Capitolo sesto
Elementi ateistici nella filosofia indiana.
Introduzione
Talvolta noi
occidentali, peccando un poco di etnocentrismo,
siamo portati a pensare che l’ateismo sia una peculiarità
della nostra cultura, e non ci diamo la pena
di indagarne eventuali forme
presso altre culture. Si dà invece il caso
che la cultura orientale, nella sua
ampia articolazione filosofica-religiosa
offra, o almeno abbia offerto in
passato, casi interessanti di visioni del mondo ateistiche e (per quanto
assai poco documentate) persino materialistiche.
In una trattazione che ha per
oggetto l’ateismo pensiamo sia pertanto doveroso
dedicare uno spazio anche alle
antiche forme di esso nate nell’ambito del
pensiero indiano [1],
tanto più che loro echi o veri elementi di
base sono riscontrabili in diversi
pensatori dell’Occidente [2].
In India esse sono nate e si sono sviluppate
prima e anche dopo il dominio
islamico, che è durato circa undici secoli
(dall’inizio dell’VIII alla fine del
XVIII).
L’ateismo
orientale presenta tuttavia caratteristiche
proprie e raramente passibili di un
confronto diretto con quello occidentale
e ciò già a partire dal concetto di
“materia”, nel senso che, per la cultura
indiana, una materia inerte e
puramente “fisica” è quasi inconcepibile.
Se non altro perché essa (sia sotto
forma di elementi originari sia sotto forma
atomistica) è comunque eterna, ed
inoltre, almeno nella sua struttura originaria
e immortale di base e quale
origine del mondo, possiede sempre irrinunciabili
connotazioni metafisiche. Le
quali, va però rilevato, sono comunque anche
riscontrabili nella nostra
filosofia antica, in Empedocle e negli atomisti
e, in tempi moderni, nel caso
decisamente unico del materialismo positivistico
di Comte.
Non mancano
tuttavia notevoli analogie tra la filosofia
occidentale e quella orientale,
forse perché sia la penisola ellenica che
quello indiana sono state oggetto di
invasione di genti arie in epoche preistoriche
e ciò rende verosimile la
persistenza in entrambi di elementi culturali
originari comuni. Occorre
tuttavia rilevare che la cultura indiana,
secondo le più recenti indagini
storico-antropologiche, deve essere considerata
un coacervo di elementi di
varia origine, tra i quali quelli attribuibili
alle culture autoctone pre-arie
non sono meno importanti di quelli brahmanici
introdotti dai conquistatori. Si
aggiunga che, quantunque scarsamente documentate,
fin dall’antichità devono
esserci state reciproche influenze tra l’antica
Ellade e l’India e che talune
assonanze possono essere difficilmente attribuite
a una pura coincidenza [3]. A partire poi dalle conquiste di Alessandro
Magno verso Oriente (dal 332 al 323 a.C.)
le opportunità di contatto andarono
aumentando con interessanti frutti di contaminazione
culturale [4].
Ciò fino all’avvento del Cristianesimo, quando
i due mondi, quello occidentale
cristiano e quello orientale induista, si
separeranno nettamente per almeno
quindici secoli.
Va tuttavia
rilevato che, analogamente alle differenze
rilevate a proposito delle weltanschauungen
atee, la nascita e l’evoluzione delle fedi
religiose dell’Oriente antico hanno
avuto modalità e caratteri completamente
diversi da quelli riscontrabili in
Occidente; ciò ne spiega non soltanto le
differenze, ma soprattutto il numero,
molto elevato nel mondo indiano. Infatti
mentre a Occidente vi è stata una
sostituzione radicale dell’antico politeismo
e la conseguente coagulazione in
pochi indirizzi monoteistici, in India, a
partire da relativamente pochi ceppi,
si sono poi verificate per lo più frammentazioni
e numerose diversificazioni. I
casi più rilevanti di differenziazioni, diventate
in seguito quasi opposizioni,
sono quelle riscontrabili nella frammentazione
dei sistemi cosidetti
“ortodossi” (quelli che riconoscono l’autorità
dei Veda), ma anche
nell”eterodosso” Buddhismo, nel quale le
correnti spiritualistiche, oggi
prevalenti (sopratutto quelle derivanti dal
Mahaiana, il cosidetto “Grande
Veicolo”), ha finito per staccarsi completamente
dall’ateismo (o quanto meno
dall’agnosticismo) di Siddhârta Gautama,
il Buddha.
Vi sono inoltre
nella cultura indiana dei caratteri particolari
che la rendono “nei fini”
sostanzialmente differente da quella occidentale,
specialmente nella
commistione piuttosto stretta di etica e
speculazione filosofica, dove la prima
rimane sempre sullo sfondo anche dove paia
prevalere la seconda [5].
È il caso di riportare per esteso l’opinione
del grande studioso del mondo
indiano von Glasenapp sull’argomento: «Una diversità veramente radicale tra
la filosofia indiana e quella occidentale
sta invece in questo: la prima,
dall’epoca delle Upanishad fino ad oggi (a
prescindere dagli scettici e dai
materialisti) poggia sul piano d’una concezione
unitaria fondamentale di
carattere metafisico-morale. L’altra no.
Tutti i pensatori indiani credono che l’ordinamento
naturale del mondo sia al tempo stesso anche
morale e che ciò si manifesti nel
fatto che ciascuna azione, parola, pensiero
deve incontrare una retribuzione
corrispondente alla connessa qualità morale.
Come ogni seme viene a maturare
nel frutto corrispettivo, non appena gli
vengano offerte circostanze
favorevoli, così ogni atto crea di necessità,
oltre al proprio momentaneo e
visibile effetto esteriore, anche un altro
effetto invisibile, che potrà
manifestarsi già in questa vita o invece,
come avviene più spesso, solo in un
esistenza futura. L’indiano suppone quindi
una causalità morale che funziona di
per sé con la stessa regolarità della legge
naturale di causa ed effetto […] Il
rigore contenuto nella dottrina del potere
trascendente dell’azione (karma)
implica necessariamente l’assegnazione a
ciascun individuo di una retribuzione
nella misura esattamente corrispondente alle
azioni da lui commesse, escludendo
in tal modo a priori che si debba espiare
per il modo di agire di un altro o
che gli tocchi una ricompensa cui non avrebbe
diritto per merito delle azioni
altrui. L’applicazione universale della legge
del karma comporta inoltre il
postulato che nel mondo ogni forma individuale
d’esistenza viene suscitata
dagli atti compiuti in una vita anteriore
e pertanto non fa alcuna differenza
tra uomini e animali, dèi o demoni, sottoponendo
invece tutte le forme di vita
cosciente ad un unico e identico ordinamento
eterno.»[6]
Un altro
aspetto fondamentale della filosofia indiana
potrebbe essere definito il fine
“pratico” della liberazione dal dolore, che
nella nostra cultura si trova
nettamente definito soltanto in Epicuro.
Come per Epicuro la filosofia è la
“medicina dell’anima”, che ci libera dall’assedio
della “pena”, nel pensiero
orientale la liberazione dal dolore è fine
esplicito o implicito di ogni
sistema di pensiero, e in particolare di
tutti quelli buddhistici. Ma l’altra
costante di molta parte della filosofia indiana
è il superamento
dell’ignoranza, considerata conseguente a
una sopravvalutazione del mondo
sensibile e delle esperienze della vita corrente.
Ignoranza che è la causa
prima del dolore del mondo, un dolore evitabile
soltanto liberandosi dai
fantasmi dell’apparenza e scorgendo la vera
realtà nascosta tra le pieghe del
mondo fenomenico.
Sostiene lo
Zimmer (altro importante indologo): «Secondo il pensiero e l’esperienza
dell’India, la conoscenza delle cose mutevoli
non conduce a una visione
realistica, poiché queste realtà mancano
di sostanzialità, periscono; né
conduce a una visione idealistica, poiché
le cose in divenire sono incoerenti,
si contraddicono e si negano continuamente
a vicenda. Le forme fenomeniche sono
per loro natura illusorie e fallaci. Chi
si basa su di esse, ne sarà confuso.
Si tratta semplicemente di particelle di
una vasta illusione universale che è
toccata dal maleficio della dimenticanza
del Sé, che è sostenuta dall’ignoranza
e che viene portata avanti dalle passioni
ingannevoli. L’ingenua
inconsapevolezza della verità nascosta del
Sé è la causa primaria di tutti i
falsi valori, di tutti gli atteggiamenti
errati e di tutti i conseguenti
tormenti che questo mondo illuso si autoinfligge.» [7]
Lo Zimmer usa qui il termine “Sé” (da non
confondere col termine corrispondente
della psicologia e della psicoanalisi occidentali)
per indicare ciò che nelle
varie filosofie indiane, spesso con intrecci
e sovrapposizioni, viene indicato
con âtman (anima personale o generale), con brahman (principio
cosmico fondamentale), con jîva (anima individuale o forza vitale) o con
purusa (anima individuale o perfezione umana originaria).
In assenza di
documenti scritti relativi alle culture locali
preesistenti all’invasione
ariana (avvenuta probabilmente prima del
2000 a.C.), i testi vedici sono i più
antichi documenti relativi a quell’area,
ed attengono esclusivamente la cultura
dei conquistatori. Questi, diventati poi
casta dominante, imposero la loro
cultura agli autoctoni, pur assorbendone
verosimilmente molti aspetti
(soprattutto dalle culture dravidiche),che
sono divenuti in seguito
praticamente indistinguibili nel complesso
culturale indiano da ciò che è
specificamente attribuibile alla cultura
brahmanica imposta dagli Arii.
I Veda [8]
costituiscono indubbiamente la prima e fondamentale
fonte scritta di tutta
la religiosità indiana, e più o meno direttamente
delle diverse filosofie che
ad essa perlopiù si accompagnano; si tratta
peraltro di scritti molto
particolari, dei quali è difficile trovare
dei corrispettivi nel Medio Oriente
o in Europa. Infatti, non si tratta di testi
sacri in senso stretto e tanto
meno di scritti filosofici, bensì per lo
più di formule con le quali la casta
brahmanica trasmetteva sinteticamente i segreti
dei rituali, a cui i sacerdoti
dovevano attenersi per la miglior realizzazione
delle “procedure” sacrali (al
fine del miglior risultato magico del rito).
