Gemini

tentativo di un'autobiografia

(le immagini, quadri di Hopper, sono tratte dal bellissimo sito a lui dedicato: http://dobc.unipv.it/hop/ )

 

La vera storia di Lothar.

C’è una storia che nessuno conosce, perché nessuno l’ha mai raccontata, e nessun libro ne parla. E’ la mia storia.

 

Io fui il principio, la prima opera, la creazione prima della creazione. Nel principio, Dio creò me. Mi chiamò Lothar. Mi diede un’anima, e il mio spirito vagava, con il Suo, sulla superficie del nulla, e nulla conoscevo o sentivo, ignorando la mia stessa ignoranza.

Del nulla attraversavo la profondità e l’estensione, saggiandone la solitudine. E la mia stessa solitudine mi era nascosta. Un tempo, mio Padre mi disse: "Lothar, per te creerò il cielo e la terra". Il suo dono mi riempì di gioia.

Il mio spirito era sulla superficie delle acque. Amavo vedere l’acqua incresparsi, al mio passaggio. "Padre, il tuo dono è grande".

La terra era deserta e disadorna. Ma non importava. "Lothar, per te creerò la luce". Il Suo dono fu grande. Separò la luce dalle tenebre, e chiamò la luce giorno, e la tenebra notte.

Poi, per la prima volta, venne sera, ed io – per la prima volta nella mia eternità – dormii. Poi venne mattina, e la luce mi trafisse, e io benedissi mio Padre per tutto questo.

Non ne ho mai cercato il senso, non ho mai capito niente di niente. Avevo l’amore di mio Padre, e mi bastava.

"Padre, perché…?". Ma ad uno spirito non si addicono domande. Uno spirito gode l’eterna beatitudine dell’eterno.

Dio mi parlò.

"Ti senti solo, Lothar?"

"Oh Padre, vorrei conoscere la solitudine."

Era il quinto giorno.

Allora per me creò le stelle, e animali e piante e uccelli, per ogni stella. Vidi che tutto ciò era buono.

"Padre, il tuo dono è grande. Mi piace il verde delle piante, l’umido della terra e l’abbraccio dei cieli, mi piace vedere i cervi correre e abbeverarsi alla fonte… vorrei anch’io aver sete… vorrei conoscere la stanchezza e il riposo."

Dio mi parlò.

"Non sei felice, Lothar?"

"Credo che quello che provo sia felicità, Padre, ma non saprei dirlo"

"Vuoi conoscere la tristezza, Lothar?"

Gli dissi sì.

"E’ una richiesta assurda, la tua".

"Non lo so".

Allora li fece a norma della Sua immagine, a norma della Sua immagine li creò. Quindi li benedisse, disse loro:

"Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela".

Sesto giorno.

Lei era bellissima, ma a me era ignota la sua vera bellezza. La spiavo in ogni suo momento, in ogni sua movenza, e i suoi capelli erano proprio come il mare increspato, e l’odore della sua pelle era come salsedine, e i suoi seni come il sole e la luna, e i suoi fianchi come le colline dell’Eden. Era quella, forse, la sua bellezza. La bellezza della terra.

"Padre, vorrei poterla amare, vorrei poterla toccare. O Padre, offrimi questo dono… fa’ che io possa, per una volta soltanto, almeno sfiorarla".

Ma gli occhi di ambedue si aprirono, e conobbero che erano nudi, e si coprirono.

"Chi ti ha detto che eri nudo? Ecco che l’uomo è diventato uno di noi!"

L’ira di mio Padre squarciò i cieli, potente come un tuono, luminosa come una bestemmia.

Li cacciò, e io non la vidi mai più.

So che ebbe dei figli dal suo compagno, e che, tutto sommato, nel loro esilio furono felici.

Li avrei invidiati, se avessi potuto, ma allora non sapevo cosa fosse l’invidia. Sentivo soltanto che volevo raggiungere, e il bisogno di lei mi assaliva come una vertigine.

Così disubbidii, anch’io. Ma mio Padre mi perdonò, perché ero il suo prediletto.

Lo maledissi, per questo, e il mio odio copre spazi immensi: ora che conosco il dolce sapore del bene e del male, capisco che è questo Eden la mia vera prigione, e la mia vera condanna.

 

Andrea che passeggia e fuma [1].

Se ne andò, finalmente. Era una sera di prima estate, e la luce dei lampioni di fuori, filtrando le persiane, listava già la stanza, svelando nella penombra – come in sequenza – il tavolo, il posacenere, vestiti sparsi, pochi libri, il letto ribelle e lei che riposava. Quell’immagine, pensò Andrea, gli sarebbe rimasta impressa nella memoria a lettere di fuoco, l’ultima immagine ferma del suo passato. E la pelle di lei, quella pelle liscia e dannata, retrogusto di calda e rassegnata amarezza sulle sue labbra.

Sentiva che quello non era un giorno come un altro, o forse era proprio un giorno come un altro. Così. Uscì donandosi all’aria fresca, al pioviccicare appena spento, alla strada profumata di umidità estiva e polvere. Si rintanò nel giubbino con ostentata sufficienza, s’accese la quattrocentesima sigaretta.

Per un po’, camminò disinvolto, quasi misurando i passi, con lo sguardo fisso al marciapiede, seguendo accuratamente una mattonella dopo l’altra, come per un percorso suo preciso e segreto, scansando accuratamente ogni passante, registrandone la voce o l’odore, o tutt’e due assieme, provando infine ad associare ad ogni voce un volto, come amava fare.

Svoltò dunque a destra, quindi ancora a destra, cercando un posto tranquillo per pensare; giunse così in fondo alla strada, attraversando quel crocchio di ragazzi, fissò con voglia calma liquida una donna di sì e no trent’anni, pensò di passarle così vicino da sentire l’aderenza di quel corpo contro il suo. Per un attimo, per meno di un attimo, pensò di ucciderla. Davanti ai suoi occhi già la scena: fuggifuggi generale, il sangue di lei che macchiava vestito e lastricato, lo sguardo ialino di lei tra l’allibito e il distratto, il proprio grido di vendetta.

No. Gettò la cicca. Si produsse in un elegante dietrofront, dando una scorsa ai titoli oltre i vetri dell’edicola. "Il problema è: tutta questa gente si fida di me, com’io di loro, come ciascuna persona di ciascuna persona". S’accese un’altra sigaretta. "Il momento più bello è quando le si accende, queste maledette". A volta gli capitava d’avere il desiderio d’accendersene una mentre già stava fumando. Pensò a quanti altri apparteneva quel suo stesso gesto, quella sua invisibile liturgia, proprio in quel dannato preciso istante. Pensò "lo giuro quest’è l’ultima", scrollò il pacchetto "ok giuro, la penultima…". Sapeva mentire, e assai bene. La menzogna apparteneva alla sua persona come la propria ombra.

Rallentò impercettibilmente… ma dio, sempre le stesse, fottute… parole. Tirò su col naso, scivolò accanto ad una panchina, gettò la cicca e riprese il pacchetto, ne sfilò la sigaretta, poi gliela fece ricadere piano, pensando "è tardi" o "più tardi"; espettorò, cercando di centrare quel punto preciso del marciapiede, ok; seguì con la mano il netto plastico profilo della panchina, annusando l’odore di nicotina e vernice e pioggia e sesso sulle dita. Gli venne davvero voglia di una birra, ma fu un momento, solo un momento.

 

Nat "il buono" che fuma [1].

Ci sono persone che nascono con un destino, che sono un destino. Una di queste era Nat. Nat il buono. Ci sono, invece, persone che il destino possono cambiarlo, perché la loro forza riluce di divino. Una di queste era Nat. Nat il cattivo.

Nat giunse a casa ch’erano le otto di sera, come ogni giorno. La chiave nella toppa, il solito scatto, l’odore di casa. Per un attimo, Nat chiuse gli occhi e sospirò. Si sfilò il soprabito e l’accomodò sull’attaccapanni.

