Aulo Persio Flacco
SATIRE
pagina ideata e realizzata da
Nunzio Castaldidedico questo lavoro a tutte le donne che conosco e a tutte quelle che conoscerò
avvertenze:
la pagina è costruita in word 97
potete scegliere di leggere in modo continuativo il testo latino e quello italiano, o alternare originale e traduzione avvalendovi della fitta rete di rimandi ipertestuali
consiglio di salvare subito la pagina e di esplorarla in modalità "non in linea": risparmierete tempo e denaro
nel caso ricontriate qualsiasi violazione delle norme di copyright, vi prego di segnalarmelo via
email, grazie.Buon divertimento
(
vai al sommario analitico)
(
vai al sommario generale)
Aulo Persio Flacco
(Volterra, 4 dic. 34 d.C. – Roma, 24 nov. 62 d.C.)
torna al sommario analitico P. nacque da famiglia agiata e appartenente all’ordine equestre, ma rimase orfano di padre all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura dalla madre, Fulvia Sisenna; fu lei a condurlo a Roma, all’età di 12-13 anni, ad educarsi presso le migliori scuole di grammatica e retorica: ebbe come maestri Remmio Palèmane e Virginio Flavo, ma a segnarlo fu l’incontro col severo filosofo stoico Anneo Cornuto (liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di Lucano), che lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria al principato (P. legò soprattutto con Tràsea Peto). torna al sommario analitico La conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, P. fu amorevolmente circondato dalle cure della madre, ma anche di altre quattro donne: una zia, una sorella, la cugina Arria minore, moglie di Tràsea Peto, e la figlia di questa, Fannia. Le premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua educazione filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe pochi amici: quelli dell’adolescenza, Calpurnio Statura, Lucano, Cesio Basso, ai quali più tardi si aggiunsero soltanto Servilio Noniano e i già citati Tràsea Peto e Cornuto (per lui, P. provò profondissima devozione). Fu proprio Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia. torna al sommario analitico La naturale introversione e delicatezza d’animo, nonché la riservatezza nella quale aveva scelto di vivere, finirono per rendere P. un isolato, estraneo alla realtà viva del suo tempo, al punto che mostrò di non provare alcun interesse per il contemporaneo Seneca, stoico come lui e che pure (ma tardi) conobbe: tuttavia, è difficile stabilire se a tale condizione egli sia pervenuto in seguito ad una scelta per così dire "estetica" ed etica, o se non vi sia pervenuto anche attraverso un atteggiamento "politico" di rifiuto della realtà che lo circondava. torna al sommario analitico P. morì a soli 28 anni, per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via Appia. Lasciò in eredità al maestro Cornuto tutta la sua biblioteca – compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi!) – nonché una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato. Sappiamo che Cornuto trattenne per sé i libri, mentre consegnò il resto alla madre e alla sorella del poeta. torna al sommario analitico
Un’antica biografia di P., premessa nei manoscritti al testo delle "Satire", che probabilmente va fatta risalire all’erudito Valerio Probo (I sec.), oltre a fornire le indicazioni fin qui riferite sulla sua vita, c’informa anche della sua produzione.
Oltre che le "
Satire" (che sono, ovviamente, il suo capolavoro), P. scrisse, da fanciullo, una pretexta (dal titolo "Vescio", che non comprendiamo); quindi, un libro contenente una narrazione di viaggi ("Hodoeporicon") e un componimento celebrativo di Arria maggiore, madre della moglie di Tràsea Peto (quella stessa Arria che volle morire suicida insieme al marito Cecina Peto).Alla morte del poeta, Cornuto volle che le operette minori fossero distrutte, forse per constatate imperfezioni di stile dovute ad imperizia, forse per evitare che la madre di P. subisse rappresaglie per il contenuto antimperialista di quella tragedia e di quei versi in onore di Arria, vittima dell’ottusa avversità di Nerone.
torna al sommario analitico
(introduzione)
Le "Satire", in numero di 6, in esametri dattilici, per un totale di 650 versi, sono precedute da un proemio di 14 versi "coliambi" (variazioni del trimetro giambico: nell’autorevole codice di Montpellier, del X sec., questo breve testo precede la satira I come introduzione a tutta la raccolta; nelle edizioni moderne, viene posto all’inizio oppure alla fine della raccolta). Molto probabilmente il poeta aveva un ben più vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto a ritoccare le "Satire" per l’edizione, postuma, curata da Cesio Basso, e pubblicata nel 62 d.C. . Come ricordano gli scoliasti, entrambi i revisori provvidero – ad es. – ad eliminare alcuni versi contenenti caustiche allusioni a Nerone (era proprio il periodo in cui i rapporti tra Nerone da un lato e Seneca e Lucano dall’altro erano ormai apertamente ostili). Non solo: alcuni versi della fine del libro (ovvero, della satira VI) furono espunti, perché l'opera non apparisse incompiuta. E’ da premettere che è molto difficile dare un sommario resoconto dei contenuti dell’opera: il modo di procedere di P. è quanto di più asistematico si possa immaginare. I passaggi da un pensiero all’altro risultano, infatti, spesso bruschi ed ingiustificati dal punto di vista della logica. Si aggiungono, a questo, altri problemi di interpretazione del pensiero stesso, quasi sempre espresso in forma tortuosa. Tuttavia, per quanto ci è possibile, procediamo con ordine.
Ma non è solo esuberante esercizio di moralismo filosofico: bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori esemplari, nel loro intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio, ma più che altro come "antimodello", nel senso che in P. il rapporto "maestro-poeta/discepolo-destinatario" si risolve in una reciproca "incomprensione", che li allontana; e se il nostro autore si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (esasperandola in un "barocchismo" macabro), di contro tale comunicazione viene a ritagliarsi un nuovo spazio: il monologo della confessione. E, invero, la passione sincera spesso riscatta la sua arte.
torna al sommario analitico L’esigenza realistica è all’origine della scelta di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che si avvale della tecnica della "iunctura acris" (il nesso urtante per la sua asprezza sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico) e quindi si "deforma", condizione necessaria ad esprimere verità profonde e accecanti: l’oscurità è dunque, più che altro, una scelta estetica. Come dire che tale oscurità non è il risultato di una tecnica imperfetta, bensì una voluta difficoltà, che il poeta offre ai suoi lettori perché meditino attentamente sul suo messaggio.Ovviamente, per quanto detto, destinatario dell’opera non può essere l’uomo (per dir così) comune, ma sarà un pubblico costituito da gente colta, istruita e anch’essa dotata della stessa profonda sensibilità del poeta.
torna al sommario analitico Fatto sta, comunque, che le "Satire" di P. riscossero un enorme successo tra i contemporanei, specialmente presso Lucano. Il nostro autore fu molto letto e citato anche nei secoli successivi, studiato dai grammatici per la peculiarità della lingua e dello stile, e apprezzato dagli autori cristiani per il carattere spiccatamente moralistico della sua produzione. La sua fortuna, fiorente lungo tutto il medioevo, declinò tuttavia in età rinascimentale, oscurata da quella di Orazio satirico, moralista meno intransigente e scrittore meno duro e oscuro. torna al sommario analitico(testo latino)
PROLOGVS torna al sommario analitico
Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini, ut repente sic poeta prodirem.
Heliconidasque pallidamque Pirenen
illis remitto quorum imagines lambunt
hederae sequaces; ipse semipaganus
ad sacra uatum carmen adfero nostrum.
quis expediuit psittaco suum 'chaere'
picamque docuit nostra uerba conari?
magister artis ingenique largitor
uenter, negatas artifex sequi uoces.
quod si dolosi spes refulserit nummi,
coruos poetas et poetridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.
CONTRO I POETI DECLAMATORI torna al sommario analitico
(n.b.: i titoli generici e comprensivi che preponiamo a ciascun componimento, data la già asserita complessità delle "Satire", assolvono ad una funzione puramente orientativa.)
SATVRA I
O curas hominum! o quantum est in rebus inane!
'quis leget haec?' min tu istud ais? nemo hercule. 'nemo?'
uel duo uel nemo. 'turpe et miserabile.' quare?
ne mihi Polydamas et Troiades Labeonem
praetulerint? nugae. non, si quid turbida Roma
eleuet, accedas examenue inprobum in illa
castiges trutina nec te quaesiueris extra.
nam Romae quis non--a, si fas dicere--sed fas
tum cum ad canitiem et nostrum istud uiuere triste
aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis,
cum sapimus patruos. tunc tunc--ignoscite (nolo,
quid faciam?) sed sum petulanti splene--cachinno.
scribimus inclusi, numeros ille, hic pede liber,
grande aliquid quod pulmo animae praelargus anhelet.
scilicet haec populo pexusque togaque recenti
et natalicia tandem cum sardonyche albus
sede leges celsa, liquido cum plasmate guttur
mobile conlueris, patranti fractus ocello.
tunc neque more probo uideas nec uoce serena
ingentis trepidare Titos, cum carmina lumbum
intrant et tremulo scalpuntur ubi intima uersu.
tun, uetule, auriculis alienis colligis escas,
articulis quibus et dicas cute perditus 'ohe'?
'quo didicisse, nisi hoc fermentum et quae semel intus
innata est rupto iecore exierit caprificus?'
en pallor seniumque! o mores, usque adeone
scire tuum nihil est nisi te scire hoc sciat alter?
'at pulchrum est digito monstrari et dicier "hic est."
ten cirratorum centum dictata fuisse
pro nihilo pendes?' ecce inter pocula quaerunt
Romulidae saturi quid dia poemata narrent.
hic aliquis, cui circum umeros hyacinthina laena est,
rancidulum quiddam balba de nare locutus
Phyllidas, Hypsipylas, uatum et plorabile siquid,
eliquat ac tenero subplantat uerba palato.
adsensere uiri: nunc non cinis ille poetae
felix? non leuior cippus nunc inprimit ossa?
laudant conuiuae: nunc non e manibus illis,
nunc non e tumulo fortunataque fauilla
nascentur uiolae? 'rides' ait 'et nimis uncis
naribus indulges. an erit qui uelle recuset
os populi meruisse et cedro digna locutus
linquere nec scombros metuentia carmina nec tus?'
quisquis es, o modo quem ex aduerso dicere feci,
non ego cum scribo, si forte quid aptius exit,
quando haec rara auis est, si quid tamen aptius exit,
laudari metuam; neque enim mihi cornea fibra est.
sed recti finemque extremumque esse recuso
'euge' tuum et 'belle.' nam 'belle' hoc excute totum:
quid non intus habet? non hic est Ilias Atti
ebria ueratro? non siqua elegidia crudi
dictarunt proceres? non quidquid denique lectis
scribitur in citreis? calidum scis ponere sumen,
scis comitem horridulum trita donare lacerna,
et 'uerum' inquis 'amo, uerum mihi dicite de me.'
qui pote? uis dicam? nugaris, cum tibi, calue,
pinguis aqualiculus propenso sesquipede extet.
o Iane, a tergo quem nulla ciconia pinsit
nec manus auriculas imitari mobilis albas
nec linguae quantum sitiat canis Apula tantae.
uos, o patricius sanguis, quos uiuere fas est
occipiti caeco, posticae occurrite sannae.
