Capitolo sesto

                           Elementi ateistici nella filosofia indiana.

 

                                             

                                           Introduzione

 

    Talvolta noi occidentali, peccando un poco di etnocentrismo, siamo portati a  pensare che l’ateismo sia una peculiarità della nostra cultura, e non ci diamo la pena di indagarne eventuali forme presso altre culture. Si dà invece il caso che la cultura orientale, nella sua ampia articolazione filosofica-religiosa offra, o almeno abbia offerto in passato, casi interessanti di visioni del mondo ateistiche e (per quanto assai poco documentate) persino materialistiche. In una trattazione che ha per oggetto l’ateismo pensiamo sia pertanto doveroso dedicare uno spazio anche alle antiche forme di esso nate nell’ambito del pensiero indiano [1], tanto più che loro echi o veri elementi di base sono riscontrabili in diversi pensatori dell’Occidente [2]. In India esse sono nate e si sono sviluppate prima e anche dopo il dominio islamico, che è durato circa undici secoli (dall’inizio dell’VIII alla fine del XVIII).

    L’ateismo orientale presenta tuttavia caratteristiche proprie e raramente passibili di un confronto diretto con quello occidentale e ciò già a partire dal concetto di “materia”, nel senso che, per la cultura indiana, una materia inerte e puramente “fisica” è quasi inconcepibile. Se non altro perché essa (sia sotto forma di elementi originari sia sotto forma atomistica) è comunque eterna, ed inoltre, almeno nella sua struttura originaria e immortale di base e quale origine del mondo, possiede sempre irrinunciabili connotazioni metafisiche. Le quali, va però rilevato, sono comunque anche riscontrabili nella nostra filosofia antica, in Empedocle e negli atomisti e, in tempi moderni, nel caso decisamente unico del materialismo positivistico di Comte.

    Non mancano tuttavia notevoli analogie tra la filosofia occidentale e quella orientale, forse perché sia la penisola ellenica che quello indiana sono state oggetto di invasione di genti arie in epoche preistoriche e ciò rende verosimile la persistenza in entrambi di elementi culturali originari comuni. Occorre tuttavia rilevare che la cultura indiana, secondo le più recenti indagini storico-antropologiche, deve essere considerata un coacervo di elementi di varia origine, tra i quali quelli attribuibili alle culture autoctone pre-arie non sono meno importanti di quelli brahmanici introdotti dai conquistatori. Si aggiunga che, quantunque scarsamente documentate, fin dall’antichità devono esserci state reciproche influenze tra l’antica Ellade e l’India e che talune assonanze possono essere difficilmente attribuite a una pura coincidenza [3].  A partire poi dalle conquiste di Alessandro Magno verso Oriente (dal 332 al 323 a.C.) le opportunità di contatto andarono aumentando con interessanti frutti di contaminazione culturale [4]. Ciò fino all’avvento del Cristianesimo, quando i due mondi, quello occidentale cristiano e quello orientale induista, si separeranno nettamente per almeno quindici secoli. 

    Va tuttavia rilevato che, analogamente alle differenze rilevate a proposito delle weltanschauungen atee, la nascita e l’evoluzione delle fedi religiose dell’Oriente antico hanno avuto modalità e caratteri completamente diversi da quelli riscontrabili in Occidente; ciò ne spiega non soltanto le differenze, ma soprattutto il numero, molto elevato nel mondo indiano. Infatti mentre a Occidente vi è stata una sostituzione radicale dell’antico politeismo e la conseguente coagulazione in pochi indirizzi monoteistici, in India, a partire da relativamente pochi ceppi, si sono poi verificate per lo più frammentazioni e numerose diversificazioni. I casi più rilevanti di differenziazioni, diventate in seguito quasi opposizioni, sono quelle riscontrabili nella frammentazione dei sistemi cosidetti “ortodossi” (quelli che riconoscono l’autorità dei Veda), ma anche nell”eterodosso” Buddhismo, nel quale le correnti spiritualistiche, oggi prevalenti (sopratutto quelle derivanti dal Mahaiana, il cosidetto “Grande Veicolo”), ha finito per staccarsi completamente dall’ateismo (o quanto meno dall’agnosticismo) di Siddhârta Gautama, il Buddha. 

    Vi sono inoltre nella cultura indiana dei caratteri particolari che la rendono “nei fini” sostanzialmente differente da quella occidentale, specialmente nella commistione piuttosto stretta di etica e speculazione filosofica, dove la prima rimane sempre sullo sfondo anche dove paia prevalere la seconda [5]. È il caso di riportare per esteso l’opinione del grande studioso del mondo indiano von Glasenapp sull’argomento: «Una diversità veramente radicale tra la filosofia indiana e quella occidentale sta invece in questo: la prima, dall’epoca delle Upanishad fino ad oggi (a prescindere dagli scettici e dai materialisti) poggia sul piano d’una concezione unitaria fondamentale di carattere metafisico-morale. L’altra no. Tutti i pensatori indiani credono che l’ordinamento naturale del mondo sia al tempo stesso anche morale e che ciò si manifesti nel fatto che ciascuna azione, parola, pensiero deve incontrare una retribuzione corrispondente alla connessa qualità morale. Come ogni seme viene a maturare nel frutto corrispettivo, non appena gli vengano offerte circostanze favorevoli, così ogni atto crea di necessità, oltre al proprio momentaneo e visibile effetto esteriore, anche un altro effetto invisibile, che potrà manifestarsi già in questa vita o invece, come avviene più spesso, solo in un esistenza futura. L’indiano suppone quindi una causalità morale che funziona di per sé con la stessa regolarità della legge naturale di causa ed effetto […] Il rigore contenuto nella dottrina del potere trascendente dell’azione (karma) implica necessariamente l’assegnazione a ciascun individuo di una retribuzione nella misura esattamente corrispondente alle azioni da lui commesse, escludendo in tal modo a priori che si debba espiare per il modo di agire di un altro o che gli tocchi una ricompensa cui non avrebbe diritto per merito delle azioni altrui. L’applicazione universale della legge del karma comporta inoltre il postulato che nel mondo ogni forma individuale d’esistenza viene suscitata dagli atti compiuti in una vita anteriore e pertanto non fa alcuna differenza tra uomini e animali, dèi o demoni, sottoponendo invece tutte le forme di vita cosciente ad un unico e identico ordinamento eterno.»[6]

    Un altro aspetto fondamentale della filosofia indiana potrebbe essere definito il fine “pratico” della liberazione dal dolore, che nella nostra cultura si trova nettamente definito soltanto in Epicuro. Come per Epicuro la filosofia è la “medicina dell’anima”, che ci libera dall’assedio della “pena”, nel pensiero orientale la liberazione dal dolore è fine esplicito o implicito di ogni sistema di pensiero, e in particolare di tutti quelli buddhistici. Ma l’altra costante di molta parte della filosofia indiana è il superamento dell’ignoranza, considerata conseguente a una sopravvalutazione del mondo sensibile e delle esperienze della vita corrente. Ignoranza che è la causa prima del dolore del mondo, un dolore evitabile soltanto liberandosi dai fantasmi dell’apparenza e scorgendo la vera realtà nascosta tra le pieghe del mondo fenomenico.

    Sostiene lo Zimmer (altro importante indologo): «Secondo il pensiero e l’esperienza dell’India, la conoscenza delle cose mutevoli non conduce a una visione realistica, poiché queste realtà mancano di sostanzialità, periscono; né conduce a una visione idealistica, poiché le cose in divenire sono incoerenti, si contraddicono e si negano continuamente a vicenda. Le forme fenomeniche sono per loro natura illusorie e fallaci. Chi si basa su di esse, ne sarà confuso. Si tratta semplicemente di particelle di una vasta illusione universale che è toccata dal maleficio della dimenticanza del Sé, che è sostenuta dall’ignoranza e che viene portata avanti dalle passioni ingannevoli. L’ingenua inconsapevolezza della verità nascosta del Sé è la causa primaria di tutti i falsi valori, di tutti gli atteggiamenti errati e di tutti i conseguenti tormenti che questo mondo illuso si autoinfligge.» [7] Lo Zimmer usa qui il termine “Sé” (da non confondere col termine corrispondente della psicologia e della psicoanalisi occidentali) per indicare ciò che nelle varie filosofie indiane, spesso con intrecci e sovrapposizioni, viene indicato con âtman (anima personale o generale), con brahman (principio cosmico fondamentale), con jîva (anima individuale o forza vitale) o con purusa (anima individuale o perfezione umana originaria).

    In assenza di documenti scritti relativi alle culture locali preesistenti all’invasione ariana (avvenuta probabilmente prima del 2000 a.C.), i testi vedici sono i più antichi documenti relativi a quell’area, ed attengono esclusivamente la cultura dei conquistatori. Questi, diventati poi casta dominante, imposero la loro cultura agli autoctoni, pur assorbendone verosimilmente molti aspetti (soprattutto dalle culture dravidiche),che sono divenuti in seguito praticamente indistinguibili nel complesso culturale indiano da ciò che è specificamente attribuibile alla cultura brahmanica imposta dagli Arii.

    I Veda [8] costituiscono indubbiamente la prima e fondamentale fonte scritta di tutta la religiosità indiana, e più o meno direttamente delle diverse filosofie che ad essa perlopiù si accompagnano; si tratta peraltro di scritti molto particolari, dei quali è difficile trovare dei corrispettivi nel Medio Oriente o in Europa. Infatti, non si tratta di testi sacri in senso stretto e tanto meno di scritti filosofici, bensì per lo più di formule con le quali la casta brahmanica trasmetteva sinteticamente i segreti dei rituali, a cui i sacerdoti dovevano attenersi per la miglior realizzazione delle “procedure” sacrali (al fine del miglior risultato magico del rito). Questi scritti erano indirettamente anche lo strumento che sanciva la separazione tra la classe dei dominatori ariani rispetto a quella dei sottomessi, e servivano per determinare una radicale diversificazione di rango e compiti, in un primo tempo tra invasori e invasi, ma successivamente, con la mescolanza delle razze, tra le classi dominanti e quelle sottoposte. [9] Va tuttavia notato che in questi scritti assai antichi, risalenti ad un periodo compreso tra il 1500 e l’800 a.C. (e quindi sovrapponibili nella fase finale ai poemi di Esiodo e di Omero), vi è ben poco che faccia pensare agli sviluppi successivi del pensiero indiano, se non nella grande importanza attribuita alla parola, che nei Veda è tutt’uno con la cosa che nomina. In essi inoltre non viene fatta ancora alcuna distinzione tra ciò che è animato e ciò che è inanimato, così come tra ciò che è spirituale e ciò che è materiale. Gli stessi dèi (devatâ) hanno ben poco di “divino” in senso moderno, e (analogamente agli dèi greci) sono soltanto dei super-uomini da blandire e da cui ricevere favori. Il concetto di Ishvara (dio-persona unico) appare abbastanza tardi e non è affatto centrale nella religiosità indiana, almeno fino quelle correnti dell’Induismo moderno che si riconoscono nel Shivaismo e nel Visnuismo.

    I Veda hanno goduto e godono tuttora di un prestigio straordinario per noi occidentali difficilmente comprensibile, in quanto testimonianza originaria e rivelativa di un fondamentale e primario rapporto con il soprannaturale e il trascendente. Gli scritti successivi, i Brahmana e soprattutto le Upanisad, costituiscono un corpus estremamente differenziato di enunciazioni, di aforismi, di leggende o aneddoti e di loro commenti (sutra). Essi hanno costituito una sorta di “pozzo di san Patrizio” religioso-filosofico in cui era possibile pescare singoli elementi da assemblare o riassemblare con elementi di altra provenienza, sfociando infine in teorie o precettistiche di genere diverso e a volte concettualmente assai distanti. Questo spiega l’estrema frammentazione esistente sia nelle religioni vere e proprie sia nelle parallele filosofie, che si intersecano e si intrecciano, al punto che all’interno di ogni religione vi è spesso un indirizzo filosofico che ne prescinde e all’interno di una filosofia vi sono sovente indirizzi religiosi che le si affiancano.

    Per le ragioni suesposte se ad Occidente della penisola indiana attualmente restano attive e praticate le tre grandi religioni monoteiste (con al loro interno alcune differenziazioni tutto sommato marginali) in India vi è stata una fioritura foltissima di indirizzi attraverso i secoli, ed una continua nascita di nuove correnti in presenza di poche coagulazioni [10]. Anche il Buddhismo che pure, in sé, non è una religione né si rifà ai Veda, conta al suo interno degli indirizzi spiccatamente religiosi, mentre anche sotto il profilo filosofico esso si presenta tutt’altro che omogeneo. Come abbiamo già rilevato, un aspetto che distingue abbastanza nettamente la filosofia occidentale da quella orientale è che nella prima prevale l’intento gnoseologico e analitico mentre nella seconda questo risulta nettamente subordinato a quello etico, e che lo scopo soteriologico (la salvezza dall’ignoranza e dal dolore del mondo) supera di gran lunga l’intento scientifico, invece prevalente nel mondo greco. La liberazione da una condizione umana imperfetta o soggetta alla sofferenza è una finalità primaria rintracciabile dal più al meno in tutto il pensiero indiano, dove anche per questa ragione il confine tra filosofia e religione è spesso estremamente sfumato. Va comunque ricordato che anche nel mondo ellenico, e ciò sin dal VI secolo a.C., sono presenti religioni filosofiche, come l’Orfismo, oppure filosofie religiose, come il Pitagorismo, che hanno elaborato delle concezioni molto vicine all’antica filosofia indiana; ciò vale sia per quanto riguarda il concetto di anima sia per il già ricordato concetto della sua trasmigrazione di corpo in corpo.

    In base a quanto sopra esposto si potrebbe trarre perciò una conclusione di rilevante importanza antropologica, che è la seguente: le culture dell’Occidente e dell’Oriente, pur nelle loro innegabili differenziazioni, erano nell’antichità piuttosto vicine e per alcuni aspetti persino omogenee. Soltanto in seguito, con l’avvento del Cristianesimo, tra i due contesti si è creato un profondo iato, fino a determinare due “mondi” completamente differenti. Ma un allontanamento aggiuntivo si è realizzato a partire dal VIII secolo, con l’irrompere nella cultura del mondo occidentale del criterio scientifico-sperimentale. Questo evento ha finito per modificare a poco a poco la stessa dottrina del Cristianesimo, che si è dovuta adattare via via alle nuove scoperte scientifiche che la mettevano in discussione, fino ad allora basata su sedici secoli di autorità assoluta e indiscussa della Bibbia, dei Vangeli e delle Lettere di San Paolo. Ciò ha finito per configurare due concezioni del mondo e della vita che si sono radicalizzate in due indirizzi profondamente differenti e quasi oppositivi: a Occidente prevale la concezione di una storia “lineare” e progressiva, in cui tutto è o “ateisticamente” governato dal caso e dall’evoluzione oppure “teisticamente” determinato “dalla volontà divina”, mentre ad Oriente prevale quella di una storia “ciclica” necessitata, governata da un principio cosmico trascendente che determina e pervade un mondo umano le cui denotazioni, spesso considerate pure “apparenze”, possono mutare, ma la cui “sostanza” rimane sempre uguale a se stessa.