Questi scritti erano
indirettamente anche lo strumento che sanciva
la separazione tra la classe dei
dominatori ariani rispetto a quella dei sottomessi,
e servivano per determinare
una radicale diversificazione di rango e
compiti, in un primo tempo tra
invasori e invasi, ma successivamente, con
la mescolanza delle razze, tra le
classi dominanti e quelle sottoposte. [9]
Va tuttavia notato che in questi scritti
assai antichi, risalenti ad un periodo
compreso tra il 1500 e l’800 a.C. (e quindi
sovrapponibili nella fase finale ai
poemi di Esiodo e di Omero), vi è ben poco
che faccia pensare agli sviluppi
successivi del pensiero indiano, se non nella
grande importanza attribuita alla
parola, che nei Veda è tutt’uno con la cosa che nomina. In essi
inoltre
non viene fatta ancora alcuna distinzione
tra ciò che è animato e ciò che è
inanimato, così come tra ciò che è spirituale
e ciò che è materiale. Gli stessi
dèi (devatâ) hanno ben poco di “divino” in senso moderno,
e
(analogamente agli dèi greci) sono soltanto
dei super-uomini da blandire e da
cui ricevere favori. Il concetto di Ishvara (dio-persona unico) appare
abbastanza tardi e non è affatto centrale
nella religiosità indiana, almeno
fino quelle correnti dell’Induismo moderno
che si riconoscono nel Shivaismo e
nel Visnuismo.
I Veda
hanno goduto e godono tuttora di un prestigio
straordinario per noi occidentali
difficilmente comprensibile, in quanto testimonianza
originaria e rivelativa di
un fondamentale e primario rapporto con il
soprannaturale e il trascendente.
Gli scritti successivi, i Brahmana e soprattutto le Upanisad, costituiscono
un corpus estremamente differenziato di enunciazioni,
di aforismi, di leggende
o aneddoti e di loro commenti (sutra). Essi hanno costituito una sorta
di “pozzo di san Patrizio” religioso-filosofico
in cui era possibile pescare
singoli elementi da assemblare o riassemblare
con elementi di altra
provenienza, sfociando infine in teorie o
precettistiche di genere diverso e a
volte concettualmente assai distanti. Questo
spiega l’estrema frammentazione
esistente sia nelle religioni vere e proprie
sia nelle parallele filosofie, che
si intersecano e si intrecciano, al punto
che all’interno di ogni religione vi
è spesso un indirizzo filosofico che ne prescinde
e all’interno di una
filosofia vi sono sovente indirizzi religiosi
che le si affiancano.
Per le ragioni
suesposte se ad Occidente della penisola
indiana attualmente restano attive e
praticate le tre grandi religioni monoteiste
(con al loro interno alcune
differenziazioni tutto sommato marginali)
in India vi è stata una fioritura
foltissima di indirizzi attraverso i secoli,
ed una continua nascita di nuove
correnti in presenza di poche coagulazioni
[10].
Anche il Buddhismo che pure, in sé, non è
una religione né si rifà ai Veda,
conta al suo interno degli indirizzi spiccatamente
religiosi, mentre anche
sotto il profilo filosofico esso si presenta
tutt’altro che omogeneo. Come
abbiamo già rilevato, un aspetto che distingue
abbastanza nettamente la
filosofia occidentale da quella orientale
è che nella prima prevale l’intento
gnoseologico e analitico mentre nella seconda
questo risulta nettamente
subordinato a quello etico, e che lo scopo
soteriologico (la salvezza
dall’ignoranza e dal dolore del mondo) supera
di gran lunga l’intento
scientifico, invece prevalente nel mondo
greco. La liberazione da una
condizione umana imperfetta o soggetta alla
sofferenza è una finalità primaria
rintracciabile dal più al meno in tutto il
pensiero indiano, dove anche per
questa ragione il confine tra filosofia e
religione è spesso estremamente
sfumato. Va comunque ricordato che anche
nel mondo ellenico, e ciò sin dal VI
secolo a.C., sono presenti religioni filosofiche,
come l’Orfismo, oppure
filosofie religiose, come il Pitagorismo,
che hanno elaborato delle concezioni
molto vicine all’antica filosofia indiana;
ciò vale sia per quanto riguarda il
concetto di anima sia per il già ricordato
concetto della sua trasmigrazione di
corpo in corpo.
In base a quanto
sopra esposto si potrebbe trarre perciò una
conclusione di rilevante importanza
antropologica, che è la seguente: le culture
dell’Occidente e dell’Oriente, pur
nelle loro innegabili differenziazioni, erano
nell’antichità piuttosto vicine e
per alcuni aspetti persino omogenee. Soltanto
in seguito, con l’avvento del
Cristianesimo, tra i due contesti si è creato
un profondo iato, fino a
determinare due “mondi” completamente differenti.
Ma un allontanamento
aggiuntivo si è realizzato a partire dal
VIII secolo, con l’irrompere nella
cultura del mondo occidentale del criterio
scientifico-sperimentale. Questo
evento ha finito per modificare a poco a
poco la stessa dottrina del
Cristianesimo, che si è dovuta adattare via
via alle nuove scoperte
scientifiche che la mettevano in discussione,
fino ad allora basata su sedici
secoli di autorità assoluta e indiscussa
della Bibbia, dei Vangeli e delle
Lettere di San Paolo. Ciò ha finito per configurare
due concezioni del mondo
e della vita che si sono radicalizzate in
due indirizzi profondamente
differenti e quasi oppositivi: a Occidente
prevale la concezione di una storia
“lineare” e progressiva, in cui tutto è o
“ateisticamente” governato dal caso
e dall’evoluzione oppure “teisticamente”
determinato “dalla volontà divina”,
mentre ad Oriente prevale quella di una storia
“ciclica” necessitata, governata
da un principio cosmico trascendente che
determina e pervade un mondo umano le
cui denotazioni, spesso considerate pure
“apparenze”, possono mutare, ma la cui
“sostanza” rimane sempre uguale a se stessa.
Da queste
debite premesse ne deriva che l’ateismo indiano,
ad accezione di una
trascurabile corrente materialistica molto
antica è stato (contrariamente a
quello occidentale) per lo più spiritualistico;
ciò valga a tracciare fin d’ora
una netta demarcazione tra il concetto dell
“assenza di Dio” come viene posto
nella cultura occidentale e lo stesso concetto
come viene assunto nel mondo
indiano. Ai giorni nostri, con la diffusione
della cultura scientifica, è
abbastanza probabile che un ateismo indiano
non differisca sensibilmente da
quello occidentale, forse con l’eccezione
dei Giainisti (di cui parleremo) il
cui ateismo è rimasto a tutt’oggi molto simile
ad una “religione senza dèi”.
Per quanto riguarda il Buddhismo, nell’ambito
del quale esistono tuttora varie
correnti atee, va ricordato che esso è comunque
praticamente scomparso dal
suolo indiano già da molti secoli, mentre
è ancora istituzionalizzato e vitale
in numerosi altri paesi asiatici. Non va
infine dimenticato che la sua presenza
nella cultura occidentale si è accentuata
negli ultimi tre secoli e che, sia
aldiquà e sia aldilà dell’Atlantico, vi sono
numerose comunità che si
riconoscono nelle correnti tradizionali del
Buddismo, come pure tendenze di
pensiero eterodosso che con una certa libertà
si ispirano al pensiero del
Buddha.
Passeremo ora a
trattare dei quattro sistemi [11]
filosofici atei nell’ambito dell’antico pensiero
indiano (il Cârvâka, il
Sâmkhya, il Buddhismo primitivo e il Jainismo),
tenendo presente che i primi
tre sono attualmente quasi del tutto assenti
nel panorama filosofico dell’India
moderna, dove prevalgono indirizzi filosofico-religiosi
teistici o
panenteistici. La trattazione che
faremo delle filosofie atee dell’antica India
avrà tuttavia un carattere più
compilativo che analitico e interpretativo
(come è invece stato per l’ateismo
greco), ciò in quanto esse non hanno avuto
molto peso negli sviluppi della
cultura filosofica occidentale e ancor meno
ne hanno avuto per quanto riguarda
il tema di cui ci stiamo occupando, sia pure
con qualche eccezione [12].
Per quanto ci
risulti il nostro è il primo tentativo di
considerare la cultura orientale
sotto il punto di vista dell’ateismo e siamo
giunti a questa ristretta classe
di quattro orientamenti filosofici indiani
dopo lunghe considerazioni ed
attente analisi. Abbiamo deciso di escludere
da questo novero il Confucianesimo
e il Taoismo, in quanto ci paiono troppo
legati a concezioni che riconoscono
“comunque” un fondamento divino originario
nella trascendentalità del “cielo”.
Per altro verso abbiamo dovuto anche escludere
il Mîmânsâ, che
pure presenta un’assenza di riferimenti teistici,
ma che nel suo far proprio il
principio cosmico primario presente nei Veda (ai quali si rifà come
testi rivelativi) non presenta caratteristiche
tali da poterlo considerare un
sistema di pensiero ateo. Abbiamo anche dovuto
escludere i sistemi Nyâya e
Vaisheshika (e la loro successiva fusione in sistema
unico) per quanto
il primo si occupi quasi esclusivamente di
logica e il secondo presenti una
teoria atomistica dell’universo, in quanto
entrambi sono tributari della
tradizione vedica nel ritenere che l’originario
“grande uovo universale” (sia
pur composto di atomi materiali) abbia fatto
nascere il divino demiurgo Brahmâ,
il quale crea a sua volta gli dèi, gli uomini,
tutti gli altri animali e tutte
le cose inanimate. Va però osservato che
il Nyâya-Vaisheshika, tra tutti i
sistemi di pensiero indiani, è sicuramente,
a nostro avviso, quello che più si
avvicina (dal punto di vista dell’impostazione
speculativa) al modo di pensare
occidentale e che nel contempo risulta più
ricco di elementi filosofici in
senso stretto.
6.1
Cârvâka.
Abbiamo utilizzato il termine cârvâka
[13]
per indicare l’indirizzo materialistico nell’antica
filosofia indiana, ma in
India viene spesso usato anche il termine
lokâiata, che sta a
significare l’atteggiamento di chi vive seguendo
esclusivamente i sensi, sia
come fonte di conoscenza sia come criterio
di giudizio. E altresì viene
impiegato il termine nâstikâ, che significa “coloro che negano” [14],
in quanto asti è colui che crede nella divinità, nâsti quello che
non crede. Ciò che viene negato dai cârvâkâ è soprattutto l’autorità dei
Veda e con essi di tutto il ritualismo e le credenze
che essi comportano
e prescrivono. Quindi i termini cârvakâ, lokâyatâ e nâstikâ
indicano tutti la categoria degli atei materialisti,
ma il primo è quello che
ha un significato più propriamente filosofico.
Di questa filosofia, abbastanza
vicina alla dottrina degli elementi di Empedocle
per un verso e all’atomismo di
Leucippo, Democrito ed Epicuro per un altro,
si sa molto poco e nessun opera
organica scritta ci è pervenuta [15];
le poche notizie sul cârvâka ci giungono pertanto prevalentemente dai
suoi detrattori. Nel periodo classico pre-induista
si pensava ad un certo
Brihaspati quale fondatore del materialismo,
identificandolo curiosamente con
uno degli dèi vedici che portava tale nome
[16].
Risulterebbe che un certo Ajita Kesambalî
sostenesse che il corpo dell’uomo si
decompone dopo la morte nei quattro elementi
(terra, acqua, fuoco ed aria)
mentre la le sue facoltà intellettive si
disperdono nello spazio (l’âkâsha),
quale quinto elemento [17].
