: senza multinazionali americane il paese si impoverisce e lo sfruttamento minorile continua lo stesso.
Alla fine sono stati i sindacati Usa a trovare una via d'uscita. La potente confederazione Afl-Cio ha insediato a Phnom Penh un rappresentante permanente, Jason Judd, per premere sul governo e sugli industriali cambogiani; al tempo stesso, i vertici del sindacato facevano lobbying a Washington per l'invio di ispettori internazionali. "Abbiamo capito che l'unica cosa da fare era di migliorare il rispetto dei diritti umani, delle tutele e delle condizioni di lavoro, in modo che le grandi aziende americane come Nike e Gap si sentissero sicure nell'affidare commesse ai nostri stabilimenti" ha dichiarato al Financial Times Van Sou Ieng, presidente della Federtessile cambogiana. Il governo di Phnom Penh ha dovuto cedere: ha aperto per la prima volta le sue frontiere all'International Labour Organisation (Ilo) di Ginevra, che ha sguinzagliato i suoi esperti in giro per il paese.
Il primo rapporto dell'Ilo - risultato di ispezioni severe in 70 fabbriche - traccia un quadro drammatico: lavoratori pagati sistematicamente sotto il minimo legale, orari massacranti per il ricorso costante a straordinari senza limiti. Ma adesso per lo meno è iniziata un'operazione-trasparenza, che ha pochi eguali negli altri paesi del Terzo mondo. Entro poche settimane un nuovo rapporto degli ispettori Ilo farà nomi e cognomi degli industriali-schiavisti, con un elenco preciso delle fabbriche che non rispettano gli standard minimi di sicurezza e i diritti dei lavoratori.

Per le multinazionali Usa si apre un'opportunità: possono ritornare a delocalizzare produzioni di scarpe e vestiti in Cambogia, scegliendo come fornitori solo quelle fabbriche che si guadagnano la sufficienza nei rapporti degli ispettori inviati dalla Svizzera. "Per noi è attraente - ha detto il portavoce della Nike Chris Helzer - perché l'Ilo ha un'alta credibilità internazionale" (nell'organismo siedono anche i rappresentanti sindacali dei paesi industrializzati).
La storica apertura della Cambogia è stata favorita da un'operazione politica degli Stati Uniti. Grazie alle pressioni del sindacato Afl-Cio, Washington ha offerto al paese asiatico un patto senza precedenti. Se migliora il trattamento salariale e la tutela dei diritti dei suoi lavoratori delle fabbriche (a cominciare dal divieto del lavoro minorile), Phnom Pen avrà diritto a una quota aggiuntiva del 18 per cento di esportazioni tessili sul ricco mercato americano.

E' una ricompensa allettante in una fase in cui si ridiscutono gli accordi doganali sui prodotti tessili e l'ingresso della Cina nel Wto accentua la competizione fra i produttori asiatici. Per la Cambogia si presenta un'occasione unica. Può candidarsi a diventare una "vetrina", un paese-modello dove le multinazionali Usa sensibili alla propria immagine si sentano libere di subappaltare produzioni a basso costo senza temere scandali per il maltrattamento degli operai. Anche per i sindacati americani è un'opportunità: se funziona l'esperimento cambogiano, possono dimostrare che le loro campagne contro il dumping sociale non nascondono l'egoismo protezionista dei ricchi.

Più che per l'ideologia no-global, il ritorno della Nike in Cambogia è la vittoria di una globalizzazione "riformista". La minaccia di un boicottaggio dei consumatori e la paura di un danno all'immagine hanno piegato Nike; il suo ritiro è stato un'arma di pressione sul governo cambogiano; il suo ritorno può segnare una svolta per le condizioni di lavoro locali. "Ora resta da vedere quanto le autorità locali vorranno applicare le leggi - dice il sindacalista Judd - perché una delle attrattive per le multinazionali che delocalizzano nei paesi poveri è sempre il fatto che le regole qui non vengono rispettate".

Intanto il rappresentante dell'Afl-Cio a Phnom Penh è impegnato a addestrare una leva di sindacalisti locali: non c'è migliore controllo di quello che i lavoratori esercitano in proprio, quando si organizzano e acquistano potere contrattuale. La strada verso una globalizzazione più umana resta lunga: secondo l'ultimo rapporto pubblicato a Ginevra dalla confederazione internazionale dei sindacati liberi (Icftu), l'anno scorso nei paesi in via di sviluppo sono stati assassinati 223 sindacalisti e feriti altri mille; 4.000 sono stati arrestati; diecimila rappresentanti dei lavoratori sono stati licenziati per rappresaglia. In cima all'elenco delle violenze e delle intimidazioni figurano Cina, Pakistan, Indonesia, Corea del Sud e Colombia.

(22 giugno 2002)