Contò, come il solito, i passi dall’ingresso alla cucina: dieci. Uno. Due. Tre. Quattro… strano che Rudi (il cane) ancora non gli fosse saltato addosso, a fargli le feste.

"Sandra… Sandra, tesoro, sei in casa?!". Ma la sua voce rimbalzò tra le pareti bianche, come un fatto a quell’ora inconsueto, e si spense senza risposta. La luce del soggiorno era accesa. Nessuno. "Sarà successo qualcosa". Nat controllò l’apprensione, e gli avvisi di chiamata sul cellulare. Niente.

Se fosse successo qualcosa a sua moglie e a suo figlio, l’avrebbero sicuramente già avvertito. Quindi… quindi calma, un buon bicchiere di gin succo di limone e vodka, e via sul divano, a gustarsi un bel film.

"Certo, però, che uscire a quest’ora con un bambino di cinque anni, quella troia…" pensò, tra la noia e una leggera stizza; ma Nat non era un tipo battagliero, anzi era uno che perdonava facilmente, giusto per una questione di sacrosanta tranquillità. E gliel’avrebbe perdonata anche stavolta a Sandra, quella vamp testarda di sua moglie, quel benedetto liceo di periferia, e i suoi capelli biondirossi sul quaderno, e la piccola cicatrice sul gomito di lei "e sul mio cuore" come le aveva scritto in quella stupida poesia e… basta.

Nat pizzicò una sigaretta dal pacchetto, la accese e aspirò con voluttà, seguendo i cernecchi di fumo fin sotto il soffitto, con un senso di grande, gradevole abbandono. "Il momento più bello è quando le si accende, queste maledette". Dopotutto, la sua era una bella casa, pensò con soddisfazione, sua moglie una bellissima donna, e il suo bambino l’unica cosa che avesse fatto di veramente grande nella propria vita. Marco, mio figlio. Coi miei stessi occhi. Avrai tutto ciò che vorrai, lo giuro su Dio. Spense la sigaretta. Nat il buono si addormentò.

 

Stefano che fuma [1].

Erano seduti da "Lucullo", una tavernetta elegante ma economica di quella cittadina estiva. Avevano mangiato bene. Con in mano la tazzina fumante del caffè, lei prese a fissarlo, ma lui girò lo sguardo altrove. Incrociò quello del cameriere, e questi, dall’altra parte della sala, fece per alzarsi (fece un gesto impercettibile, come per alzarsi), e Stefano, per non deluderlo, chiese il conto.

Glielo portò in un attimo. "Prego" disse il cameriere, sorridendo a Laura. Lei era non proprio bella, ma carina, molto carina, particolare. Una frangetta nerissima e sexy le faceva risaltare degli splendidi occhi nocciola, che finiva con un taglio sottile leggermente evidenziata da un impercettibile tratto di matita.

Stefano lasciò al cameriere una mancia discreta. Li immaginò a letto, Laura e il cameriere, le dita di lei conficcate nella schiena di lui, la lingua di lui sui capezzoli duri di lei. Scacciò quel flash serrando forte gli occhi, con un attimo di buio fatto di tanti puntini rossi.

Sulla strada, lei gli si appiccicò al braccio, e poi gli chiese una sigaretta. Stefano gliel’accese, così, senza fiatare, senza offrirle alcun pretesto per cominciare.

Svoltarono in un vicolo, vicino ad un cinema, con la gente che passava loro accanto, come se non fossero esistiti.

("Anna ha i capelli color mogano") camminava rasente il muro, facendo scivolare le dita sul muschio umido che s’infilava nelle scanalature tra i blocchi di pietra. Gli piaceva. Gli lasciava sulle mani un odore fresco di terra. Lo faceva sempre, da bambino.

"Allora, che ne dici?".

"Ecco, ci siamo…" pensò. Per prendere tempo, s’accese una sigaretta. Inspirò, espirò. E’ così semplice. La vita si compone sempre di due momenti, nascita e morte, diastole e sistole. Non fu un pensiero, bensì piuttosto una sensazione sospesa nell’aria. Stefano la inspirò ed espirò.

Il corpo di Laura era tutto come contratto nell’attesa della sua risposta.

"Non credo mi andrebbe". Le parole gli uscirono tutte d’un fiato, più veloci di ogni sua resistenza. Non gli rimase che il tempo di pentirsi.

Lei si riavviò i capelli e fissò un punto lontano davanti a sé, pensierosa.

("Anna ha una pelle ch’è seta") e lui guardò l’orologio e lei gli chiese perché guardava l’orologio, e lui avrebbe voluto risponderle che lei era tutta in quella stupida domanda che PERCHE’ CAZZO UNO NON DOVREBBE GUARDARLO IL SUO STRAMALEDETTISSIMO SECTOR, EH?? (Anna non avrebbe mai fatto una domanda cosi. Anna sapeva farsi i cazzi suoi.), ma tutto quello che gli uscì fu

"Beh, credevo fosse l’ora di andar via."

"Solo quando stai con me non vedi l’ora di andar via."

"Tu l’hai detto" rispose, calmo, come Cristo a Pilato.

Da quel punto, si potevano scorgere la spiaggia e il mare, una fetta d’azzurro crespo ritagliata tra due palazzi. Sembrava tutto a posto. Quell’azzurro lo rilassava. C’erano pochi bagnanti, sulla spiaggia; Stefano provò a contarli, poi smise ("Anna è come l’azzurro del mare")

"… come l’azzurro del mare." Fece la sua bocca, come un’eco.

"Cosa?"

"No, nulla, dicevo tra me…". E passarono oltre.

 

Nat il buono va a letto.

Fu lo stesso fraseggio di luci del video a svegliarlo. Nat era scivolato in un sonno senza sogni, e ora la testa gli pesava.

Si alzò a fatica, indolenzito, nervoso, e avanzò quasi a tentoni fino alla porta del bagno. L’acqua fresca gl’illuminò il viso, e Nat controllò quella piccola fastidiosa carie all’altezza del premolare.

Si svestì, strofinandosi il corpo rapidamente, per cacciar via i sottili brividi di freddo. S’infilò il pigiama. A volte, la fortuna. La fortuna d’aver un pigiama pennellato sulla propria taglia. Oddio, invero tutta quella casa gli calzava ch’era una meraviglia. Ma era ora di finirla. L’indomani ci avrebbe dato un taglio.

Nat s’avviò in camera da letto, e s’avvicinò al matrimoniale. Sua moglie era lì, che dormiva, col suo leggero, caratteristico rantolìo di sonno. Il suo corpo pareva mandasse una luce pallida nel buio; aveva la veste un po’ smossa, provocante, ma Nat non aveva voglia di fare all’amore, quella notte. Il sangue le aveva impiastricciato lenzuola e capelli, tutt’un grumo rappreso. Nat le baciò la fronte.

Si avvicinò poi al lettino del figlio, e anche questi pareva che dormisse. Ma l’odore, l’odore stava diventando insopportabile, come di una cosa andata a male. Nat gli baciò la fronte.

"Vieni a letto, tesoro…" gli sussurrò Sandra, con dolcezza. Cristo, che sonno leggero. Lui le scivolò accanto, in silenzio, e prese a scaldarle i piedi con i suoi.

"Dove sei stata, fino a tardi…?".

Ma lei aveva già ripreso sonno.

Era stanco. L’indomani ci avrebbe dato un taglio.

Pensando a tutto questo, Nat il cattivo, anche lui, s’addormentò.

 

Nat al bar, che beve, con Andrea, che beve. Al presente.

"Cristo…io mi conosco, so come sono fatto. Mi basta poco per andare in escandescenze, per buttare tutto all’aria. Eppure, mi dicono che sono un tipo calmo, quasi addirittura compassato. Oddio, la gente vede solo ciò che vuol vedere".

Lo dice veloce, come leggesse un copione. Andrea lo osserva ingollare un altro sorso di birra. Quando fa così, quando inizia con le sue litanie, Nat è insopportabile.

"Sei insopportabile, Nat…".

Quello gli risponde con un sorriso idiota, tutto suo.