    Da queste debite premesse ne deriva che l’ateismo indiano, ad accezione di una trascurabile corrente materialistica molto antica è stato (contrariamente a quello occidentale) per lo più spiritualistico; ciò valga a tracciare fin d’ora una netta demarcazione tra il concetto dell “assenza di Dio” come viene posto nella cultura occidentale e lo stesso concetto come viene assunto nel mondo indiano. Ai giorni nostri, con la diffusione della cultura scientifica, è abbastanza probabile che un ateismo indiano non differisca sensibilmente da quello occidentale, forse con l’eccezione dei Giainisti (di cui parleremo) il cui ateismo è rimasto a tutt’oggi molto simile ad una “religione senza dèi”. Per quanto riguarda il Buddhismo, nell’ambito del quale esistono tuttora varie correnti atee, va ricordato che esso è comunque praticamente scomparso dal suolo indiano già da molti secoli, mentre è ancora istituzionalizzato e vitale in numerosi altri paesi asiatici. Non va infine dimenticato che la sua presenza nella cultura occidentale si è accentuata negli ultimi tre secoli e che, sia aldiquà e sia aldilà dell’Atlantico, vi sono numerose comunità che si riconoscono nelle correnti tradizionali del Buddismo, come pure tendenze di pensiero eterodosso che con una certa libertà si ispirano al pensiero del Buddha.   

    Passeremo ora a trattare dei quattro sistemi [11] filosofici atei nell’ambito dell’antico pensiero indiano (il Cârvâka, il Sâmkhya, il Buddhismo primitivo e il Jainismo), tenendo presente che i primi tre sono attualmente quasi del tutto assenti nel panorama filosofico dell’India moderna, dove prevalgono indirizzi filosofico-religiosi teistici o panenteistici.  La trattazione che faremo delle filosofie atee dell’antica India avrà tuttavia un carattere più compilativo che analitico e interpretativo (come è invece stato per l’ateismo greco), ciò in quanto esse non hanno avuto molto peso negli sviluppi della cultura filosofica occidentale e ancor meno ne hanno avuto per quanto riguarda il tema di cui ci stiamo occupando, sia pure con qualche eccezione [12].

    Per quanto ci risulti il nostro è il primo tentativo di considerare la cultura orientale sotto il punto di vista dell’ateismo e siamo giunti a questa ristretta classe di quattro orientamenti filosofici indiani dopo lunghe considerazioni ed attente analisi. Abbiamo deciso di escludere da questo novero il Confucianesimo e il Taoismo, in quanto ci paiono troppo legati a concezioni che riconoscono “comunque” un fondamento divino originario nella trascendentalità del “cielo”. Per altro verso abbiamo dovuto anche escludere il Mîmânsâ, che pure presenta un’assenza di riferimenti teistici, ma che nel suo far proprio il principio cosmico primario presente nei Veda (ai quali si rifà come testi rivelativi) non presenta caratteristiche tali da poterlo considerare un sistema di pensiero ateo. Abbiamo anche dovuto escludere i sistemi Nyâya e Vaisheshika (e la loro successiva fusione in sistema unico) per quanto il primo si occupi quasi esclusivamente di logica e il secondo presenti una teoria atomistica dell’universo, in quanto entrambi sono tributari della tradizione vedica nel ritenere che l’originario “grande uovo universale” (sia pur composto di atomi materiali) abbia fatto nascere il divino demiurgo Brahmâ, il quale crea a sua volta gli dèi, gli uomini, tutti gli altri animali e tutte le cose inanimate. Va però osservato che il Nyâya-Vaisheshika, tra tutti i sistemi di pensiero indiani, è sicuramente, a nostro avviso, quello che più si avvicina (dal punto di vista dell’impostazione speculativa) al modo di pensare occidentale e che nel contempo risulta più ricco di elementi filosofici in senso stretto.  

 

 

 

              

                                         6.1 Cârvâka.

 

    Abbiamo utilizzato il termine cârvâka [13] per indicare l’indirizzo materialistico nell’antica filosofia indiana, ma in India viene spesso usato anche il termine lokâiata, che sta a significare l’atteggiamento di chi vive seguendo esclusivamente i sensi, sia come fonte di conoscenza sia come criterio di giudizio. E altresì viene impiegato il termine nâstikâ, che significa “coloro che negano” [14], in quanto asti è colui che crede nella divinità, nâsti quello che non crede. Ciò che viene negato dai cârvâkâ è soprattutto l’autorità dei Veda e con essi di tutto il ritualismo e le credenze che essi comportano e prescrivono. Quindi i termini cârvakâ, lokâyatâ e nâstikâ indicano tutti la categoria degli atei materialisti, ma il primo è quello che ha un significato più propriamente filosofico. Di questa filosofia, abbastanza vicina alla dottrina degli elementi di Empedocle per un verso e all’atomismo di Leucippo, Democrito ed Epicuro per un altro, si sa molto poco e nessun opera organica scritta ci è pervenuta [15]; le poche notizie sul cârvâka ci giungono pertanto prevalentemente dai suoi detrattori. Nel periodo classico pre-induista si pensava ad un certo Brihaspati quale fondatore del materialismo, identificandolo curiosamente con uno degli dèi vedici che portava tale nome [16]. Risulterebbe che un certo Ajita Kesambalî sostenesse che il corpo dell’uomo si decompone dopo la morte nei quattro elementi (terra, acqua, fuoco ed aria) mentre la le sue facoltà intellettive si disperdono nello spazio (l’âkâsha), quale quinto elemento [17].

    L‘indirizzo di pensiero cârvaka ha pertanto una concezione del mondo decisamente materialistica, secondo la quale l’unica realtà è costituita dalla materia, alla quale sono riducibili anche gli aspetti cosiddetti “spiritualistici” dell’esistenza. Contro di esso si sono schierate tutte le dottrine filosofiche (anche quelle atee come il Gianismo e il Buddhismo) [18] e tutte le religioni, a testimonianza del fatto che il contesto indiano era (e rimane a tutt’oggi) fortemente anti-materialistico. Ma un aspetto estremamente interessante dell’antico materialismo indiano è la sua base pluralistica; la dottrina degli “elementi cosmici” (bhûtavâda) prevede infatti un universo increato ed eterno, costituito da una pluralità di elementi-base, dai quali, per combinazione, derivano tutte le realtà esistenti.

       Il materialismo cârvaka pone una realtà plurale e considera il mondo come il frutto di una serie di elementi-base immortali dai quali, per combinazione, derivano tutte le cose esistenti e gli esseri viventi. Reale è pertanto solo ciò che si offre ai sensi e pertanto la vera conoscenza (come per Epicuro) è tutta nelle sensazioni e non in processi intellettuali che ne prescindano.  Negata ogni entità soprannaturale e ogni principio cosmico al di fuori dei materiali elementi-base viene così a mancare anche ogni elemento etico ed ogni processo karmico di salvazione [19]. Tutto ciò che è e avviene segue la natura che lo determina e lo concerne in quanto aggregato materiale. Per il cârvâka tutte le teologie sono un puro inganno, come lo sono le filosofie salvifiche basate sul samsâra (la trasmigrazione delle anime), poiché la vera liberazione dal male avviene solo con la morte, che tutti rende uguali, che tutto azzera e livella. Né  l’anima individuale esiste realmente ed il pensieri e i sentimenti derivano soltanto da una particolare combinazione degli elementi.

    Da tale impostazione concettuale deriva un’esaltazione dei sensi e dei piaceri che da essi derivano, quale unico scopo sensato del vivere; si tratta quindi di un edonismo assai vicino a quello dei Cirenaici nell’ambito greco. Il Cârvâka è stato pertanto un interessantissimo caso di ateismo radicale nell’antica filosofia indiana, forse con una non trascurabile influenza sociale nel mitigare, irridendoli, alcuni eccessi spiritualistici. Purtroppo esso ha inciso abbastanza marginalmente sulla cultura filosofica indiana quale è pervenuta sino a noi, forse anche perché troppo incline a “realizzare” una filosofia edonistica nella vita corrente piuttosto che teorizzarla e “scriverne”. Da ciò la scarsità di elementi informativi intorno ad esso, sia per quanto riguarda i dettagli teoretici sia per quanto riguarda i tempi e i luoghi in cui si è espresso, nonché relativamente ai personaggi storici che ne sono stati fautori. I materialisti cârvâkâ venivano anche definiti come sostenitori della “teoria del taglio netto” (uccheda-vâda) esistenziale. In base ad esso la morte rappresentava infatti l’irrimediabile e definitivo “taglio” con la vita per ogni essere vivente.

    Uno dei primi sostenitori della visione cârvaka, come già abbiamo detto, stando ad un passo del Samannaphalasutta (parte del Dîganikâya), sarebbe stato Kesambalî, secondo il quale il corpo, dopo la morte, si sarebbe decomposto nei quattro elementi classici (terra, acqua, fuoco ed aria), mentre il suo intelletto si sarebbe disperso in un ulteriore quinto elemento: lo spazio (âkâsha). A questo proposito il Tucci riporta un passo del Dîganikâya (XXIII, 14) in cui Kesambalî (che intende negare il ciclo samsarico e la reincarnazione), dovendo rispondere alla domanda relativa a che cosa ne sia dell’anima dopo la morte, risponde:

 

[…] «Allora, o signori, dopo aver gettato quest’uomo vivo in un otre, dopo avere a questo chiuso la bocca, dopo averlo coperto con pelle fresca, dopo aver fatto (sopra a lui) una spessa cementatura con umida creta, dopo averlo collocato in un forno, ponete fuoco». E quelli dopo aver acconsentito (dicendo): «va bene» (c.s.) pongano fuoco. Quando noi conosciamo che quest’uomo è morto, allora, dopo aver tirato giù quell’orcio, dopo averlo liberato dall’involucro e dopo avergli aperto la bocca,  celermente guardiamo pensando: «Forse noi possiamo vedere la sua anima». Ma noi non vediamo alcuna anima che esce. Questa appunto, o Kassapa, è la prova per la quale io penso: «Anche così non c’è un altro mondo, non ci sono esseri opapatika, Non c’è frutto e maturazione delle cose buone e cattive»

[…] Immagina o Kassapa che alcuni uomini avendo afferrato un ladro che ha commesso peccato me lo presentino (dicendo): «Eccoti un ladro, o signore, che ha commesso peccato; a costui infliggi quella punizione che desideri». Così allora io risponderei. «Allora, o signori, private della vita quest’uomo, maciullandogli la cute, la pelle, la carne, i nervi e la midolla». E quelli dopo aver acconsentito dicendo: «va bene» maciullandogli la cute … lo privino della vita. E quando egli è mezzo morto così io dico: «Allora, o signori, distendetelo supino: forse possiamo vedere la sua anima (jiva) mentre che esce fuori». E quelli distendono quell’uomo supino, ma noi non vediamo l’anima uscire. Allora io dico: «Distendete quell’uomo con la faccia verso terra, … distendetelo su di un fianco, … distendetelo sull’altro fianco, … fatelo stare in piedi, … fatelo stare con la testa in basso, … colpitelo con la mano, … colpitelo con una zolla, … colpitelo con un bastone, … colpitelo con una spada, … agitatelo, … maltrattatelo, … scuotetelo; forse possiamo vedere la sua anima mentre esce fuori.» Ed essi quell’uomo agitano, maltrattano, scuotono, ma noi non vediamo la sua anima uscire. […] [20]

 

    La scuola materialistica si asteneva perlopiù dall’assumere posizioni teoriche, essendo il suo atteggiamento di carattere eminentemente pragmatico e concernente piuttosto le problematiche del vivere sociale, ma va peraltro osservato che i Veda stessi (a parte la loro l’enunciazione dei miti originari, della liturgia e la codifica di testi e procedure rituali) non avevano per nulla le connotazioni mistiche che caratterizzeranno più tardi le Upanishad. Quindi l’atteggiamento ateo e materialistico, nel suo accostare le scienze politiche e sociali, riprendeva tutto sommato l’antica tendenza antispeculativa del brahmanesimo primitivo. In un certo senso le scuole materialistiche indiane si approssimavano anche ad un certo immoralismo finalizzato a prevalere in campo sociale e nella sfera del potere, secondo moduli comportamentali non molto lontani dal machiavellismo rinascimentale. Il Tucci rileva rapporti abbastanza stretti da parte di alcune correnti materialiste con la dandaniti, la scienza della politica, che si occupava del vivere sociale nei suoi aspetti e nei suoi effetti reali e concreti, senza alcun interesse escatologico relativo a problemi che vadano al di là delle esperienze correnti della quotidianità. Si accompagnerebbe allora al materialismo anche un certo modo di far politica, basato sulla sagacia e sull’assenza di scrupoli, sì da ricordare, appunto, i modi del Principe di Machiavelli. Tale materialismo in politica, sarebbe stato impersonato da un certo Kautilya, cancelliere di Candragupta, il potente sovrano Maurya, il cui regno si estese nella prima metà del IV sec.a.C. dall’Indo al Bengala. Kautilya è considerato autore dell’Arthasāstra, un trattato di politica in cui non mancano riferimenti al materialismo lokâiata come metodo di ricerca del successo. Per altro verso i materialisti ci vengono anche dipinti da alcuni testi antichi come dei maestri nell’argomentazione, esperti nelle discussioni complesse e cavillose, ricorrenti ad un tipo di dialettica volta alla confutazione degli avversari, non dissimile quindi da quella dei sofisti greci.   

    Sul piano strettamente teoretico il cârvaka non ci offre quindi formulazioni vere e proprie, ma poche idee guida semplici e chiare, che possono essere riassunte nei termini che seguono: a) non esiste alcuna divinità creatrice o reggitrice del mondo, b) questo non è stato creato da nessuno ed esiste da sempre, c) la morte nullifica l’individuo, poiché l’anima e il corpo sono la stessa cosa, d) non vi è nessun sistema di ricompense o castighi che possa riguardare un destino umano oltre la morte, e) le uniche fonti di conoscenza sono i nostri sensi e lo scopo della vita è il loro soddisfacimento [21].

 

 

 

 

                                          6.2 Shâmkhya. 

 

    Secondo la tradizione il sistema venne formulato già da Kapila, un mitico sapiente vissuto nel VI sec. a.C., ma esso ricevette una formulazione organica soltanto nella nostra èra (intorno al 350 d.C.) da parte di Ishvarakrishna, autore delle Sâmkhya-Kârikâ (strofe sul Sâmkhya), testo comunque relativamente scarno, costituito da settantadue strofe racchiudenti concetti non sempre chiari. Queste strofe in origine dovevano essere destinate all’apprendimento mnemonico da parte dei seguaci del sistema, da qui la loro stringatezza; ma in seguito furono soggette a una fioritura di commenti divenuti ormai quasi inseparabili da esse [22] e sui quali si basa la corrente descrizione di questo sistema filosofico. Analizzati nel dettaglio, strofe e relativi commenti, ci consentirebbero di entrare nei minimi particolari di questo sistema filosofico assai complesso (e anche un po’ macchinoso), ma ciò uscirebbe dai limiti che ci siamo posti; noi eseguiremo pertanto una disamina un poco sommaria, cercando però di metterne in evidenza gli aspetti principali.

    Il Sâmkhya [23]  è un dualismo metafisico basato su due principi cosmici universali, eterni e separati: la prakriti (la materia o natura) e i purusha (le anime o spiriti individuali) [24]. La prakriti è la sostanza informe e inconsapevole da cui deriva tutto ciò che esiste nel mondo, continuamente evolventesi negli elementi inorganici, negli esseri viventi in generale e nelle facoltà intellettive e psichiche dell’uomo. A questo proposito leggiamo alla strofa 8 della Sâmkhya-Kârikâ:

 

    Non perché la natura non esista, sebbene per la sua sottigliezza non riusciamo a percepirla. Però possiamo averne percezione attraverso i suoi effetti costituiti dalla serie dei vari principi, a cominciare dalla mente: questi sono, rispetto alla natura, conformi e difformi. [25]

 

La natura “madre” è impercepibile per la sua sottigliezza, ma ne sono percepibili gli effetti nei corpi di aggregazione. Viene qui introdotto il concetto di “sottigliezza”, il quale, accoppiato con quello di “grossezza”, rende lo stato di minore o minore aggregazione della materia negli elementi reali. Gaudapada nel suo commento tra l’altro precisa:

 

[…] Poiché, appunto, dall’effetto viene dedotta la causa; la causa di tutto quanto è prodotto è la natura e i suoi effetti sono: la mente, il senso dell’io, i cinque elementi sottili, gli undici sensi e i cinque elementi grossi. […] [26]

 

Abbiamo qui un primo esempio di “enumerazione”, infatti si accenna all’esistenza di (1+1+5+11+5= 23) ventitre effetti della natura o “principi secondari”, sommando ai quali i due “principi primari” (anime e natura) si arriva a venticinque principi totali . Apprendiamo qui anche che la mente (la buddhi) è il primo prodotto in ordine di grandezza che la prakriti genera, a cui segue l’individualità materiale (il senso dell’io). Contrariamente a ciò che noi occidentali potremmo pensare (memori del dualismo cartesiano) la mente (ovvero l’intelletto) di ogni uomo secondo il Sâmkhya è un aggregato rigorosamente materiale, connesso al “senso dell’io” (la coscienza), ma che risulta completamente separato dall’anima individuale (il purusha) pur essendo il principale artefice della sua liberazione.