L‘indirizzo di
pensiero cârvaka ha pertanto una concezione del mondo decisamente
materialistica, secondo la quale l’unica
realtà è costituita dalla materia,
alla quale sono riducibili anche gli aspetti
cosiddetti “spiritualistici”
dell’esistenza. Contro di esso si sono schierate
tutte le dottrine filosofiche
(anche quelle atee come il Gianismo e il
Buddhismo) [18]
e tutte le religioni, a testimonianza del
fatto che il contesto indiano era (e
rimane a tutt’oggi) fortemente anti-materialistico.
Ma un aspetto estremamente
interessante dell’antico materialismo indiano
è la sua base pluralistica; la
dottrina degli “elementi cosmici” (bhûtavâda) prevede infatti un
universo increato ed eterno, costituito da
una pluralità di elementi-base, dai
quali, per combinazione, derivano tutte le
realtà esistenti.
Il
materialismo cârvaka pone una realtà plurale e considera il mondo
come
il frutto di una serie di elementi-base immortali
dai quali, per combinazione,
derivano tutte le cose esistenti e gli esseri
viventi. Reale è pertanto solo
ciò che si offre ai sensi e pertanto la vera
conoscenza (come per Epicuro) è
tutta nelle sensazioni e non in processi
intellettuali che ne prescindano. Negata ogni entità soprannaturale e ogni
principio cosmico al di fuori dei materiali
elementi-base viene così a mancare
anche ogni elemento etico ed ogni processo
karmico di salvazione [19].
Tutto ciò che è e avviene segue la natura
che lo determina e lo concerne in
quanto aggregato materiale. Per il cârvâka tutte le teologie sono un
puro inganno, come lo sono le filosofie salvifiche
basate sul samsâra (la
trasmigrazione delle anime), poiché la vera
liberazione dal male avviene solo
con la morte, che tutti rende uguali, che
tutto azzera e livella. Né l’anima individuale esiste realmente ed il
pensieri e i sentimenti derivano soltanto
da una particolare combinazione degli
elementi.
Da tale
impostazione concettuale deriva un’esaltazione
dei sensi e dei piaceri che da
essi derivano, quale unico scopo sensato
del vivere; si tratta quindi di un
edonismo assai vicino a quello dei Cirenaici
nell’ambito greco. Il Cârvâka è
stato pertanto un interessantissimo caso
di ateismo radicale nell’antica
filosofia indiana, forse con una non trascurabile
influenza sociale nel
mitigare, irridendoli, alcuni eccessi spiritualistici.
Purtroppo esso ha inciso
abbastanza marginalmente sulla cultura filosofica
indiana quale è pervenuta
sino a noi, forse anche perché troppo incline
a “realizzare” una filosofia
edonistica nella vita corrente piuttosto
che teorizzarla e “scriverne”. Da ciò
la scarsità di elementi informativi intorno
ad esso, sia per quanto riguarda i
dettagli teoretici sia per quanto riguarda
i tempi e i luoghi in cui si è
espresso, nonché relativamente ai personaggi
storici che ne sono stati fautori.
I materialisti cârvâkâ venivano anche definiti come sostenitori
della
“teoria del taglio netto” (uccheda-vâda) esistenziale. In base ad
esso la morte rappresentava infatti l’irrimediabile
e definitivo “taglio” con
la vita per ogni essere vivente.
Uno dei primi sostenitori della visione cârvaka, come
già abbiamo detto, stando ad un passo del
Samannaphalasutta (parte del Dîganikâya),
sarebbe stato Kesambalî, secondo il quale
il corpo, dopo la morte, si sarebbe
decomposto nei quattro elementi classici
(terra, acqua, fuoco ed aria), mentre
il suo intelletto si sarebbe disperso in
un ulteriore quinto elemento: lo
spazio (âkâsha). A questo proposito il Tucci riporta un
passo del Dîganikâya
(XXIII, 14) in cui Kesambalî (che intende
negare il ciclo samsarico e la
reincarnazione), dovendo rispondere alla
domanda relativa a che cosa ne sia
dell’anima dopo la morte, risponde:
[…]
«Allora, o signori, dopo aver gettato quest’uomo
vivo in un otre, dopo avere a
questo chiuso la bocca, dopo averlo coperto
con pelle fresca, dopo aver fatto
(sopra a lui) una spessa cementatura con
umida creta, dopo averlo collocato in
un forno, ponete fuoco». E quelli dopo aver
acconsentito (dicendo): «va bene»
(c.s.) pongano fuoco. Quando noi conosciamo
che quest’uomo è morto, allora,
dopo aver tirato giù quell’orcio, dopo averlo
liberato dall’involucro e dopo
avergli aperto la bocca, celermente
guardiamo pensando: «Forse noi possiamo vedere
la sua anima». Ma noi non
vediamo alcuna anima che esce. Questa appunto,
o Kassapa, è la prova per la
quale io penso: «Anche così non c’è un altro
mondo, non ci sono esseri opapatika,
Non c’è frutto e maturazione delle cose buone
e cattive»
[…]
Immagina o Kassapa che alcuni uomini avendo
afferrato un ladro che ha commesso
peccato me lo presentino (dicendo): «Eccoti
un ladro, o signore, che ha
commesso peccato; a costui infliggi quella
punizione che desideri». Così allora
io risponderei. «Allora, o signori, private
della vita quest’uomo,
maciullandogli la cute, la pelle, la carne,
i nervi e la midolla». E quelli dopo
aver acconsentito dicendo: «va bene» maciullandogli
la cute … lo privino della
vita. E quando egli è mezzo morto così io
dico: «Allora, o signori,
distendetelo supino: forse possiamo vedere
la sua anima (jiva) mentre
che esce fuori». E quelli distendono quell’uomo
supino, ma noi non vediamo
l’anima uscire. Allora io dico: «Distendete
quell’uomo con la faccia verso
terra, … distendetelo su di un fianco, …
distendetelo sull’altro fianco, …
fatelo stare in piedi, … fatelo stare con
la testa in basso, … colpitelo con la
mano, … colpitelo con una zolla, … colpitelo
con un bastone, … colpitelo con
una spada, … agitatelo, … maltrattatelo,
… scuotetelo; forse possiamo vedere la
sua anima mentre esce fuori.» Ed essi quell’uomo
agitano, maltrattano,
scuotono, ma noi non vediamo la sua anima
uscire. […] [20]
La scuola materialistica si asteneva
perlopiù dall’assumere posizioni teoriche,
essendo il suo atteggiamento di
carattere eminentemente pragmatico e concernente
piuttosto le problematiche del
vivere sociale, ma va peraltro osservato
che i Veda stessi (a parte la
loro l’enunciazione dei miti originari, della
liturgia e la codifica di testi e
procedure rituali) non avevano per nulla
le connotazioni mistiche che
caratterizzeranno più tardi le Upanishad. Quindi l’atteggiamento ateo e
materialistico, nel suo accostare le scienze
politiche e sociali, riprendeva
tutto sommato l’antica tendenza antispeculativa
del brahmanesimo primitivo. In
un certo senso le scuole materialistiche
indiane si approssimavano anche ad un certo
immoralismo finalizzato a prevalere in campo
sociale e nella sfera del potere,
secondo moduli comportamentali non molto
lontani dal machiavellismo
rinascimentale. Il Tucci rileva rapporti
abbastanza stretti da parte di alcune
correnti materialiste con la dandaniti, la scienza della politica, che
si occupava del vivere sociale nei suoi aspetti
e nei suoi effetti reali e
concreti, senza alcun interesse escatologico
relativo a problemi che vadano al
di là delle esperienze correnti della quotidianità.
Si accompagnerebbe allora
al materialismo anche un certo modo di far
politica, basato sulla sagacia e
sull’assenza di scrupoli, sì da ricordare,
appunto, i modi del Principe di
Machiavelli. Tale materialismo in politica,
sarebbe stato impersonato da un
certo Kautilya, cancelliere di Candragupta,
il potente sovrano Maurya, il cui
regno si estese nella prima metà del IV sec.a.C.
dall’Indo al Bengala. Kautilya
è considerato autore dell’Arthasāstra, un trattato di politica in
cui non mancano riferimenti al materialismo
lokâiata come metodo di
ricerca del successo. Per altro verso i materialisti
ci vengono anche dipinti
da alcuni testi antichi come dei maestri
nell’argomentazione, esperti nelle
discussioni complesse e cavillose, ricorrenti
ad un tipo di dialettica volta
alla confutazione degli avversari, non dissimile
quindi da quella dei sofisti
greci.
Sul piano strettamente teoretico il cârvaka
non ci offre quindi formulazioni vere e proprie,
ma poche idee guida
semplici e chiare, che possono essere riassunte
nei termini che seguono: a) non
esiste alcuna divinità creatrice o reggitrice
del mondo, b) questo non è stato
creato da nessuno ed esiste da sempre, c)
la morte nullifica l’individuo,
poiché l’anima e il corpo sono la stessa
cosa, d) non vi è nessun sistema di
ricompense o castighi che possa riguardare
un destino umano oltre la morte, e)
le uniche fonti di conoscenza sono i nostri
sensi e lo scopo della vita è il
loro soddisfacimento [21].
6.2
Shâmkhya.
Secondo la tradizione il sistema venne formulato
già da Kapila,
un mitico sapiente vissuto nel VI sec. a.C.,
ma esso ricevette una formulazione
organica soltanto nella nostra èra (intorno
al 350 d.C.) da parte di
Ishvarakrishna, autore delle Sâmkhya-Kârikâ (strofe sul Sâmkhya), testo
comunque relativamente scarno, costituito
da settantadue strofe racchiudenti
concetti non sempre chiari. Queste strofe
in origine dovevano essere destinate
all’apprendimento mnemonico da parte dei
seguaci del sistema, da qui la loro
stringatezza; ma in seguito furono soggette
a una fioritura di commenti
divenuti ormai quasi inseparabili da esse
[22]
e sui quali si basa la corrente descrizione
di questo sistema filosofico.
Analizzati nel dettaglio, strofe e relativi
commenti, ci consentirebbero di
entrare nei minimi particolari di questo
sistema filosofico assai complesso (e
anche un po’ macchinoso), ma ciò uscirebbe
dai limiti che ci siamo posti; noi
eseguiremo pertanto una disamina un poco
sommaria, cercando però di metterne in
evidenza gli aspetti principali.
Il Sâmkhya [23] è un dualismo metafisico basato su due
principi cosmici universali, eterni e separati:
la prakriti (la materia
o natura) e i purusha (le anime o spiriti individuali) [24].
La prakriti è la sostanza informe e inconsapevole da
cui deriva tutto
ciò che esiste nel mondo, continuamente evolventesi
negli elementi inorganici,
negli esseri viventi in generale e nelle
facoltà intellettive e psichiche
dell’uomo. A questo proposito leggiamo alla
strofa 8 della Sâmkhya-Kârikâ:
Non perché la natura non esista, sebbene
per la sua
sottigliezza non riusciamo a percepirla.