"Eppoi… ‘compassato’… ma come cazzo parli?!?". Stavolta è Andrea a sorridere, o almeno sente la propria bocca distendersi in un sorriso.

Quello ne pare tranquillizzato.

"Starai mica di nuovo leggendo il dizionario?".

Il sorriso allora sbotta in una risata franca, gorgogliante di birra. Nat sbava sul bancone, battendosi le mani sulle cosce.

Andrea manda un cenno d’intesa al barman, che appare alterato, come per dirgli "è tutto ok". Quello gli replica con un gesto della mano che fende l’aria, come per dirgli "ok, tutto liscio". Ma potrebbe anche significare "chiuso, smettetela". Andrea decide di propendere per la prima ipotesi.

"Senti, ascolta… fa’ come me. Io, per esempio, chiedo sempre il doppio di quello che mi serve, così se ottengo la metà, posso ritenermi soddisfatto… un giochetto che funziona…".

"Sei furbo, tu…" gli replica Nat, puntandogli il dito contro e corrugando il sopracciglio. Sempre molto teatrale. Sei un fallito.

"Sei un fallito, Nat…"

Ma quello fa orecchie da mercante, giochicchia con la sua pinta, quasi con noia. Andrea comincia seriamente a innervosirsi, perché avrebbe voluto fargli davvero del male, dicendogli ch’è un fallito, ch’è un buonannulla, un lavativo CRISTO SANTO MERDA. Come diavolo si fa a restare così tranquilli? Sei un maestro, in questo, Nat, dio, se non sei un maestro.

Ecco uno di quegli attimi di silenzio che Andrea odia e al contempo ama. Rivolge lo sguardo allo specchio-credenza di fronte a sé, per sbirciare fuori, di riflesso. C’è una coppietta alla cabina pubblica. Lei sta parlando in modo concitato a telefono, ma è una concitazione felice. Lui la cinge da dietro e le sussurra qualcosa di carino all’orecchio, o almeno dev’essere qualcosa di carino, perché lei si gira, con la cornetta in mano, e lo bacia, semplicemente. Ad Andrea piacciono queste che lui chiama "istantanee". Fissare i momenti felici della gente in un unico album, e farlo sfogliare magari a Nat, quand’è giù d’umore, per farlo cadere direttamente, definitivamente nello scolo della depressione più nera.

"Ehi, barman, dovresti comprarti un bancone un po’ più alto… eheheh… e sistemarlo secondo un’angolazione più…" Nat zittisce un attimo, come per assaporare la parola che sta per dire "…ergonomica". Eppoi manda un rutto bestiale, e ride.

Ora lo sguardo del barman non ammette seconde ipotesi. Sta per esplodere. Andrea fruscia una dieci sul bancone, piglia Nat per un gomito e lo trascina fuori, senza una parola.

 

Prima storia di Lothar, il raccontastorie [1].

Dovrei raccontare un’altra storia, un’altra delle tante che girano nel mondo e nel tempo. Il gioco vale la candela? Mi sono sempre domandato cosa significhi questo modo di dire. Ma non ha importanza. Incontrai Francesco nel bar più grande della città, una piccola città a dire il vero. Aveva un cane, un dobermann, ma non ricordo il suo nome. Un cane intelligente, gli mancava solo la parola. Francesco aveva comprato una macchina nuova, doveva essere pieno di soldi. Coi soldi dell’università aveva comprato un cavallo, tanto per dirvi che tipo strano fosse e rideva di tutto, ad ogni parola, quasi prendesse in giro chiunque parlasse, ma era così spontanea, la sua risata, che dopo un po’ non ci facevi più caso.

Immaginate la mia città, che si stende piccola gentile e indifesa al mio sguardo. Ha due strade davvero importanti, che si estendono in lunghezza ognuna per poco più di un chilometro. La colonna sonora di questa notte è moon river nella versione jazz di brad meldhau. Io non capisco un cazzo di jazz, ma le prime tre note di quel pianoforte mi hanno messo un’agitazione dentro e un’ansia di respirare l’aria fresca e robusta di un altro posto, un qualunque altro posto che non sia questo, che ho deciso di comprare il disco.

Leggo sempre sui frontespizi di ogni romanzo che la storia è frutto di fantasia, e che è coperta dai diritti d’autore. Questa storia appartiene a tutti, invece, e che sia vera o no non ha molta importanza: ogni cosa che è sempre possibile che accada è come se fosse vera, e l’incertezza del tempo della sua realizzazione è solo un’inezia. Questa è la mia ennesima sigaretta, e quelle tre note mi fanno sentire vivo e pieno di desiderio e di irrequietezza, la musica mi aiuta a sentirmi pieno di desiderio, come la lupa che Dante incontrò alla soglia del dilettoso monte, come il dio eros che Platone amava, figlio di ricchezza e di povertà.

L’aria era umida per la sera che ancora era un accenno, ma che sarebbe scesa lenta e fine di lì a poco. Oddio. Potrei dirvi che avevo ancora addosso il suo profumo, il profumo di quella ragazza che avevo visto la sera prima.

M’era venuta a prendere all’inizio del ponte. Io avevo sfasciato la macchina tre giorni prima, il rumore non era stato forte, ero sceso a vedere, occristo, non ero mica più ubriaco, e il rumore non era stato forte, il rumore metallico e crac e mi sentii come se stessi vivendo una cosa mai vissuta; ero sceso dalla macchina, e tutto avanti era un macello, carrozzeria rientrata, quasi avesse mangiato se stessa; il poliziotto notturno mi aveva accostato, aveva mosso la mano davanti a sé, a chiedermi se tutto era a posto ok tutto è a posto, ma non prendere il mio numero di targa figlio di puttana, sono le 5 di notte e nessuno ci ha visto ok? non prendere il dannato numero e lui rallenta un poco poi mette gas e parte e io rimango lì per un minuto forse, prima di risalire in macchina e scendere la strada verso casa a 10 all’ora, con la gomma destra che si lamenta e una voglia irresistibile di farmi una risata, o di essere già a letto, o di stare davanti alla tv per il film di notte tarda, magari un film francese con l’attrice carina e i dialoghi che divorano l’ambiente.

M’era venuta a prendere all’inizio del ponte, erano le nove e io amo la notte. Non c’eravamo neanche salutati e all’inizio lei era pure annoiata, perché io sono uno di quelli che per un motivo o un altro, in macchina con una donna non guidano mai. Dovrei scioglierla un po’, penso, dovrei farla ridere, è difficile far ridere qualcuno (qualcuna) quando non si conoscono barzellette o non si sanno raccontare. Non so raccontare barzellette.

E ora dove andiamo, le nove non sono né troppo presto né troppo tardi, e la gente passeggia ancora i viali, e lei forse è pentita, pentita di essere lì e il silenzio deve essere rotto anche da una stronzata e io sono sempre bravo a dire stronzate. Potrei iniziare a parlarle di me, ma è interessante? Dovrei farla bere, ma è interessante? Lei è più grande di me, l’ho tampinata per due settimane per farla uscire quella sera, e la macchina doveva sfasciarsi proprio pochi giorni prima, e mi sentivo così stanco e avrei dato di tutto per non essere lì in quel momento, stavo quasi per dirle io scendo qui scusa, sono bravo a chiedere scusa, faccio quasi una voce da bambino… poi pensai rotto per rotto, non ci perdo niente e ci ho tutto da guadagnare.

Il carrozziere m’era venuto a trovare la mattina stessa, per offrirmi un caffè e parlare a quattr’occhi; lui, fissato addirittura con le intercettazioni telefoniche, aveva in mente una truffa e al centro c’ero io, di quella truffa: un camionista amico suo firmerà la denuncia e chi si è visto si è visto, lui ci guadagna, tutti ci guadagniamo e io posso consumare il pranzo della domenica con l’anima in pace anche questa è fatta ma devo aspettare. Non sono un fregnone, ma la mia macchina per me è importante, mi dà un senso di libertà, anche se giro e giro in continuazione questa dannata città senza fare altro pensando ai fatti miei fumando sigarette leggere canticchiando qualcosa, ma la sola sensazione di spostamento, dal punto A al punto b, mi dà libertà e ringrazio Iddio che ci ha fatto le gambe.