    La dottrina Sâmkhya propone una schematizzazione della realtà materiale esistente e percepibile (il “manifesto”) come una progressiva emanazione e formazione derivante dalla “materia prima” della prakriti elementare (l’immanifesto), secondo un processo di condensazione a partire da ciò che è più “fine” verso ciò che è più “grosso” e viceversa, in base a dei cicli cosmici. Questa continua trasformazione della materia genera il dolore che pervade il mondo e la vita. Ma la trasformazione è in sostanza una lunga e intermittente catena di cause ed effetti, nella quale ogni effetto (strofa 9) è “coessenziale alla causa”, e ciò poiché “ogni effetto preesiste nella sua causa”.

    L’anima è avvolta e incapsulata dalla materia a lei prossima (la mente e la coscienza) e l’obbiettivo della dottrina Sâmkhya è quello di far sì che siano proprio la mente e la coscienza (senso dell’io) che legano l’anima a liberarla da esse stesse, isolandola nella sua essenza di indifferenza e beatitudine. Tale liberazione delle anime appare come la vera finalità di tutto l’essere dell’universo. Questa teoria dualistica contrappone pertanto, e in modo radicale, una materia attiva che genera i mille volti del mondo e una pluralità di essenze individuali e immateriali con caratteristiche assolutamente opposte, vale a dire immutabili, inerti e isolate (strofa 19).

    La materia, che si muove secondo leggi interne che la portano a una continua trasformazione evolutiva o involutiva (condensazione o rarefazione), è basata su tre principi costitutivi coi quali si identifica nel suo passaggio da natura “immanifesta” a “manifesta”. Tali suoi principi costituenti (i gunâ) sono: il sattva, il rajas e il tamas (strofa 11 e cinque successive). Il sattva è principio della luminosità, delle leggerezza e della gioia,  il rajas del movimento, dell’attività e della passionalità, il tamas dell’oscurità, della pesantezza e dell’inerzia. Come si vede questi principi concernono sia aspetti della materia bruta che aspetti della materia vivente, a conferma di un criterio pervadente tutta la speculazione indiana, secondo cui il mondo inanimato e quello animato hanno sostanzialmente la stessa natura. All’interno di quello animato inoltre non esiste alcuna differenza sostanziale e alcuna gerarchizzazione tra forme di vita inferiori e superiori (uomo compreso), trattandosi sempre di aspetti diversi di uno stesso ordine di enti. L’attività dei costituenti ha un immediato riscontro anche sul corpo vivente, come recita la strofa 13:

 

    Il sattva è illuminante e leggero; il rajas mobile e stimolante; il tamas ostruttivo e greve. Il loro funzionamento è ordinato a un fine, come avviene per la lampada. [27]

 

E Gaudapada commenta:

 

    Il sattva è illuminante e leggero”. Quando il sattva prevale, allora le membra si fanno leggere, la mente luminosa, i sensi chiari. “il rajas mobile e stimolante”, stimolante nel senso di incentivo all’azione. Infatti come un toro si eccita molto scorgendo un altro toro, così avviene per il funzionamento del rajas; il quale è poi anche mobile onde quegli cui è connaturato il rajas risulta di animo mutevole. “Il tamas ostruttivo e greve”. Allorché prevale il tamas le membra diventano pesanti e i sensi obnubilati, incapaci di apprendere i rispettivi oggetti. A questo punto però vien fatto di chiedersi: se gli elementi costitutivi sono opposti tra loro, come potranno produrre qualcosa? “Il loro funzionamento è ordinato a un fine, come avviene per la lampada.” Infatti a quel modo che la lampada, in virtù della combinazione di olio, fuoco e lucignolo che sono tra loro contrari, illumina gli oggetti, non altrimenti sativa, rajas e tamas, sebbene tra loro contrari, ciononostante possono produrre una cosa. [28]

 

    La differenza fondamentale tra i molteplici aspetti della  natura consiste unicamente nello “spessore” della materia che li costituisce e dal complesso gioco oppositivo e combinativo dei tre elementi costitutivi appena considerati, per cui la ragione individuale (la buddhi) è costituita da materia “sottile”, mentre la terra, nelle sue varie composizioni, è costituita di materia “spessa”. La buddhi è il nucleo materiale e intellettuale dell’individuo, dal quale si sviluppa il “farsi io” (l’ahankâra). Ma questa è l’individualità materiale e sofferente, che in quanto tale induce all’errore e all’ignoranza dell’autentica individualità spirituale, l’anima (il purusha), che essendo inattiva e trascendente rimane, nella sua inattività, fuori dal gioco. Ma ogni anima è differente da tutte le altre, come lo sono i corpi che le avvolgono, e questa è una conseguenza della pluralità generata dal combinarsi dei tre elementi costitutivi.     

    L’ahankâra (derivato dalla buddhi), come sentimento materiale e generale del sentirsi “io” è, in seconda battuta, la causa evolutiva degli “undici sensi”, dai quali si origina tutta l’altra realtà materiale. Esso pertanto genera: 1) il pensiero (manas) e le cinque facoltà (sensi mentali) che permettono di conoscere il mondo, cioè 2) l’udito, 3) il tatto, 4) la vista, 5) il gusto e 6) l’odorato. Ma anche le cinque facoltà deputate all’azione (sensi d’azione): 7) la favella, 8) la presa, 9) la deambulazione, 10) l’evacuazione intestinale, 11) la procreazione.  I cinque sensi mentali generano, in quanto “elementi sottili”, i cinque “elementi grossi” del cosmo, ovvero la terra, l’acqua, il fuoco, l’aria e l’etere (lo spazio vuoto).  

    La mente, come espressione più alta della natura, sembra porsi al servizio dell’anima che deve liberare, infatti (strofa 37):

 

    Dal momento che la mente tutto ciò che procura lo procura perché l’anima ne possa fruire è dunque essa, la mente, che distingue la sottile differenza tra natura ed anima. [29]

 

E questo viene ribadito con una metafora alla strofa 59 e da un successivo chiarimento alla 60, che leggiamo accompagnate dai relativi commenti:

 

    Come la danzatrice smette di danzare dopo essersi mostrata al pubblico, così la natura cessa la sua attività essendosi manifestata all’anima.

 

“Come la danzatrice”, avendo mostrato al pubblico episodi accompagnati da musiche e canti insieme con sentimenti estetici quali l’erotico eccetera e le loro rispettive basi rappresentate dalla vicenda eccetera, “smette di danzare” compiuto il proprio dovere, egualmente la natura, mostratasi all’anima secondo le differenti forme della mente, del senso dell’io, degli elementi sottili e degli elementi grossi, smette la sua attività [involvendo allo stato elementare]. Viene spiegato ora quale sia la causa di questo venir meno della natura. [30]

 

    La natura che è generosa e provvista degli elementi costitutivi, con innumerevoli mezzi, senza alcun beneficio per sé, compie l’utile dell’anima che è sprovvista degli elementi costitutivi e non la ricambia in nulla.

 

“Con innumerevoli mezzi” la natura si dimostra generosa nei riguardi dell’anima “che non la ricambia in nulla”. E come? Attraverso le forme divine, umane e animali, attraverso le forme del piacere, del dolore e dell’offuscamento, attraverso gli oggetti dei sensi, quali il suono e tutti gli altri. E così, manifestatasi con innumerevoli mezzi, la natura, dopo aver così discriminato: “questo sono io e questo sei tu”, viene meno. Simile in questo a quel generoso che fa del bene a tutti senza bramare nulla in cambio per sé. […][31]

 

L’anima liberata, tuttavia, nella sua immobilità ed inerzia, risulterebbe poi essere lo “scopo” ultimo dei cicli di aggregazione e disgregazione della materia, infatti, tutta la fenomenologia della prakriti sembra avere la sua ultima ragion d’essere nella liberazione dei purusha [32].

Poco oltre (strofa 65) Isvarakrisna descrive l’anima che contempla la natura come se la fenomenologia di questa fosse uno spettacolo:

 

In virtù di ciò l’anima, che se ne sta raccolta in se stessa al proprio posto come uno spettatore, vede la natura che ha cessato di esser produttiva e che risulta svincolata dalle sette forme [virtù, distacco, potere, vizio, ignoranza, attaccamento e non-potere] per avere alfine compiuto il fine dell’anima. [33]

 

La liberazione dell’anima avviene nel momento in cui essa, contemplando la materia “che ha danzato per lei”, la riconosce per quello che è, e nel contempo scopre il proprio destino (“il fine dell’anima”). Ci avviamo ora alla conclusione delle Sâmkhya-Kârikâ riportando di seguito e senza commento le strofe da 66 a 69 [34]: 

 

(66) (L’anima), una, è indifferente come uno spettatore di teatro; (la natura), una, cessa la sua attività, quando sa di essere stata vista. Malgrado il contrasto esistente tra i due, non sussiste movente alla creazione [nel senso che il processo virtuoso è così concluso].

 

(67) Ottenuta la perfetta conoscenza, la virtù e le altre forme divengono improduttive, tuttavia per effetto degli impulsi carmici il corpo permane ancora, così come accade col movimento della ruota.

 

(68) Avvenuta la separazione del corpo [con la morte] e avendo la natura, poiché il suo fine è compiuto, cessato l’attività, l’anima perviene all’isolamento assoluto e definitivo.

 

(69) Questa segreta conoscenza intesa a compiere il fine dell’anima e nella quale sono considerate nascita, durata e dissoluzione degli esseri stata rettamente esposta dal sommo veggente [Kapila]. 

 

   

    A chiusura di questo paragrafo si rende doverosa un’ultima considerazione sull’ammissione o meno di entità divine da parte del Sâmkhya. La questione si pone pressappoco negli stessi termini in cui si poneva per l’epicureismo e, come vedremo, per il buddhismo. Gli dèi non vengono negati, ma sono irrilevanti ai fini del sistema, nel senso che essi sono estranei al mondo degli uomini e incapaci di agire sui loro destini. Come per gli altri sistemi che abbiamo citato, gli dèi costituiscono un residuo della tradizione culturale che non si vede alcuna buona ragione di espungere, dal momento che la loro ammissione o negazione è irrilevante ai fini della filosofia che si propone. In più (come aveva ben imparato Epicuro) è inutile farsi dei nemici distruggendo delle ipostasi da tutti riconosciute, senza che ciò comporti sul piano teoretico vantaggi significativi. Ovviamente il discorso risulterebbe totalmente diverso nei confronti dei monoteismi abramitici, poiché la negazione del Dio da essi posto e delle sue prerogative risulta elemento teorico irrinunciabile per qualunque filosofia atea.

 

 

                                           

                                          6.3 Jainismo.

 

    Il sistema jaina è considerato ateistico e tuttavia, più del Shâmkhya e più del Buddhismo (con cui ha molto in comune sul piano etico), possiede i caratteri di una religione, o meglio quelli di una filosofia gnostica rigorosamente soteriologica, quantunque ricca di aspetti teoretici piuttosto interessanti. Si tratta di una filosofia probabilmente tra le più antiche, che ha ricevuto formulazione tra il VI e il V sec. a.C. da parte di Vardhamâna (in seguito chiamato Mahâvîra). I giainisti però non considerano Mahâvîra il fondatore, in quanto esso non sarebbe che l’ultimo (il ventiquattresimo) di una lunga serie di tirthankara (“preparatori del “guado”), ventidue dei quali sono assolutamente mitici, mentre il ventitreesimo (Pârshva) sembra essere un personaggio storico reale, che sarebbe vissuto 246 anni prima di Mahâvîra. Quindi, se questo ha raggiunto il nirvana (come i giainisti sostengono) nel 526 a.C. se ne deduce che Pârshva sarebbe morto nel 772 a.C. Questa periodizzazione sembra essere piuttosto schematica, come d’altra parte lo sono molti aspetti della dottrina giainistica, caratterizzata da una certa rigidità concettuale, nonché da una notevole intransigenza nelle regole di vita. Va tuttavia subito rilevato che delle quattro filosofie ateistiche che qui presentiamo il Giainismo è l’unica che conti tutt’oggi in India un numero significativo di adepti [35], concentrati prevalentemente nel Gujarât e perlopiù appartenenti a classi alte o comunque facoltose.

    Un aspetto non secondario sta anche nel fatto che il Giainismo, a differenza di molte altre filosofie e religioni indiane, caratterizzate da rilevanti trasformazioni, modificazioni ed adattamenti, ha mantenuto quasi intatta la sua dottrina da diversi secoli a questa parte, a testimonianza di una rara solidità dottrinaria. La filosofia giainista presenta (insieme a quella buddhista) il rifiuto dell’autorità dei Veda e insieme il rifiuto del sistema brahmanico delle caste; essa è infatti aperta a tutti (indipendentemente dalla condizione), ma impone un rigido canone comportamentale (almeno nelle forme monastiche) [36]. Il Giainismo è una dottrina che propone il superamento del ciclo delle rinascite (il samsâra) verso uno stadio finale di ascesi nirvanica, ma lascia ai laici delle regole meno rigide, sotto le forme di una propedeutica al nirvana, colla quale la materialità che ci costituisce e ci affligge viene superata definitivamente. In altri termini, mentre l’asceta raggiunge “prima” la liberazione dalla materia il laico ci arriva “più tardi”.

    I Tirthamkara, a cui abbiamo già accennato, sono una sorta di profeti o padri spirituali che in varie fasi cosmiche hanno rivelato la via della salvezza ( il “guado”) agli uomini comuni. La comunità giaina ha subìto (a causa di divergenze sulla disciplina e sulla dottrina) una scissione nel 79 a.C., dividendosi in due comunità: quella dei Digambara (in sanscrito: vestiti d’aria) e quella degli Svetambara (= vestiti di bianco). I primi, secondo le regole imposte da Mahavira, dovrebbero andare in giro completamente nudi (in realtà questa regola è stata sempre poco osservata), mentre i secondi portano una veste bianca.

    Secondo la dottrina del Giainismo l’universo, eterno e increato, è visto come un immenso ed eterno organismo a più livelli, costituito da anime individuali (jîvâ), anch’esse eterne, e dall’insieme dei corpi inanimati (ajîva). Pressappoco come nel Sâmkhya le anime sono infinite di numero mentre la materia (pur costituita da atomi) è considerata un insieme unitario, ma la grande differenza sta nel fatto che mentre nel Sâmkhya le anime (là chiamate purusha) e la materia (la prakriti) sono completamente separati, nel Jaina le anime sono pervase di materia. Questa, nella misura in cui “infetta” l’anima (quale monade spirituale), ne determina il collocamento ad un certo “livello” dell’universo, il più elevato dei quali è quello della liberazione definitiva dalla materia coincidente col conseguimento del nirvana. Queste anime sono anche principi animatori dei corpi e quindi principi vitali, in quanto tali  che non hanno le caratteristiche di una sostanza unitaria posta in una zona del corpo ma piuttosto quella di un fluido che pervade il corpo stesso in ogni sua parte. Ma nello stesso tempo essa è a sua volta pervasa dalla materia di cui è affetta e dalla quale si deve liberare. La materia, o l “inanimato”, si presenta in cinque forme: a) la pugdala (materia vera e propria), che si presenta in forma elementare (anu) o aggregata (skanda), b) il dharma (principio del movimento), c) l’adharma (principio del riposo), d) l’akasa (lo spazio, come contenitore di tutto ciò che esiste, che viene definito da un numero infinito di punti (pradesâ), e) il kala (il tempo, divisibile in istanti, dove l’istante (samaya) è il tempo che un atomo impiega per passare da un punto spaziale a un altro.