Però possiamo averne percezione
attraverso i suoi effetti costituiti dalla
serie dei vari principi, a
cominciare dalla mente: questi sono, rispetto
alla natura, conformi e difformi.
[25]
La natura “madre” è impercepibile per la
sua sottigliezza,
ma ne sono percepibili gli effetti nei corpi
di aggregazione. Viene qui
introdotto il concetto di “sottigliezza”,
il quale, accoppiato con quello di
“grossezza”, rende lo stato di minore o minore
aggregazione della materia negli
elementi reali. Gaudapada nel suo commento
tra l’altro precisa:
[…] Poiché, appunto,
dall’effetto viene dedotta la causa; la causa
di tutto quanto è prodotto è la
natura e i suoi effetti sono: la mente, il
senso dell’io, i cinque elementi
sottili, gli undici sensi e i cinque elementi
grossi. […] [26]
Abbiamo qui un primo esempio di “enumerazione”,
infatti si
accenna all’esistenza di (1+1+5+11+5= 23)
ventitre effetti della natura o
“principi secondari”, sommando ai quali i
due “principi primari” (anime e
natura) si arriva a venticinque principi
totali . Apprendiamo qui anche che la
mente (la buddhi) è il primo prodotto in ordine di grandezza
che la prakriti
genera, a cui segue l’individualità materiale
(il senso dell’io).
Contrariamente a ciò che noi occidentali
potremmo pensare (memori del dualismo
cartesiano) la mente (ovvero l’intelletto)
di ogni uomo secondo il Sâmkhya
è un aggregato rigorosamente materiale, connesso
al “senso dell’io” (la coscienza),
ma che risulta completamente separato dall’anima
individuale (il purusha)
pur essendo il principale artefice della
sua liberazione.
La dottrina Sâmkhya
propone una schematizzazione della realtà
materiale esistente e percepibile (il
“manifesto”) come una progressiva emanazione
e formazione derivante dalla
“materia prima” della prakriti elementare (l’immanifesto), secondo un
processo di condensazione a partire da ciò
che è più “fine” verso ciò che è più
“grosso” e viceversa, in base a dei cicli
cosmici. Questa continua
trasformazione della materia genera il dolore
che pervade il mondo e la vita.
Ma la trasformazione è in sostanza una lunga
e intermittente catena di cause ed
effetti, nella quale ogni effetto (strofa
9) è “coessenziale alla causa”, e ciò
poiché “ogni effetto preesiste nella sua
causa”.
L’anima è
avvolta e incapsulata dalla materia a lei
prossima (la mente e la coscienza) e
l’obbiettivo della dottrina Sâmkhya è quello di far sì che siano proprio
la mente e la coscienza (senso dell’io) che
legano l’anima a liberarla da esse
stesse, isolandola nella sua essenza di indifferenza
e beatitudine. Tale
liberazione delle anime appare come la vera
finalità di tutto l’essere
dell’universo. Questa teoria dualistica contrappone
pertanto, e in modo
radicale, una materia attiva che genera i
mille volti del mondo e una pluralità
di essenze individuali e immateriali con
caratteristiche assolutamente opposte,
vale a dire immutabili, inerti e isolate
(strofa 19).
La materia, che
si muove secondo leggi interne che la portano
a una continua trasformazione
evolutiva o involutiva (condensazione o rarefazione),
è basata su tre principi
costitutivi coi quali si identifica nel suo
passaggio da natura “immanifesta” a
“manifesta”. Tali suoi principi costituenti
(i gunâ) sono: il sattva,
il rajas e il tamas (strofa 11 e cinque successive). Il sattva
è principio della luminosità, delle leggerezza
e della gioia, il rajas del movimento, dell’attività
e della passionalità, il tamas dell’oscurità, della pesantezza e
dell’inerzia. Come si vede questi principi
concernono sia aspetti della materia
bruta che aspetti della materia vivente,
a conferma di un criterio pervadente
tutta la speculazione indiana, secondo cui
il mondo inanimato e quello animato
hanno sostanzialmente la stessa natura. All’interno
di quello animato inoltre
non esiste alcuna differenza sostanziale
e alcuna gerarchizzazione tra forme di
vita inferiori e superiori (uomo compreso),
trattandosi sempre di aspetti
diversi di uno stesso ordine di enti. L’attività
dei costituenti ha un
immediato riscontro anche sul corpo vivente,
come recita la strofa 13:
Il sattva è illuminante e leggero; il rajas mobile
e stimolante; il tamas ostruttivo e greve. Il loro funzionamento
è
ordinato a un fine, come avviene per la lampada.
[27]
E Gaudapada commenta:
Il sattva è illuminante e leggero”. Quando il sattva prevale,
allora le membra si fanno leggere, la mente
luminosa, i sensi chiari. “il rajas
mobile e stimolante”, stimolante nel senso
di incentivo all’azione. Infatti
come un toro si eccita molto scorgendo un
altro toro, così avviene per il
funzionamento del rajas; il quale è poi anche mobile onde quegli
cui è
connaturato il rajas risulta di animo mutevole. “Il tamas ostruttivo
e greve”. Allorché prevale il tamas le membra diventano pesanti e i
sensi obnubilati, incapaci di apprendere
i rispettivi oggetti. A questo punto
però vien fatto di chiedersi: se gli elementi
costitutivi sono opposti tra
loro, come potranno produrre qualcosa? “Il
loro funzionamento è ordinato a un
fine, come avviene per la lampada.” Infatti
a quel modo che la lampada, in
virtù della combinazione di olio, fuoco e
lucignolo che sono tra loro contrari,
illumina gli oggetti, non altrimenti sativa, rajas e tamas, sebbene
tra loro contrari, ciononostante possono produrre una cosa. [28]
La differenza
fondamentale tra i molteplici aspetti della
natura consiste unicamente nello “spessore”
della materia che li
costituisce e dal complesso gioco oppositivo
e combinativo dei tre elementi
costitutivi appena considerati, per cui la
ragione individuale (la buddhi)
è costituita da materia “sottile”, mentre
la terra, nelle sue varie
composizioni, è costituita di materia “spessa”.
La buddhi è il nucleo
materiale e intellettuale dell’individuo,
dal quale si sviluppa il “farsi io”
(l’ahankâra). Ma questa è l’individualità materiale
e sofferente, che in
quanto tale induce all’errore e all’ignoranza
dell’autentica individualità
spirituale, l’anima (il purusha), che essendo inattiva e trascendente
rimane, nella sua inattività, fuori dal gioco.
Ma ogni anima è differente da
tutte le altre, come lo sono i corpi che
le avvolgono, e questa è una
conseguenza della pluralità generata dal
combinarsi dei tre elementi
costitutivi.
L’ahankâra (derivato
dalla buddhi), come sentimento materiale e generale del
sentirsi “io” è,
in seconda battuta, la causa evolutiva degli
“undici sensi”, dai quali si
origina tutta l’altra realtà materiale. Esso pertanto genera: 1) il
pensiero (manas) e le cinque facoltà (sensi mentali) che
permettono di
conoscere il mondo, cioè 2) l’udito, 3) il
tatto, 4) la vista, 5) il gusto e 6)
l’odorato. Ma anche le cinque facoltà deputate
all’azione (sensi d’azione): 7)
la favella, 8) la presa, 9) la deambulazione,
10) l’evacuazione intestinale,
11) la procreazione. I cinque sensi
mentali generano, in quanto “elementi sottili”,
i cinque “elementi grossi” del
cosmo, ovvero la terra, l’acqua, il fuoco,
l’aria e l’etere (lo spazio vuoto).
La mente, come
espressione più alta della natura, sembra
porsi al servizio dell’anima che deve
liberare, infatti (strofa 37):
Dal momento che la mente tutto ciò che procura
lo procura
perché l’anima ne possa fruire è dunque essa,
la mente, che distingue la
sottile differenza tra natura ed anima. [29]
E questo viene ribadito con una metafora
alla strofa 59 e
da un successivo chiarimento alla 60, che
leggiamo accompagnate dai relativi
commenti:
Come la danzatrice smette di danzare dopo
essersi mostrata al
pubblico, così la natura cessa la sua attività
essendosi manifestata all’anima.
“Come la danzatrice”, avendo
mostrato al pubblico episodi accompagnati
da musiche e canti insieme con
sentimenti estetici quali l’erotico eccetera
e le loro rispettive basi
rappresentate dalla vicenda eccetera, “smette
di danzare” compiuto il proprio
dovere, egualmente la natura, mostratasi
all’anima secondo le differenti forme
della mente, del senso dell’io, degli elementi
sottili e degli elementi grossi,
smette la sua attività [involvendo allo stato
elementare]. Viene spiegato ora
quale sia la causa di questo venir meno della
natura. [30]
La natura che è generosa e provvista degli
elementi
costitutivi, con innumerevoli mezzi, senza
alcun beneficio per sé, compie
l’utile dell’anima che è sprovvista degli
elementi costitutivi e non la
ricambia in nulla.
“Con innumerevoli mezzi” la
natura si dimostra generosa nei riguardi
dell’anima “che non la ricambia in
nulla”. E come? Attraverso le forme divine,
umane e animali, attraverso le
forme del piacere, del dolore e dell’offuscamento,
attraverso gli oggetti dei
sensi, quali il suono e tutti gli altri.
E così, manifestatasi con innumerevoli
mezzi, la natura, dopo aver così discriminato:
“questo sono io e questo sei
tu”, viene meno. Simile in questo a quel
generoso che fa del bene a tutti senza
bramare nulla in cambio per sé. […][31]
L’anima liberata, tuttavia, nella sua immobilità
ed
inerzia, risulterebbe poi essere lo “scopo”
ultimo dei cicli di aggregazione e
disgregazione della materia, infatti, tutta
la fenomenologia della prakriti sembra
avere la sua ultima ragion d’essere nella
liberazione dei purusha [32].
Poco oltre (strofa 65) Isvarakrisna descrive
l’anima che
contempla la natura come se la fenomenologia
di questa fosse uno spettacolo:
In virtù di ciò l’anima, che se
ne sta raccolta in se stessa al proprio posto
come uno spettatore, vede la
natura che ha cessato di esser produttiva
e che risulta svincolata dalle sette
forme [virtù, distacco, potere, vizio, ignoranza,
attaccamento e non-potere]
per avere alfine compiuto il fine dell’anima.
[33]
La liberazione dell’anima avviene nel momento
in cui essa,
contemplando la materia “che ha danzato per
lei”, la riconosce per quello che
è, e nel contempo scopre il proprio destino
(“il fine dell’anima”). Ci avviamo
ora alla conclusione delle Sâmkhya-Kârikâ riportando di seguito e senza
commento le strofe da 66 a 69 [34]:
(66) (L’anima), una, è
indifferente come uno spettatore di teatro;
(la natura), una, cessa la sua
attività, quando sa di essere stata vista.