La colonna sonora di quella sera era fall in the night, un disco regalatomi pochi giorni prima dalla mia ragazza, che forse ora è a casa o sta sorseggiando qualcosa nel suo locale preferito della sua città e forse dovrei telefonarle e dirle che sono stato bene con lei, il giorno prima, che non deve fare tutto quello che le dico perché io sono un caino e l’ho scritto anche in una mia poesia che non vale niente

Non è il tempo di cambiare

ma c’è un’aria dolce che s’incarna

e lascia morirsi dentro

e il telefono squilla

e io le chiesi un bacio.

Avevamo parlato per ore e lei aveva pure sbadigliato

lei si è data a me quasi per stanchezza

e la vita ha una legge ricardiana pensavo

e mi sentivo come Caino sulla via del ritorno

Chi ucciderà me morirà tre volte

ma non ho bisogno di smentita

così ‘l sovran i denti a l’altro pose

E il suo odore mi strangola ancora

ma io appartengo a tutti

e la mia porta ha segnate strisce d’untori

con mani facili e occhi di fuoco

Io sono caino non potete toccarmi

e ho voglia si sentirlo

l’odore della sua voce come l’odore della strada

generato non creato

impasto di giorni hysteron proteron

di battibecchi in casa che lei aveva

Io le dicevo ogni parola che mi passava

per la mente lei aveva un modo gentile di starmi a sentire e di guardarmi

e ora avrei voglia di gettarmi in un bar e di bere on the rocks

o di avere una voce calda come Tina Turner

o di ascoltare moon river fino all’alba

o di compiere un delitto

o di proteggermi.

Ma quella era un’altra donna e non questa con la sua unobianca anonima come i suoi occhiali ma non come il suo odore che io le chiedo dove lo ha comprato, quel suo odore, me l’ha regalato mio fratello dice, e a me viene quasi da piangere, giuro, perché è una così brava ragazza, mentre le mie mani sono quasi le mani di un demonio, che sanno dove toccare, che sanno far gemere e io so che alla fine della serata lei chiuderà gli occhi e tenterà di baciarmi, come sempre. Siamo tutti così uguali, le situazioni sono tutte così uguali, e lei ha bisogno di uno come me che la faccia sentire importante, e ha un modo simpatico di storcere il muso, con la faccia impiastricciata di fondotinta, e una camiciola con Tommy e Jerry sopra a nascondere il seno che non deve essere niente male, e io le dico ti senti più tommy o più jerrj lei risponde jerry e si mette a ridere e dice non farmi ridere e io penso è fatta e non ho più voglia di scendere.

 

Incipit del mai scritto romanzo autobiografico di Nat.

Sono nato in una grande città Svizzera, di cui ricordo solo il bianco, ma dev’essere un’impressione posticcia, perché me ne andai molto piccolo, neanche ad un anno, in quell’età di cui sembra non resistano ricordi, forse perché il ricordo ha bisogno di un termine di paragone, di un’estensione temporale che allora ci manca, e tutto quello che apprendiamo ci entra dritto dritto nel cervello come esperienza che non sappiamo come o dove o quando ci arrivi.

Io non ricordo, ad esempio, la prima volta che ho

 

Ascoltami bene.

"Ascoltami bene. Cciò questa teoria. Quello che noi siamo, la nostra storia di uomini… non è determinata da quello che siamo, ma da quello che… non siamo. Mi spiego…"

"Aspetta, hai d’accendere?". "Sì." Nat tirò fuori dalla tasca un bic bluscuro.

"Ehi, quello era il mio!" protestò Andrea, strappandoglielo di mano. Quel vizio di merda di fottersi gli accendini altrui. Un gesto irriflesso, gli aveva spiegato una volta Nat, non è un vero e proprio furto. Mah. Come dire che scoparsi in modo irriflesso la donna altrui non sono vere e proprie corna.

"Insomma, ti dicevo…"

"Sì, vai avanti."

"Ecco, se io fossi nato ad esempio per fare l’ingegnere nucleare, a quest’ora il mondo sarebbe bell’e fritto… e invece il buon Signore, o chi per lui, decise un giorno: questo pazzo malato pervertito è meglio che lo facciamo diventare scrittore…"

"Seee, l’unico scrittore che non ha mai pubblicato nulla".

"Ci sto lavorando, stronzo".

"Sì, lavora lavora. Eppoi – continuò Andrea – i veri scrittori, e non le pippe montate come te, a volte fanno più danni della bomba nucleare. Prendi Salinger, ad esempio. Il suo giovane Holden ha fatto una strage di innocenti, in America."

La letteratura nordamericana era una loro comune passione. Come il cinema, del resto. E la musica. Di generi diversi, però. Leggera per Nat, tutto il resto per Andrea.

Quella sera decisero di passare a mangiare qualcosa da Rosario, una bestia di due metri per due che aveva un localino niente male al centro storico, adibito ad enoteca. Si ripromisero che non avrebbero toccato un goccio. Nat doveva ancora smaltire per benino.

"Sai, è un paio di notti che faccio un sogno strano." Accennò proprio Nat, infilando il braccio sotto quello di Andrea. Buoni amici. "Sogno che è sera, e io sto tornando da lavoro (se mai avrò un lavoro, eheheh)… sto tornando a casa, capisci?, una casa tutta mia… ecciò una moglie tutta mia e un figlio" – e qui sottolineò con un’intonazione seriosa della voce (era risaputo nella cerchia degli amici che Nat aborriva l’idea di avere un giorno un figlio) – "Io torno a casa, ma non trovo nessuno e, insomma… alla fine mi pare di capire che non sono felice… mi alzo col cuore che mi batte, e vedo sangue dappertutto… e lei è una donna che neanche conosco!".

Andrea rise, con gusto. "Ti offro la cena" disse, ed entrarono.

 

Stefano e suo padre [1].

Aveva conosciuto la morte. Aveva conosciuto la rigidità del corpo di un morto. Quando vide suo padre cadavere sul letto, su quello stesso letto dove aveva per la prima volta amato Laura, e neanche un mese prima, Stefano non riuscì a non pensare a come tutto sia così perverso e stupido.

Infilò la mano nella tasca destra del pantalone di suo padre, alla ricerca del portafoglio. Rubò. Rubò a un morto. Tutto il pomeriggio non si fece vedere. Trascorse tutto quel dannato pomeriggio al bar, per avere l’impressione della vita quotidiana, della gente che ti saluta come tutti i giorni, senza quel fastidioso accento mesto nella voce, senza strette di mano. Andò lì perché solo lì si sentiva al sicuro. Giocò tutto il pomeriggio ai jackpot, dimezzando almeno quanto aveva rubato. Poi bevve.

Non si sentiva triste. Il portafoglio pieno gli dava sicurezza, anzi lo metteva quasi di buonumore. Lì si sentiva sicuro, sicuro da quella morte di cui avvertiva solo vergogna, non dispiacere.

Suo padre era stato sempre un tipo strano, distante. Aveva sempre avuto un modo tutto suo di mostrargli affetto. Lo vezzeggiava come un bimbo, quando lo vedeva lo abbracciava, lo baciava, si riempiva la bocca del suo Stefano. Eppure non aveva mai saputo conquistarsi l’amore del figlio. Più suo padre gli era stato fisicamente vicino, più Stefano l’aveva sentito irrimediabilmente distante. Questo perché lo considerava un fallito, perché lo sentiva in competizione nell’affetto con la mamma, perché una volta lo scoprì a masturbarsi davanti alla tv proprio come un adolescente; sì, col cazzo duro in mano, arrabattando col telecomando, riuscì solo a farfugliare "Stefano… il televisore è rotto". Da ridere. Figura grottesca, surreale, idiota, quel Cristo di un Santo. E ce ne sarebbero tante altre, di storielle simili, da raccontare.