'quis populi sermo est? quis enim nisi carmina molli
nunc demum numero fluere, ut per leue seueros
effundat iunctura unguis? scit tendere uersum
non secus ac si oculo rubricam derigat uno.
siue opus in mores, in luxum, in prandia regum
dicere, res grandes nostro dat Musa poetae.'
ecce modo heroas sensus adferre docemus
nugari solitos Graece, nec ponere lucum
artifices nec rus saturum laudare, ubi corbes
et focus et porci et fumosa Palilia feno,
unde Remus sulcoque terens dentalia, Quinti,
cum trepida ante boues dictatorem induit uxor
et tua aratra domum lictor tulit--euge poeta!
'est nunc Brisaei quem uenosus liber Acci,
sunt quos Pacuuiusque et uerrucosa moretur
Antiopa aerumnis cor luctificabile fulta?'
hos pueris monitus patres infundere lippos
cum uideas, quaerisne unde haec sartago loquendi
uenerit in linguas, unde istud dedecus in quo
trossulus exultat tibi per subsellia leuis?
nilne pudet capiti non posse pericula cano
pellere quin tepidum hoc optes audire 'decenter'?
'fur es' ait Pedio. Pedius quid? crimina rasis
librat in antithetis, doctas posuisse figuras
laudatur: 'bellum hoc.' hoc bellum? an, Romule, ceues?
men moueat? quippe, et, cantet si naufragus, assem
protulerim? cantas, cum fracta te in trabe pictum
ex umero portes? uerum nec nocte paratum
plorabit qui me uolet incuruasse querella.
'sed numeris decor est et iunctura addita crudis.
cludere sic uersum didicit "Berecyntius Attis"
et "qui caeruleum dirimebat Nerea delphin,"
sic "costam longo subduximus Appennino."
"Arma uirum", nonne hoc spumosum et cortice pingui
ut ramale uetus uegrandi subere coctum?'
quidnam igitur tenerum et laxa ceruice legendum?
'torua Mimalloneis inplerunt cornua bombis,
et raptum uitulo caput ablatura superbo
Bassaris et lyncem Maenas flexura corymbis
euhion ingeminat, reparabilis adsonat echo.'
haec fierent si testiculi uena ulla paterni
uiueret in nobis? summa delumbe saliua
hoc natat in labris et in udo est Maenas et Attis
nec pluteum caedit nec demorsos sapit unguis.
'sed quid opus teneras mordaci radere uero
auriculas? uide sis ne maiorum tibi forte
limina frigescant: sonat hic de nare canina
littera.' per me equidem sint omnia protinus alba;
nil moror. euge omnes, omnes bene, mirae eritis res.
hoc iuuat? 'hic' inquis 'ueto quisquam faxit oletum.'
pinge duos anguis: 'pueri, sacer est locus, extra
meiite.' discedo. secuit Lucilius urbem,
te Lupe, te Muci, et genuinum fregit in illis.
omne uafer uitium ridenti Flaccus amico
tangit et admissus circum praecordia ludit,
callidus excusso populum suspendere naso.
me muttire nefas? nec clam? nec cum scrobe? nusquam?
hic tamen infodiam. uidi, uidi ipse, libelle:
auriculas asini quis non habet? hoc ego opertum,
hoc ridere meum, tam nil, nulla tibi uendo
Iliade. audaci quicumque adflate Cratino
iratum Eupolidem praegrandi cum sene palles,
aspice et haec, si forte aliquid decoctius audis.
inde uaporata lector mihi ferueat aure,
non hic qui in crepidas Graiorum ludere gestit
sordidus et lusco qui possit dicere 'lusce,'
sese aliquem credens Italo quod honore supinus
fregerit heminas Arreti aedilis iniquas,
nec qui abaco numeros et secto in puluere metas
scit risisse uafer, multum gaudere paratus
si cynico barbam petulans nonaria uellat.
his mane edictum, post prandia Callirhoen do.
A P. MACRINO, CONTRO LA RELIGIONE IPOCRITA. torna al sommario analitico
SATVRA II
Hunc, Macrine, diem numera meliore lapillo,
qui tibi labentis apponet candidus annos.
funde merum genio. non tu prece poscis emaci
quae nisi seductis nequeas committere diuis;
at bona pars procerum tacita libabit acerra.
haut cuiuis promptum est murmurque humilisque susurros
tollere de templis et aperto uiuere uoto.
'mens bona, fama, fides', haec clare et ut audiat hospes;
illa sibi introrsum et sub lingua murmurat: 'o si
ebulliat patruus, praeclarum funus!' et 'o si
sub rastro crepet argenti mihi seria dextro
Hercule! pupillumue utinam, quem proximus heres
inpello, expungam; nam et est scabiosus et acri
bile tumet. Nerio iam tertia conditur uxor.'
haec sancte ut poscas, Tiberino in gurgite mergis
mane caput bis terque et noctem flumine purgas.
heus age, responde (minimum est quod scire laboro)
de Ioue quid sentis? estne ut praeponere cures
hunc--cuinam? cuinam? uis Staio? an--scilicet haeres?
quis potior iudex puerisue quis aptior orbis?
hoc igitur quo tu Iouis aurem inpellere temptas
dic agedum Staio. 'pro Iuppiter, o bone' clamet
'Iuppiter!' at sese non clamet Iuppiter ipse?
ignouisse putas quia, cum tonat, ocius ilex
sulpure discutitur sacro quam tuque domusque?
an quia non fibris ouium Ergennaque iubente
triste iaces lucis euitandumque bidental,
idcirco stolidam praebet tibi uellere barbam
Iuppiter? aut quidnam est qua tu mercede deorum
emeris auriculas? pulmone et lactibus unctis?
ecce auia aut metuens diuum matertera cunis
exemit puerum frontemque atque uda labella
infami digito et lustralibus ante saliuis
expiat, urentis oculos inhibere perita;
tunc manibus quatit et spem macram supplice uoto
nunc Licini in campos, nunc Crassi mittit in aedis:
'hunc optet generum rex et regina, puellae
hunc rapiant; quidquid calcauerit hic, rosa fiat.'
ast ego nutrici non mando uota. negato,
Iuppiter, haec illi, quamuis te albata rogarit.
poscis opem neruis corpusque fidele senectae.
esto age. sed grandes patinae tuccetaque crassa
adnuere his superos uetuere Iouemque morantur.
rem struere exoptas caeso boue Mercuriumque
arcessis fibra: 'da fortunare Penatis,
da pecus et gregibus fetum.' quo, pessime, pacto,
tot tibi cum in flamma iunicum omenta liquescant?
et tamen hic extis et opimo uincere ferto
intendit: 'iam crescit ager, iam crescit ouile,
iam dabitur, iam iam';donec deceptus et exspes
nequiquam fundo suspiret nummus in imo.
si tibi creterras argenti incusaque pingui
auro dona feram, sudes et pectore laeuo
excutiat guttas laetari praetrepidum cor.
hinc illud subiit, auro sacras quod ouato
perducis facies. 'nam fratres inter aenos,
somnia pituita qui purgatissima mittunt,
praecipui sunto sitque illis aurea barba.'
aurum uasa Numae Saturniaque inpulit aera
Vestalisque urnas et Tuscum fictile mutat.
o curuae in terris animae et caelestium inanis,
quid iuuat hoc, templis nostros inmittere mores
et bona dis ex hac scelerata ducere pulpa?
haec sibi corrupto casiam dissoluit oliuo,
haec Calabrum coxit uitiato murice uellus,
haec bacam conchae rasisse et stringere uenas
feruentis massae crudo de puluere iussit.
peccat et haec, peccat, uitio tamen utitur. at uos
dicite, pontifices, in sancto quid facit aurum?
nempe hoc quod Veneri donatae a uirgine pupae.
quin damus id superis, de magna quod dare lance
non possit magni Messalae lippa propago?
conpositum ius fasque animo sanctosque recessus
mentis et incoctum generoso pectus honesto.
haec cedo ut admoueam templis et farre litabo.
INVITO ALLA FILOSOFIA. torna al sommario analitico
SATVRA III
Nempe haec adsidue. iam clarum mane fenestras
intrat et angustas extendit lumine rimas.
stertimus, indomitum quod despumare Falernum
sufficiat, quinta dum linea tangitur umbra.
'en quid agis? siccas insana canicula messes
iam dudum coquit et patula pecus omne sub ulmo est'
unus ait comitum. uerumne? itan? ocius adsit
huc aliquis. nemon? turgescit uitrea bilis:
findor, ut Arcadiae pecuaria rudere credas.
iam liber et positis bicolor membrana capillis
inque manus chartae nodosaque uenit harundo.
tum querimur crassus calamo quod pendeat umor.
nigra sed infusa uanescit sepia lympha,
dilutas querimur geminet quod fistula guttas.
o miser inque dies ultra miser, hucine rerum
uenimus? a, cur non potius teneroque columbo
et similis regum pueris pappare minutum
poscis et iratus mammae lallare recusas?
an tali studeam calamo? cui uerba? quid istas
succinis ambages? tibi luditur. effluis amens,
contemnere. sonat uitium percussa, maligne
respondet uiridi non cocta fidelia limo.
udum et molle lutum es, nunc nunc properandus et acri
fingendus sine fine rota. sed rure paterno
est tibi far modicum, purum et sine labe salinum
(quid metuas?) cultrixque foci secura patella.
hoc satis? an deceat pulmonem rumpere uentis
stemmate quod Tusco ramum millesime ducis
censoremue tuum uel quod trabeate salutas?
ad populum phaleras! ego te intus et in cute noui.
non pudet ad morem discincti uiuere Nattae.
sed stupet hic uitio et fibris increuit opimum
pingue, caret culpa, nescit quid perdat, et alto
demersus summa rursus non bullit in unda.
magne pater diuum, saeuos punire tyrannos
haut alia ratione uelis, cum dira libido
mouerit ingenium feruenti tincta ueneno:
uirtutem uideant intabescantque relicta.
anne magis Siculi gemuerunt aera iuuenci
et magis auratis pendens laquearibus ensis
purpureas subter ceruices terruit, 'imus,
imus praecipites' quam si sibi dicat et intus
palleat infelix quod proxima nesciat uxor?
saepe oculos, memini, tangebam paruus oliuo,
grandia si nollem morituri uerba Catonis
discere non sano multum laudanda magistro,
quae pater adductis sudans audiret amicis.
iure; etenim id summum, quid dexter senio ferret,
scire erat in uoto, damnosa canicula quantum
raderet, angustae collo non fallier orcae,
neu quis callidior buxum torquere flagello.
haut tibi inexpertum curuos deprendere mores
quaeque docet sapiens bracatis inlita Medis
porticus, insomnis quibus et detonsa iuuentus
inuigilat siliquis et grandi pasta polenta;
et tibi quae Samios diduxit littera ramos
surgentem dextro monstrauit limite callem.
stertis adhuc laxumque caput conpage soluta
oscitat hesternum dissutis undique malis.
est aliquid quo tendis et in quod derigis arcum?
an passim sequeris coruos testaque lutoque,
securus quo pes ferat, atque ex tempore uiuis?
elleborum frustra, cum iam cutis aegra tumebit,
poscentis uideas; uenienti occurrite morbo,
et quid opus Cratero magnos promittere montis?
discite et, o miseri, causas cognoscite rerum:
quid sumus et quidnam uicturi gignimur, ordo
quis datus, aut metae qua mollis flexus et unde,
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet, patriae carisque propinquis
quantum elargiri deceat, quem te deus esse
iussit et humana qua parte locatus es in re.
disce nec inuideas quod multa fidelia putet
in locuplete penu, defensis pinguibus Vmbris,
et piper et pernae, Marsi monumenta clientis,
maenaque quod prima nondum defecerit orca.
hic aliquis de gente hircosa centurionum
dicat: 'quod sapio satis est mihi. non ego curo
esse quod Arcesilas aerumnosique Solones
obstipo capite et figentes lumine terram,
murmura cum secum et rabiosa silentia rodunt
atque exporrecto trutinantur uerba labello,
aegroti ueteris meditantes somnia, gigni
de nihilo nihilum, in nihilum nil posse reuerti.
hoc est quod palles? cur quis non prandeat hoc est?'
his populus ridet, multumque torosa iuuentus
ingeminat tremulos naso crispante cachinnos.