Malgrado il contrasto esistente tra
i due, non sussiste movente alla creazione
[nel senso che il processo virtuoso
è così concluso].
(67) Ottenuta la perfetta
conoscenza, la virtù e le altre forme divengono
improduttive, tuttavia per
effetto degli impulsi carmici il corpo permane
ancora, così come accade col
movimento della ruota.
(68) Avvenuta la separazione del
corpo [con la morte] e avendo la natura,
poiché il suo fine è compiuto, cessato
l’attività, l’anima perviene all’isolamento
assoluto e definitivo.
(69) Questa segreta conoscenza
intesa a compiere il fine dell’anima e nella
quale sono considerate nascita,
durata e dissoluzione degli esseri stata
rettamente esposta dal sommo veggente
[Kapila].
A chiusura di
questo paragrafo si rende doverosa un’ultima
considerazione sull’ammissione o
meno di entità divine da parte del Sâmkhya. La questione si pone
pressappoco negli stessi termini in cui si
poneva per l’epicureismo e, come
vedremo, per il buddhismo. Gli dèi non vengono
negati, ma sono irrilevanti ai
fini del sistema, nel senso che essi sono
estranei al mondo degli uomini e
incapaci di agire sui loro destini. Come
per gli altri sistemi che abbiamo
citato, gli dèi costituiscono un residuo
della tradizione culturale che non si
vede alcuna buona ragione di espungere, dal
momento che la loro ammissione o
negazione è irrilevante ai fini della filosofia
che si propone. In più (come
aveva ben imparato Epicuro) è inutile farsi
dei nemici distruggendo delle
ipostasi da tutti riconosciute, senza che
ciò comporti sul piano teoretico
vantaggi significativi. Ovviamente il discorso
risulterebbe totalmente diverso
nei confronti dei monoteismi abramitici,
poiché la negazione del Dio da essi
posto e delle sue prerogative risulta elemento
teorico irrinunciabile per
qualunque filosofia atea.
6.3
Jainismo.
Il sistema jaina
è considerato ateistico e tuttavia, più del
Shâmkhya e più del
Buddhismo (con cui ha molto in comune sul
piano etico), possiede i
caratteri di una religione, o meglio quelli
di una filosofia gnostica
rigorosamente soteriologica, quantunque ricca
di aspetti teoretici piuttosto
interessanti. Si tratta di una filosofia
probabilmente tra le più antiche, che
ha ricevuto formulazione tra il VI e il V
sec. a.C. da parte di Vardhamâna (in
seguito chiamato Mahâvîra). I giainisti però
non considerano Mahâvîra il
fondatore, in quanto esso non sarebbe che
l’ultimo (il ventiquattresimo) di una
lunga serie di tirthankara (“preparatori del “guado”), ventidue dei
quali sono assolutamente mitici, mentre il
ventitreesimo (Pârshva) sembra
essere un personaggio storico reale, che
sarebbe vissuto 246 anni prima di
Mahâvîra. Quindi, se questo ha raggiunto
il nirvana (come i giainisti
sostengono) nel 526 a.C. se ne deduce che
Pârshva sarebbe morto nel 772 a.C.
Questa periodizzazione sembra essere piuttosto
schematica, come d’altra parte
lo sono molti aspetti della dottrina giainistica,
caratterizzata da una certa
rigidità concettuale, nonché da una notevole
intransigenza nelle regole di
vita. Va tuttavia subito rilevato che delle
quattro filosofie ateistiche che
qui presentiamo il Giainismo è l’unica che
conti tutt’oggi in India un numero
significativo di adepti [35],
concentrati prevalentemente nel Gujarât e
perlopiù appartenenti a classi alte o
comunque facoltose.
Un aspetto non
secondario sta anche nel fatto che il Giainismo,
a differenza di molte altre
filosofie e religioni indiane, caratterizzate
da rilevanti trasformazioni,
modificazioni ed adattamenti, ha mantenuto quasi intatta
la sua dottrina
da diversi secoli a questa parte, a testimonianza
di una rara solidità
dottrinaria. La filosofia giainista presenta
(insieme a quella buddhista) il
rifiuto dell’autorità dei Veda e insieme il rifiuto del sistema
brahmanico delle caste; essa è infatti aperta
a tutti (indipendentemente dalla
condizione), ma impone un rigido canone comportamentale
(almeno nelle forme
monastiche) [36]. Il
Giainismo è una dottrina che propone il superamento
del ciclo delle rinascite
(il samsâra) verso uno stadio finale di ascesi nirvanica,
ma lascia ai
laici delle regole meno rigide, sotto le
forme di una propedeutica al nirvana,
colla quale la materialità che ci costituisce
e ci affligge viene superata
definitivamente. In altri termini, mentre
l’asceta raggiunge “prima” la
liberazione dalla materia il laico ci arriva
“più tardi”.
I Tirthamkara,
a cui abbiamo già accennato, sono una sorta
di profeti o padri spirituali che
in varie fasi cosmiche hanno rivelato la
via della salvezza ( il “guado”) agli
uomini comuni. La comunità giaina ha subìto
(a causa di divergenze sulla
disciplina e sulla dottrina) una scissione
nel 79 a.C., dividendosi in due
comunità: quella dei Digambara (in sanscrito:
vestiti d’aria) e quella degli
Svetambara (= vestiti di bianco). I primi,
secondo le regole imposte da
Mahavira, dovrebbero andare in giro completamente
nudi (in realtà questa regola
è stata sempre poco osservata), mentre i
secondi portano una veste bianca.
Secondo la
dottrina del Giainismo l’universo, eterno
e increato, è visto come un immenso
ed eterno organismo a più livelli, costituito
da anime individuali (jîvâ),
anch’esse eterne, e dall’insieme dei corpi
inanimati (ajîva).
Pressappoco come nel Sâmkhya le anime sono
infinite di numero mentre la materia
(pur costituita da atomi) è considerata un
insieme unitario, ma la grande
differenza sta nel fatto che mentre nel Sâmkhya
le anime (là chiamate purusha)
e la materia (la prakriti) sono completamente separati, nel Jaina
le
anime sono pervase di materia. Questa, nella
misura in cui “infetta” l’anima
(quale monade spirituale), ne determina il
collocamento ad un certo “livello”
dell’universo, il più elevato dei quali è
quello della liberazione definitiva
dalla materia coincidente col conseguimento
del nirvana. Queste anime
sono anche principi animatori dei corpi e
quindi principi vitali, in quanto
tali che non hanno le caratteristiche
di una sostanza unitaria posta in una zona
del corpo ma piuttosto quella di un
fluido che pervade il corpo stesso in ogni
sua parte. Ma nello stesso tempo
essa è a sua volta pervasa dalla materia
di cui è affetta e dalla quale si deve
liberare. La materia, o l “inanimato”, si
presenta in cinque forme: a) la pugdala
(materia vera e propria), che si presenta
in forma elementare (anu)
o aggregata (skanda), b) il dharma (principio del movimento),
c) l’adharma (principio del riposo), d) l’akasa (lo spazio, come
contenitore di tutto ciò che esiste, che
viene definito da un numero infinito
di punti (pradesâ), e) il kala (il tempo, divisibile in istanti,
dove l’istante (samaya) è il tempo che un atomo impiega per passare
da
un punto spaziale a un altro.
Le sette verità
fondamentali (tattvâ), vere categorie dell’essere, sono 1) le
anime, 2) l’inanimato, 3) gli influssi (âsravâ),con cui la materia
pervade le anime, 4), il legame (bandha), 5) difesa (samvara),
l’estirpazione (nirjarâ) e infine 7) la liberazione (moksha). Le
prime due sono le “sostanze” del divenire
cosmico, mentre le altre cinque sono
gli “stati” che caratterizzano la condizione
in cui può presentarsi l’anima (jîva)
. Le anime individuali, nella fenomenologia
dell’affezione della materia
fino alla liberazione finale, soggiacciono
al legame con essa e da ciò ne
traggono una certa “colorazione”. I colori
(lesyâ) sono variabili
secondo una scala ascendente, dove la monade
spirituale risulta più o meno
legata alla materia che la pervade in base
al colore che ne deriva (nero, blu,
grigio, rosso, giallo, bianco); dove il colore
più chiaro corrisponde allo
stato, o livello, del moksha (la liberazione). Ma la materia che pervade
l’anima e la invischia nel ciclo delle rinascite
non è poi nient’altro che il karma;
quindi questo, nella dottrina giainista,
è considerato non una legge astratta
che regola la trasmigrazione, bensì una materia
concreta, una materia
“karmica”, appunto, della quale l’anima si
deve liberare per raggiungere lo
stato di perfezione e la sua autenticità.
Il karma opera sull’anima in
otto maniere diverse: 1) impedendo la retta
visione della realtà, 2) offuscando
le capacità intellettive, 3) rendendoci sensibili
alla gioia e al dolore, 4)
turbando la fede nella verità e inducendo
a condotte scorrette, 5) determinando
la straticazione degli esseri secondo vari
livelli, 6) determinando la psiche
del soggetto, 7) determinando lo stato sociale
di ogni individuo, 8) impedendo
all’anima di fruire delle sue facoltà. Sono
questi gli “otto modi del karma”
che vengono dai dogmatici successivamente
suddivisi in 148 sottomodi.
In realtà il karma,
che inquina l’anima, cresce o diminuisce
nella misura in cui l’agire è negativo
o positivo. L’azione buona porta al rilascio
di karma, ovvero al
suo consumo, mente quella cattiva ne assume
del nuovo. Una persona durante la
propria vita, affinché nella successiva possa
collocarsi ad un livello
superiore, deve “alleggerire” la sua anima
di karma, per far ciò deve
“consumare” quello accumulato nella vita
precedente, e nel contempo fare in
modo che il nuovo accumulo dovuto alle cattive
azioni sia nettamente inferiore
al rilascio determinato da quelle buone.