    Le sette verità fondamentali (tattvâ), vere categorie dell’essere, sono 1) le anime, 2) l’inanimato, 3) gli influssi (âsravâ),con cui la materia pervade le anime, 4), il legame (bandha), 5) difesa (samvara), l’estirpazione (nirjarâ) e infine 7) la liberazione (moksha). Le prime due sono le “sostanze” del divenire cosmico, mentre le altre cinque sono gli “stati” che caratterizzano la condizione in cui può presentarsi l’anima (jîva) . Le anime individuali, nella fenomenologia dell’affezione della materia fino alla liberazione finale, soggiacciono al legame con essa e da ciò ne traggono una certa “colorazione”. I colori (lesyâ) sono variabili secondo una scala ascendente, dove la monade spirituale risulta più o meno legata alla materia che la pervade in base al colore che ne deriva (nero, blu, grigio, rosso, giallo, bianco); dove il colore più chiaro corrisponde allo stato, o livello, del moksha (la liberazione). Ma la materia che pervade l’anima e la invischia nel ciclo delle rinascite non è poi nient’altro che il karma; quindi questo, nella dottrina giainista, è considerato non una legge astratta che regola la trasmigrazione, bensì una materia concreta, una materia “karmica”, appunto, della quale l’anima si deve liberare per raggiungere lo stato di perfezione e la sua autenticità. Il karma opera sull’anima in otto maniere diverse: 1) impedendo la retta visione della realtà, 2) offuscando le capacità intellettive, 3) rendendoci sensibili alla gioia e al dolore, 4) turbando la fede nella verità e inducendo a condotte scorrette, 5) determinando la straticazione degli esseri secondo vari livelli, 6) determinando la psiche del soggetto, 7) determinando lo stato sociale di ogni individuo, 8) impedendo all’anima di fruire delle sue facoltà. Sono questi gli “otto modi del karma” che vengono dai dogmatici successivamente suddivisi in 148 sottomodi.

    In realtà il karma, che inquina l’anima, cresce o diminuisce nella misura in cui l’agire è negativo o positivo. L’azione buona porta al rilascio di karma, ovvero al suo consumo, mente quella cattiva ne assume del nuovo. Una persona durante la propria vita, affinché nella successiva possa collocarsi ad un livello superiore, deve “alleggerire” la sua anima di karma, per far ciò deve “consumare” quello accumulato nella vita precedente, e nel contempo fare in modo che il nuovo accumulo dovuto alle cattive azioni sia nettamente inferiore al rilascio determinato da quelle buone.  Tuttavia, al di là del proposito di agire bene o male, è soltanto in base a una legge cosmica, che trascende gli individui, che si determina la quantità di karma che in seguito all’azione viene consumato o acquisito dall’anima, e tale effetto non è immediato, ma a posteriori. D’altra parte, l’anima sembra essere non soltanto l’entità personale che subisce gli effetti dell’azione, ma, in quanto tutt’uno con la persona con cui si identifica, essere nel contempo soggetto ed oggetto della propria liberazione, come si evince da questo passo (Viyâhapanatti, 7, 10):

 

    Come quando un uomo mangia un cibo gustoso…mescolato con veleno e dopo averlo inghiottito apparisce in buona salute, ma poi cambia le proprie condizioni [in peggio],…così cambiano le anime se danneggiano il prossimo, mentiscono, si appropriano indebitamente di beni altrui…Come quando un uomo mangia un cibo gustoso…mescolato con sostanze salutari e subito dopo averlo inghiottito non diventa sano, ma poi cambia le proprie condizioni [in meglio], così si comportano le anime che si astengono dal danneggiare il prossimo, dal mentire, dall’appropriarsi indebitamente dei beni altrui…[37] 

 

 

     Il Giainismo, come si noterà, si presenta come una dottrina salvifica abbastanza simile al Sâmkhya sul piano teoretico, ma molto più rigida e dogmatica nelle sue definizioni e nelle sue regole comportamentali; una caratteristica che ci permette di affermare che esso, pur negando ogni riferimento alla divinità, presenta in definitiva i caratteri di una di religione laica e nello stesso tempo mistica. Si pensi alla liberazione dell’anima concepita come una salita di 14 gradini, ordinati non secondo un principio cronologico bensì logico-mistico. L’asceta che applica rigorosamente le regole può fare “salti” di livello come può patire “discese” nel caso che si distragga, ma a partire dall’undicesimo livello (quello dell’asceta che si è completamente liberato dalle passioni) si ascende rigorosamente per gradi contigui. Siccome le azioni producono karma (che vincola l’anima a sé), si potrebbe pensare che, interrompendo la morte ogni attività, potrebbe risultare consigliabile il suicidio al fine di sfuggire ad esse. In realtà il suicidio è ammesso soltanto dopo l’undicesimo stadio, quando può venire attuato in uno stato di pura razionalità che tiene lontani dalle passioni.

    Un elemento caratteristico del Giainismo, che lo rende unico nel suo genere (e per alcuni versi paradossale), è la prescrizione di non uccidere, per nessuna ragione, qualsivoglia essere vivente. Essa deriva dal fatto che per questa filosofia tutto ha un anima (non solo quindi animali e piante, ma persino molecole di materia). L’uccisione anche accidentale e involontaria di un essere vivente è una colpa che aumenta di molto la materia karmica che affetta l’anima e quindi ne favorisce la regressione di livello. È per questa ragione che gli animali da preda sono considerati inferiori agli erbivori, così come lo sono, tra gli uomini, i guerrieri, i cacciatori, i macellai, ecc. Si arriva così al punto che un giainista ordodosso ponga davanti alla bocca una mascherina per evitare di inghiottire involontariamente qualche microscopico essere vivente che vola. La dottrina jaina in questo suo conferire importanza essenziale all’azione o all’inazione piuttosto che all’atteggiamento mentale non manca di elementi di una certa rozzezza, ove confrontata, per esempio, col Buddhismo, che presenta un’analoga dottrina di liberazione, ma non basata tanto su regole meccaniche quanto su atteggiamenti e sentimenti, i quali semmai presuppongono un controllo psichico piuttosto che motorio.  Vi è quindi nel giainismo una specie di ingenuo materialismo (si pensi anche al karma quale “materia” karmica che “si attacca” all’anima e la invischia nelle rinascite) che genera qualche incoerenza con lo spiritualismo implicito nella “liberazione dell’anima” dalla materialità.

    L’asceta giaina (analogamente a quello taoista) non agisce sugli altri e non reagisce a ciò che colpisce la sua persona. Si sottopone a una disciplina rigidissima, sia per il corpo che per la psiche, cercando di conseguire l’indifferenza assoluta nei confronti del mondo, eliminando così via via ogni traccia di materiale karmico. La regola imporrebbe anche di non lavarsi e di trascurare la cura del corpo, dormire sulla nuda terra o quanto meno su un supporto duro, vivere di questua e mangiare solo gli avanzi donatigli da altri aderenti alla fede. 

    Per quanto riguarda la gnoseologia della materia (basata sulla sensazione) quanto più la conoscenza delle cose del mondo è diretta e immediata tanto più è veritiera. La dottrina conoscitiva si compone di sette modalità di conoscenza, o punti di vista, (abituale, sintetica, generica, empirica, attuale, espressiva, strutturale). La verità viene acquisita soltanto allorché le condizioni di tutte le sette modalità vengono rispettate; la conoscenza assoluta è pertanto, in sé, molteplice. La realtà nella sua pluralità va pertanto affrontata con un criterio altrettanto plurale, che non ne trascuri alcun aspetto né modalità di approccio. La dottrina jaina è pertanto vagamente spiritualistica nei fini, ma piuttosto materialista nel suo concepire le anime come delle entità attive sempre mescolate, dal più al meno, con la materia colla quale convivono e dalla quale si lasciano caratterizzare (teoria dei “colori”). Il Della Casa (noto studioso italiano del Gianismo) vede in essa dei tratti riconducibili all’atomismo vaiseshika e quale « […] antica documentazione di un ramo della ricerca filosofica indiana, quello che parte dall’osservazione della natura e giunge all’ammissione dell’esistenza di una moltitudine di anime attive, in contrasto con l’altra grande corrente della speculazione, culminante nell’accettazione dell’Assoluto [l’unione di atman e brahman], del quale l’anima individuale non è che un riflesso illusorio.» [38]   

 

 

                             

                                6.4 Il Buddhismo originario.

 

    Abbiamo aggiunto l’aggettivo “originario” al titolo del presente paragrafo perché Il Buddhismo, alle sue origini, è una filosofia i cui pochi principi si ispirano a una visione del mondo sicuramente atea, ma essi sono poi di tale ampiezza concettuale e di tale estensione universalistica che tale filosofia si è prestata a numerosi sviluppi religiosi entro e fuori dell’India. È questa la ragione per cui abbiamo ritenuto indispensabile tale precisazione, in quanto il Buddhismo, ateo nella sua accezione primaria più specificamente filosofica e “terapeutica” (riconducibile a Siddharta Gotama, il Buddha, e ai primi suoi seguaci) è stato in  seguito piegato a fornire risposte ad esigenze sacrali e verso weltanschauungen panteistiche, le une e le altre più coerenti col contesto tradizionale indiano. Ne sono nate dottrine buddhistiche nelle quali il fondatore diventa figura profetica e prototipo di entità perfette e ultramondane accedute a un “tutto” eterno trascendente la materia, tradendo in parte le premesse iniziali del messaggio di Siddharta, che nella seguente celebre frase seguente aveva preso le distanze da ogni arbitraria estrapolazione estensiva della sua dottrina:

 

    Quindi, Malunkyaputta, tieni presente quello che ho spiegato perché l’ho spiegato e quello che non ho spiegato perché non l’ho spiegato. Quali sono le cose che non ho spiegato? Se l’universo è eterno o no; se l’universo è finito o no; se l’anima è la stessa cosa del corpo o no […] [39]

 

Siddharta delimina quindi il campo in cui si muove la dottrina che propone, quello di un pensiero pragmaticamente legato all’azione piuttosto che alla speculazione metafisica. È per tale ragione che la filosofia del Buddha è in un certo senso  “antifilosofica”, nella misura in cui non espone una teoria né si interessa di principi universali, ma unicamente dell’eliminazione del dolore dall’esistenza umana, attraverso il conseguimento “prima” di una tranquillità che lo attenui e “poi” della sua definitiva cassazione col raggiungimento del nirvana. Per noi occidentali, eredi della tradizione speculativa greca, un primo approccio al Buddhismo non può che riservare un leggero sconcerto. Per noi “conoscenza” significa, in generale, una nozione che ci deriva da un’indagine oggettiva su un oggetto, la quale, sottoposta alle opportune verifiche, ci dice “che cosa esso è”, “perché è”, “come è”, ecc.  Nel Buddhismo (ma ciò vale in generale per molta filosofia orientale) una conoscenza di tal genere, alla quale  non sia immediatamente connessa e conseguenziale una regola d’azione, è considerata completamente oziosa. In un certo senso il Buddha ci ha dato, ventisei secoli fa, una sintesi di ciò che può essere una filosofia della prassi a livello individuale. È difficile non restare sorpresi nell’apprendere come venga sintetizzata la conoscenza del Buddha nelle parole del suo fedele e stimato allievo Sâriputto:

 

    Egli conosce, egli conosce, o fratello: perciò viene chiamato conoscente; e che cosa conosce? Conosce “Questo è il dolore”; conosce “Questa è l’origine del dolore”; conosce “Questo è l’annientamento del dolore”; “Questa è la via che mena all’annientamento del dolore”. Egli conosce, egli conosce o fratello: perciò viene chiamato conoscente. [40]

 

 

Conoscere pertanto la cosa, la sua origine, la possibilità di agire su di essa, la via per mettere in atto la sua eliminazione, è un’articolazione della conoscenza che culmina nell’azione risolutiva del problema posto dalla cosa stessa. Il dolore è “questa cosa”, che Siddharta pone a base del suo “conoscere”, ed è da ciò che fa derivare la via all “agire” che legittima il conoscere. Vedremo in seguito che la sintesi di Sâriputto si riferisce alle “quattro nobili verità”, che sono uno dei fondamenti della dottrina buddhista.

    Fatte queste anticipazioni, e nell’intento di riferirci (per quanto risulti possibile) alla predicazione originale di Siddharta dobbiamo precisare che temporalmente noi resteremo quindi per un verso aldiquà delle differenziazioni afferenti la diaspora buddhistica (e delle previe differenziazioni della dottrina primitiva) nei paesi extraindiani (riferibile agli ultimi secoli a.C.) e per altro verso presteremo attenzione a come esso (in chiave prevalentemente atea) abbia fatto breccia nella cultura occidentale moderna a partire dal XVIII secolo. L’operazione che ci siamo proposti è infatti quella di isolare il nucleo ateo del Buddhismo rispetto ai suoi posteriori sviluppi panteistici.[41] Operazione non troppo facile, poiché il Buddha (in sanscrito “il Risvegliato”) non ha lasciato nulla di scritto e le sue parabole e i suoi aforismi sono stati inizialmente trasmessi soltanto a voce e solo in seguito riportati da suoi seguaci per iscritto nel cosiddetto “Canone Pâli”, un complesso di testimonianze sul suo insegnamento, la cui veridicità si sottrae a qualsiasi verifica.

    Secondo una classificazione moderna, sono individuabili almeno tre scuole di pensiero relative a quello che viene chiamato “Piccolo Veicolo” e due scuole principali afferenti il “Grande Veicolo”, più altri sistemi “misti” e numerose filiazioni, tra le quali le più interessanti sono quelle cinesi e giapponesi. Il destino del Buddhismo rappresenta una di quelle straordinarie vicende storiche che non finiscono di stupire per la loro complessità. Sia nel suo grande successo iniziale in patria (dall’avvento del Buddha fino all’VIII secolo della nostra era) sia nella sua successiva eclissi sul suolo indiano a partire dall’XI secolo. Eclissi peraltro bilanciata dalla sua affermazione in diversi altri paesi dell’Asia (in alcuni dei quali sarebbe poi diventata religione di stato) e da una più tarda diffusione nella cultura occidentale. In questo ambito ha prodotto influenze importanti nella filosofia [42] e nella letteratura [43], dando anche luogo a comunità praticanti una religiosità spiritualistica alternativa (e per molti versi contraria) a quella cristiana, le quali contano oggi centinaia di migliaia di aderenti [44].