'inspice, nescio quid trepidat mihi pectus et aegris
faucibus exsuperat grauis halitus, inspice sodes'
qui dicit medico, iussus requiescere, postquam
tertia conpositas uidit nox currere uenas,
de maiore domo modice sitiente lagoena
lenia loturo sibi Surrentina rogabit.
'heus bone, tu palles.' 'nihil est.' 'uideas tamen istuc,
quidquid id est. surgit tacite tibi lutea pellis.'
'at tu deterius palles, ne sis mihi tutor.
iam pridem hunc sepeli; tu restas.' 'perge, tacebo.'
turgidus hic epulis atque albo uentre lauatur,
gutture sulpureas lente exhalante mefites.
sed tremor inter uina subit calidumque trientem
excutit e manibus, dentes crepuere retecti,
uncta cadunt laxis tunc pulmentaria labris.
hinc tuba, candelae, tandemque beatulus alto
conpositus lecto crassisque lutatus amomis
in portam rigidas calces extendit. at illum
hesterni capite induto subiere Quirites.
'tange, miser, uenas et pone in pectore dextram;
nil calet hic. summosque pedes attinge manusque;
non frigent.' uisa est si forte pecunia, siue
candida uicini subrisit molle puella,
cor tibi rite salit? positum est algente catino
durum holus et populi cribro decussa farina:
temptemus fauces; tenero latet ulcus in ore
putre quod haut deceat plebeia radere beta.
alges, cum excussit membris timor albus aristas;
nunc face supposita feruescit sanguis et ira
scintillant oculi, dicisque facisque quod ipse
non sani esse hominis non sanus iuret Orestes.
CONOSCI E CORREGGI TE STESSO PRIMA DEGLI ALTRI. torna al sommario analitico
SATVRA IV
'Rem populi tractas?' (barbatum haec crede magistrum
dicere, sorbitio tollit quem dira cicutae)
'quo fretus? dic hoc, magni pupille Pericli.
scilicet ingenium et rerum prudentia uelox
ante pilos uenit, dicenda tacendaue calles.
ergo ubi commota feruet plebecula bile,
fert animus calidae fecisse silentia turbae
maiestate manus. quid deinde loquere? "Quirites,
hoc puta non iustum est, illud male, rectius illud."
scis etenim iustum gemina suspendere lance
ancipitis librae, rectum discernis ubi inter
curua subit uel cum fallit pede regula uaro,
et potis es nigrum uitio praefigere theta.
quin tu igitur summa nequiquam pelle decorus
ante diem blando caudam iactare popello
desinis, Anticyras melior sorbere meracas?
quae tibi summa boni est? uncta uixisse patella
semper et adsiduo curata cuticula sole?
expecta, haut aliud respondeat haec anus. i nunc,
"Dinomaches ego sum" suffla, "sum candidus." esto,
dum ne deterius sapiat pannucia Baucis,
cum bene discincto cantauerit ocima uernae.'
ut nemo in sese temptat descendere, nemo,
sed praecedenti spectatur mantica tergo!
quaesieris 'nostin Vettidi praedia?' 'cuius?'
'diues arat Curibus quantum non miluus errat.'
'hunc ais, hunc dis iratis genioque sinistro,
qui, quandoque iugum pertusa ad compita figit,
seriolae ueterem metuens deradere limum
ingemit "hoc bene sit" tunicatum cum sale mordens
cepe et farratam pueris plaudentibus ollam
pannosam faecem morientis sorbet aceti?'
at si unctus cesses et figas in cute solem,
est prope te ignotus cubito qui tangat et acre
despuat: 'hi mores! penemque arcanaque lumbi
runcantem populo marcentis pandere uuluas.
tum, cum maxillis balanatum gausape pectas,
inguinibus quare detonsus gurgulio extat?
quinque palaestritae licet haec plantaria uellant
elixasque nates labefactent forcipe adunca,
non tamen ista filix ullo mansuescit aratro.'
caedimus inque uicem praebemus crura sagittis.
uiuitur hoc pacto, sic nouimus. ilia subter
caecum uulnus habes, sed lato balteus auro
praetegit. ut mauis, da uerba et decipe neruos,
si potes. 'egregium cum me uicinia dicat,
non credam?' uiso si palles, inprobe, nummo,
si facis in penem quidquid tibi uenit, amarum
si puteal multa cautus uibice flagellas,
nequiquam populo bibulas donaueris aures.
respue quod non es; tollat sua munera cerdo.
tecum habita: noris quam sit tibi curta supellex.
GRATITUDINE PER IL MAESTRO; LA VERA LIBERTA’. torna al sommario analitico
SATVRA V
Vatibus hic mos est, centum sibi poscere uoces,
centum ora et linguas optare in carmina centum,
fabula seu maesto ponatur hianda tragoedo,
uolnera seu Parthi ducentis ab inguine ferrum.
'quorsum haec? aut quantas robusti carminis offas
ingeris, ut par sit centeno gutture niti?
grande locuturi nebulas Helicone legunto,
si quibus aut Procnes aut si quibus olla Thyestae
feruebit saepe insulso cenanda Glyconi.
tu neque anhelanti, coquitur dum massa camino,
folle premis uentos nec clauso murmure raucus
nescio quid tecum graue cornicaris inepte
nec scloppo tumidas intendis rumpere buccas.
uerba togae sequeris iunctura callidus acri,
ore teres modico, pallentis radere mores
doctus et ingenuo culpam defigere ludo.
hinc trahe quae dicis mensasque relinque Mycenis
cum capite et pedibus plebeiaque prandia noris.'
non equidem hoc studeo, pullatis ut mihi nugis
pagina turgescat dare pondus idonea fumo.
secrete loquimur. tibi nunc hortante Camena
excutienda damus praecordia, quantaque nostrae
pars tua sit, Cornute, animae, tibi, dulcis amice,
ostendisse iuuat. pulsa, dinoscere cautus
quid solidum crepet et pictae tectoria linguae.
hic ego centenas ausim deposcere fauces,
ut quantum mihi te sinuoso in pectore fixi
uoce traham pura, totumque hoc uerba resignent
quod latet arcana non enarrabile fibra.
cum primum pauido custos mihi purpura cessit
bullaque subcinctis Laribus donata pependit,
cum blandi comites totaque inpune Subura
permisit sparsisse oculos iam candidus umbo,
cumque iter ambiguum est et uitae nescius error
diducit trepidas ramosa in compita mentes,
me tibi supposui. teneros tu suscipis annos
Socratico, Cornute, sinu. tum fallere sollers
adposita intortos extendit regula mores
et premitur ratione animus uincique laborat
artificemque tuo ducit sub pollice uoltum.
tecum etenim longos memini consumere soles
et tecum primas epulis decerpere noctes.
unum opus et requiem pariter disponimus ambo
atque uerecunda laxamus seria mensa.
non equidem hoc dubites, amborum foedere certo
consentire dies et ab uno sidere duci.
nostra uel aequali suspendit tempora Libra
Parca tenax ueri, seu nata fidelibus hora
diuidit in Geminos concordia fata duorum
Saturnumque grauem nostro Ioue frangimus una,
nescio quod certe est quod me tibi temperat astrum.
mille hominum species et rerum discolor usus;
uelle suum cuique est nec uoto uiuitur uno.
mercibus hic Italis mutat sub sole recenti
rugosum piper et pallentis grana cumini,
hic satur inriguo mauult turgescere somno,
hic campo indulget, hunc alea decoquit, ille
in uenerem putris; sed cum lapidosa cheragra
fregerit articulos ueteris ramalia fagi,
tunc crassos transisse dies lucemque palustrem
et sibi iam seri uitam ingemuere relictam.
at te nocturnis iuuat inpallescere chartis;
cultor enim iuuenum purgatas inseris aures
fruge Cleanthea. petite hinc, puerique senesque,
finem animo certum miserisque uiatica canis.
'cras hoc fiet.' idem cras fiat. 'quid? quasi magnum
nempe diem donas!' sed cum lux altera uenit,
iam cras hesternum consumpsimus; ecce aliud cras
egerit hos annos et semper paulum erit ultra.
nam quamuis prope te, quamuis temone sub uno
uertentem sese frustra sectabere canthum,
cum rota posterior curras et in axe secundo.
libertate opus est. non hac, ut quisque Velina
Publius emeruit, scabiosum tesserula far
possidet. heu steriles ueri, quibus una Quiritem
uertigo facit! hic Dama est non tresis agaso,
uappa lippus et in tenui farragine mendax.
uerterit hunc dominus, momento turbinis exit
Marcus Dama. papae! Marco spondente recusas
credere tu nummos? Marco sub iudice palles?
Marcus dixit, ita est. adsigna, Marce, tabellas.
haec mera libertas, hoc nobis pillea donant.
'an quisquam est alius liber, nisi ducere uitam
cui licet ut libuit? licet ut uolo uiuere, non sum
liberior Bruto?' 'mendose colligis' inquit
Stoicus hic aurem mordaci lotus aceto,
'hoc relicum accipio, "licet" illud et "ut uolo" tolle.'