E sentite questa. Ai funerali della madre di suo padre, questi uggiolava come una chioccia nel presentare la moglie a chicchessia, come se si trovasse a una festa. Eppoi fumava di nascosto, come un bimbo. Sul comodino, accanto al letto dove fu trovato morto, c’era in bella evidenza un pacchetto di MS da dieci. Stefano aveva rubato anche quello, e le aveva fumate in faccia al mondo alla faccia del mondo, sebbene le MS le schifasse. Ma poi pianse. Pianse perché suo padre era stato il suo fratello minore, perché l’esser stato generato da lui forse non era vergogna ma solo beffardo destino, perché anche suo padre era stato figlio e perché egli stesso era stato, dopotutto, un cattivo figlio.

Quando uscì dal bar aveva gli occhi ostentatamente lucidi, ma qualcuno degli avventori malignò si trattasse soltanto degli effetti della febbre del gioco.

Insomma, per questo motivo, e per una serie di altri motivi e situazioni che deviano la mente di un uomo, e che fanno scoprire che l’uomo - al di là delle apparenze della cura e della salute - fondamentalmente è folle e insano, per questa serie di motivi, dicevo, Stefano decise di tornare dal cameriere del "Lucullo", con un suo scopo ben preciso.

 

Seconda storia di Lothar, il raccontastorie.

Seguì quell’uomo fino all’entrata del bar. Quindi, si mise in attesa.

***
La tessera s’infilò con un sottile sibilo metallico; digitò il numero con pignoleria.

Dopo un po’, lei rispose.

" Sì?" ( la sua voce morbida )

"Anna..."
"Lele, sei tu?"

"Uhu"
Lei riattaccò. Lui fischiettò la musichetta dell’interfono. Do re mi mi re do do. La immaginò salire nella sua camera, la vestaglia aperta, i suoi seni grandi in movimento.

"Eccomi qui !"

"Allora ?"

"Niente, solite cose..." . Sembrava stanca.

"Mi hai pensato un po’ ?"

"Certo."
"Il lavoro?"

"Te l’ho detto, solite cose... com’è il tempo lì?"

"Pare estate, e siamo solo a febbraio."

"Lele..."
"Sì ?"

(‘ Io non ce la faccio più ‘ lui pensò )

"Lele, io non ce la faccio più..."

"Ok, bisogna aver pazienza... ne abbiamo già parlato..."

"Lele, sono tre mesi..." . La sua voce si era fatta lamentevole.

"Non è colpa mia, cazzo... lo sai..."

"Ciò che si vuole, si può..."

"Senti, io..." (osservò la condensa del suo fiato sulla cornetta. C’era un debole profumo di Chanel. ‘ Prima di me, deve aver chiamato una donna ‘ , arguì.)

"... io ti amo"

"Anch’io... ma non è questo il punto. Sono tre mesi che non ci vediamo. Io... io non so che pensare..."

"Hai fiducia in me...?"

"Non lo so più... ti giuro, non lo so più, Lele..."

"Non fare così." ( Merda - pensò - merdamerdamerda!)

"No"

"Lo sai che ci fa un elefante..."

"eddài..."

"... su un albero?"

"No. Aspetta... non lo so."

"CIOP"

Lei rise. Si stava rilassando.

"Quanto sei scemo..." fece sibilare la esse come lei solo sapeva fare, come un’onda che si ritira sulla spiaggia.

Lui tirò un sospiro un po’ più forte, ma senza farsi sentire.

Ok, funziona. Ok.

"Come sei vestita?"

"Semplice"

"Immaginami che ti bacio il collo..."

"Sì..."

"...poi sul mento..."

"...sì..."

"... poi (era il caso di azzardare ) sul seno..."

"Oh sì..."

"Sei sempre così bella, eh?"

"E tu, sempre il solito..."

Era riuscito a riportarla a sè, anche stavolta. Grande. La lasciò parlare, invero senza prestarle tanta attenzione, lasciandosi semplicemente cullare dal suono tranquillo della sua voce.

Si sentiva tranquillo, anche lui. Si mise a occhiare una madre che cinguettava col suo bambino, avvolta da una sciarpa di un blu fastidiosamente puerile.

Poi, quasi ridestandosi da quello sciabordìo :"Ti sto chiamando da una cabina vicino al Convitto. Ci sono panchine e coppiette. Mi manchi."

"Anche tu mi manchi"

"Tu di più."

"No... tu... di più" lei scandì piano.

"Oggi sono andato all’università. Un corso di estetica. Che te lo dico a fare. Il professore..."

"Lele..."
"Sì?"

"...c’è un’altra, vero?"

Lui non ne fu spiazzato. Strinse la cornetta tra l’orecchio e la spalla. Riuscì ad accendersi la sigaretta. Fece un ampio tiro.

La madre e il bambino erano ormai fuori dalla portata del suo sguardo.

Calcolò altri tre secondi di lento, significativo silenzio. Poi...

"No"

non è stata colpa mia

"Lele..."

"no, aspetta..."

"Che !?"

"Aspetta... mica hai sentito..."

"No..."

"Un’interferenza, wow... zitta un po’..."

Flebili, indefinibili scariche elettriche

non è stata colpa mia io scendevo veloce

sta’ calmo

è che non l’ho visto

"Diàmine, siamo capitati in piena crisi coniugale..."

"Io non riesco a sentire nulla..."

"Zitta un po’... zitta un po’ "

sei andato via?

ho avuto paura

perchè

credo d’averlo ucciso, Gina

( scariche elettriche, silenzi elettrici ; Lele gettò la cicca, sbarrò leggermente gli occhi, fece aderire la cornetta all’ orecchio il più possibile )

oddioddioddioddioddio
Ginaa

( silenzio )

sei un mostro, un fottutissimo mostro

Gina, io

quanti anni poteva avere?

sei sette, Ginaperl’amordelcielononèstatacolpamia

(silenzio)
oddio ( forte )

c’è nessuno a casa?

(silenzio)
posso venire? ti prego, solo un…

"Lele, che c’è?"

"Occazzo!"
un goccio

‘Non dev’essere lontano...’ Perlustrò tutta la piazzetta con lo sguardo. Un ragazzo stava dicendo ad un altro qualcosa di molto divertente, perchè quello, di rimando, rideva dandogli amichevoli pacche sulle spalle. Brividi di freddo.

"Lele, se è uno scherzo, sei molto stupido ..."

‘Dev’essere qua attorno‘ Perlustrò l’altro lato, fino su alle panchine in fondo all’edicola, fino a quelle altre cabine alla svolta del vialetto.

"Lele, Lele..."

(‘E zitta un po’, brutta stronza ...’) "Anna aspetta..."

"Vai... a fare... in culo" lei riattaccò. Silenzio. Più tardi. La richiamerò più tardi. Ora...‘ Bingo! Dev’essere lui! ‘ Non riusciva a crederci... Il tizio stava sul lato della chiesetta. Pareva agitato. Si passava la mano tra i capelli, in continuazione. Pareva in preda al panico. Si guardava intorno, in continuazione, ma stavolta lentamente, con prudenza. Per poco, Lele non si fece scoprire.

‘Cristo, è proprio lui! Lo sapevo...’ Lo osservò sottecchi, la cornetta muta in mano, quasi un’appendice del suo braccio, trattenendo il fiato

io devo andare

sì, lo spelling sì, le labbra ‘ho bisogno di’

ho bisogno di

Lele abbandonò la cornetta penzolante; passò una macchina, riempendo l’aria di un rumore quotidiano, situazione, davvero inverosimile.

‘Ce l’ho’. Si mise in agguato. Per la prima volta nella sua vita, non era una preda. Per la prima volta nella sua vita, era dall’altra parte. Aspettò.

Aspettò che riattaccasse. ’Lo ricatterò...gli chiederò dei soldi...’ Il tizio riattaccò. Cercava di accendersi una sigaretta. La mano gli tremava. Lele riusciva a vedere quella mano tremare. ‘Piatto ricco...’. Lasciò scivolare lo sguardo sul completo elegante del tizio (Armani?). Gli andò incontro. Lo urtò appena, apposta, ma con misurata nonchalance. Gli occhi di quello interrogativi, disperati. No, liquidi, assenti, vitrei.