    Nel nostro tentativo di individuare il nucleo essenziale del Buddhismo primitivo  ci rifaremo quindi a quei testi che gli indologi ritengono più fedeli alla dottrina esposta da Siddharta Gautama, il quale aveva introdotto, a circa metà del primo millennio a.C., un insieme di dirompenti novità nel contesto della cultura indiana, sia sul piano filosofico, sia su quello esistenziale e sia su quello sociale. Prima del Buddha veniva presupposto un universo “reale”, costituito da sostanze eterne dalle quali desumere principi altrettanto eterni sulle origini e sulla realtà della molteplicità dell’essere del mondo. Di qui i postulati dell’esistenza di una materia, di uno spirito, di divinità, di anime, di corpi, ecc.  Il Buddha rompe con tutto ciò, fornendo l’immagine di un cosmo inconsistente e impermanente, pura apparenza fallace, nel quale solo le forze psichiche con cui possiamo accedere ad esso (e superarlo) sono reali, ma all’interno di una realtà generale che si estrinseca nella sofferenza infinita, a cui si può porre rimedio solo scegliendo la strada che porta al traguardo nirvanico. Nel Buddhismo tutto diventa transeunte, ed ogni aspetto del mondo si tramuta continuamente in un altro nel flusso di un inarrestabile divenire, dove tutto appare e svanisce in un’assoluta “impermanenza”. Le percezioni sensibili e i dati della coscienza (i dharmâ) sono gli unici elementi di riferimento; dietro di essi vi è il “vuoto” e nessuna sostanza che li supporti. Perciò i dharmâ “divengono” continuamente l’uno nell’altro, appaiono e spariscono, cause ed effetti ad un tempo. Essi sono tra loro interdipendenti e danno luogo ad un continuum inconsistente, determinato soltanto dal rapporto tra “stati” molteplici di un unico principio cosmico, sfuggente ed indefinibile. Ma non meno importante è la dirompente portata sociale di una dottrina che abolisce le differenze di casta, ben resa da questa lapidaria dichiarazione:

 

(136) Non  per nascita si è paria, non per nascita si è brâhmani: Per le azioni si è paria, per le azioni si è brahmani. [45]

 

    Il flusso dei dharmâ e il loro “nesso causale” è tutto ciò che ci è dato intuire della realtà; quindi noi riusciamo a cogliere il processo ma non gli elementi del processo stesso. Il Buddha si presenta come un medico dell’anima, il suo scopo è “guarire” dall’ignoranza e dal suo frutto più nefasto: la brama di vivere e di fruire dei frutti avvelenati che il mondo percepibile offre. Ignoranza superabile soltanto con la conoscenza, l’interiorizzazione e l’applicazione pratica di ciò che concerne le “quattro sublimi verità”. Lo Zimmer sintetizza il concetto-base del Buddhismo con queste parole: «Questa ignoranza è una funzione naturale del processo vitale, ma non è necessariamente ineliminabile; non più ineliminabile dell’innocenza di un bambino. Il problema è che noi non riconosciamo che ci stiamo muovendo in un mondo di semplici convenzioni, da cui sono determinati i nostri sentimenti, i nostri pensieri e i nostri atti. Noi crediamo che le nostre idee sulle cose rappresentino la realtà ultima e così rimaniamo intrappolati nelle maglie di una rete. Queste idee sono radicate nella nostra coscienza e nei nostri atteggiamenti; sono mere creazioni della mente; sono categorie convenzionali, modi involontari di vedere, di giudicare e di comportarsi; tuttavia la nostra ignoranza le accetta senza remore, senza dubbi, considerando esse e i loro contenuti come dati di fatto. Questa concezione errata della vera essenza della realtà è la causa di tutte le sofferenze che colpiscono le nostre esistenze. » [46]  È infatti il dolore l’onnipervadente dominatore del mondo e dell’esistere e all’eliminazione di esso tende tutta la dottrina di Siddharta Gautama.

    Avevamo già visto nel Samkhya e nel Giainismo che il problema posto era quello di liberarsi dall’ignoranza, ma qui abbiamo una ulteriore radicalizzazione concettuale dove l’ignoranza diventa un “sonno” della conoscenza da cui ci si deve “risvegliare”. Se non c’è risveglio si continua avenire illusi da una realtà che non esiste e che ci fa rimanere vittime del dolore, mostro vero di una falsa illusione, la cui tragica presenza affligge tutto ciò che vive e si dibatte inutilmente tra le sue spire. Precisa ancora lo Zimmer circa questa “illusione”: «Le tragedie e le commedie in cui siamo coinvolti, che creiamo noi stessi e in cui non agiamo, si sviluppano automaticamente dalla nostra condizione di ignoranza, la quale genera nel mondo sensazioni e concetti limitati. I desideri e le aspettative inconsce, che nascono in noi sotto forma di decisioni e di atti soggettivi, trascendono in realtà i limiti del presente, infatti, sono determinati dal passato e decidono del nostro futuro. Ereditati dalle precedenti esistenze, essi determinano le future nascite, il flusso ininterrotto della vita in cui siamo trascinati, ben al di là dei limiti della nascita e della morte di ciascun individuo. In altri termini, le malattie non possono essere viste come errori individuali; esse sono radicate  nel sistema di vita a cui si attiene comunemente il genere umano, che è mosso da un insieme patologico di desideri insoddisfatti, di brame vessatorie, di paure, di rimpianti e di pene.» [47]  Ma come guarire da questa malattia esistenziale? Innanzitutto cominciando col conoscere le “Quattro nobili verità”, le quali recitano: 1) Tutta la vita è sofferenza, 2) La causa della sofferenza è il desiderio che nasce dall’ignoranza, 3) È possibile eliminare la sofferenza, 4) La via è il Nobile Ottuplice Sentiero. 

    Leggiamo allora in che cosa consista L’Ottuplice Sentiero in questa esortazione esemplare:

 

    Questa, o monaci, la nobile verità sul dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che si ama è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore. Dolore è non raggiungere ciò che si desidera. I cinque legami (skandha) sono dolore. Questa, o monaci, la nobile verità sull’origine del dolore: la bramosia che si rinnova ad ogni rinascita, la ricerca del piacere delle cose terrene e l’avidità, la bramosia del divenire e dell’essere, la bramosia dell’impermanenza. Questa, o monaci, la nobile verità sull’origine del dolore: l’eliminazione della bramosia attraverso l’annullamento dei desideri, la rinuncia totale al desiderio, il distacco assoluto da tutto ciò che si desidera. Questa, o monaci, la nobile verità sulla cessazione del dolore: il nobile ottuplice sentiero – retta visione, retta risoluzione, retto parlare, retto agire, retto modo di sostentarsi, retto sforzo, retta concentrazione, retta meditazione. [48]  

 

Incontriamo qui un elemento da sottolineare, al fine di evitare fraintendimenti nel prosieguo di questa nostra analisi. L’indirizzo ai “monaci” e gli obbiettivi di “santificazione” ricorrenti  nei testi buddhisti  vanno letti “entro” la dottrina stessa e non riferiti ai significati che nel mondo occidentale pertengono a questi sostantivi, cioè il loro esclusivo riferimento alla religione. In un contesto, quello indiano, dove tutta la cultura tende e ha teso in passato sempre a fini in qualche modo “religiosi” non deve stupire se il Buddha nei suoi indirizzi e nei suoi proclami usi un linguaggio di questo tipo. In realtà i “monaci” sono coloro che si dedicano alla meditazione e che procedono in un cammino verso la conoscenza, destinato a culminare nello stato nirvanico (quale abbandono definitivo del samsâra) che è appunto una condizione di “santità”. Ma questa santità non è un’approssimarsi a qualche entità divina, bensì la condizione di beatitudine che corrisponde al nirvana (nibbâna in Pâli). Il processo che ad esso porta è in realtà soltanto una “tecnica” ascetica, che mira pragmaticamente al conseguimento utilitaristico di una condizione privilegiata per l’individuo che la pratica, e che non possiede quindi alcuna connotazione religiosa.  In un certo senso nel Buddhismo il monachesimo è strumentale, in quanto la condizione del monaco (bhikkhu) e la sua ascesi conoscitiva sono gli “strumenti” pratici per liberarsi dal dolore e dal samsâra, non facendo riferimento ad alcunché che trascenda questo fine pratico.

    Vediamo ora nel dettaglio gli aspetti salienti della dottrina buddhista. Cominceremo con quella che qualcuno chiama “dottrina dei dharmâ”, ovvero degli “elementi” della realtà, tenendo conto che Siddharta sembra che non sia mai stato molto preciso su tale argomento, ancorché la tradizione attribuisca unanimamente a lui stesso la formulazione di essa. I dharmâ (dhammâ in Pâli) possono essere considerati gli elementi o i fattori del divenire cosmico, che si presentano come i punti che si susseguono e scompaiono entro la linea continua di un “flusso” che non ha inizio né fine. Nel Dhammapada si trova uno dei rari accenni ai dharmâ sotto il termine di “elementi”:

 

    (1) Gli elementi sono predeterminati dai pensieri, sono cumuli di pensieri, sono fatti di pensieri. Se un uomo oscuramente parla od agisce, il dolore lo segue, come la ruota segue il piede di chi la tira. (2) Gli elementi sono predeterminati dai pensieri, sono cumuli di pensieri, sono fatti di pensieri. Se un uomo oscuramente parla od agisce, la gioia lo segue, come ombra che non abbandona. [49]

   

Il traduttore delle due strofe (Eugenio Frola) sottolinea e commenta: «[…] si tratta di una proposizione chiave per la comprensione del buddhismo: l’influenza dei pensieri sugli elementi. […] Dhamma […] sta nel linguaggio tecnico buddhista a semantizzare ciò che sostiene una qualsiasi esperienza, cioè è l’oggetto dell’esperienza, nel mondo oggettivo, e l’idea, il concetto che nel mondo soggettivo sorge dall’esperienza stessa, ricondizionandola in seconda istanza, e che, per effetto di questo ricondizionamento, ne è nuova base. […] dunque dhamma è ciò che il pensiero pensa e contemporaneamente ciò che è predeterminato, accumulato, fatto dal pensiero. [50]  » In altre parole e semplificando il discorso (a correzione di una sintassi piuttosto discutibile): reale è soltanto il pensiero, ma di questo pensiero nulla rimane se non un’inconsistente fluire e trapassare in altro in un continuum senza sosta. Sembrerebbe a prima vista di essere caduti in una sorta di mentalismo immaterialistico di tipo berkeleyano, soltanto che le idee per Berkeley erano gli elementi concreti, le “sostanze”, in cui si manifesta lo spirito divino, mentre per Siddharta i pensieri sono fusi col loro oggetto; i dharmâ non sono altro che elementi materiali-immateriali  fuggevoli di un mondo apparente e impermanente: una pura illusione che è solo fonte di ignoranza e dolore. Questa corrispondenza, tutta giocata nell’assoluta impermanenza, tra il fenomeno della percezione-pensiero da parte di un percipiente-pensante e l’oggetto che lo produce (a sua volta fenomeno passeggero) genera una sorta di falsa e fugace identità, in cui l’individuo è un aggregato di dharmâ in rapporto con un insieme di dharmâ antropici che lo concernono. Questi non sono altro che una parte della totalità dei dharmâ, ma sono quelli che interessano ogni uomo ai fini del superamento dell’ignoranza-dolore e per consentirgli di poter accedere alla conoscenza dell’Ottuplice Sentiero; iniziando così il suo cammino verso il nirvâna.

    Dal mondo, secondo il Buddha, bisogna allora prendere le distanze e valutarlo per quel che è:

 

(170) Non indulgere a bassa dottrina, non vivere senza vigilanza, non indulgere a falsa opinione, non compiacerti del mondo […]

(170) Vedi, simile ad un bubbone, vedi, simile ad un inganno, è il mondo: chi così vede scompare al re della morte.

(171) Orsù vedete: il mondo è simile ad un variopinto carro regale. Gli stolti da lui sono travolti, il sapiente rimane indenne. [51]

 

E ancora:

 

(937) Il mondo è del tutto insustanziale, tutte le sue parti sono in continua agitazione, cercando per me un rifugio, non ne trovai alcuno in cui si potesse dimorare.

(938) Vedendo così quegli avversi destini, nacque in me il disgusto; ed io scorsi allora l’occulta freccia infissa nel cuore.

(930) Colui che colpito da quella freccia corre qua e là per ogni dove, ma, una volta estratta la freccia, non erra più, ma si acquieta. [52]

 

    La metafora della freccia torna in un lungo apologo che si sviluppa attraverso una serie di strofe quasi identiche, più volte ripetute, che rafforzano la tesi attraverso la minima variazione della frase iniziale (procedimento assai frequente nel Canone Pâli):

 

    Così come quasi, Mâlunkyâputto, se un uomo fosse colpito con una freccia dalla punta spalmata di veleno; ed i suoi amici e compagni, parenti e congiunti gli procurassero un medico chirurgo; egli però dicesse: «Non voglio far estrarre questa freccia, prima che io sappia che uomo mi ha colpito: se un guerriero o sacerdote o borghese o servo»; e dicesse: «Non voglio far estrarre questa freccia, prima che io sappia che uomo mi ha colpito: di che nome, di che gente»; e dicesse: «Non voglio [...] se alto o basso o medio»; e dicesse: «Non voglio [...] se alto o basso o medio»; «[…] se nero o bruno o giallo di pelle»; «[…] di quale villaggio o borgata o città abitante egli sia»;  «[…] che arco mi ha colpito: se il piccolo o il grande;«[…] che corda mi ha colpito: se di fune o filo o tendine o cordone o minugia»; «[…] che saetta mi ha colpito: se di canna o di giunco»; «[…] che saetta mi ha colpito, di che penne fornita : se di avvoltoio o di airone o di corvo o di pavone o di beccaccia»; «[…] che saetta mi ha colpito, di che cuoio guarnita: se di bue o di bufalo o di cervo o di leone»; «[…] che cuspide mi ha colpito, di che forma: se diritta o curva od uncinata od attorcigliata o a forma di dente di vaccina o di foglia d’oleandro»; non riuscirebbe, Mâlunkyâputto, quell’uomo a saperne abbastanza, che prima egli se ne morrebbe.

    Or è così anche appunto, Mâlunkyâputto, come se uno dicesse così: «Io non menerò vita religiosa presso il Sublime, prima che il Sublime mi abbia partecipato, se il mondo è eterno o non eterno, se il mondo è finito o infinito, se vita e corpo sono lo stesso od altro è la vita ed altro il corpo, se il Compiuto esiste o non esiste, od esiste o non esiste, o non esiste né non esiste dopo la morte»: non giungerebbe, Mâlunkyâputto, il Compiuto a partecipargli abbastanza, che quegli se ne morrebbe. […]

 

L’apologo prosegue ancora su questo tono fino alla chiusa:

 

[…] E che cosa è stato, Mâlunkyâputto, da me partecipato? «Questo è il dolore», Mâlunkyâputto, è stato da me partecipato «questa è l’origine del dolore», […] «questo è l’annientamento del dolore», […] «questa è la via che mena all’annientamento del dolore», è stato da me partecipato: E perché questo, Mâlunkyâputto, è stato da me partecipato? Perché questo, Mâlunkyâputto, è salutare, questo è arciascetico, questo mena al disgusto, al distacco, all’annientamento, all’acquetamento, alla contemplazione, al risveglio, all’estinzione: perciò questo è stato da me partecipato. [53]

 

L’ascesi buddhistica in questo passo si rivela per quel che è: non ascesi verso il divino o il trascendente, non un impresa etica a gloria o a beneficio di qualcuno, ma semplicemente un’operazione utilitaria ed egoistica, che non ha altro fine che portare il soggetto all’annientamento del dolore. Ma l’annientamento del dolore, che coincide col nirvâna, non è altro che l’ultimo stadio di un percorso lungo e difficile, che passa attraverso il superamento dell’ignoranza e la distruzione del desiderio. Infatti:

 

(865) Nel desiderio hanno origine le passioni di questo mondo e le brame che in questo mondo sono diffuse; qui si fondano la speranza e l’attesa di uno stato futuro da parte dell’uomo.

(866) E in che cosa ha origine nel mondo il desiderio? Da che cosa sorgono tanti giudizi? E l’ira, la menzogna, il dubbio, e tutte quelle altre cose di cui l’asceta ha parlato?