'uindicta postquam meus a praetore recessi,
cur mihi non liceat, iussit quodcumque uoluntas,
excepto siquid Masuri rubrica uetabit?'
disce, sed ira cadat naso rugosaque sanna,
dum ueteres auias tibi de pulmone reuello.
non praetoris erat stultis dare tenuia rerum
officia atque usum rapidae permittere uitae;
sambucam citius caloni aptaueris alto.
stat contra ratio et secretam garrit in aurem,
ne liceat facere id quod quis uitiabit agendo.
publica lex hominum naturaque continet hoc fas,
ut teneat uetitos inscitia debilis actus.
diluis elleborum, certo conpescere puncto
nescius examen? uetat hoc natura medendi.
nauem si poscat sibi peronatus arator
luciferi rudis, exclamet Melicerta perisse
frontem de rebus. tibi recto uiuere talo
ars dedit et ueris speciem dinoscere calles,
ne qua subaerato mendosum tinniat auro?
quaeque sequenda forent quaeque euitanda uicissim,
illa prius creta, mox haec carbone notasti?
es modicus uoti, presso lare, dulcis amicis?
iam nunc adstringas, iam nunc granaria laxes,
inque luto fixum possis transcendere nummum
nec gluttu sorbere saliuam Mercurialem?
'haec mea sunt, teneo' cum uere dixeris, esto
liberque ac sapiens praetoribus ac Ioue dextro.
sin tu, cum fueris nostrae paulo ante farinae.
pelliculam ueterem retines et fronte politus
astutam uapido seruas in pectore uolpem,
quae dederam supra relego funemque reduco.
nil tibi concessit ratio; digitum exere, peccas,
et quid tam paruum est? sed nullo ture litabis,
haereat in stultis breuis ut semuncia recti.
haec miscere nefas nec, cum sis cetera fossor,
tris tantum ad numeros Satyrum moueare Bathylli.
'liber ego.' unde datum hoc sumis, tot subdite rebus?
an dominum ignoras nisi quem uindicta relaxat?
'i, puer, et strigiles Crispini ad balnea defer'
si increpuit, 'cessas nugator?', seruitium acre
te nihil inpellit nec quicquam extrinsecus intrat
quod neruos agitet; sed si intus et in iecore aegro
nascuntur domini, qui tu inpunitior exis
atque hic quem ad strigilis scutica et metus egit erilis?
mane piger stertis. 'surge' inquit Auaritia, 'eia
surge.' negas. instat. 'surge' inquit. 'non queo.' 'surge.'
'et quid agam?' 'rogat! en saperdas aduehe Ponto,
castoreum, stuppas, hebenum, tus, lubrica Coa.
tolle recens primus piper et sitiente camelo.
uerte aliquid; iura.' 'sed Iuppiter audiet.' 'eheu,
baro, regustatum digito terebrare salinum
contentus perages, si uiuere cum Ioue tendis.'
iam pueris pellem succinctus et oenophorum aptas.
ocius ad nauem! nihil obstat quin trabe uasta
Aegaeum rapias, ni sollers Luxuria ante
seductum moneat: 'quo deinde, insane, ruis, quo?
quid tibi uis? calido sub pectore mascula bilis
intumuit quam non extinxerit urna cicutae?
tu mare transilias? tibi torta cannabe fulto
cena sit in transtro Veiientanumque rubellum
exhalet uapida laesum pice sessilis obba?
quid petis? ut nummi, quos hic quincunce modesto
nutrieras, pergant auidos sudare deunces?
indulge genio, carpamus dulcia, nostrum est
quod uiuis, cinis et manes et fabula fies,
uiue memor leti, fugit hora, hoc quod loquor inde est.'
en quid agis? duplici in diuersum scinderis hamo.
huncine an hunc sequeris? subeas alternus oportet
ancipiti obsequio dominos, alternus oberres.
nec tu, cum obstiteris semel instantique negaris
parere imperio, 'rupi iam uincula' dicas;
nam et luctata canis nodum abripit, et tamen illi,
cum fugit, a collo trahitur pars longa catenae.
'Daue, cito, hoc credas iubeo, finire dolores
praeteritos meditor' (crudum Chaerestratus unguem
adrodens ait haec). 'an siccis dedecus obstem
cognatis? an rem patriam rumore sinistro
limen ad obscenum frangam, dum Chrysidis udas
ebrius ante fores extincta cum face canto?'
'euge, puer, sapias, dis depellentibus agnam
percute.' 'sed censen plorabit, Daue, relicta?'
'nugaris. solea, puer, obiurgabere rubra,
ne trepidare uelis atque artos rodere casses.
nunc ferus et uiolens; at, si uocet, haut mora dicas
"quidnam igitur faciam? nec nunc, cum arcessat et ultro
supplicet, accedam?" si totus et integer illinc
exieras, nec nunc.' hic hic quod quaerimus, hic est,
non in festuca, lictor quam iactat ineptus.
ius habet ille sui, palpo quem ducit hiantem
cretata Ambitio? uigila et cicer ingere large
rixanti populo, nostra ut Floralia possint
aprici meminisse senes. quid pulchrius? at cum
Herodis uenere dies unctaque fenestra
dispositae pinguem nebulam uomuere lucernae
portantes uiolas rubrumque amplexa catinum
cauda natat thynni, tumet alba fidelia uino,
labra moues tacitus recutitaque sabbata palles.
tum nigri lemures ouoque pericula rupto,
tum grandes galli et cum sistro lusca sacerdos
incussere deos inflantis corpora, si non
praedictum ter mane caput gustaueris ali.
dixeris haec inter uaricosos centuriones,
continuo crassum ridet Pulfenius ingens
et centum Graecos curto centusse licetur.
A C. BASSO: LA VIRTU’ TRA AVARIZIA E PRODIGALITA’. torna al sommario analitico
SATVRA VI
Admouit iam bruma foco te, Basse, Sabino?
iamne lyra et tetrico uiuunt tibi pectine chordae?
mire opifex numeris ueterum primordia uocum
atque marem strepitum fidis intendisse Latinae,
mox iuuenes agitare iocos et pollice honesto
egregius lusisse senex. mihi nunc Ligus ora
intepet hibernatque meum mare, qua latus ingens
dant scopuli et multa litus se ualle receptat.
'Lunai portum, est operae, cognoscite, ciues.'
cor iubet hoc Enni, postquam destertuit esse
Maeonides Quintus pauone ex Pythagoreo.
hic ego securus uolgi et quid praeparet auster
infelix pecori, securus et angulus ille
uicini nostro quia pinguior, etsi adeo omnes
ditescant orti peioribus, usque recusem
curuus ob id minui senio aut cenare sine uncto
et signum in uapida naso tetigisse lagoena.
discrepet his alius. geminos, horoscope, uaro
producis genio: solis natalibus est qui
tinguat holus siccum muria uafer in calice empta,
ipse sacrum inrorans patinae piper; hic bona dente
grandia magnanimus peragit puer. utar ego, utar,
nec rhombos ideo libertis ponere lautus
nec tenuis sollers turdarum nosse saliuas.
messe tenus propria uiue et granaria (fas est)
emole. quid metuas? occa et seges altera in herba est.
at uocat officium, trabe rupta Bruttia saxa
prendit amicus inops remque omnem surdaque uota
condidit Ionio, iacet ipse in litore et una
ingentes de puppe dei iamque obuia mergis
costa ratis lacerae; nunc et de caespite uiuo
frange aliquid, largire inopi, ne pictus oberret
caerulea in tabula. sed cenam funeris heres
negleget iratus quod rem curtaueris; urnae
ossa inodora dabit, seu spirent cinnama surdum
seu ceraso peccent casiae nescire paratus.
'tune bona incolumis minuas?' et Bestius urguet
doctores Graios: 'ita fit; postquam sapere urbi
cum pipere et palmis uenit nostrum hoc maris expers,
fenisecae crasso uitiarunt unguine pultes.'
haec cinere ulterior metuas? at tu, meus heres
quisquis eris, paulum a turba seductior audi.
o bone, num ignoras? missa est a Caesare laurus
insignem ob cladem Germanae pubis et aris
frigidus excutitur cinis ac iam postibus arma,
iam chlamydas regum, iam lutea gausapa captis
essedaque ingentesque locat Caesonia Rhenos.
dis igitur genioque ducis centum paria ob res
egregie gestas induco. quis uetat? aude.
uae, nisi coniues. oleum artocreasque popello
largior. an prohibes? dic clare. 'non adeo' inquis
'exossatus ager iuxta est.' age, si mihi nulla
iam reliqua ex amitis, patruelis nulla, proneptis
nulla manet patrui, sterilis matertera uixit
deque auia nihilum superest, accedo Bouillas
cliuumque ad Virbi, praesto est mihi Manius heres.
'progenies terrae?' quaere ex me quis mihi quartus
sit pater: haut prompte, dicam tamen; adde etiam unum,
unum etiam: terrae est iam filius et mihi ritu
Manius hic generis prope maior auunculus exit.
qui prior es, cur me in decursu lampada poscis?
sum tibi Mercurius; uenio deus huc ego ut ille
pingitur. an renuis? uis tu gaudere relictis?
'dest aliquid summae.' minui mihi, sed tibi totum est
quidquid id est. ubi sit, fuge quaerere, quod mihi quondam
legarat Tadius, neu dicta, 'pone paterna,
fenoris accedat merces, hinc exime sumptus,
quid relicum est?' relicum? nunc nunc inpensius ungue,
ungue, puer, caules. mihi festa luce coquatur
urtica et fissa fumosum sinciput aure,
ut tuus iste nepos olim satur anseris extis,
cum morosa uago singultiet inguine uena,
patriciae inmeiat uoluae? mihi trama figurae
sit reliqua, ast illi tremat omento popa uenter?
uende animam lucro, mercare atque excute sollers
omne latus mundi, ne sit praestantior alter
Cappadocas rigida pinguis plausisse catasta,
rem duplica. 'feci; iam triplex, iam mihi quarto,
iam decies redit in rugam. depunge ubi sistam,
inuentus, Chrysippe, tui finitor acerui.'
torna al sommario analitico
(testo italiano)
PROLOGO torna al sommario analitico
Non ricordo di avere bagnato le labbra
nella fonte del cavallo né di avere sognato sul Parnaso
dalla doppia cima, cosi da diventare all'improvviso
poeta; le dèe dell'Elicona e la pallida Pirene
lascio a coloro le cui immagini lambiscono
attorte edere; io, mezzo paesano,
porto da me stesso i miei versi alla sagra dei vati.
Chi suggerì al pappagallo quel suo "Salve",
e insegnò alle gazze a tentare le nostre parole?
Maestro d'arte e largitore d'ingegno il ventre,
un artista nell'imitare voci innaturali.
Poiché se brilli speranza del danaro ingannatore,
ti potrà capitare di credere che poeti corvi
e poetesse gazze stiano cantando il nettare di Pegaso.
CONTRO I POETI DECLAMATORI. torna al sommario analitico
(n.b.: i titoli generici e comprensivi che preponiamo a ciascun componimento, data la già asserita complessità delle "Satire", assolvono ad una funzione puramente orientativa.)
SATIRA PRIMA
O cure dei mortali! o quanto vuoto nelle cose!
"Chi leggerà i tuoi versi?". Dici a me? Nessuno, per Ercole.
"Nessuno?" O due o nessuno. "Vergogna, sventura". E perché?