‘Assassino’, Lele pensò, non lo disse. La voglia di dirlo.

‘Porco assassino’.

La lingua impastata. L’aria strusciò tra i denti, ma senza produrre suono. Lo superò. Dieci passi. Si fermò. Voltò indietro.

" Non mi scappi..." disse, piano, sottovoce, in segno di sfida; le parole si dipanarono in dense volute nell’umido fresco della strada. Lo disse rivolto a tutto il mondo. La sua grande occasione, la sua stramaledetta rivincita.

Prese a seguirlo. Seguì quell’uomo fino all’entrata del bar.

Quindi, si mise in attesa.

 

Nat il buono e l’insalata.

Nat giunse a casa ch’erano le otto di sera, come ogni giorno. La chiave nella toppa, il solito scatto, il calore di casa. Per un attimo, Nat chiuse gli occhi e sospirò. Si sfilò il soprabito e l’accomodò sull’attaccapanni.

C’era un aspro odore di frittura ad attenderlo. Pareva che tutta la casa ne fosse infestata. Sandra armeggiava vicino alla cucina.

"Dov’è il bambino?".

"E’ in camera sua, che gioca. Com’è andata oggi?"

"Non c’è male".

Nat si avvicinò al frigo, lo aprì, ne estrasse una bibita fresca. Sentiva lo sguardo di Sandra dietro di sé. Fece schioccare il tappo della bibita. Sulla padella sfrigolavano due cotolette che dovevano essere niente male.

Alla tv un telecronista in gessato grigio annunciava le consultazioni per l’ennesima crisi di governo.

"Non li capirò mai" fece Nat, mettendosi a sedere. Si voltò verso Sandra e le sorrise. Lei ricambiò.

"Perché non mi dai una mano con l’insalata…?".

Nat, seppure di controvoglia, le obbedì. Si alzò. prese l’insalata dal lavabo, la sciacquò, la strizzò. Avevano comprato quella cucina in saldo, ed ora era il loro pezzo forte coi parenti.

"Che bella cucina" dicevano, al termine del rituale giro della casa. Questa è la camera da letto, questa la camera del bimbo, questo il soggiorno e… merda. Ricordava le mani del rivenditore, dove l’avevano acquistata. Era un tipo sulla quarantina, piacente, con una barba folta, ma curata. Sfregava le mani in continuazione, come una mosca. Quel viso, quelle mani, appartenevano ormai al bagaglio indelebile dei ricordi della vita di Nat.

"Non ti pare che Marco sia un po’ troppo silenzioso?"

La moglie si limitò ad una scrollata di spalle. Era bella, anche in abiti che lui scherzosamente chiamava "civili". Il calore che emanava dal cucinino le accendeva il viso, facendole risaltare gli occhi verdi e i capelli rossi. Era una donna che piaceva a molti uomini, con un profilo al tempo stesso dolce e severo. Nat ne era consapevole, ma non ne era imbarazzato, o geloso. Sandra, proprio come la sua cucina, era il suo pezzo forte con gli amici.

"Vado a controllare".

Marco stava costruendo coi lego quella che forse, nella sua immaginazione, doveva essere un’astronave spaziale. Non si accorse neanche dell’arrivo del padre. Questi stette a fissarlo per un minuto buono, dalla soglia della porta. Suo figlio era un bambino taciturno, poco portato a socializzare, e questo lo preoccupava un poco. Lui da piccolo invece era sempre stato svogliato, pieno di vita, centro d’attenzione per ogni gruppo di amici che avesse frequentato. Marco, invece, era un bambino solo, ma non pareva ne soffrisse. Oddio, Nat aveva immaginato un rapporto diverso col figlio. Quando lui e Sandra erano fidanzati, e facevano quei discorsi da fidanzati sui bambini che avrebbero avuto, Nat era solito dirle, affondandole il viso nella folta capigliatura rossa:

"Nostro figlio voglio che prenda da te la bellezza e da me il carattere. Io per lui sarò uno zio, non un padre. Nel senso che lo vizierò e vizierò e vizierò… gl’insegnerò a fumare hashish".

Lei lo guardava con quegli occhioni verdi, interrogativi e ammonitori. "Scherzo, ovviamente".

Eppoi, facevano l’amore. In macchina.

Ora, Marco era lì, suo figlio, e Nat avrebbe voluto prenderlo tra le braccia, e aiutarlo nell’ennesima missione spaziale e dirgli tante cose da padre, ma si limitò a sorridergli, in silenzio, senza disturbarlo. Tornò all’insalata.

 

Terza storia di Lothar, il raccontastorie.

Cammina, tagliando il buio della sera. L’aria è ferma, spossata da un giorno di sole intenso, implacabile. I grilli friniscono e azzittiscono, azzittiscono e friniscono. L’odore delle ampie distese d’erba. E’ uno spettacolo divino, eppure così maledettamente a portata di mano. Ma lui non può vederlo, no: il suo sguardo è rivolto, rapito, in alto, verso il buio, verso quei fori luminosi che la gente ingenuamente chiama stelle. Come sono vicine le stelle, com’è lontano lo zittire dei grilli.

Il filosofo allunga la mano, per prendere le stelle, e già riesce a saggiarne il calore sulle dita e…

dolore

ora vicino è il dolore, tanto vicino da mordergli le gambe e la faccia. Sangue caldo e pulsante, e polvere in bocca, uno schianto davvero divertente… il filosofo si ritrova goffamente a terra, c’è stato un attimo in cui è (caduto?), ma quell’attimo dev’essergli sfuggito, semplicemente, fatalmente.

Alza lo sguardo lacrimante per il dolore e per il ridere, e si trova davanti due tette di carne chiara e succosa, con capezzoli bruni e duri sotto la veste (ecco, sono come le stelle, pare quasi di toccarli e conservarne la durezza); e, come da lontano, la voce di una ragazzotta, una voce squillante, stupida, da serva (dev’essere ginocchioni davanti a me, e mi sta aiutando ad alzarmi), divertita: "O Talete, non riesci a scorgere quel che hai davanti, e pretendi di conoscere le stelle…?".

 

Andrea che passeggia e fuma [2].

Una goccia stillò da chissà dove, brillandogli con dispetto su una lente, per un attimo frantumandogli la realtà, ma poi raccogliendosi e cadendo, confondendosi col suo silenzioso rumore sull’asfalto, e lui di certo pensò che quella (forse) era una metafora indovinata della sua vita

(Anna nel suo appartamento tirò via le tende e pensò a qualcosa e il vetro riflettè con discrezione i suoi capelli lunghi e neri

e in quello specchio ogni cosa fuggì con fastidio o vergogna come un brivido sulla schiena come un sogno al mattino sotto la doccia).

Inforcò di nuovo gli occhiali e proseguì. Per fortuna, in fondo, aveva sempre dove andare.

Si lasciò condurre per un po’ dalla folla che gli era intorno, poi risolvette a riprendere il controllo e la baldanza, e deviò a sinistra, decidendo allora di voltare sempre a manca; ma poi se ne scordò, o trovò quella decisione invero sconveniente o senza scopo, e allora prese ad andar dritto, sempre diritto, seguendo il vialone principale, fin sui giardini e poi

(…niente…)

proseguì ancora, la gente oramai sempre più rada, qualche coppietta soltanto; lui ne fu felice o rattristato.

Pizzicò quell’ultima sigaretta; accendendola, ne assaporò l’aroma e la luce tenera, un’anima luminosa nella notte; inspirò, con piacere trattenne il respiro, espirò piano, con piacere uguale, e così di nuovo e di nuovo e di nuovo; poi, con una schicchera la cacciò via, per metà ancora intatta, un tracciante rosso che per un secondo si spampanò sul selciato, come un fiore; ma se ne pentì quasi subito, e si mise a cercare la cicca nel buio; la trovò, la conservò, umida, sincera.