(867) In ciò che nel mondo chiamano piacevole e spiacevole ha origine il desiderio; vedendo il nascere e il dissolversi delle forme, l’uomo formula dei giudizi sul mondo. [54]

 

Il superamento del desiderio, di ciò che distingue tra il piacevole da conseguire e lo spiacevole da fuggire, è condizione indispensabile per uscire dal circolo vizioso della sofferenza. Non è difficile cogliere qui lo stretto rapporto esistente mutatis mutandis tra l’etica epicurea e quella buddhistica, tra la riduzione del desiderio in Epicuro al fine di raggiungere l’aponia e il suo annientamento in Siddharta per conseguire il nirvana. Ma neanche qui, quantunque si parli di vita monastica, di ascesi, di allontanamento dal mondo, non vi è nulla in comune con i corrispondenti termini del mondo delle religioni. Così Siddharta censura l’autoflagellazione (talvolta masochistica) dei religiosi, da cui prende decisamente le distanze:

 

[…] Egli porta camicie di canape e di canovaccio, vesti tolte ai cadaveri, fatte di stracci rappezzati, di cortecce ricucite, di pelli imbastite, di erbe impagliate; si veste di scorze e di foglie […] Egli si strappa capelli e barba, è dedito all’esercizio di strapparsi capelli e barba; è un sempre alzato, rigetta sedile e giaciglio; è un accovacciato, segue l’esercizio degli accovacciati; è un coricato su spine, si corica sopra un letto di spine; si bagna ogni sera tre volte, è dedito all’esercizio dei bagni di purificazione: così egli è dedito in diversi modi alla fervida, dolorosa ascesi del corpo. Questo si chiama, sacerdote, tipo tormentatore di se stesso, dedito all’esercizio del tormento di se stesso. [55]

 

 L’etica del sacrificio è del tutto assente nel buddhismo, il conto che viene proposto per l’emancipazione può magari apparire salato, ma deve sempre tornare in convenienza; il rapporto costi/benefici è sempre a favore del secondo termine. Se l’asceta cristiano rinuncia al mondo lo fa per amor di Dio, quello buddhista lo fa per amore di se stesso. Anche in questo si può coglier il sostanziale ateismo del Buddha, per il quale anche “l’annientamento dell’Io” non è l’ascesi verso un’entità trascendente, ma una “tecnica” pratica operata nell’immanenza e a solo vantaggio di chi lo persegue:

 

E come, voi monaci, diviene il monaco santo, sbandato, scaricato, distaccato. Dal monaco, o monaci, la vanità dell’Io viene rinnegata, stroncata dalle radici, fatta simile a ceppo di palma, così che essa non può più germinare, non può più svilupparsi. Così, o monaci, il monaco diviene santo, sbandato, scaricato, distaccato. [56] 

 

Ma qui il monaco santo è soltanto uno che ha imparato la giusta strada verso la liberazione dall’ignoranza di ciò che può dargli pace e serenità e da cui il senso dell’individualità contribuisce a tenerlo lontano. E la “santità” non è altro che l’emancipazione dalla soggezione al dolore, il quale, anzi fargli raggiungere il nirvana gli consente comunque di conseguire tranquillità e serenità:

 

(848) Qual è la visione, quale la condotta di colui che ha conseguito la calma? Illustrami o Gotamo, ti prego, il tipo dell’uomo superiore.

(849) Colui che si è reso libero dalla sete prima della propria dissoluzione – disse il Sublime – che si è emancipato prima della sua fine, che non è condizionato dal presente, quegli non ha alcuna predilezione. […]

(856) Colui il quale non ha esigenze, che si è emancipato per aver compreso la Dottrina, che non ha sete né di esistenza né di non esistenza,

(857) quello io chiamo acquietato, indifferente ai piaceri; in lui non vi sono impedimenti, egli ha superato l’attaccamento. [57]

 

Già l “attaccamento”! Un impedimento che tra altri tiene lontani da una serenità di vita conseguibile subito, come primo tornaconto dell’agire verso l’autosufficienza:

 

    Allora, amico Channo, tu puoi tenere ferma in mente anche questa istruzione del Sublime: «Chi è attaccato si agita, chi non è attaccato non si agita; non essendo agitati, si è calmi; essendo calmi, non ci si inclina; non inclinandosi, non si viene e non si va; non venendo e non andando, non si appare e non si dispare; non apparendo e non disparendo, non v’è più un di qua, né un di là, né un trapasso tra entrambi: è proprio la fine del dolore». [58]

 

L’attaccamento (a ciò che appaga i sensi, la compiacenza dell’individualità, il desiderio di  possedere, ecc.) va estirpato, poiché:

 

Or così anche appunto, Sunakkhatto, se un monaco invero fa la guardia alle sei sedi dei sensi e, sapendo che l’attaccamento è radice di dolore, senza più attaccarsi s’è redento nella fine dell’attaccamento: che egli faccia riconnettere il corpo all’attaccamento o faccia ripalpitare il cuore: questo caso non si dà. [59]

 

Anche l’amore (la forma più ricorrente di “palpitamento del cuore”) si oppone all’emancipazione:

 

   Così è, brahmano; così è brahmano! Ciò che s’ama dà affanno, tormento, dolore, tristezza e disperazione; che vengono dall’amore: Si deve però, brahmano, secondo i casi intendere: come ciò che s’ama dia affanno, tormento, dolore, tristezza e disperazione; che vengono dall’amore. [60]

 

Si deve “secondo i casi intendere”, ma una cosa è fuori discussione, “agire”, nel senso della dottrina di Gautama, significa mettersi nelle condizioni di “non reagire” agli stimoli karmici, ovvero diventare indifferenti a tutto ciò che può turbare e distogliere dal cammino intrapreso. E questa l’indifferenza estrema ed ideale porta il nome di “estinzione”:

 

    Ecco che un monaco, re degli dei, ha sentito: “Nessuna cosa vale la pena”. Quando il monaco, re degli dei, ha sentito questo “Nessuna cosa vale la pena”, allora egli considera ogni cosa; e quando ha considerato ogni cosa, allora egli comprende ogni cosa; e quando ha compreso ogni cosa e poi prova qualche sensazione, lieta o triste o né lieta né triste, allora egli osserva in queste sensazioni le leggi della caducità, della distruzione, della dissoluzione, dell’alienazione; e mentre in queste sensazioni osserva le leggi della caducità, della distruzione, della dissoluzione, dell’alienazione, egli non aderisce a nessuna cosa al mondo; non aderendo a nessuna cosa al mondo egli non trema; non tremando egli raggiunge appunto la propria estinzione. [61]

 

All’estinzione sono dedicati innumerevoli passi della letteratura proto-buddhistica, ma abbiamo citato questo perché contiene un dettaglio non irrilevante per il nostro tema. Il monaco che ha raggiunto l’estinzione diventa anch’egli un “compiuto” (il Buddha viene spesso citato come Compiuto) e in quanto tale diviene “re degli dèi”. Tale arroganza blasfema è del tutto assente nelle parole degli atomisti ellenici, che pure riducono la divinità a una pura eccellenza ideale, quasi a una pura qualità che può interessare ogni uomo che sia capace di raggiungerla. Qui Gautama è andato molto oltre, e che non si tratti di un caso lo testimonia il passo seguente dove la blasfemia non è più soltanto generica, ma indirizzata al dio della creazione Brahmâ: 

 

[…] La natura, Brahmâ, gli dei, il signore della generazione, il Brahmâ, gli splendenti, i raggianti, i possenti, gli ultrapossenti, il tutto, Brahmâ, io ho riconosciuto come tutto, come inappagante è la totalità del tutto: ciò che io ho riconosciuto, e ho rinunziato al tutto, abdicato al tutto, mi sono staccato dal tutto, ho rinnegato il tutto, disprezzato il tutto: E con ciò, Brahmâ, non solo ti sono eguale in conoscenza, taccio che non sto sotto di te, ma ti sono di gran lunga superiore. [62]

 

Risulta abbastanza evidente come il colloquio di Siddharta Gautama con Brahmâ è giocato sul riconoscergli da un lato ciò che la tradizione gli attribuisce, la creazione del mondo, insieme con l’onnipotenza e l’onniscienza che ne sono all’origine, ma nello stesso tempo Brahmâ fa parte di quel “tutto” che egli ha riconosciuto, rinnegato e disprezzato. Per questo motivo egli (come uomo “risvegliato”) può dire al sommo dio «io ti sono di gran lunga superiore». Ma la dichiarazione è puramente retorica, poiché il dio creatore, insieme a ogni altro dio, è inconsistente come lo è il mondo che esso avrebbe creato.

    Dobbiamo ora fare un passo indietro e riprendere il discorso più propriamente teorico, riallacciandoci a quanto avevamo detto dei dharmâ per metterli in relazione alla fonte di essi, che è evidentemente da ricercare nella mente del soggetto, ma, come abbiamo già visto, questa è in un certo senso soltanto una faccia del dharma stesso, mentre l'altra faccia è quella “cosmica”, esterna al soggetto. Questo tipo di identificazione tra percipiente e percepito è tipico del Buddhismo, nel quale si identifica anche l’organo e la sua funzione relativamente alle sei sedi dei sensi dove abbiamo 1) occhio-vista, 2) orecchio-udito, 3) naso-olfatto, 4) lingua-gusto, 5) senso del tatto-azione del tatto, 6) mente-pensiero. L’annullamento di questa “sestupla sede” (dei sensi) si consegue con l’Ottuplice Sentiero; ciò secondo la seguente argomentazione del già citato Sâriputto (articolata su una serie di passaggi ripetitivi di cui ne riportiamo un paio):

 

    Ma che è, fratelli, la sete di vivere, che è l’origine della sete di vivere, che è l’annientamento della sete di vivere? Sei specie di sete di vivere o fratelli, vi sono: la sete delle forme, la sete dei suoni, la sete degli odori, la sete dei sapori, la sete dei contatti, la sete delle cose. L’origine della sensazione determina la sete di vivere, l’annientamento della sensazione determina l’annientamento della sete di vivere. Ma questa è la via che mena all’annientamento della sete di vivere, il santo sentiero ottopartito, cioè: retta cognizione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento. [63]  […]

    E inoltre ancora, o fratelli: se il santo uditore conosce la sestupla sede e l’origine della sestupla sede, conosce l’annientamento della sestupla sede, e la via, che mena all’annientamento della sestupla sede, egli ha pertanto, o fratelli, la retta cognizione, la sua cognizione è giusta, il suo amore alla dottrina provato, egli appartiene a questa nobile dottrina, Ma che è, fratelli, la sestupla sede, che è l’origine della sestupla sede, che è la via che mena all’annientamento della sestupla sede? Sei sedi dei sensi, o fratelli, vi sono: la sede del senso della vista, la sede del senso dell’udito, la sede del senso dell’olfatto, la sede del senso del gusto, la sede del senso del tatto, la sede del senso del pensiero. L’origine di immagine e concetto determina l’oggetto della sestupla sede, l’annientamento di immagine e concetto determina l’annientamento della sestupla sede. Ma questa è la via, che mena all’annientamento della sestupla sede, il santo sentiero ottopartito, cioè: retta cognizione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retta vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento. [64]

 

Nel discorso completo (collo stile ripetitivo e ridondante che già conosciamo) vengono definiti e oggettivati vari fenomeni umani di cui liberarsi ed il procedimento liberatorio per conseguire tale risultato. Da un lato abbiamo quindi i fenomeni negativi da annullare, dall’altra gli stadi della via che da essi ci libera; dei primi è attore l’individuo “negativo”, degli altri l’individuo “positivo”. Già, ma tra attore ed atto dove sta l’individuo reale che si rende protagonista del processo? La domanda rimane senza risposta. Ed infatti in questo paradossale fenomenismo (difficilmente assimilabile per il nostro “occidentale” modo di pensare) sta tutto il senso della dottrina buddhistica, dove ogni fenomeno è reale soltanto nel suo divenire e mai in una sua essenza, senza quindi che sia possibile individuare un soggetto che in un determinato momento o luogo “sia” e “si determini”. In altre parole: è il divenire che determina un individuo (le sue percezioni, i suoi pensieri, i suoi comportamenti), il quale però alla fin fine non esiste in quanto individualità. Infatti, soltanto nella misura in cui viene eliminato ciò che è imputabile all’individualità, sorge allora un positivo procedere verso il nirvâna, quale unica realtà cosmica permanente. L’individuo in quanto tale “non esiste”, ma si avvia sulla strada del raggiungimento di qualcosa “che esiste” nella misura in cui riesce progressivamente a spogliarsi di una falsa e falsificante sensazione di individualità da cui è affetto.

    Veniamo ora al secondo pilastro teorico del Buddhismo antico: la teoria degli skandhâ (khandâ in pâli), spesso tradotti con “aggregati” [65]. Si tratta di cinque aspetti della persona umana che ne sintetizzano il suo “funzionamento” e che potremmo pertanto chiamare anche “aggregati funzionali”. Essi sono: 1) corpo, corporeità sensoriale (rûpa), 2) sensazione (vedanâ), 3) percezione (sanjnâ), 4) impulsi (sanskarâ), 5) coscienza (vijnâna). Ogni skanda è connesso agli altri, per cui la coscienza è nel corpo come questo è in quella.  Essi sono visti come una sorta di recettori dharmici, in quanto ognuno dei cinque skandhâ funziona in rapporto a una serie di dharmâ di riferimento che lo determina. La teoria degli skandhâ si lega allora a quella dei dharmâ, nel senso che il rûpa-skandha (il corpo) ha in sé i dharmâ terra, acqua, fuoco e aria, il vedanâ-skandha (la sensazione) comprende le sue cause dharmiche, il sanjnâ-skandha (la percezione) i dharmâ elementari che sostituiscono i suoi oggetti, il sanskâra-skandha  (impulsi e condizionamenti) comprendono i dharmâ che riguardano le attività vitali, le condizioni biologiche, genetiche, ambientali, ecc., il vijnâna-skandha (la coscienza) è in rapporto dharmico con gli altri quattro a con le loro interrelazioni.

   Ma se il primo e il secondo pilastro della dottrina buddhistica sono interdipendenti così lo è il terzo con essi; la legge del “nesso causale”, il pratîtya-samutpada(paticca samuppâda in pâli)[66], si lega direttamente sia alla teoria dharmica e sia a quella degli “aggregati” umani, in un certo senso completandole e legittimandole. Esso è, a ben vedere, il momento analitico delle Quattro Nobili Verità, èd è espresso canonicamente da una serie di dodici elementi concatenati, sì da fa pensare ad una metaforica catena di anelli relativi ad altrettante situazioni esistenziali. In realtà i dodici anelli potrebbero anche essere interpretati non già come una catena lineare, quanto piuttosto come una catena circolare [67], infatti il dodicesimo anello (vecchiaia e morte), quale massimo male assoluto, si collega al primo (l’ignoranza), in quanto malattia primaria dell’uomo. In diversi luoghi del Canone si esemplifica il pratîtya-samutpada (in qualche caso anche con meno di dodici elementi, ma col medesimo significato) in modo sostanzialmente ripetuto e costante. Vediamolo nella formulazione che ne dà il Glasenapp (riportando in nota varianti di altri autori): 

 

1)    l’avidyâ, il non conoscere la verità: da essa scaturiscono:

2)    i sanskarâ, quali impulsi [68]che danno forma al karma. Da essi proviene:

3)    vijnâna, una coscienza che è il nucleo dell’essere individuale. Da essa nasce:

4)    nâma-rûpa, nome e corporeità: cioè l’individualità di un essere spirituale e corporeo al tempo stesso, che si forma nel grembo materno. E dall’individualità:

5)    shad-âyatana, la sestuplicità dei sensi (i fondamenti dl vedere, udire, gustare, toccare, pensare ricettivamente). Dai sensi nasce:

6)    sparsha, il contatto, ovvero lo stimolo sensorio prodotto dal contatto col mondo esterno. Dal contatto scaturisce:

7)    vedanâ, la sensibilità [69]. Da qui nasce:

8)    trishnâ, la sete, la brama, da cui proviene:

9)    upâdâna, l’attaccamento alla vita, cioè una sete divenuta cronica attraverso l’abitudine. Dall’attaccamento alla vita nasce:                                                                                                                                             

   10) bhava, il divenire karmico, il presupposto d’una nuova esistenza. Dal divenire                                                     karmico proviene:

   11) jâti, una (nuova) nascita. Da essa scaturisce:

   12) jarâ-marana, l’invecchiare e il morire.