Certo Polidamante e le Troiane mi preferiranno Labeone!
Sciocchezze! Se la torbida Roma non apprezza qualcosa, non farti
avanti a raddrizzare nella bilancia l'ago storto, non cercare
fuori di te. Infatti a Roma chi non... Potessi
parlare... Ma sì che si può, al guardare certe teste
canute e la nostra melanconica vita e cosa facciamo
appena lasciato il gioco delle noci, quando ci diamo
arie di saccenti zii; allora, perdonate. "Non voglio".
Che farci? ma sono un burlone con la milza petulante.
Scriviamo rinchiusi, in versi o liberi da impacci
metrici, qualcosa di sublime da soffiare fuori a pieni
polmoni, che infine leggerai in pubblico, pallido, ravviato,
con la toga nuova, la sardonica di compleanno al dito, dall'alto
di un soglio, gargarizzato l'agile gola da modulati sciacqui,
pesto l'occhietto lascivo. E vedrai oscenamente agitarsi
con voce roca i corpulenti Titi se i carmi
gli penetrano nei lombi e i tremuli versi gli solleticano
le pudende. E tu, nonnetto, raccogli esche
per le altrui orecchie cui, per quanto di pelle
incallita, una volta dovrai pur dire basta?
"Perché aver studiato, se il fermento e il caprifico che ci nacquero
dentro, lacerato il fegato non possono uscire fuori?".
Di qui il pallore e la vecchiaia O costumi! A tal punto
il tuo sapere è nulla se altri non sappia che tu sai?
"Ma è bello essere additati, e sentir dire: "Eccolo, è lui!"
Ti pare trascurabile cosa servire da dettato a cento
scolaretti ricciuti?". Ecco i discendenti di Romolo chiedere
sbevazzando a pancia piena che cosa narrino i divini poemi.
Ora qualcuno con una mantellina color di giacinto sulle spalle
dice qualcosa di stantìo con balbuziente voce nasale,
e sbrodola tutte le Fìllidi e le Issìpili e quanto di lagrimevole
sia nei poeti, storpiando le parole con il palato languido.
Assentirono gli illustri ospiti: ora non sarà pago
il cenere del poeta? non sarà più lieve il cippo sulle sue ossa?
I convitati tessono elogi: ora da quell'ombra, da quel tumulo,
da quel cenere venturoso non nasceranno viole?
"Tu scherzi", dici "e troppo ti compiaci di arricciare
ironicamente il naso. O vi sarà chi ricusi citazioni al merito
sulle labbra della gente, e composte pagine degne del cedro
che non temono di incartare sgombri e spezie, non voglia tramandarle?"
Chiunque tu sia che or ora ho finto mio contraddittore,
se scrivo e per caso mi riesce qualcosa di decente
- uccello raro -, se tuttavia mi riesce qualcosa di decente,
non certo io fuggirò le lodi, non sono di fibra
di corno. Ma escludo che il fine ultimo di ciò che si fa
di buono, consista in quel tuo "Bravo!" "Bene!". Scuoti
ben bene quel "Bravo!". Che cosa non c'è lì dentro? Non c'è
l'Iliade di Accio inebriata da ellèboro, e le elegiuzze
dettate da nobili dispeptici, insomma tutto ciò che si scrive
su letti di cedro? Tu, furbo, offri una calda
pancetta di scrofa a un affamato, o un consunto mantello a un amico
intirizzito egli dici: "Amo il vero, ditemi il vero
su di me". È possibile? Vuoi che lo dica? Tu scherzi, zucca
pelata cui sporge di un piede e mezzo una pancia di maiale.
O Giano, al cui tergo nessuna cicogna ha beccato, né alcuno
ha imitato con agili mani le bianche orecchie asinine,
né mostrato tanto di lingua quanto un'assetata cagna
di Puglia! Ma voi, sangue patrizio, che dovete pur vivere
con la nuca cieca, guardatevi dalle smorfie che vi fanno alle spalle!
Ma che dice la gente? Cos'altro se non che ora alfine
i carmi scorrono con ritmo così dolce, che sulle giunture scorre
liscia l'unghia più severa? "Sa tendere il verso come
se chiuso un occhio tracciasse delle rette con il cordino rosso;
si occupi anche dei costumi, dello sfarzo, dei banchetti regali,
la Musa concede al nostro poeta di scrivere meraviglie".
Ed ecco oggi si insegna ad assumere sentimenti eroici
a gente avvezza a giocherellare con versicoli alla greca, incapace
di descrivere un bosco, di elogiare una campagna rigogliosa con le sue ceste,
i fuochi, i maiali e le Palilie fumose per i falò di paglia,
da cui Remo, e tu, o Quinzio, che logoravi il vomere
nel solco, tu che la trepida sposa vesti da dittatore
al cospetto dei buoi; un littore riportò a casa il tuo aratro.
Bene, poeta! V'è ancora chi indugia sul venoso libro
del bacchico Accio e sulla bitorzoluta Antiope di Pacuvio,
cui pure resse il cuore luttuoso di sventure?
Quando vedi cisposi padri instillare nei figli
tali consigli, chiedi di dove provenga lo sfrigolìo
di frittura del nostro linguaggio, e questa vergogna per cui
il levigato Trossulo ti saltella con le natiche da un sedile all'altro?
Non ti vergogni di non poter allontanare da una testa canuta il pericolo
d'una condanna, a meno che tu non oda - lo desideri - un "Bravo"
che ti rianimi? "Sei un ladro", dicono a Pedio. E Pedio?
Pesa le accuse in rigorose antitesi, si fa lodare
per la dotta disposizione delle figure: "Bello, questo". Bello?
Romolo, ci sculetti anche? Mi commuoverebbe un naufrago che canta,
e gli porgerei l'elemosina? Ma sei tu che canti recando appeso
a una spalla il tuo ritratto nel naufragio. Del vero, non dell'inventato
di notte, si dorrà chi vorrà piegarmi con il suo lamento.
"Ma al ritmo prima rozzo si e aggiunta l'eleganza delle giunture:
si e appreso a chiudere i versi così: "il Berecinzio Attis";
e ancora: "il delfino che solcava il ceruleo Nereo";
e così: "sottraemmo una costola al lungo Appennino".
"Le armi e l'eroe" non vi sembra schiumoso e di spessa corteccia,
quasi un vecchio ramo soffocato da un eccesso di sughero?".
Qualcosa dunque di tenero, da leggere con la nuca rilassata?
"I rochi corni riempirono di mimallònei rimbombi
e la Bassaride pronta a strappare al superbo vitello la testa
e a guidare con tralci d'edera la lince, la Menade,
Evio, Evio ripete, ed Eco risuona duplicandosi".
Esisterebbe ciò se sopravvivesse in noi una vena dei testicoli
paterni? Questa roba slombata nuota a galla
della saliva sulle labbra, e la Menade e Attis sguazzano nel bagnato,
non inducono a percuotere il pluteo né risentono di unghie rosicchiate.
"A che serve raschiare con verità mordaci le orecchie
delicate? Attento che non si raffreddino per te le soglie dei potenti:
mi sembra già di sentire un nasale ringhio di cane".
Oh per me considera ciò una cosa innocente:
non obietto. Bravi, tutti! tutti diverrete mirabili
cose. Vi piace così? "Qui", dici, "nessuno
insudici". Dipingici due serpenti: "ragazzi, qui
è sacro, orinate fuori". Me ne vado, Lucilio morse
a sangue la città, e te, o Lupo, e te, o Mucio,
e ci si ruppe un molare. Lo scaltro Flacco punge i vizi
dell'amico inducendolo a sorridere, e accolto così nel cuore,
scherza esperto nel sospendere lagente al suo naso pulito.
E io non posso fiatare? neanche di nascosto, o con la buca
di Mida? in nessun luogo? Ma scaverò qui: o mio libretto,
ho visto coi miei occhi: chi non ha le orecchie d'asino?
Questo segreto e questo mio riso - un nulla - non te li vendo
per nessuna Iliade. O tu, chiunque sii, toccato
dal soffio dell'audace Cratino, o impallidito per lo studio dell'iracondo
Eupoli e del sommo vegliardo, guarda anche me, le mie satire,
se per caso ci trovi qualcosa di ben cotto, a cui si appassioni
un lettore dall'orecchio purgato, non chi si diverte, sudicio,
a celiare sulle pianelle dei Greci, e pensa di poter dire "Guercio"
al guercio, credendosi qualcuno, imbaldanzito dall'italico onore,
per aver infranto - edile ad Arezzo - delle mezzette fasulle,
o quello che si crede furbo se ride dei numeri sull'abaco
e dei disegni tracciati sulla sabbia, pronto alle risa
se una sfacciata meretrice tira la barba a un cinico. A costoro
assegno di mattina l'editto del pretore, dopopranzo Callìroe.
A P. MACRINO, CONTRO LA RELIGIONE IPOCRITA. torna al sommario analitico
SATIRA SECONDA
Conta, o Macrino, con una pietruzza più lucida questo giorno
che ti segna sereno un altro dei tuoi anni che passano; mesci
vino puro al tuo Genio. Tu non chiedi agli dèi
con preghiere mercantili ciò che si può loro confidare
soltanto in disparte. Ma molti potenti sacrificheranno con tacito
incensiere: non garba a tutti bandire dai templi quel mormorare
e il sommesso sussurrìo delle preghiere, e vivere con richieste palesi.
"Sani pensieri, reputazione, credito": ciò con chiarezza,
e che l'oda chi passa, ma dentro di sé e fra i denti si mormora:
"Mi morisse lo zio, che bel funerale!", oppure: "Oh se
col favore di Ercole mi risonasse sotto il rastrello un vaso
di monete d'argento! Potessi eliminare il pupillo cui seguo
prossimo erede! è anche scabbioso e gonfio d'acre
bile. Nerio seppellisce già la terza moglie!"
Per chiedere santamente ciò al mattino tuffi più volte
il capo nell'onda del Tevere ed espii nella corrente le colpe
notturne? Orsù, rispondimi - è una bazzecola che voglio sapere -,
che ne pensi di Giove? pensi di anteporlo... a chi? a chi?
per esempio a Staio? o per l'appunto esiti? Chi miglior
giudice, o chi più adatto ai fanciulli orfani?
Dunque ciò con cui tenti di forzare le orecchie di Giove,
via, dillo a Staio. "Per Giove", invocherai, "O benigno
Giove", ma Giove non invocherà se stesso? Tu pensi
che ti abbia perdonato perché, tuonando, con la sacra
folgore abbatte un leccio più presto che te e la tua casa?
O perché non giaci fulminato nei boschi sacri, per responso
di fibre di pecora e di Ergenna, luogo malauguroso da evitare,
per questo dunque Giove dovrebbe stolidamente offrirti
la barba da tirare? o v'è un compenso con il quale hai comprato
le orecchie degli dèi? forse polmoni e grasse budella?