Tuttavia, al di là del proposito di agire
bene o male, è soltanto in
base a una legge cosmica, che trascende gli
individui, che si determina la
quantità di karma che in seguito all’azione viene consumato
o acquisito
dall’anima, e tale effetto non è immediato,
ma a posteriori. D’altra parte,
l’anima sembra essere non soltanto l’entità
personale che subisce gli effetti
dell’azione, ma, in quanto tutt’uno con la
persona con cui si identifica,
essere nel contempo soggetto ed oggetto della
propria liberazione, come si
evince da questo passo (Viyâhapanatti, 7,
10):
Come quando un uomo mangia un cibo gustoso…mescolato
con veleno
e dopo averlo inghiottito apparisce in buona
salute, ma poi cambia le proprie
condizioni [in peggio],…così cambiano le
anime se danneggiano il prossimo,
mentiscono, si appropriano indebitamente
di beni altrui…Come quando un uomo
mangia un cibo gustoso…mescolato con sostanze
salutari e subito dopo averlo
inghiottito non diventa sano, ma poi cambia
le proprie condizioni [in meglio],
così si comportano le anime che si astengono
dal danneggiare il prossimo, dal
mentire, dall’appropriarsi indebitamente
dei beni altrui…[37]
Il Giainismo,
come si noterà, si presenta come una dottrina
salvifica abbastanza simile al
Sâmkhya sul piano teoretico, ma molto più
rigida e dogmatica nelle sue
definizioni e nelle sue regole comportamentali;
una caratteristica che ci
permette di affermare che esso, pur negando
ogni riferimento alla divinità,
presenta in definitiva i caratteri di una
di religione laica e nello stesso
tempo mistica. Si pensi alla liberazione dell’anima concepita
come una
salita di 14 gradini, ordinati non secondo
un principio cronologico bensì
logico-mistico. L’asceta che applica rigorosamente
le regole può fare “salti”
di livello come può patire “discese” nel
caso che si distragga, ma a partire
dall’undicesimo livello (quello dell’asceta
che si è completamente liberato
dalle passioni) si ascende rigorosamente
per gradi contigui. Siccome le azioni
producono karma (che vincola l’anima a sé), si potrebbe pensare
che,
interrompendo la morte ogni attività, potrebbe
risultare consigliabile il
suicidio al fine di sfuggire ad esse. In
realtà il suicidio è ammesso soltanto
dopo l’undicesimo stadio, quando può venire
attuato in uno stato di pura
razionalità che tiene lontani dalle passioni.
Un elemento
caratteristico del Giainismo, che lo rende
unico nel suo genere (e per alcuni
versi paradossale), è la prescrizione di
non uccidere, per nessuna ragione,
qualsivoglia essere vivente. Essa deriva
dal fatto che per questa filosofia
tutto ha un anima (non solo quindi animali
e piante, ma persino molecole di
materia). L’uccisione anche accidentale e
involontaria di un essere vivente è
una colpa che aumenta di molto la materia
karmica che affetta l’anima e quindi
ne favorisce la regressione di livello. È
per questa ragione che gli animali da
preda sono considerati inferiori agli erbivori,
così come lo sono, tra gli
uomini, i guerrieri, i cacciatori, i macellai,
ecc. Si arriva così al punto che
un giainista ordodosso ponga davanti alla
bocca una mascherina per evitare di
inghiottire involontariamente qualche microscopico
essere vivente che vola. La
dottrina jaina in questo suo conferire importanza essenziale
all’azione
o all’inazione piuttosto che all’atteggiamento
mentale non manca di elementi di
una certa rozzezza, ove confrontata, per
esempio, col Buddhismo, che presenta
un’analoga dottrina di liberazione, ma non
basata tanto su regole meccaniche
quanto su atteggiamenti e sentimenti, i quali
semmai presuppongono un controllo
psichico piuttosto che motorio. Vi è
quindi nel giainismo una specie di ingenuo
materialismo (si pensi anche al karma
quale “materia” karmica che “si attacca”
all’anima e la invischia nelle
rinascite) che genera qualche incoerenza
con lo spiritualismo implicito nella
“liberazione dell’anima” dalla materialità.
L’asceta giaina
(analogamente a quello taoista) non agisce
sugli altri e non reagisce a ciò che
colpisce la sua persona. Si sottopone a una
disciplina rigidissima, sia per il
corpo che per la psiche, cercando di conseguire
l’indifferenza assoluta nei
confronti del mondo, eliminando così via
via ogni traccia di materiale karmico.
La regola imporrebbe anche di non lavarsi
e di trascurare la cura del corpo,
dormire sulla nuda terra o quanto meno su
un supporto duro, vivere di questua e
mangiare solo gli avanzi donatigli da altri
aderenti alla fede.
Per quanto
riguarda la gnoseologia della materia (basata
sulla sensazione) quanto più la
conoscenza delle cose del mondo è diretta
e immediata tanto più è veritiera. La
dottrina conoscitiva si compone di sette
modalità di conoscenza, o punti di
vista, (abituale, sintetica, generica, empirica,
attuale, espressiva,
strutturale). La verità viene acquisita soltanto
allorché le condizioni di
tutte le sette modalità vengono rispettate;
la conoscenza assoluta è pertanto,
in sé, molteplice. La realtà nella sua pluralità
va pertanto affrontata con un
criterio altrettanto plurale, che non ne
trascuri alcun aspetto né modalità di
approccio. La dottrina jaina è pertanto vagamente spiritualistica nei
fini, ma piuttosto materialista nel suo concepire
le anime come delle entità
attive sempre mescolate, dal più al meno,
con la materia colla quale convivono
e dalla quale si lasciano caratterizzare
(teoria dei “colori”). Il Della Casa
(noto studioso italiano del Gianismo) vede
in essa dei tratti riconducibili
all’atomismo vaiseshika e quale « […] antica documentazione di un
ramo
della ricerca filosofica indiana, quello
che parte dall’osservazione della
natura e giunge all’ammissione dell’esistenza
di una moltitudine di anime
attive, in contrasto con l’altra grande corrente
della speculazione, culminante
nell’accettazione dell’Assoluto [l’unione
di atman e brahman],
del quale l’anima individuale non è che un
riflesso illusorio.» [38]
6.4 Il
Buddhismo originario.
Abbiamo
aggiunto l’aggettivo “originario” al titolo
del presente paragrafo perché Il
Buddhismo, alle sue origini, è una filosofia
i cui pochi principi si ispirano a
una visione del mondo sicuramente atea, ma
essi sono poi di tale ampiezza
concettuale e di tale estensione universalistica
che tale filosofia si è
prestata a numerosi sviluppi religiosi entro
e fuori dell’India. È questa la
ragione per cui abbiamo ritenuto indispensabile
tale precisazione, in quanto il
Buddhismo, ateo nella sua accezione primaria
più specificamente filosofica e
“terapeutica” (riconducibile a Siddharta
Gotama, il Buddha, e ai primi suoi
seguaci) è stato in seguito piegato a
fornire risposte ad esigenze sacrali e verso
weltanschauungen
panteistiche, le une e le altre più coerenti
col contesto tradizionale indiano.
Ne sono nate dottrine buddhistiche nelle
quali il fondatore diventa figura
profetica e prototipo di entità perfette
e ultramondane accedute a un “tutto”
eterno trascendente la materia, tradendo
in parte le premesse iniziali del
messaggio di Siddharta, che nella seguente
celebre frase seguente aveva preso
le distanze da ogni arbitraria estrapolazione
estensiva della sua dottrina:
Quindi, Malunkyaputta, tieni presente quello
che ho spiegato
perché l’ho spiegato e quello che non ho
spiegato perché non l’ho spiegato.
Quali sono le cose che non ho spiegato? Se
l’universo è eterno o no; se
l’universo è finito o no; se l’anima è la
stessa cosa del corpo o no […] [39]
Siddharta delimina quindi il campo in cui
si muove la
dottrina che propone, quello di un pensiero
pragmaticamente legato all’azione
piuttosto che alla speculazione metafisica.
È per tale ragione che la filosofia
del Buddha è in un certo senso
“antifilosofica”, nella misura in cui non
espone una teoria né si
interessa di principi universali, ma unicamente
dell’eliminazione del dolore
dall’esistenza umana, attraverso il conseguimento
“prima” di una tranquillità
che lo attenui e “poi” della sua definitiva
cassazione col raggiungimento del nirvana.
Per noi occidentali, eredi della tradizione
speculativa greca, un primo
approccio al Buddhismo non può che riservare
un leggero sconcerto. Per noi
“conoscenza” significa, in generale, una
nozione che ci deriva da un’indagine
oggettiva su un oggetto, la quale, sottoposta
alle opportune verifiche, ci dice
“che cosa esso è”, “perché è”, “come è”,
ecc.
Nel Buddhismo (ma ciò vale in generale per
molta filosofia orientale)
una conoscenza di tal genere, alla quale
non sia immediatamente connessa e conseguenziale
una regola d’azione, è
considerata completamente oziosa. In un certo
senso il Buddha ci ha dato,
ventisei secoli fa, una sintesi di ciò che
può essere una filosofia della
prassi a livello individuale. È difficile
non restare sorpresi nell’apprendere
come venga sintetizzata la conoscenza del
Buddha nelle parole del suo fedele e
stimato allievo Sâriputto:
Egli conosce, egli conosce, o fratello: perciò
viene chiamato
conoscente; e che cosa conosce? Conosce “Questo
è il dolore”; conosce “Questa è
l’origine del dolore”; conosce “Questo è
l’annientamento del dolore”; “Questa è
la via che mena all’annientamento del dolore”.
Egli conosce, egli conosce o
fratello: perciò viene chiamato conoscente.
[40]
Conoscere pertanto la cosa, la sua origine,
la possibilità
di agire su di essa, la via per mettere in
atto la sua eliminazione, è
un’articolazione della conoscenza che culmina
nell’azione risolutiva del
problema posto dalla cosa stessa. Il dolore
è “questa cosa”, che Siddharta pone
a base del suo “conoscere”, ed è da ciò che
fa derivare la via all “agire” che
legittima il conoscere. Vedremo in seguito
che la sintesi di Sâriputto si
riferisce alle “quattro nobili verità”, che
sono uno dei fondamenti della
dottrina buddhista.
Fatte queste
anticipazioni, e nell’intento di riferirci
(per quanto risulti possibile) alla
predicazione originale di Siddharta dobbiamo
precisare che temporalmente noi
resteremo quindi per un verso aldiquà delle
differenziazioni afferenti la
diaspora buddhistica (e delle previe differenziazioni
della dottrina primitiva)
nei paesi extraindiani (riferibile agli ultimi
secoli a.C.) e per altro verso
presteremo attenzione a come esso (in chiave
prevalentemente atea) abbia fatto
breccia nella cultura occidentale moderna
a partire dal XVIII secolo.
L’operazione che ci siamo proposti è infatti
quella di isolare il nucleo ateo
del Buddhismo rispetto ai suoi posteriori
sviluppi panteistici.[41]
Operazione non troppo facile, poiché il Buddha
(in sanscrito “il Risvegliato”)
non ha lasciato nulla di scritto e le sue
parabole e i suoi aforismi sono stati
inizialmente trasmessi soltanto a voce e
solo in seguito riportati da suoi
seguaci per iscritto nel cosiddetto “Canone
Pâli”, un complesso di
testimonianze sul suo insegnamento, la cui
veridicità si sottrae a qualsiasi
verifica.
Secondo una
classificazione moderna, sono individuabili
almeno tre scuole di pensiero relative
a quello che viene chiamato “Piccolo Veicolo”
e due scuole principali afferenti
il “Grande Veicolo”, più altri sistemi “misti”
e numerose filiazioni, tra le
quali le più interessanti sono quelle cinesi
e giapponesi. Il destino del
Buddhismo rappresenta una di quelle straordinarie
vicende storiche che non
finiscono di stupire per la loro complessità.