 

Secondo il Glasenapp lo schema intende rispondere alla domanda fondamentale che ogni uomo si pone: «Perché divento vecchio. Perché devo morire?». La risposta è: «Perché sei nato!», tale nascita deriva dal divenire karmico di un’esistenza precedente. Ma a monte di ciò sta la volontà di vivere (l’attaccamento) e a monte ancora il desiderio, le sensazioni, ecc. Via via si risale così (per nesso causale) sino alla causa ultima e manifesta del doloroso divenire: “il non conoscere la verità” (l’avidyâ) [70]. Rileva inoltre lo studioso tedesco che tutta l’argomentazione risponde ad un modo di pensare completamente estraneo alla nostra logica occidentale, in quanto, nella formula del “nesso casuale”, non viene fatta alcuna differenza tra sostanze, qualità, processi, cause materiali e situazioni psichiche. Tali fattori eterogenei sono quindi concatenati con una certa arbitrarietà, come se fossero delle realtà concrete che sorgono l’una dall’altra per interdipendenza funzionale. [71]

    La tradizione buddhista ha suddiviso i dodici punti del pratîtya-samutpada in tre tronconi temporali, dove il primo e il secondo punto (avidyâ e sanskarâ) si riferiscono al passato, dal terzo al decimo (vijnâna, nâma-rûpa, shad-âyatana, sparsha, vedanâ, trishnâ, upâdâna, bhava) al presente, l’undicesimo e il dodicesimo (jâti e jarâ-marana) all’avvenire. In questo modo il presente, ovvero l’individuo di riferimento, diventa il collegamento karmico (e quindi samsarico) tra un’esistenza precedente (a sua volta collegante un precedente e un susseguente propri) e una posteriore (che istituirà a sua volta un analogo collegamento). Il pratîtya-samutpada quindi, oltre al significato primario di esemplificazione del nesso causale, ne porta uno secondario relativo all’infinita catena samsarica. Ad essa sono condannati gli individui che non scoprono mai la propria ignoranza (legata al senso dell’individualità e alla non-conoscenza delle Quattro Nobili Verità) e delinea quindi una funesta ripetizione dall’errore esistenziale dell’uomo “non risvegliato”, che si rivela incapace di uscire dal sansâra e si autocondanna a perpetuare la catena della sofferenza.  

    A questo punto possiamo tentare una sintesi della nostra ricerca e delineare alcuni aspetti principali del Buddhismo coerenti col punto di vista ateistico. Alla base del sistema stanno le Quattro Nobili Verità, ovvero la consapevolezza che l’esistenza umana è dominata dal dolore e ciò perché l’uomo è schiavo del desiderio di realizzarsi e appagarsi come individualità (come un Io determinato). Bisogna pertanto eliminare tale desiderio perché la soggiacenza al dolore possa finire e tale eliminazione è possibile attraverso l’Ottuplice Sentiero. Abbiamo qui un punto cardine di tutta la teorizzazione buddhista, consistente in una radicale e inappellabile condanna del senso dell’individualità, che è invece un generale fondamento della concezione dell’uomo nella filosofia occidentale ed anche in buona parte della stessa filosofia indiana (Vedismo, Sânkhya, Giainismo, Nyâya-Vaishesika, ecc.). Ciò comporta anche la negazione dell’anima in ogni sua forma, ma quel che è più importante che Gautama non si limita a negare l’anima individuale, ma anche quella cosmica (l’âtman che coincide col brâhman nell “uno-tutto” onnicomprensivo). Non esiste una anima cosmica eterna perché di eterno non vi è assolutamente nulla; l’unico fenomeno “reale” è quel continuo divenire che nullifica e distrugge ogni realtà particolare, trasformandola continuamente in qualcos’altro destinato a scomparire a sua volta. Il Buddhismo si presenta pertanto come una sorta di fenomenismo assoluto, dove ci sono soltanto false apparenze che si susseguono annullandosi a vicenda nella relazione che le connota e nello stesso tempo le distrugge.

    Il divenire buddhista si esplicita nella dottrina dei dharmâ e riceve una formulazione esemplare nel formulazione dei dodici stadi del “nesso causale” (il pratîtya-samutpâda). In esso viene esemplificato il divenire dell’uomo in una forma universale che vale anche per il divenire dl cosmo nella sua totalità. Il Buddha è reticente su molti punti concernenti il cosmo in generale, poiché esso è presupposto “analogo” all’uomo, che diventa quindi modello microscopico della totalità macroscopica. L’uomo, in quanto costituito da un flusso flusso di dharmâ (elementi cosmici), fa da paradigma di ogni fenomeno esistente nel cosmo e del cosmo stesso nel suo insieme. L’io, infatti, e un non-sé (anattâ) che riflette il non-sé generale, il quale presenta i caratteri dell’assoluta impermanenza (anicca) nel flusso del divenire. L’io si manifesta come coscienza (il quinto skanda) e questa non è che uno dei cinque “aggregati” che costituiscono l’uomo. Ma questi skandâ, come abbiamo già visto, contengono gli stessi elementi (gli stessi dharmâ) che compongono l’universo nella sua complessità. L’uomo è così emblematico di ciò che è realmente l’universo che lo spazio (âkâsha) e il tempo (kâla) si presentano (alla coscienza individuale invischiata nell’ignoranza) come la cornice in cui si inseriscono gli oggetti di desiderio, quali coordinate estensive della brama di vita e di possesso che condannano l’uomo a rimanere immerso (se non “si risveglia”) nell’irrimediabile fluire della sofferenza.

   Abbiamo cercato di delineare il nucleo teorico più propriamente ateo del Buddhismo originario. Va detto tuttavia che il Buddha (analogamente a quanto farà Epicuro in ambito greco) non elimina del tutto gli dèi (i devâ) dalla sua weltanschauung, ciò che egli elimina è la “divinità”, in quanto eternità, onniscienza e onnipotenza. I devâ buddhisti sono soggetti al samsâra né più né meno degli uomini [72] e si trovano nella più totale incapacità di liberarsene. È in questo senso che il Buddha può dire al dio della creazione: « E con ciò, Brahmâ, non solo ti sono eguale in conoscenza, taccio che non sto sotto di te, ma ti sono di gran lunga superiore.». E Gautama può usare questo tono perché ha fatto ciò che nessun dio è stato in grado di fare: insegnare all’umanità la strada del nirvâna, la sola che può liberarla dal dolore e dalla condanna samsarica.

    Abbiamo dedicato al Buddhismo maggior spazio rispetto agli altri sistemi orientali che si presentano come atei in quanto maggiore è la documentazione su di esso e maggiore è stato il suo impatto sul pensiero occidentale. Una prima ragione di ciò può consistere nel fatto che si tratta di una filosofia salvifica di tipo universalistico, che prescinde dal mondo indiano ed anzi ne condanna le stratificazioni castali. Per Siddharta tutti gli uomini sono uguali e tutti condannati all’ignoranza; nonché ad affannarsi e a soffrire fino alla morte, dando luogo (attraverso la procreazione) a nuove esistenze condannate a loro volta all’ignoranza e al dolore. Egli indica quindi il vero ed unico “universale” rimedio nella rinuncia alla propria falsa individualità e nel cammino verso il nirvâna. La seconda ragione potrebbe consistere nel fatto che il Buddha affronta temi antropologici ed etici comuni anche alle filosofie occidentali a carattere esistenzialistico. Non è tuttavia un caso che gli influssi del buddismo si riscontrino principalmente nel pensiero irrazionalistico, sia esso filosofico o psicanalitico, poiché la filosofia buddhista si appoggia ad una logica anomala, che si legittima soltanto all’interno del sistema nel suo complesso. D’altra parte è evidente che la filosofia del Buddhismo si presenta più come prassi che come speculazione, e che ciò che vi è di teorico non è fine a se stesso, ma indirizzato al completamento e all’affinamento della prassi.

    Si sarà notato che all’aspetto soteriologico del Buddhismo, che ne rimane comunque prerogativa fondamentale, non abbiamo dedicato grande attenzione; ciò perché è quello che ci interessa meno dal punto di vista filosofico, in quanto è l’elemento che configura e definisce il Buddhismo come una religione. Non è un caso infatti che chiunque lo assuma come tale trascuri spesso gli elementi teoretici che noi abbiamo invece evidenziato. Questi infatti si sofferma principalmente sugli aspetti soteriologici, proprio per acquisire quegli elementi che concernono la prassi salvifica. La nostra analisi potrebbe persino essere considerata carente (se non addirittura sviante), infatti noi non abbiamo analizzato il Buddhismo, come d’altra parte anche il Samkhya o il Giainismo sotto il profilo della prassi salvifica ma unicamente sotto quello della speculazione sulla struttura del mondo e dell’esistenza umana. Si potrebbe persino pensare che noi abbiamo tradito lo spirito dei sistemi filosofici che abbiamo considerato, avendo trascurato la loro “funzione” salvifica. Ma noi, infatti, li abbiamo esaminati esclusivamente dal punto di vista filosofico-antropologico; vale a dire per i significati speculativi che esse presentano dal nostro punto di vista.

    Giunti alla fine di questo capitolo, dedicato all’ateismo nell’antico pensiero indiano, ci pare di poter concludere che, a parte il Carvakâ materialistico di cui si sa poco o nulla, sia nel Sâmkhya che troviamo gli aspetti più interessanti concernenti la teoresi atea, proprio perché, col suo dualismo, rende impossibile ogni ricaduta in una religione di tipo sacrale o in un trascendentalismo panteistico (da cui non è immune nemmeno il buddhismo). Nel Sâmkhya le anime individuali (i purushâ), chiuse in se stesse, escludono ogni riferimento ad un principio che le trascenda. Ma nello steso tempo l’autosufficienza della materia (la prakriti) esclude un creatore e un reggitore da cui potrebbe derivare la sua origine e dipendere il suo divenire. 

    Sentiamo infine il dovere intellettuale di ammettere decisamente i nostri limiti interpretativi. La nostra forma mentis è infatti quella dell’uomo occidentale e non vediamo ragioni sufficienti per tradirla, ma nello stesso tempo non possiamo evitare di domandarci in quale misura siamo veramente adeguati a comprendere l’essenza del pensiero indiano. D’altra parte, trenta secoli di cultura non si cancellano con la buona volontà, e un nostro approccio più “comprensivo” dei significati riposti della speculazione indiana sarebbe forse persino fuori dei nostri orizzonti. Noi peraltro ci occupiamo di ateismo ed il compito che ci siamo prefissi è di estrarre da contesti non sempre esplicitamente atei (ma per lo più solo per una nostra convenienza argomentale) gli aspetti che legittimamente sono ascrivibili all’ambito dell’ateismo e alla sua weltanschauung.

    È stato detto che tutta la speculazione indiana ha sempre e comunque, in sottofondo, un profondo senso religioso. Ne siamo assolutamente convinti, e proprio perché nutriamo profondo rispetto per questo aspetto antropologico di quel mondo culturale che rimane a noi relativamente lontano, perseguiamo una chiarezza d’intenti che ci impedisce di mescolare le carte o di equivocare sull’equivocabile. Noi abbiamo cercato di capire perché, dove e come, nei tempi antichi, da un capo all’altro del mondo, allorquando le religioni, nelle più svariate forme, dominavano la vita e la cultura dell’uomo, siano stati introdotti in filosofia elementi ateistici in contesti eminentemente teistici. Questo è il fine che ci siamo posti ed è in questo quadro che vanno giudicate le nostre considerazioni, che hanno un senso e una validità esclusivamente nell’ambito euristico in cui ci muoviamo.

 

 



[1] A rigore, anche nel pensiero cinese, tra le pieghe sia del Confucianesimo sia del Taoismo più antichi, si possono cogliere degli aspetti vagamente ateistici, in una certa sostanziale debolezza dell’afflato più specificamente religioso e cultuale rispetto a quello etico. Aspetto, questo, sicuramente dominante nel Confucianesimo e sotteso al Taoismo nella dottrina del wu-wei (dell’inazione), per quanto in questo risulti prevalente la ricerca dell’esperienza estatica. Sia detto comunque per inciso: i due si oppongono poi tra loro, nell’essere il Confucianesimo una filosofia della socialità mentre il Taoismo è un ascetismo dell’individualità. Va però rilevato che, in quel contesto culturale, rimangono sempre presenti degli elementi metafisici mai negati e costantemente presupposti;  ciò tanto più in un etica sociale ricca di formalismi di carattere ritualistico qual è il Confucianesimo. Nella filosofia cinese infatti, oltre al principio cosmico del tao (l’essere originario indifferenziato e perfetto) e alla polarità delle due categorie dello yin (femminile) e dello yang (maschile), permangono i riferimenti a una divinità del cielo (il Ti) e ad altre divinità minori. I cinesi hanno sempre distinto un Taoismo filosofico e uno religioso; ovviamente nel primo la cultualità è assente, ma l’ipostasi di una totalità originaria e trascendentale ci consente di definirla una filosofia sostanzialmente panteistica.

[2] Il caso più noto e importante è certamente quello di Schopenhauer, che trae dal Vedânta l’idea dell’illusorietà del mondo fenomenico e insieme la visione di una sostanziale unità dell’universo vivente sotto forma della comune “volontà di vita”. Dal Buddhismo originario egli trae invece la negazione di ogni divinità  personale e la concezione della sostanziale indentità di corpo ed anima individuali.

[3] Sarvepalli Radhakrishnan nel suo Religioni orientali e pensiero occidentale (Bompiani 1966 – p.125) sostiene che tra i Mitanni della Cappadocia erano noti già nel XV sec.a.C. i nomi degli dèi vedici.

[4] Fu Megastene, ambasciatore di Seleuco Nicatore (avendo soggiornato alla corte del re indiano Chandragupta tra il 302 e il 291 a.C.) a rilasciare per primo testimonianze dirette del mondo filosofico e religioso indiano.

[5] È il caso degli antichi sistemi Nyâya e Vaisheshika (più tardi fusi insieme) i cui intenti sono per il primo di carattere logico e per il secondo di carattere cosmologico e materialistico. Questi due sistemi tuttavia, indipendentemente dall’apparente pluralismo strutturale e atomistico, finiscono per presupporre il brahman, quale unico principio immanente a tutto ciò che esiste nell’universo, ricadendo pertanto in un sostanziale panteismo monistico. Inoltre, il fine ultimo di questa filosofia rimane sempre quello etico della salvazione dall’ignoranza e dal dolore piuttosto che quello puramente gnoseologico. Come nota il Gonda: «Sottolineando l’ordine morale del mondo, che si rivela nel karman , il nyaya e il vaisesica - che pongono in primo piano la filosofia naturale – acquisirono un timbro etico.» (Jean Gonda  Le religioni dell’India – Jaca Book 1980, vol. I, p. 394.). 

  Joseph Campbell nell’Appendice A di Filosofie e religioni dell’India di Heinrich Zimmer (Mondadori 2001 – p. 491) afferma: « […] quando il sistema Vaisesika e il sistema Nyaya (osserva Garbe) si fusero insieme, la scuola che ne risultò adottò concezioni teistiche, ma non vide mai nel Dio personale, che pure ammetteva, il creatore della materia.»                                  

[6] Helmut von Glasenapp  Filosofia dell’India – SEI 1996, pp. 23-24.