Così, era giunto alla fine del suo viaggio; di lì a poco si sarebbe spenta ogni finestra, chiusa ogni porta; Andrea si voltò indietro, si piantò lì, con una disperazione dolce e antica tra cuore e gola, davanti a sé la sua città, morbida e sinuosa, povera di luci.

Chiuse la destra a pugno, chiuse gli occhi, oh sì, pollice e indice distesi come un’elle, un intreccio clandestino di carne e sangue; rovesciò la elle e puntò

(Anna nel suo letto il caldo buono del suo respiro la radio in sottofondo

tu la mano sul suo seno no che non puoi io voglio

no no che non puoi)

l’indice sulla tempia, la falange appena fredda al contatto

bisogna aver coraggio’ pensò, "bang" disse, niente, solo

"bang"

come in una striscia di fumetto, ma un’arma non fa così, puntuale fu la sua obiezione: un vero sparo ha un suono sicuro, deciso e secco, come quando non riesci a deglutire.

Allora, aprì gli occhi, ci provò a sorridere, ok va bene, era tempo di tornare indietro, e mosse il primo passo col sinistro, come per una sorta di scaramantica scommessa, mi capìte?, e poi qualcuno gli chiese da accendere, per favore, e ciò accadde come un fatto non atteso.

 

Stefano e il cameriere. In prima persona. Al presente.

Gianluca è un bel ragazzo – un tipo – e va in giro con un vespino mezzo scassato, e porta pizza dalle sette alle dieci di sera, dopo aver smontato da "Lucullo", un po’ in giro di qua un po’ in giro di là.

Mi fa salire, guardandosi attorno per sgamare qualche polizia. Tutt’a posto.

"Quando metto in moto, da’ una piccola spinta in avanti e poi poggia i piedi accanto ai pedali".

"Ok, bellezza" gli faccio io. Il suo vernacolo è rustico e gustoso come la sua pizza. Sfiliamo lungo il primo corso (il secondo è pedonale) e l’aria salmastra e pungente e fresca è un sollievo per le mie spalle, che hanno sopportato un giorno di sole.

Svoltiamo un poco più avanti, e lui ogni tanto si riavvia il ciuffo, e ride allo specchietto e dice tutto bene? E io gli rispondo tutto bene e mi viene in mente quando, all’università, era Michelangelo a scarrozzarmi con la sua vespa.

Ci fermiamo ad un tabacchi, e io compro sigarette e gomme, e mentre il gestore mi dà il resto, mi giro a guardare Gianluca, fuori, che si aggiusta il ciuffo e saluta qualcuno che conosce.

Mi rimetto in sella. "Quando metto in moto…"

"Ecchè, m’hai preso per un vecchio rincoglionito?" e lui ride a tutta bocca, e la sua risata è salmastra e pungente e fresca proprio come l’aria.

Ora la motoretta arranca un po’, ma non c’è pericolo, siamo quasi arrivati e i polizia sono stati forse a prendere il sole di notte.

Iniziamo il giro dei bar. Ogni bar ha la sua bella roulette elettronica, e lui va alla cassa a cambiare in credits le mie diecimila e le sue. Infila i gettoni nella fessura, con avidità, e la pallina inizia a girare rossonerorossonerorossonerorosso-nero e il rosso lentamente si ferma solo ad un passo dal jolly (vinceremmo un centone)… promette bene… lui prende ad accanirsi, ed è qui che mi piace: smetto di guardare la macchinetta e prendo a fissare il suo volto rapito, lui che s’è estraniato in quel mondo tutto suo, che solo lui conosce e di cui io sono invidioso.

Ora il rossonerorossonero è solo nei suoi occhi, li accende e li spegne, e non m’importa più se vinciamo o perdiamo: mi basta stare a guardare la delusione o la soddisfazione che gli disegnano il viso.

Il gioco finisce, abbiamo perso tutto e lui sbuffa che non gli va più di giocare; allora, capisco che è perché s’è fumato tutta la paga serale, e allora sfoglio dal portafogli un’altra diecimila, e lui trotta verso la cassa, a cambiare, eppoi torna e ricomincia. Il suo viso. Gianluca ha diciassette anni.

Riperdiamo, e la storia si ripete per altre due volte. Ma stavolta sono io a dire d’andar via, e propongo di andare al Microbar.

"Sì, va bene". Aggiriamo lo struscio di ragazzi che popola il secondo corso, e ci mettiamo a sedere al bar.

S’avvicina una cameriera graziosa, che quando sorride mostra il labbro leporino, ma questo – che per altre sarebbe un difetto – a lei l’arricchisce, e neanche il live, lievissimo tanfo del suo sudore (mi sta vicina ad un palmo) mi dà fastidio.

Gianluca le sorride, lei gli sorride e gli chiede d’ordinare. Anche in questo gioco, io sono fatto fuori. Lui dice a me nulla grazie, e io capisco ch’è per i soldi e sono io ad ordinare per tutt’e due, per me una vodka liscia e per lui un frappè di nocciola.

"Si chiama Barbara…" mi fa lui, quando lei se n’è andata.

"Ti piace?".

"Sine"

"E’ fidanzata?"

"Sine, con un siciliano…"

"Cazzo. E tu non puoi…"

Ma lui mi fa segno (con gli occhi) di star zitto, chè lei sta arrivando con le ordinazioni. Aspetto che serva e se ne vada.

"Tu non puoi abbordarla in nessun modo…? Non hai visto come ti sorride…?".

Anche lui ora sorride, e si riavvia il ciuffo; i suoi occhi si fanno pensierosi (rossonerorossonero) e dice "uhm", niente, solo "uhm", e lo ripete un’altra volta.

"Scusa, che ti costa? – faccio io, centellinando la vodka – lui là, tu qui, lei qui… mi sembra più che ragionevole…" Lui ride e si riavvia il ciuffo.

""Chiedile quando smonta… dille che l’accompagni tu a casa, con la vespa… io, per me, posso farmela a piedi, tanto la pensione è qui a due passi".

"Uhm" e prende a succhiare il frappè. Pare un po’ annoiato dalla mia tiritera.

"Ti fidi di me?" azzardo io. Lui dice sì, anche se ci conosciamo da neanche due ore, e il fatto mi lusinga. Poi mi prende un pensiero neanche tanto strano; essere, per un momento, io Barbara, per rubargli con un guizzo di lingua quella goccia di frappè rappresa all’angolo della sua bocca.

 

Nat e Andrea. E Lothar.

"Senti questa. Un tizio, forse inglese… sì, credo fosse proprio l’Inghilterra… ebbene questo tizio"

"Inglese" interruppe Andrea.

"Sì inglese. Ebbene questo tizio…"

"Inglese" interruppe di nuovo Andrea, accomodandosi il colletto della camicia.

"Ma insomma, fammi dire… ‘sto tizio guidava per una di quelle strade inglesi, di notte, buio pesto e una pioggia che le mandava giù di brutto. A un certo punto, sente un tonfo. Doveva aver investito qualcosa. Un urto tremendo. O meglio, qualcosa doveva aver investito in pieno il paraurti della sua auto… un cervo o un cinghiale, forse…"

"Oddio, Nat, ci sono cervi o cinghiali in Inghilterra?!"

"Ehi, non lo so… ma non è questo il punto!"

"E qual è il punto, Nat?"

"Il punto, Andrea… il punto è che questo tizio continua a guidare come se niente fosse, oddio certo morto dalla paura, ma come se niente fosse, nel senso che non accosta per controllare. Arrivato quasi in città, non ricordo quale, si ferma ad una stazione di servizio per fare benzina, scende dalla macchina e…" calcolò un paio di secondi di studiato silenzio

"… e scopre di avere sul tettuccio un cristiano. Morto. Capisci, Andrea? Aveva investito un uomo, uccidendolo, e ne aveva portato a spasso il cadavere per non so quanti chilometri…"

"Naaa"

"Giuro, l’ho letto sul giornale."

"Ok, senti questa, ora." Prima di cominciare, Andrea bevve un bel sorso di birra scura.