Eccoti una nonna o una zia per parte di madre, timorata
degli dèi, ha tolto l'infante dalla culla e col dito impudico
e saliva lustrale gli purifica la fronte e le umide labbra,
esperta com'è nell'esorcizzare il malocchio; poi lo scuote
fra le mani e avvia con supplice voto la sua misera speranza
ora ai campi di Licino, ora ai palazzi di Crasso.
Lo vogliano genero il re e la regina, le ragazze se lo rubino;
dovunque avrà posato il piede fiorisca una rosa".
Ma io non ho mai raccomandato a una nutrice simili voti:
dissuàdila da essi, o Giove, anche se ti pregherà biancovestita.
Un altro chiede aiuto per i suoi nervi esauriti, e salute
in vecchiaia. Sia pure; ma i grandi vassoi e i grassi insaccati
impediscono a Giove di assecondarlo e ostacolano gli dèi.
Tu chiedi di accrescerti il patrimonio sacrificando un bue,
e invochi Mercurio esaminando le fibre: "Arricchisci la mia casa,
concedimi armenti e greggi feconde". In che modo, sciagurato,
quando sul fuoco si strugge il grasso di tante giovenche?
Tuttavia si ostina a volerla vinta con sacrifici e pingui
focacce: "Ecco già prospera il campo, s'arricchisce l'ovile,
ecco, ecco, l'ottengo!", finché disilluso e senza
speranza, sospira: "Invano ho dato fondo al mio danaro".
Se ti porto in dono crateri d'argento e sbalzati in oro
massiccio, sudi e il cuore ti batte per la gioia e ti fa
stillare il sudore dalla parte sinistra del petto.
Da qui ti venne l'idea di spalmare una tinta d'oro,
di quello da ovazioni, sui volti degli dèi, perché tra i fratelli
di bronzo, quelli che mandano sogni liberi dal catarro,
abbiano il primo posto e la barba dorata.
L'oro ha soppiantato i vasi di terracotta di Numa e i bronzi
saturnii, e rimosso le urne delle Vestali e i fittili etruschi.
O anime curve in terra e vuote di cielo!
A che giova introdurre le nostre usanze nei templi,
e trasferire agli dèi i piaceri della nostra carne scellerata?
Essa ha corrotto l'olio diluendovi per sé la cannella,
essa ha bollito la lana calabra nella deturpante porpora,
essa ci ha indotto a raschiare la perla dalla conchiglia, e a separare
le vene del metallo dalla grezza terra nella massa incandescente.
Pecca anch'essa, pecca, ma nel suo male v'è pure l'utile.
Ma voi, pontefici, ditemi: che ci fa l'oro nel santuario?
Proprio lo stesso che le bambole offerte dalle fanciulle a Venere.
Perché piuttosto non offriamo ai celesti ciò che il rampollo
cisposo del grande Messalla non potrebbe con i suoi piatti sontuosi:
un'armonia spirituale di leggi umane e divine, i santi
segreti della mente, un cuore imbevuto di onestà generosa?
Allora mi accosterò ai templi, e sacrificherò con semplice farro.
INVITO ALLA FILOSOFIA. torna al sommario analitico
SATIRA TERZA
"Sempre la solita storia? già il chiaro mattino
entra dalle finestre e allarga con la luce le strette fessure,
e continui a russare quanto basti a smaltire il robusto
Falerno, mentre la quinta linea è toccata dall'ombra.
Ehi, che fai? Già da un pezzo la canicola infuriata cuoce
le messi inaridite e ogni gregge è al riparo d'un ampio olmo",
dice uno degli amici. "Davvero? è cosi? presto,
qualcuno! Nessuno?" Gli si gonfia la vitrea bile:
"Mi sento scoppiare" grida quasi ragliassero gli armenti
d'Arcadia. Subito brandisce un libro, una rasata pergamena
di doppio colore, la carta, il nodoso astile.
Allora cominciano i lamenti: l'inchiostro rappreso ristagna
sulla penna, il nero di seppia sbiadisce per eccesso d'acqua,
è un continuo gemito per la cannuccia che semina gocce.
"O meschino, e ogni giorno più meschino, a ciò siamo giunti?
Ma perché piuttosto, al pari d'un tenero piccioncino
e dei figli dei ricchi non chiedi la pappa a bocconcini,
e bizzoso non ti quieti neppure alla ninnananna della balia?"
"Studiare con questa penna?". "A chi lo racconti? Perché
canticchi codeste storielle? Ci sei tu, in gioco. Il cervello
ti si scioglie in acqua. Tutti ti sprezzeranno. Risuona del difetto
a percuoterla, e risponde stonata una brocca di creta malcotta.
Sei umido e molle fango, ora bisogna affrettarsi
a plasmarti con l'instancabile ruota. Certo hai un discreto raccolto
di grano dal podere paterno, una saliera tersa e immacolata,
cos'hai da temere? - e una padella sicura abitatrice del fuoco.
Basta così? o ti si conviene far scoppiare i polmoni di vento,
perché millesimo trai il tuo ramo da una genealogia etrusca,
o perché drappeggiato nella tràbea saluti il tuo censore?
Al volgo le fàlere. Io ti conosco fin sotto la pelle.
Non ti vergogni di vivere al modo di quel dissoluto di Natta?
Ma egli è inebetito dal vizio e nelle fibre del cuore gli cresce
grasso lardo, è irresponsabile, non sa cosa perde, e se affonda
non ritorna più a gorgogliare alla superficie delle onde.
Grande padre degli dèi, quando un'atroce passione
tinta di bollente veleno sfrena la mente dei crudeli
tiranni, non punirli in altra maniera che questa:
scorgano la virtù, e si sentano marcire per averla abbandonata.
O forse più gemettero i bronzi del siculo giovenco,
o più atterri la spada che pendeva dai dorati soffitti
sulla testa porporata, di chi debba dire a se stesso: "Precipitiamo,
precipitiamo fino al fondo", e in sé impallidisca, infelice,
mentre ne è ignara la sposa che gli dorme accanto."
Da bambino, ricordo, spesso mi ungevo gli occhi con olio,
se non volevo imparare le solenni parole di Catone morituro,
e che mio padre ascoltava sudando con gli amici condotti
fin troppo elogiate dal maestro un po' tocco di mente, con sé.
Giustamente il mio desiderio più grande consisteva nel sapere
cosa mi fruttasse un buon colpo da sei, quanto mi sottraesse
un rovinoso uno, non fallire lo stretto collo di un'anfora,
e che nessuno mi superasse nel far girare la trottola con la frusta.
Ma ormai non dovresti essere inesperto nel redarguire il malcostume,
e di ciò che insegna il sapiente Portico dipinto dei bracati
Medi, per cui la gioventù veglia insonne e rasa
le chiome, nutrita di baccelli e di grosse fette di polenta;
e a te la lettera del filosofo di Samo dai divergenti rami,
già mostrò la via che si leva sul destro lato.
Ma continui a russare, e la testa ti ciondola come slogata,
sbadiglia il vino di ieri con le mascelle sgangherate da ogni parte!
V'è qualcosa cui miri, quasi bersaglio al tuo arco?
O insegui qua e là i corvi con cocci e zolle
di terra, affidando al caso i tuoi passi e vivendo alla giornata?
Riconoscerai che si ricorre invano all'ellèboro quando la pelle
già ammalata si gonfia: prevenite il morbo mentre
arriva. A che serve promettere a Cratero mari e monti?
Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose;
ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo
assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta,
la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l'utilita
della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare
alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi,
e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.
Apprendi, e non invidiare l'odore delle molte giare
nella ricca dispensa d'un avvocato che ha difeso i grassi Umbri
e le spezie e i prosciutti, ricordo di qualche cliente della Marsica,
e i pesci in salamoia non ancora affondati dalla sommità del barile.
Ma ora qualcuno della razza dei centurioni di lezzo caprigno,
potrà dire: "Per me, quello che so mi basta,
non mi curo di essere un Arcesilao o uno di quei disgraziati
Soloni con la testa bassa e gli occhi fissi a terra,
che sembrano masticare i loro brontolii e rabbiosi silenzi;
con il labbro sporgente pare che ci pesino le parole,
rimuginando le allucinazioni di quel vecchio infermo, "nulla
nasce dal nulla, nulla può tornare nel nulla".
Per questo sei pallido? per ciò qualcuno non mangia?"
A questo la gente ride e i giovani muscolosi
arricciando il naso ripetono tremule risate.
"Guarda bene, il cuore mi palpita per non so che, e il respiro
mi esala pesante dalla gola ammalata, guarda, per cortesia".
Chi parla così al medico, che gli prescrive il riposo a letto,
se la terza notte constata che il polso gli batte normale,
chiederà a una casa più ricca, con una bottiglia mezzana,
del vino leggero di Sorrento da bere prima del bagno.
"Ehi, amico, sei pallido!" "Non è niente". "Ma guarda qui,
sia quel che sia, la pelle, senza che l'avverta, ti si gonfia
giallastra". "Sei più pallido tu, non farmi il tutore;
quello l'ho sepolto: resti tu". "Via, tacerò".
E lui, gonfio di cibo, con il ventre sbiancato, si bagna,
mentre la gola espira faticosamente fiati sulfurei.
Ma tra i calici lo coglie un tremore che gli scuote via dalle mani
un bicchiere di vino caldo, i denti gli battono scoperti,
grassi bocconi gli cadono dalle labbra molli.
Di lì a poco le trombe, le candele, e infine quel signorino
felice sul catafalco, spalmato di grasso balsamo di amomo,
protende tese le rigide gambe verso la porta.
Ma Phanno recato a spalla i Quiriti, fatti ieri,
con il pileo in testa. "Toccami il polso, baggiano, poggiami
la destra sul petto: non brucio; toccami la punta dei piedi
e delle mani, non è mica gelata". Ma se per caso vedi del denaro,
o la splendida figlia del tuo vicino ti sorride languidamente, il cuore
ti sobbalza come dovrebbe? Se ti portano irta verdura
in un gelido piatto, e pane di farina passata a uno staccio
grossolano, proviamo se mangi! Ti viene subito un'ulcera
purulenta nella tenera bocca, invisibile, ma guai se la irrita
una bietola plebea. Agghiacci quando la sbiancante paura
ti drizza i peli del corpo; o il sangue ti bolle, come
per sottoposta fiamma, ti scintillano gli occhi e dici e fai cose
che lo stesso folle Oreste giurerebbe degne di un folle.
CONOSCI E CORREGGI TE STESSO PRIMA DEGLI ALTRI. torna al sommario analitico
SATIRA QUARTA
"Ti occupi di politica?" - immagina che queste parole le dica
il barbuto maestro che mori per una pozione di funesta cicuta -,
"E fidando su che? Dimmelo, o pupillo del grande Pericle.
Certo l'ingegno e l'esperienza ti giunsero veloci, prima
che ti spuntasse la barba, incallito già nelle cose da dire
o da tacere. E allora quando il popolino è in tumulto e ferve
dalla bile, ti basta l'animo per imporre silenzio alla turba
infiammata con un maestoso gesto della mano. Che dici, poi?