[7] Heinrich Zimmer  Filosofie e religioni dell’India Mondadori 2001, p. 33.

[8] La parola veda significa “scienza” ed è passata ad indicare i testi che la descrivono. Essi sono costituiti anche da narrazioni, ma la parte più specifica è quella che riguarda le regole della ritualità alle quali i brahmani (i sacerdoti arii) dovevano attenersi. Queste regole riguardano per lo più le formule di invocazione da pronunciare, i canti da intonare e le procedure da seguire per la corretta realizzazione del rito. I Veda costituiscono il patrimonio culturale e religioso degli invasori Arii ed in età arcaica la loro lettura era riservata alla classe dei bramani e vietata a tutte le altre.

[9] Alla base di tutto il sistema castale indiano sta il concetto di dharma, ovvero del “dovere” etico correlato al proprio stato, determinato rigorosamente dalla nascita. Il criterio retributivo del samsâra (la trasmigrazione delle anime) fa sì che la condizione in cui nasce un individuo sia “quella che gli spetta” in base ai meriti e ai demeriti registrati nella vita precedente. Ma il sansâra non riguarda soltanto l’uomo, bensì tutti gli esseri viventi; pertanto, correlato al progresso verso condizioni più elevate, sussiste il regresso a condizioni inferiori, compresa quella animale.     

[10] Va tuttavia rilevato che tra i sei antichi sistemi derivanti dal patrimonio vedico vi è stata la già citata fusione tra il Nyâya e il Vaisheshika. Lo Yoga, per quanto riguarda gli aspetti teorici, si basa sostanzialmente sul Sâmkhya, ma ne differisce poi più o meno nettamente in quanto è tendenzialmente teista o panteista.

[11] Il Vecchiotti nel suo Introduzione alla storia della filosofia indiana (Quattroventi 1995 – p.75) osserva: « […] Dicevamo “visioni” e non “sistemi”, per la pretesa indiana della sincronia delle soluzioni, anche se è vero che tanto a livello religioso e pratico quanto a livello teoretico-critico, questa sincronia-discronia formale finisce poi per dar luogo a una molteplicità di soluzioni nette e  precise di non facile rifusione o identificazione, non solo tra visione e visione, pretesa già in partenza irrealizzabile, ma addirittura all’interno di ciascuna visione, laddove si dà propriamente luogo a diversi sistemi. Il che rappresenta poi il lato più bello e più valido della ricerca umana, nonostante ogni mistico tentativo di antifilosofia e di antiragione. »

[12] È indubitabile che la filosofia di Schopenhauer non avrebbe potuto essere concepita nel suo impianto complessivo senza il decisivo apporto della filosofa vedantica e buddhistica.

[13] La parola ha un etimo incerto. Nota il Glasenapp (Filosofia dell’India – SEI 1988 – p. 101) che secondo alcuni potrebbe derivare dalla radice verbale “carv” (masticare), a indicare chi mangia con piacere, secondo altri deriverebbe da “câru-vâka (che parla piacevolmente), a significare una dottrina gradita ai più. Altri ancora ritengono che Cârvakâ potrebbe essere stato il mitico fondatore della dottrina. 

[14] Il Glasenapp cita un antico testo vedânta (il Mokshadharma, XII,218,8) in cui si legge: «I nâstikâ affermano che l’anima non è altro che il corpo stesso.».

[15] Hans Wolfgang Schumann nel suo Il Buddha storico (Salerno Editore 1986 – p. 52) cita un opera di ispirazione materialistica composta nel VI sec. a.C. dal titolo Barhaspatisûtra, di cui ci sono pervenute soltanto alcune citazioni frammentarie.

[16] Helmut von Glasenapp  Filosofia dell’India - SEI 1996 – p. 101. L’autore cita anche la seguente frase a lui attribuita: «Tutta la teologia non è che un inganno per colui che conosce il mondo.» (ivi p.102 e nota 12 p.200)

[17] Glasenapp op.cit. – p.100.

[18] Il Glasenapp rileva che già nella Bhagavad-Gîtâ (circa VII sec.a.C.) veniva combattuto il materialismo (4, 40, 16, 8 e segg.).

[19]  Il Glasenapp (op.cit. p.272) così sintetizza l’etica cârvâka: «I precetti dell’etica, sanzionati dai Veda o da un’altra autorità religiosa, sono delle opere umane inventate da sacerdoti o da monarchi, come mezzo per dominare gli sciocchi. Uno spirito forte sa che non vi è nulla al di fuori della percezione sensibile: l’unico inferno che esista è il dolore fisico, l’unico dio supremo, un re potente, l’unica liberazione, l’annientamento del corpo che avviene con la morte. Perciò il pieno godimento dei sensi è il solo scopo della vita: chi è scaltro, dunque, vivrà quanto più lietamente possibile e – libero da tutte le illusioni etiche e religiose, con sovrano disprezzo per quei pazzi che credono ai principi metafisici – terrà d’occhio il proprio interesse senza riguardo alcuno, finché quegli elementi “riunitisi in lui per il piacere e il dolore” non sarnno tornati nuovamente agli elementi cosmici.».

[20] Giuseppe Tucci  Storia della filosofia indiana – Laterza 1987 – p. 69-70)

[21] Rileva ancora il Glasenapp (op.cit. p.103) che oltre ad un materialismo grossolano (dhûrta),  peraltro prevalente, la tradizione ne riconosce anche un altro più raffinato (sushikshita), che ipotizzava un sesto elemento (spirituale) nel corpo umano, concernente la psiche individuale. Ma anche questo era strettamente connesso al corpo e pertanto, come esso, mortale.

[22] Ci sono pervenuti i commenti di Mâthara, di Gaudapâda e di Vâcaspatimishra. Quello di Gaudapâda è il più noto ed utilizzato. È stato tradotto in Italiano da Corrado Pensa in: Īsvarakrisna  Sâmkhyakârikâ – Editore Boringhieri – Torino 1960.

[23] Letteralmente il termine significa “enumerazione”.

[24] Va notato tuttavia che il termine nella storia della filosofia indiana (prima e dopo il Sâmkhya) ha assunto anche altre accezioni. Già nel Rig-Veda (10, 90) si parla di purusha come del mitico uomo primordiale da cui derivano gli altri esseri del mondo.  Ma il concetto di purusha ritorna anche nella Katha-upanishad e nella Shvetâshvatara-upanishad (entrambe posteriori al VI sec.a.C.) dove esso diventa lo “spirito globale” che tutto pervade, assumendo pertanto i caratteri dell’âtman riscontrabili nelle upanishad più antiche.

[25] Ivi p.39.

[26] Ivi p.40

[27] Ivi p.51

[28] Ivi pp. 51-52.

[29] Ivi p.87.

[30] Ivi p.116.

[31] Ivi p.117.

[32] Significativa la strofa 58 che recita: «L’immanifesto [la prakriti, come principio dell’essere] agisce per liberare l’anima [il purusha] non diversamente dalla gente comune che si adopera per soddisfare il desiderio». Op.cit.  p.116.

[33] Ivi p.122.

[34] Ivi pp. 123-126.

[35] Ricavo dall’Enciclopedia delle Religioni Garzanti (1989 - p.312) un’entità complessiva dell’attuale comunità giaina superiore ai tre milioni di adepti. Rispetto ad una statistica del 1951, che li dava a 1.618.000, vi sarebbe stato negli ultimi decenni un netto aumento.

[36]  Mentre per i laici le regole sono abbastanza allentate per i monaci esse sono rigidissime. Il novizio rinuncia a tutti i suoi averi personali, si rade a zero (in antico vigeva lo strappo della capigliatura) e rinuncia al proprio nome prendendone un altro. Pronuncia infine i cinque voti, che sono: a) non nuocere mai ad alcune essere vivente, b) non mentire, c) non rubare, d) attenersi ad una castità assoluta, e) rinunciare a qualsiasi possesso.

[37] Carlo Della Casa  Il giainismo – Bollati Boringhieri 1993 – p. 50.

[38] Ivi – p. 97.

[39] Majjhima Nikāya, Discorso 63. Citato da Giangiorgio Pasqualotto in Illuminismo e illuminazione - La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha  Donzelli 1997 – p.25.

[40]  I discorsi di Gotamo Buddho del Majjhimanikâyo (a cura di K.E.Neumann e G De Lorenzo) – Vol.I – Laterza 1916 (stampa anastatica 1980) – pp.429-430.

[41] Per correttezza dobbiamo però notare che buona parte degli studiosi del Buddhismo antico tende a considerarlo  un agnosticismo piuttosto che un ateismo. Forse perché si pensa che da una filosofia veramente atea non sarebbero state possibili le derive religiose riscontrabili specialmente nelle scuole del Grande Veicolo (il Mahâyâna). Su tale argomento si esprime uno dei più interessanti studiosi occidentali del Buddhismo, lo scozzese Stephen Batchelor, il quale difende l’agnosticismo insito nella dottrina del Buddha in questi termini: «Storicamente, il buddhismo ha teso a perdere la propria connotazione agnostica istituzionalizzandosi in religione, ossia in un sistema di fede fondato su una rivelazione […] Questa trasformazione del buddhismo in religione tende ad offuscare e allontanare l’eventualità dell’incontro del dharma con la cultura agnostica contemporanea. Il dharma, in effetti, può avere più aspetti in comune con il laicismo ateo che con i capisaldi della religione. […] Come l’agnosticismo contemporaneo ha teso a perdere la propria fiducia in se stesso e a scivolare nello scetticismo, così il buddhismo ha teso a perdere il suo versante critico e a scivolar nella religiosità.» In Il Buddhismo senza fede – Neri Pozza Editore – pp.25-26 passim.

[42] Schopenhauer ,Hartmann e altri.

[43] Ricordiamo Herman Hesse e i suoi romanzi Siddharta e Il gioco delle perle di vetro.

[44] Traggo dalla già citata Enciclopedia delle Religioni Garzanti 1989 le seguenti informazioni (p.85): «I Buddhisti costituiscono la quarta comunità religiosa del mondo dopo Cristiani, Islamici e Induisti. Sono attualmente 295.571.000, cioè il 6,2% della comunità mondiale. Il 51% vive nell’Asia Meridionale e il 48,5% nell’Asia Orientale. Il Buddhismo è diffuso in 84 paesi e in alcuni di essi (Giappone, Thailandia, Birmania, Vietnam, Srî Lanka, Cambogia, Laos e Bhutan) è la religione principale. »

[45] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) (a cura di Vincenzo Talamo) Boringhieri Editore 1979 – p.45.

[46] Heinrich Zimmer  Filosofie e religioni dell’India – Mondadori 2001 – p.382.

[47] Ivi.

[48] Enciclopedia delle religioni – Garzanti 1986 – p.91.

[49] Canone buddhistico – L’orma della disciplina (Dhammapada)  Boringhieri Editore 1979 – p.15.

[50] Ivi – pp.94-95.

[51] Ivi – pp.47-48.

[52] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) Boringhieri Editore 1979 – p.205.

[53] I discorsi di Gotamo Buddho del Majjhimanikâyo (a cura di K.E.Neumann e G De Lorenzo) – Vol.II – Laterza 1925 (stampa anastatica 1980) – pp.126-127.

[54] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) - Boringhieri Editore 1979 – p.194.

[55] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. II - pp.461- 462.

[56] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. I - pp.216-217.

[57] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) op.cit. – p.191-193 passim.

[58] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. III - p.375.

[59] Ivi p.50-51.

[60] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. II - p.393.

[61] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. I - pp.371-372.

[62] Ivi p.478.

[63] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. I - p.74.

[64] Ivi p.76.

[65] Il termine viene variamente tradotto con “gruppi di combinazioni dharmiche”, con “formazioni karmiche”, con “gruppi di fattori dell’esistenza”, con “costituenti delle persona umana”, con “aggregati umani”, ecc.

[66] Anche in questo caso il termine  pratîtya-samutpada oltre che con “nesso causale” (Glasenapp) è stato tradotto con “produzione dipendente” o “in sequenza”, “coesistenza interdipendente”, “genesi condizionata”, “coproduzione condizionata”, ecc.

[67] Traggo l’immagine da Il Buddhismo di Giangiogio Pasqualotto (p.53). L’autore ci propone anche interessanti corrispondenze con rappresentazioni buddhistiche della Ruota dell’Esistenza (pp.52-54).

[68] Il Tucci (Storia della filosofia indiana – Laterza – Bari 1996), il quale tra l’altro ne offre una versione invertita (da jarâ-marana a avidyâ), traduce sanskarâ con “coefficienti”. La David-Nèel con “configurazioni”, il Vecchiotti con “condizioni di struttura”, il Panikkar con “aggregati”, il Pasqualotto con “intenzioni e tendenze”.  

[69] Il Tucci  traduce vedanâ con “sensazione”. Così pure Alexandra David-Nèel (Il buddismo del Buddha – ECIG 2003 – p.62), Raimundo Panikkar (Il silenzio di Dio- Borla 1985 – p.116) e Icilio Vecchiotti (Introduzione alla storia della filosofia indiana - QuattroVenti – p.51).

[70] Il Vecchiotti propone questa lettura: «Divento vecchio e muoio perché sono nato, sono nato in quanto c’è stata un’esistenza precedente che ha messo in moto il divenire karmico, che deve manifestarsi in una rinascita: la causa di tutto ciò è l’attaccamento, che è un intensificarsi del desiderare e che è prodotto dal nostro poter patire sensazioni piacevoli e spiacevoli; ma le sensazioni hanno origine dal contatto col mondo esterno, il che presuppone i sei organi di senso, ed essi possono costituirsi solo in una coscienza che rappresenti il nucleo di un’individualità, ma questa coscienza deve essere originata dagli impulsi karmici, che sono effetto dell’ignoranza.» (Introduzione alla storia della filosofia indiana –Quattroventi 1995 – p.52).

    Un’analogo tipo di sequenza esplicativa (attribuita a Lakshmi Narasu in Essence of Buddhism) è riportata da Alexandra David-Nèel in Il Buddhisno del Buddha – ECIG 2003 – p. 67-68).

[71] Non è di questo avviso Giangiorgio Pasqualotto, che invece vede una logica ben definita a base del modello del paticcasamuppâda. Ma per coglierla occorre legarla al “nucleo” forte dei due concetti di impermanenza (anicca) e di non-sostanzialtà (anatta): « […] la prima consente di cogliere gli “anelli” non come entità statistiche ma come processi nel tempo, e anche di vedere le connessioni tra i diversi anelli come scansioni del tempo, la seconda consente di capire come e perché l’esistenza di ciascun “anello” dipenda da quella degli altri. In altri termini, il modello della co-produzione condizionata appare come sviluppo analitico della già ricordata formula, presente nel Majjhima Nikâya (115, 11), che recita “Essendoci questo, c’è quello; apparendo questo, appare quello; sparendo questo, sparisce quello; non essendo ci questo, non c’è quello”. Ora è da tener presente che i diversi “anelli” o fattori, benché, per necessità espositiva, vengano disposti uno dopo l’altro, in realtà sono, in vari gradi, presenti tutti contemporaneamente: Ogni fattore, infatti, è nello stesso tempo condizionato (paticcasamuppanna) e condizionante (paticcasamuppâda), per cui nessuno di essi può essere assunto e fatto valere come causa prima.» (G.Pasqualotto – Illuminismo e illuminazione – Donzelli 1997 – p.86).

[72] Alexandra David-Nèel dice degli dèi del Buddhismo: «Le loro dimore celesti, per quanto splendide, e la loro vita, per quanto magnifica, sono soggette alle stesse leggi della decrepitezza e della dissoluzione. Essi sono i nostri fratelli giganteschi, i nostri fratelli sublimi: terribili tiranni, forse…forse protettori compassioneoli, ma non hanno salvato il mondo dalla sofferenza, né sono stati capaci di liberarsene».