"Sull’autostrada, pochi giorni fa, un’auto si è schiantata contro un cavallo che correva a briglia sciolta in senso contrario a quello di marcia. L’impatto è stato tanto violento da far stramazzare il cavallo e da far accartocciare il muso della macchina, uccidendone i conducenti…"

"Un cavallo in mezzo l’autostrada?? E che ci faceva?" ribattè Nat, pensieroso, ma interessato.

"Allora. Quella strada costeggiava dei campi nomadi. I nomadi sono allevatori di cavalli. La strada non aveva barriere o recinzioni ai lati. Capita spesso, da quelle parti, ha detto il cronista, che animali scavalchino agevolmente i gardrail e si fiondino sull’autostrada totalmente impazziti per la paura…"

"Occristo".

Fu in quel momento che Lothar entrò nel locale. Gli occhiali gli si appannarono. Fuori faceva un freddo cane, dentro ci si crogiolava in un rilassante calore umano. Aveva una faccia stanca, pallida, ma un sorriso onnipresente, che scopriva denti diritti e bianchi. Una persona curata, anche nel modo di vestire.

Si avvicinò al tavolo dove sedevano Andrea e Nat. Senza chiedere alcun permesso, occupò l’unica sedia libera al tavolo.

Nat e Andrea si guardarono con un sorriso di divertita curiosità e stupore, poi guardarono Lothar.

"Finalmente vi ho trovati. M’avevano detto che probabilmente eravate qui."

"Scusa ma…" azzardò Andrea.

"Niente domande per ora." replicò infastidito Lothar.

"Ho bisogno di voi. Ho un problema." E così dicendo prese il bicchiere di Andrea e finì la sua birra scura.

 

Allora, è meglio dire come stanno veramente le cose.

Allora, è meglio dire come stanno veramente le cose.

C’è un quadro, la "Colazione sull’erba" di Edouard Manet. E c’è quella donna. Mi piacciono i suoi piedi. Tra tutto mi piacciono i suoi piedi. Adoro i piedi delle donne, specie quando hanno la pianta vissuta, leggermente ombrata. E il suo sguardo, e la mano dell’uomo che le sta di fronte, che forse sta accompagnando il suo discorso, o che forse la sta invitando a farglisi più vicino, o ad allungare la coscia più verso il suo inguine. Il pollice del piede di lei è leggermente rialzato, riproduce inconsapevolmente l’erezione del suo compagno, o la mia? Lui la sta guardando, e vuole che lei si avvicini. L’altro uomo guarda altrove. Lei guarda altrove. Ma mentre gli occhi dell’altro uomo guardano qualcosa che è, che dev’essere, nel quadro, gli occhi della donna guardano me.

Sono l’umile suddito della società Triadica. La società Triadica ha poche, semplici regole:

  1. Non avrai altra società fuorché la società Triadica;
  2. Onora i membri della società Triadica;
  3. Oltre te stesso, membri della società Triadica sono Linda, tua madre, e Angela, tua zia;
  4. Nella società Triadica, tu sei un semplice suddito;
  5. Nella società Triadica, Linda riveste compiti di ministero di giustizia, degli interni, degli esteri, dell’economia, delle pari opportunità e così via; Angela è primo ministro e presidente.
  6. Nella società Triadica, tu sei un semplice suddito.

Nel quadro, l’altra donna non conta. E’ nell’acqua, e l’acqua è purificazione. Non conta tanto il fatto che sia vestita, ma il fatto che si sta bagnando, che si sta purificando. La mia donna siede invece sulla terra, e mi guarda.

La società Triadica conta tre abitanti, si sviluppa su un territorio di 120 mq, usa come moneta la lira. Il tempo è scandito secondo l’orologio del televideo. Il fuso orario è quello italiano. L’economia è a base assistenzialistica per quanto riguarda Linda, vedova, retribuita secondo legge per quanto riguarda Angela, maestra elementare. La società Triadica, al di là dei punti sovraesposti, segue in tutto e per tutto le leggi della costituzione italiana. La lingua è quella italiana.

Nel quadro, la donna nuda mi sta guardando.

Il telefono sta squillando. Lo lascio squillare fino alla fine. Poi riprende, ma solo per due tre squilli. Voglio che sappiano che non sono in casa. La società Triadica ha un raffinatissimo sistema di sorveglianza.

Nel 1972, esce "Jesus christ Superstar", primo music-rock; terroristi arabi uccidono 11 atleti israeliani alle Olimpiadi; la Corte Suprema degli stati Uniti abolisce la pena di morte; Bobby Fischer è campione mondiale di scacchi; Mark spitz vince sei medaglie d’oro alle Olimpidi di Monaco; esce "Cabaret" con Liza Minelli; Marlon Brando è Don Corleone nel film "Il padrino"; la Lancia vince il Rally di Montecarlo con Munari alla guida della Lancia Fulvia HF; muore il navigatore solitario Chichester; dibattito parlamentare per la TV a colori: Pal o Secam?

Nel 1972, nasco.

Sono alto 1,78, ho capelli corti e bruni, occhi marrone scuro, miopi astigmatici e leggermente strabici. Ma quando inforco gli occhiali, lo strabismo scompare. Sono uno studente universitario, iscritto al quarto anno fuori corso, alla facoltà di lettere e filosofia, corso di laurea di filosofia, a Napoli. Mi sto preparando per l’esame di psicologia generale, che dovrei sostenere a maggio. Dico dovrei, perché francamente non mi va. Sono in attesa di prima occupazione. Ho un sito internet. Ho la barba.

Il mio stato attuale risponde perfettamente alla tabella riportata a pagina 72 del testo universitario "Psychology" di Darley-Glucksberg-Kinchla per la Prentice Hall International, tradotto per i tipi italiani del Mulino da Riccucci:

  1. grave depressione
  2. perdita di peso, disordini del sonno, anoressia;
  3. chiusura in se stessi, perdita di interessi, apatia;
  4. sentimento di disperazione, di mancanza d’aiuto, di esaurimento;
  5. disorganizzazione, confusione, vergogna e imbarazzo;
  6. abuso di droghe e/o alcool, compulsione al gioco d’azzardo;
  7. sentimenti di colpevolezza, vergogna e imbarazzo;
  8. pensieri o propositi di suicidio.

In linea generale, la mia personalità si struttura – almeno seguendo le indicazioni riportate nella Finestra II, a pagina 487 del teso universitario "Psicologia generale e dello sviluppo" di R. Canestrari edito per i tipi della CLUEB – come un interessante ibrido di caratteristiche introverse ed estroverse: ho poche amicizie, ma numerosi amici; sono molto sensibile, ma poco sensibile; sono diffidente e fiducioso verso gli altri; sono preoccupato e non preoccupato delle possibili disgrazie; sono inquieto e indifferente quando le cose vanno male; sono facilmente e difficilmente sconvolto; mi tengo sempre al centro del gruppo; sono critico e tollerante verso gli altri; preferisco lavorare da solo piuttosto che in gruppo, o viceversa; sono di umore stabile e mutevole; sono poco attento nel vestire e incurante dei miei affari, e tutto il contrario; mal accetto ordini e disciplina; cerco occasioni di parlare in pubblico, e così via.

Allora, è meglio dire come stanno veramente le cose.

C’è un quadro, "I nottambuli" di Edward Hopper. Tre creature della notte in una tavola calda, da "Phillies", nel cuore della notte, in un angolo anonimo di New York, nel cuore della notte; c’è una coppia e un barista. Il lui della coppia ha un completo elegante, ma sobrio. Lei ha capelli e vestito rossi. Lui ha il naso aquilino, lei pare avere due fossi al posto degli occhi. Lui sta forse parlando col barista, un tipo comune, molto americano, di carnagione e capigliatura tendenzialmente rossastra.

Sulla sinistra c’è un uomo, solo. E’ di spalle, non si scorge il viso. Forse guarda davanti a sé, forse guarda la coppia, forse non guarda alcunché. Trasmette un sottile senso di minaccia. Quell’uomo sono io.

 

CONTINUA…

 

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