"Quiriti, ciò, per esempio, non è giusto; questo e male,
preferibile quello". Infatti sai pesare la giustizia
sui piatti dell'incerta bilancia; distingui la linea retta
anche se passa tra curve, o il regolo inganna per un piede
storto, e sai marchiare il vizio col nero theta.
Ma perché dunque tu che di bello hai solo, inutilmente,
l'epidermide, non cessi di scodinzolare precoce per il volgo che ti blandisce,
tu, più adatto a sorbire l'ellèboro puro di Anticira?
Qual è per te il sommo bene? Vivere sempre
fra unte casseruole e curarti la pelle con assidui bagni
di sole? Attento, una qualsiasi vecchia risponderebbe ugualmente.
Va', e sbuffa pure: "Sono il bellissimo figlio
di Dinomaca"; - e sia, purché riconosca non meno assennata
la cenciosa Bauci quando offre gridando il basilico
a uno schiavo discinto." Nessuno cerca di scendere in sé,
ma ognuno guarda nella bisaccia sulle spalle di chi lo precede!
Poniamo che tu abbia chiesto: "Conosci i poderi di Vettidio?";
"Di chi?" "Quel riccone che a Curi ara tanta terra
quanta non ne sorvolerebbe un nibbio"; "Parli di quello sciagurato
in ira agli dèi, che quando attacca il giogo agli archi
dei crocicchi, non volendo sturare una bottiglia di vino vecchio,
piagnucola: "Alla salute", mordendo una cipolla non sbucciata cosparsa
di sale, e mentre i servi festeggiano una pentola di farro,
succhia la feccia stracciosa d'un aceto svanito?"
Ma se unto riposi e ti lasci trafiggere la pelle dal sole,
uno sconosciuto dà di gomito al vicino e sputa acre:
"Bella moda sarchiare il pene e l'intimità
dei lombi e mettere bene in mostra fradice vulve!
Mentre ti pettini il tappetino delle gote profumate al balano,
perché il gorgoglione ti sporge dagli inguini depilato?
Anche se cinque palestriti si mettano a svellere i tuoi fittoni,
e con una pinza ricurva stanchino le tue natiche infrollite,
tuttavia non v'è aratro che domi codeste erbacce".
Bersagliamo, e a vicenda offriamo le gambe alle frecce degli altri.
Viviamo così, lo sappiamo. Sotto i tuoi fianchi
s'apre un'oscura ferita, ma la copre una larga cintura
d'oro. Da' ad intendere a parole ciò che preferisci,
e inganna i tuoi nervi, se puoi. "Se il vicinato mi definisce
egregio, non dovrei credergli?" Ma se impallidisci, briccone,
alla vista del denaro, e fai tutto ciò che garba al tuo pene,
e flagelli lasciandovi i segni l'amaro pozzo, avrai
offerto invano alla folla le orecchie credulone. Rifiuta
ciò che non sei, la gente riprenda i suoi doni. Rientra
in te: saprai qual breve scorta di virtù possiedi.
GRATITUDINE PER IL MAESTRO; LA VERA LIBERTA'. torna al sommario analitico
SATIRA QUINTA
È costume dei poeti chiedere cento voci, cento
bocche, e desiderare cento lingue per i loro versi,
si tratti di un dramma che reciti a bocca aperta
il tragedo atteggiato a cordoglio, o delle ferite di un Parto
che si svelle il ferro dall'inguine. "A che miri con ciò? Che bocconi
di robusta poesia ingurgiti, perché ti servano cento
gole? I magniloquenti raccolgano nebbie sull'Elicona, se c'è
ancora qualcuno per cui dovrà bollire
la pentola di Progne o quella di Tieste, vivanda frequente di
quell'insulso
Glicone. Ma tu non comprimi l'aria con l'ansante mantice
mentre il metallo fonde sul fuoco, né brontoli cupo
gracchiando fra te e te non so che cosa di solenne,
né tendi le gote rigonfie sino a farle scoppiare.
Usi le parole comuni, esperto nei costrutti energici,
nell'eleganza misurata, nello strigliare i vizi spettrali
e trafiggere la colpa con libero gioco. Trai
da qui il tuo dire, lascia a Micene le sue mense
di teste e piedi, attieniti ai pasti plebei".
Davvero non voglio che le mie pagine si gonfino di funebri
ciance buone soltanto ad emettere fumo.
Parliamo in disparte fra noi: ti offro ora, per esortazione
della Camena, il mio cuore da scrutare. Mi piace mostrarti,
Cornuto, dolce amico, quanta parte della mia anima
ti appartenga. Percuoti tu, accorto nel distinguere
ciò che suona pieno dall'intonaco d'una lingua dipinta.
Per questo si ardirei chiedere cento lingue,
per esprimere con voce chiara con quale profondità ti ho accolto
nei meandri del petto, e perché le parole rivelino quanto
d'ineffabile si celi nelle intime fibre del mio cuore.
Appena la porpora, custode dell'adolescenza, mi abbandonò timoroso
e il ciondolo infantile fu appeso in dono ai succinti Lari,
quando i piacevoli compagni e il fascio di pieghe della toga
ormai bianca mi permisero di guardare impunemente
tutta la Suburra, e il cammino è incerto e l'errore inconsapevole
della vita conduce le trepide menti nella biforcazione dei crocicchi,
io m'affidai a te. Tu accogli la mia giovane
età, o Cornuto, nel tuo seno socratico. Allora il regolo,
con benefico inganno, al solo avvicinarsi corregge le storte
abitudini, la ragione incalza il talento che vuole essere
vinto, e sotto il tuo pollice assume un industre sembiante.
Ricordo, trascorrevo lunghe giornate con te,
e per cenare insieme sottraevo le prime ore alla notte;
comune il lavoro, e ugualmente insieme disponiamo il riposo,
riposiamo dai faticosi impegni con una casta mensa.
Invero non dubitare di ciò, per norma sicura concordano
i nostri giorni, guidati da un'unica stella: o la Parca,
tenace nel vero, tiene le nostre vite sospese
sull'equilibrata Bilancia, o l'ora scoccata degli amici
fedeli divide i concordi destini di noi due fra i Gemelli
e col favore di Giove vinciamo insieme il malefico Saturno:
non so quale,, ma certo un astro mi conforma a te.
Mille le specie degli uomini, e diversi gli usi della vita;
ognuno vuole il suo, né si vive d'un solo desiderio.
Questi, sotto il sole d'oriente, scambia con merci
italiche il rugoso pepe e i granelli di cumino che inducono
il pallore; questi, sazio, preferisce ingrassare in un sonno
vinoso; un'altro si compiace del Campo; un'altro lo rovinano
i dadi; quello è sfatto dalle donne; ma quando la pietrosa
gotta li avrà colpiti alle giunture, rami secchi
d'un vecchio faggio, ormai tardi piangeranno la vita
trascorsa in grevi giorni e in luce palustre.
Tu invece ti compiaci di impallidire sulle notturne carte;
coltivi i giovani, purifichi le loro orecchie per seminarvi
la messe di Cleante; apprendete di qui, ragazzi e vecchi,
il preciso fine dell'animo, il viatico alla infelice canizie!
"Domani sarà lo stesso". "Domani? quasi mi facessi
un grande regalo". Ma quando è venuto il giorno seguente,
il domani di ieri è già consumato: altri domani
rapiranno questi giorni, e sempre resterà una piccola
riserva di domani. Per quanto vicina a te e sotto
lo stesso timone, invano inseguirai la ruota che gira,
se corri come ruota posteriore e sull'altro asse.
V'è bisogno di libertà, ma non di quella per cui
qualunque Publio della tribù Velina se la sia meritata,
ottiene con la tesserina un po' di farro scabbioso. Ahi,
sterili di verità coloro che una giravolta trasforma in Quiriti!
Ecco Dama, stalliere da due soldi, cisposo per il cattivo
vino, bugiardo anche per un pugno di foraggio: il padrone
lo gira, e dalla giravolta di un attimo esce un Marco Dama:
cribbio! Se garantisce Marco rifiuteresti un prestito? Impallidisci
per un verdetto di Marco? ha parlato Marco: è così; firma
e sigilla gli atti, o Marco. Questa è vera libertà,
ce la dona il pìleo. "O chi altro è libero se non chi può vivere
a suo piacimento? Se posso vivere come voglio, non sono
più libero di Bruto?" "Concludi male", disse allora
uno stoico, lavatosi l'orecchio con abrasivo aceto:
"il resto lo accetto, ma togli quel posso e quel voglio".
"Dopo che grazie alla bacchetta mi allontanai dal pretore, mio
padrone, perché non dovrebbe essermi lecito ogni
desiderio, eccetto quelli vietati dal codice di Masurio?"
Ascolta, ma prima ti cadano dal naso l'ira e le grinzose
smorfie mentre ti estirpo dall'animo i pregiudizi delle nonne.
Non è il pretore che può dare agli stolti il delicato senso
del dovere e permettere loro la pratica d'una vita travolgente:
più presto adatteresti la sambuca a quel pezzo di facchino.
Ti contrasta la ragione, sussurrandoti in segreto che non è lecito
accingerti a ciò che, nel farlo, puoi solo guastare.
La legge di natura, comune a tutti gli uomini, ingiunge
l'ignoranza che non può nulla, osservi almeno i divieti.
Se diluisci l'ellèboro, non sai fermare al punto giusto
l'ago della bilancia: te lo vieta l'arte medica.
Se un contadino con gli zoccoli pretende di comandare una nave e non sa
nemmeno qual è Lucifero, Melicerta griderebbe che il pudore
e scomparso dal mondo. L'arte della vita ti ha insegnato a camminare
con passo diritto, e sai distinguere l'apparente dal vero,
affinché non batta falsa una moneta d'oro che ha sotto
il rame? E le cose da perseguire e a vicenda quelle da evitare
le hai segnate, le prime con il bianco di creta, le altre con il carbone?
Sei moderato nei desideri, in una casa modesta, dolce
con gli amici? Secondo il bisogno stringi o apri i sacchi
del tuo grano? Riusciresti a non chinarti per raccattare una moneta piantata
nel fango senza ingoiare d'un sorso l'acquolina mercuriale?
"Possiedo le qualità che dici". Se avrai parlato sinceramente,
sarai libero e sapiente, con il favore dei pretori e di Giove.