Sia nel suo grande successo
iniziale in patria (dall’avvento del Buddha
fino all’VIII secolo della nostra
era) sia nella sua successiva eclissi sul
suolo indiano a partire dall’XI
secolo. Eclissi peraltro bilanciata dalla
sua affermazione in diversi altri
paesi dell’Asia (in alcuni dei quali sarebbe
poi diventata religione di stato)
e da una più tarda diffusione nella cultura
occidentale. In questo ambito ha prodotto
influenze importanti nella filosofia [42]
e nella letteratura [43],
dando anche luogo a comunità praticanti una
religiosità spiritualistica
alternativa (e per molti versi contraria)
a quella cristiana, le quali contano
oggi centinaia di migliaia di aderenti [44].
Nel nostro
tentativo di individuare il nucleo essenziale
del Buddhismo primitivo ci rifaremo quindi a quei testi che gli
indologi ritengono più fedeli alla dottrina
esposta da Siddharta Gautama, il
quale aveva introdotto, a circa metà del
primo millennio a.C., un insieme di
dirompenti novità nel contesto della cultura
indiana, sia sul piano filosofico,
sia su quello esistenziale e sia su quello
sociale. Prima del Buddha veniva
presupposto un universo “reale”, costituito
da sostanze eterne dalle quali
desumere principi altrettanto eterni sulle
origini e sulla realtà della
molteplicità dell’essere del mondo. Di qui
i postulati dell’esistenza di una
materia, di uno spirito, di divinità, di
anime, di corpi, ecc. Il Buddha rompe con tutto ciò, fornendo
l’immagine di un cosmo inconsistente e impermanente,
pura apparenza fallace,
nel quale solo le forze psichiche con cui
possiamo accedere ad esso (e
superarlo) sono reali, ma all’interno di
una realtà generale che si estrinseca
nella sofferenza infinita, a cui si può porre
rimedio solo scegliendo la strada
che porta al traguardo nirvanico. Nel Buddhismo
tutto diventa transeunte, ed
ogni aspetto del mondo si tramuta continuamente
in un altro nel flusso di un
inarrestabile divenire, dove tutto appare e svanisce in un’assoluta
“impermanenza”. Le percezioni sensibili e
i dati della coscienza (i dharmâ)
sono gli unici elementi di riferimento; dietro
di essi vi è il “vuoto” e
nessuna sostanza che li supporti. Perciò
i dharmâ “divengono”
continuamente l’uno nell’altro, appaiono
e spariscono, cause ed effetti ad un
tempo. Essi sono tra loro interdipendenti
e danno luogo ad un continuum
inconsistente, determinato soltanto dal rapporto
tra “stati” molteplici di un
unico principio cosmico, sfuggente ed indefinibile.
Ma non meno importante è la
dirompente portata sociale di una dottrina
che abolisce le differenze di casta,
ben resa da questa lapidaria dichiarazione:
(136) Non per nascita si è paria, non per nascita si
è
brâhmani: Per le azioni si è paria, per le
azioni si è brahmani. [45]
Il flusso dei dharmâ
e il loro “nesso causale” è tutto ciò che
ci è dato intuire della realtà;
quindi noi riusciamo a cogliere il processo
ma non gli elementi del processo
stesso. Il Buddha si presenta come un medico
dell’anima, il suo scopo è
“guarire” dall’ignoranza e dal suo frutto
più nefasto: la brama di vivere e di
fruire dei frutti avvelenati che il mondo
percepibile offre. Ignoranza
superabile soltanto con la conoscenza, l’interiorizzazione
e l’applicazione
pratica di ciò che concerne le “quattro sublimi
verità”. Lo Zimmer sintetizza
il concetto-base del Buddhismo con queste
parole: «Questa ignoranza è una
funzione naturale del processo vitale, ma
non è necessariamente ineliminabile;
non più ineliminabile dell’innocenza di un
bambino. Il problema è che noi non
riconosciamo che ci stiamo muovendo in un
mondo di semplici convenzioni, da cui
sono determinati i nostri sentimenti, i nostri
pensieri e i nostri atti. Noi
crediamo che le nostre idee sulle cose rappresentino
la realtà ultima e così
rimaniamo intrappolati nelle maglie di una
rete. Queste idee sono radicate
nella nostra coscienza e nei nostri atteggiamenti;
sono mere creazioni della
mente; sono categorie convenzionali, modi
involontari di vedere, di giudicare e
di comportarsi; tuttavia la nostra ignoranza
le accetta senza remore, senza
dubbi, considerando esse e i loro contenuti
come dati di fatto. Questa
concezione errata della vera essenza della
realtà è la causa di tutte le
sofferenze che colpiscono le nostre esistenze.
» [46] È infatti il dolore l’onnipervadente
dominatore del mondo e dell’esistere e all’eliminazione
di esso tende tutta la
dottrina di Siddharta Gautama.
Avevamo già
visto nel Samkhya e nel Giainismo che il
problema posto era quello di liberarsi
dall’ignoranza, ma qui abbiamo una ulteriore
radicalizzazione concettuale dove
l’ignoranza diventa un “sonno” della conoscenza
da cui ci si deve
“risvegliare”. Se non c’è risveglio si continua
avenire illusi da una realtà
che non esiste e che ci fa rimanere vittime
del dolore, mostro vero di una
falsa illusione, la cui tragica presenza
affligge tutto ciò che vive e si
dibatte inutilmente tra le sue spire. Precisa
ancora lo Zimmer circa questa
“illusione”: «Le tragedie e le commedie in
cui siamo coinvolti, che creiamo noi
stessi e in cui non agiamo, si sviluppano
automaticamente dalla nostra
condizione di ignoranza, la quale genera
nel mondo sensazioni e concetti
limitati. I desideri e le aspettative inconsce,
che nascono in noi sotto forma
di decisioni e di atti soggettivi, trascendono
in realtà i limiti del presente,
infatti, sono determinati dal passato e decidono
del nostro futuro. Ereditati
dalle precedenti esistenze, essi determinano
le future nascite, il flusso
ininterrotto della vita in cui siamo trascinati,
ben al di là dei limiti della
nascita e della morte di ciascun individuo.
In altri termini, le malattie non
possono essere viste come errori individuali;
esse sono radicate nel sistema di vita a cui si attiene comunemente
il genere umano, che è mosso da un insieme
patologico di desideri
insoddisfatti, di brame vessatorie, di paure,
di rimpianti e di pene.» [47] Ma come guarire da questa malattia
esistenziale? Innanzitutto cominciando col
conoscere le “Quattro nobili
verità”, le quali recitano: 1) Tutta la vita
è sofferenza, 2) La causa della
sofferenza è il desiderio che nasce dall’ignoranza,
3) È possibile eliminare la
sofferenza, 4) La via è il Nobile Ottuplice
Sentiero.
Leggiamo allora
in che cosa consista L’Ottuplice Sentiero
in questa esortazione esemplare:
Questa, o monaci, la nobile verità sul dolore:
la nascita è
dolore, la vecchiaia è dolore, la morte è
dolore, l’unione con ciò che si ama è
dolore, la separazione da ciò che si ama
è dolore. Dolore è non raggiungere ciò
che si desidera. I cinque legami (skandha) sono dolore. Questa, o
monaci, la nobile verità sull’origine del
dolore: la bramosia che si rinnova ad
ogni rinascita, la ricerca del piacere delle
cose terrene e l’avidità, la
bramosia del divenire e dell’essere, la bramosia
dell’impermanenza. Questa, o
monaci, la nobile verità sull’origine del
dolore: l’eliminazione della bramosia
attraverso l’annullamento dei desideri, la
rinuncia totale al desiderio, il
distacco assoluto da tutto ciò che si desidera.
Questa, o monaci, la nobile verità
sulla cessazione del dolore: il nobile ottuplice
sentiero – retta visione,
retta risoluzione, retto parlare, retto agire,
retto modo di sostentarsi, retto
sforzo, retta concentrazione, retta meditazione.
[48]
Incontriamo qui un elemento da sottolineare,
al fine di
evitare fraintendimenti nel prosieguo di
questa nostra analisi. L’indirizzo ai
“monaci” e gli obbiettivi di “santificazione”
ricorrenti nei testi buddhisti vanno letti “entro” la dottrina stessa e
non
riferiti ai significati che nel mondo occidentale
pertengono a questi
sostantivi, cioè il loro esclusivo riferimento
alla religione. In un contesto,
quello indiano, dove tutta la cultura tende
e ha teso in passato sempre a fini
in qualche modo “religiosi” non deve stupire
se il Buddha nei suoi indirizzi e
nei suoi proclami usi un linguaggio di questo
tipo. In realtà i “monaci” sono
coloro che si dedicano alla meditazione e
che procedono in un cammino verso la
conoscenza, destinato a culminare nello stato
nirvanico (quale abbandono
definitivo del samsâra) che è appunto una condizione di “santità”.
Ma
questa santità non è un’approssimarsi a qualche
entità divina, bensì la
condizione di beatitudine che corrisponde
al nirvana (nibbâna in
Pâli). Il processo che ad esso porta è in
realtà soltanto una “tecnica”
ascetica, che mira pragmaticamente al conseguimento
utilitaristico di una
condizione privilegiata per l’individuo che
la pratica, e che non possiede
quindi alcuna connotazione religiosa.
In un certo senso nel Buddhismo il monachesimo
è strumentale, in quanto
la condizione del monaco (bhikkhu) e la sua ascesi conoscitiva
sono gli “strumenti” pratici per liberarsi
dal dolore e dal samsâra, non
facendo riferimento ad alcunché che trascenda
questo fine pratico.
Vediamo ora nel
dettaglio gli aspetti salienti della dottrina
buddhista. Cominceremo con quella
che qualcuno chiama “dottrina dei dharmâ”, ovvero degli “elementi” della
realtà, tenendo conto che Siddharta sembra
che non sia mai stato molto preciso
su tale argomento, ancorché la tradizione
attribuisca unanimamente a lui stesso
la formulazione di essa. I dharmâ (dhammâ in Pâli) possono
essere considerati gli elementi o i fattori
del divenire cosmico, che si
presentano come i punti che si susseguono
e scompaiono entro la linea continua
di un “flusso” che non ha inizio né fine.
Nel Dhammapada si trova uno
dei rari accenni ai dharmâ sotto il termine di “elementi”:
(1) Gli elementi sono predeterminati dai
pensieri, sono cumuli
di pensieri, sono fatti di pensieri. Se un
uomo oscuramente parla od agisce, il
dolore lo segue, come la ruota segue il piede
di chi la tira. (2) Gli elementi
sono predeterminati dai pensieri, sono cumuli
di pensieri, sono fatti di
pensieri. Se un uomo oscuramente parla od
agisce, la gioia lo segue, come ombra
che non abbandona. [49]
Il traduttore delle due strofe (Eugenio Frola)
sottolinea
e commenta: «[…] si tratta di una proposizione chiave
per la comprensione
del buddhismo: l’influenza dei pensieri sugli
elementi. […] Dhamma […] sta nel
linguaggio tecnico buddhista a semantizzare
ciò che sostiene una qualsiasi
esperienza, cioè è l’oggetto dell’esperienza,
nel mondo oggettivo, e l’idea, il
concetto che nel mondo soggettivo sorge dall’esperienza
stessa,
ricondizionandola in seconda istanza, e che,
per effetto di questo ricondizionamento,
ne è nuova base. […] dunque dhamma è ciò
che il pensiero pensa e
contemporaneamente ciò che è predeterminato,
accumulato, fatto dal pensiero.