Se invece tu che eri poc'anzi della nostra farina,
sei sempre della stessa pelle, e sotto un limpido volto
conservi nel cuore corrotto la natura dell'astuta volpe,
riprendo ciò che ti avevo concesso prima e ritraggo
la fune. La ragione ti è stata avara: se stendi un dito,
sbagli. Eppure che c'è di più esiguo? Con nessuna quantità
d'incenso otterrai che agli stolti aderisca mezz'oncia, un'inezia,
di bene. Non si possono mescolare saggezza e stoltezza. Se per il resto
sei un terrazziere, non potrai danzare, anche per tre sole
battute, il satiro di Batillo. "Ma io sono libero!" Da che
lo deduci, soggetto a tante schiavitù? Conosci soltanto
il padrone che ti libera con la bacchetta? Se ti gridano: "Ragazzo,
portami le striglie al bagno di Crispino. Muoviti, bighellone!",
l'aspro comando non ti scuote, e nulla di esterno penetra
ad agitarti i nervi. Ma se i padroni ti nascono nel fegato malato,
come scamperai con minore pena di colui che la frusta
e il timore del padrone spingono a portargli le striglie? È mattina
e pigro continui a russare. "Àlzati", dice l'Avarizia,
"su, àlzati". Rifiuti. Insiste: "Àlzati". "Non posso".
"Àlzati". "A che fare?" "E lo chiedi? reca saperde dal Ponto,
castorio, stoppa, ebano, incenso, e vino di Cos
che scivola in gola, scarica per primo il pepe nuovo
dal cammello assetato. Traffica, spergiura". "Ma Giove sentirà".
"Via, gonzo, passerai allegro il tempo a bucare
con un dito una lustra saliera se cerchi di vivere d'accordo
con Giove!". Vestito alla svelta carichi il sacco e il barile sui servi.
Nulla impedisce che su un vasto battello divori
l'Egeo; ma pronta la Baldoria ti chiama in disparte
e ammonisce: "Dove ti precipiti, folle, dove? Che cosa
ti salta in mente? Nel petto infiammato ti si gonfia con tanta
maschia energia la bile che un'urna di cicuta non la placherebbe?
Tu attraversare il mare? tu mangiare su un banco,
appoggiato ad attorte gomene e a un orcio che odora
di rosatello di Veio guastato dalla cattiva pece?
Che cerchi? che il denaro accresciuto qui modestamente con l'interesse
del cinque per cento, ti frutti con avido sudore l'undici?
Gòditela; prendiamo a volo le dolcezze, la vita allegra
ci appartiene; cenere e ombra e favola diverrai.
Vivi memore della morte; l'ora fugge, l'istante
in cui ti parlo è già passato". Ora che fai?
Due ami opposti ti lacerano. Quale seguirai? Occorre
che a vicenda li subisca con alterno ossequio, e a vicenda
li sfugga. Né tu potrai dire, una volta resistito
all'incalzante comando, che hai rifiutato di obbedire: "Ormai ho spezzato
i legami"; infatti anche una cagna dibattendosi strappa
la catena, ma fuggendo, con il collo ne trascina un lungo frammento.
"Davo, presto, voglio che mi creda, intendo finirla
coi tormenti passati" - ma Cherestrato dice questo mordendosi
le unghie a sangue -. "O dovrei disonorare parenti così
a modo? con la mia sinistra fama dovrei frantumare
le sostanze paterne dinanzi a una turpe casa, mentre
canto ubriaco, con la fiaccola spenta bagnando ben bene
la porta di Crìside? "Bravo, ragazzo, rinsavisci. Sacrifica
un'agnella agli dèi redentori". "Ma piangerà, Davo, se la lascio?"
"Scherzi, si scaglierà su di te, ragazzo, a colpi delle sue rosse
pianelle, non trepidare e non cercare di rodere la fitta rete,
ora feroce e violento; ma se ti chiamasse, "Subito", diresti".
"Che fare dunque, non andarci neanche ora
se mi chiami e sia lei a supplicarmi?". "Se uscisti di lì interamente,
neanche ora". È qui, è qui l'oggetto della ricerca,
non nella verga agitata da uno stolto littore.
forse padrone di sé l'adulatore che l'inamidata Ambizione
porta in giro con la bocca spalancata? "Vigila e getta
ceci abbondanti al popolo che tumultua affinché anche
da vecchi, seduti al sole, ricordino le nostre Florali".
Cosa di più bello? Ma al ricorrere dei giorni di Erode, quando
le lucerne cinte di viole sulle unte finestre emanano
una grassa fumea e sguazza la coda del tonno
in cerchio nel rosso catino e la bianca brocca e ricolma
di vino, muovi silenzioso le labbra e impallidisci al sabato
dei circoncisi. Allora i neri fantasmi e i pericoli che derivano
dall'infrangersi dell'uovo, e i giganteschi galli, e la guercia sacerdotessa
con il sistro, introducono in te gli dèi che gonfiano il corpo
se al mattino non gusti i tre capi d'aglio prescritti.
Ma prova a dire ciò fra i centurioni che soffrono di varici.
Subito l'enorme Puliennio scoppia in una grossolana risata
e per meno di cento assi ti offre all'asta cento Greci.
A C. BASSO: LA VIRTU' TRA AVARIZIA E PRODIGALITA'. torna al sommario analitico
SATIRA SESTA
Già i primi freddi ti hanno condotto al focolare sabino,
o Basso? già le severe corde della lira vibrano
sotto il tuo plettro? Mirabile artefice, adatti
il virile suono delle antiche voci ai ritmi della cetra
latina, poi, straordinario vecchio, susciti giovanili
scherzi e giochi sulle corde con pollice onesto. Per me
s'intiepidisce la spiaggia ligure e l'inverno del mio mare
dove gli scogli formano un ampio fianco e il lido s'inarca
in un profondo seno. "Visitate il porto di Luni, o cittadini,
ne vale la pena!" A ciò esorta l'anima di Ennio,
dopo avere sognato russando di trasformarsi da pavone
pitagorico in Quinto Meònide. Qui non mi curo della gente,
né di cosa minacci al bestiame l'infausto scirocco,
né dell'angolo di terra del vicino perché più fecondo; e anche
se tutti quelli di nascita peggiore arricchissero, rifiuterei
d'intristirmi per questo, curvo di vecchiaia, di cenare di magro,
di toccare con il naso il sigillo d'una bottiglia di vino scipìto.
Divergano altri da ciò; l'oroscopo produce gemelli
di indole opposta. Uno soltanto nel giorno del compleanno
furbastro acquista della salsa e ci condisce l'asciutta insalata,
spruzzando da sé nel piatto il pepe al pari di cosa
sacra; l'altro, un ragazzo generoso, ha denti capaci
di finirsi un patrimonio. Io godrò del mio, ma senza
strafare: non imbandirò dei rombi ai liberti, non sarò pronto
a distinguere il delicato sapore delle torde. Vivi della tua messe,
e macina il granaio, lo puoi; che temi? Èrpica, e il nuovo
raccolto è già in erba. Ma il dovere ti chiama: un amico
rovinato da un naufragio si afferra ai càlabri scogli. Tutto
il suo e i voti inascoltati li ha inghiottiti lo Ionio. Egli
giace sul lido con i grandi dei strappati dalla poppa,
il fianco delle nave lacerata in balìa degli smerghi. Spezza
una parte viva del tuo, dònala al misero, affinché
non vaghi dipinto sulla tavoletta azzurra. Ma il tuo erede trascurerà
il banchetto funebre, adirato perché decurtasti il patrimonio;
darà all'urna le tue ossa senza profumi, deciso
a ignorare se il cinnamo non olezzi e se il ceraso guasti la cannella.
"Allora indenne intacchi il capitale?" E Bestio incalza
i maestri greci: "Così è: di quando è venuto
a Roma, con le spezie e i datteri, codesto nostro gusto
effeminato, persino i falciatori guastano la polenta con denso
grasso". Temerai tutto ciò dopo morto? Ma tu, mio erede,
chiunque sarai, ascoltami un po' in disparte dalla gente:
caro, non sai? è giunto l'alloro di Cesare per una straordinaria
vittoria sulla gioventù germanica e già si spazza la fredda
cenere dalle are, e Cesonia dà in appalto armi
da appendere sulle porte, clamidi regali, parrucche bionde
per i prigionieri, carri da guerra, enormi statue del Reno.
Allora per gli dèi e per il genio del condottiero a celebrarne le egregie
imprese compiute, offro cento paia di gladiatori.
Chi me lo vieta? Pròvati! Guai se non lo consenti!
Elargisco olio, pane e carne al popolino: me lo proibisci?
Dimmelo con chiarezza. "Il tuo campo vicino non è così
dissodato da permetterti ...". Via, se non mi resta nessuna zia,
cugina, pronipote di zio paterno, se la zia da parte
di madre fu sterile, e da parte della nonna non resta nessuno,
me ne vado a Boville o al poggio di Virbio, e subito trovo
per erede Manio. "Un figlio di ignoti" Chiedimi chi era
il mio quadrisnonno: non subito, ma lo dirò; aggiungine uno,
ancora uno: è già un figlio di ignoti, e questo
Manio per parentela mi diventa all'incirca fratello della bisnonna.
Tu che mi precedi perché mi chiedi la fiaccola mentre
corro? Per te sono il dio Mercurio, vengo giù io, proprio
come lo dipingono. Rilutti? Desideri goderti i resti?
Manca qualcosa alla somma: l'ho intaccata per me; ma per te
è intera, di qualsiasi entità. Evita di chiedere la sorte
dell'eredità lasciatami un tempo da Tadio, e non dire: "Poni
i beni paterni, aggiungi gli interessi, detrai le spese,
che resta?". Che resta? Via, ragazzo, metti più olio
sui cavoli! Nei giorni di festa dovrei cucinarmi dell'ortica
e una mezza testa di porco affumicata appesa per un'orecchia,
affinché quel nipote sazio di fegati d'oca,
quando la sua uretra capricciosa si stancherà di inguini vagabondi,
minga in una vulva patrizia? e di me non resterebbe che lo scheletro
e a lui tremolerebbe d'adipe il ventre macellaio?
Vendi l'anima al lucro, commercia, fruga instancabile
ogni parte del mondo, non vi sia nessuno più abile
nel battere la mano sui grassi Cappàdoci esposti sul tavolato;
raddoppia il patrimonio. "L'ho gia fatto, tre, quattro e dieci
volte mi torna fra le pieghe: segna dove fermarmi".
Si è trovato, o Crisippo, chi e capace di stabilire la misura del tuo mucchio.
torna al sommario analitico
Elenco dei testi/siti da cui è tratto il materiale di questa pagina:
I. Mariotti - Letteratura latina (Storia e testi) vol. unico - Zanichelli
G. Garbarino - Letteratura latina (Storia e testi) vol. unico - Paravia
Casillo, Urraro - Storia della letteratura latina, vol. III - Bulgarini
Paratore - La letteratura latina dell'età imperiale - BUR
E. Diletti – Bibliotheca vol. II - D'Anna
C. Salemme - Autori e testi della letteratura latina vol.II - Loffredo
Monaco, De Bernardis - L'attività letteraria nell'antica Roma - Palumbo
E. Diletti – Bibliotheca vol. II - D'Anna
http://www.pegacity.it/abctel/biblioteca/lett_cla/satire2.htm
Persio - Satire (a cura di E. Barelli) - BUR, che contiene un ottimo apparato critico-bibliografico, nonché un illuminante saggio introduttivo di A. La Penna.
pagina ideata e realizzata da
Nunzio Castaldi
FINE