[50] » In altre parole e semplificando il
discorso (a correzione di una sintassi piuttosto
discutibile): reale è soltanto
il pensiero, ma di questo pensiero nulla
rimane se non un’inconsistente fluire
e trapassare in altro in un continuum senza sosta. Sembrerebbe a prima
vista di essere caduti in una sorta di mentalismo immaterialistico di
tipo berkeleyano, soltanto che le idee per
Berkeley erano gli elementi
concreti, le “sostanze”, in cui si manifesta
lo spirito divino, mentre per
Siddharta i pensieri sono fusi col loro oggetto;
i dharmâ non sono altro
che elementi materiali-immateriali
fuggevoli di un mondo apparente e impermanente:
una pura illusione che è
solo fonte di ignoranza e dolore. Questa
corrispondenza, tutta giocata
nell’assoluta impermanenza, tra il fenomeno
della percezione-pensiero da parte
di un percipiente-pensante e l’oggetto che
lo produce (a sua volta fenomeno
passeggero) genera una sorta di falsa e fugace
identità, in cui l’individuo è
un aggregato di dharmâ in rapporto con un insieme di dharmâ
antropici che lo concernono. Questi non sono
altro che una parte della totalità
dei dharmâ, ma sono quelli che interessano ogni uomo
ai fini del
superamento dell’ignoranza-dolore e per consentirgli
di poter accedere alla
conoscenza dell’Ottuplice Sentiero; iniziando
così il suo cammino verso il nirvâna.
Dal mondo,
secondo il Buddha, bisogna allora prendere
le distanze e valutarlo per quel che
è:
(170) Non indulgere a bassa
dottrina, non vivere senza vigilanza, non
indulgere a falsa opinione, non
compiacerti del mondo […]
(170) Vedi, simile ad un
bubbone, vedi, simile ad un inganno, è il
mondo: chi così vede scompare al re
della morte.
(171) Orsù vedete: il mondo è
simile ad un variopinto carro regale. Gli
stolti da lui sono travolti, il
sapiente rimane indenne. [51]
E ancora:
(937) Il mondo è del tutto
insustanziale, tutte le sue parti sono in
continua agitazione, cercando per me
un rifugio, non ne trovai alcuno in cui si
potesse dimorare.
(938) Vedendo così quegli
avversi destini, nacque in me il disgusto;
ed io scorsi allora l’occulta
freccia infissa nel cuore.
(930) Colui che colpito da
quella freccia corre qua e là per ogni dove,
ma, una volta estratta la freccia,
non erra più, ma si acquieta. [52]
La metafora
della freccia torna in un lungo apologo che
si sviluppa attraverso una serie di
strofe quasi identiche, più volte ripetute,
che rafforzano la tesi attraverso
la minima variazione della frase iniziale
(procedimento assai frequente nel Canone
Pâli):
Così come quasi, Mâlunkyâputto, se un uomo
fosse colpito con
una freccia dalla punta spalmata di veleno;
ed i suoi amici e compagni, parenti
e congiunti gli procurassero un medico chirurgo;
egli però dicesse: «Non voglio
far estrarre questa freccia, prima che io
sappia che uomo mi ha colpito: se un
guerriero o sacerdote o borghese o servo»;
e dicesse: «Non voglio far estrarre
questa freccia, prima che io sappia che uomo
mi ha colpito: di che nome, di che
gente»; e dicesse: «Non voglio [...] se alto
o basso o medio»; e dicesse: «Non
voglio [...] se alto o basso o medio»; «[…]
se nero o bruno o giallo di pelle»;
«[…] di quale villaggio o borgata o città
abitante egli sia»; «[…] che arco mi ha colpito: se il piccolo
o
il grande;«[…] che corda mi ha colpito: se
di fune o filo o tendine o cordone o
minugia»; «[…] che saetta mi ha colpito:
se di canna o di giunco»; «[…] che
saetta mi ha colpito, di che penne fornita
: se di avvoltoio o di airone o di
corvo o di pavone o di beccaccia»; «[…] che
saetta mi ha colpito, di che cuoio
guarnita: se di bue o di bufalo o di cervo
o di leone»; «[…] che cuspide mi ha
colpito, di che forma: se diritta o curva
od uncinata od attorcigliata o a
forma di dente di vaccina o di foglia d’oleandro»;
non riuscirebbe,
Mâlunkyâputto, quell’uomo a saperne abbastanza,
che prima egli se ne morrebbe.
Or è così anche appunto, Mâlunkyâputto, come
se uno dicesse
così: «Io non menerò vita religiosa presso
il Sublime, prima che il Sublime mi
abbia partecipato, se il mondo è eterno o
non eterno, se il mondo è finito o
infinito, se vita e corpo sono lo stesso
od altro è la vita ed altro il corpo,
se il Compiuto esiste o non esiste, od esiste
o non esiste, o non esiste né non
esiste dopo la morte»: non giungerebbe, Mâlunkyâputto,
il Compiuto a
partecipargli abbastanza, che quegli se ne
morrebbe. […]
L’apologo prosegue ancora su questo tono
fino alla chiusa:
[…] E che
cosa è stato, Mâlunkyâputto, da me partecipato?
«Questo è il dolore»,
Mâlunkyâputto, è stato da me partecipato
«questa è l’origine del dolore», […]
«questo è l’annientamento del dolore», […]
«questa è la via che mena
all’annientamento del dolore», è stato da
me partecipato: E perché questo,
Mâlunkyâputto, è stato da me partecipato?
Perché questo, Mâlunkyâputto, è
salutare, questo è arciascetico, questo mena
al disgusto, al distacco,
all’annientamento, all’acquetamento, alla
contemplazione, al risveglio, all’estinzione:
perciò questo è stato da me partecipato.
[53]
L’ascesi buddhistica in questo passo si rivela
per quel
che è: non ascesi verso il divino o il trascendente,
non un impresa etica a
gloria o a beneficio di qualcuno, ma semplicemente
un’operazione utilitaria ed
egoistica, che non ha altro fine che portare
il soggetto all’annientamento del
dolore. Ma l’annientamento del dolore, che
coincide col nirvâna, non
è altro che l’ultimo stadio di un percorso
lungo e difficile, che passa
attraverso il superamento dell’ignoranza
e la distruzione del desiderio.
Infatti:
(865) Nel desiderio hanno
origine le passioni di questo mondo e le
brame che in questo mondo sono
diffuse; qui si fondano la speranza e l’attesa
di uno stato futuro da parte
dell’uomo.
(866) E in che cosa ha origine
nel mondo il desiderio? Da che cosa sorgono
tanti giudizi? E l’ira, la
menzogna, il dubbio, e tutte quelle altre
cose di cui l’asceta ha parlato?
(867) In ciò che nel mondo
chiamano piacevole e spiacevole ha origine
il desiderio; vedendo il nascere e
il dissolversi delle forme, l’uomo formula
dei giudizi sul mondo. [54]
Il superamento del desiderio, di ciò che
distingue tra il
piacevole da conseguire e lo spiacevole da
fuggire, è condizione indispensabile
per uscire dal circolo vizioso della sofferenza.
Non è difficile cogliere qui
lo stretto rapporto esistente mutatis mutandis tra l’etica epicurea e
quella buddhistica, tra la riduzione del
desiderio in Epicuro al fine di
raggiungere l’aponia e il suo annientamento in Siddharta per conseguire
il nirvana. Ma neanche qui, quantunque si parli di vita
monastica, di
ascesi, di allontanamento dal mondo, non
vi è nulla in comune con i
corrispondenti termini del mondo delle religioni.
Così Siddharta censura
l’autoflagellazione (talvolta masochistica)
dei religiosi, da cui prende
decisamente le distanze:
[…] Egli porta camicie di canape
e di canovaccio, vesti tolte ai cadaveri,
fatte di stracci rappezzati, di
cortecce ricucite, di pelli imbastite, di
erbe impagliate; si veste di scorze e
di foglie […] Egli si strappa capelli e barba,
è dedito all’esercizio di
strapparsi capelli e barba; è un sempre alzato,
rigetta sedile e giaciglio; è
un accovacciato, segue l’esercizio degli
accovacciati; è un coricato su spine,
si corica sopra un letto di spine; si bagna
ogni sera tre volte, è dedito
all’esercizio dei bagni di purificazione:
così egli è dedito in diversi modi
alla fervida, dolorosa ascesi del corpo.
Questo si chiama, sacerdote, tipo
tormentatore di se stesso, dedito all’esercizio
del tormento di se stesso. [55]
L’etica del
sacrificio è del tutto assente nel buddhismo,
il conto che viene proposto per
l’emancipazione può magari apparire salato,
ma deve sempre tornare in
convenienza; il rapporto costi/benefici è
sempre a favore del secondo termine.
Se l’asceta cristiano rinuncia al mondo lo
fa per amor di Dio, quello buddhista
lo fa per amore di se stesso. Anche in questo
si può coglier il sostanziale
ateismo del Buddha, per il quale anche “l’annientamento
dell’Io” non è l’ascesi
verso un’entità trascendente, ma una “tecnica”
pratica operata nell’immanenza e
a solo vantaggio di chi lo persegue:
E come, voi monaci, diviene il
monaco santo, sbandato, scaricato, distaccato.
Dal monaco, o monaci, la vanità
dell’Io viene rinnegata, stroncata dalle
radici, fatta simile a ceppo di palma,
così che essa non può più germinare, non
può più svilupparsi. Così, o monaci,
il monaco diviene santo, sbandato, scaricato,
distaccato. [56]
Ma qui il monaco santo è soltanto uno che
ha imparato la
giusta strada verso la liberazione dall’ignoranza
di ciò che può dargli pace e
serenità e da cui il senso dell’individualità
contribuisce a tenerlo lontano. E
la “santità” non è altro che l’emancipazione
dalla soggezione al dolore, il
quale, anzi fargli raggiungere il nirvana gli consente comunque di
conseguire tranquillità e serenità:
(848) Qual è la visione, quale
la condotta di colui che ha conseguito la
calma? Illustrami o Gotamo, ti prego,
il tipo dell’uomo superiore.
(849) Colui che si è reso libero
dalla sete prima della propria dissoluzione
– disse il Sublime – che si è
emancipato prima della sua fine, che non
è condizionato dal presente, quegli
non ha alcuna predilezione. […]
(856) Colui il quale non ha
esigenze, che si è emancipato per aver compreso
la Dottrina, che non ha sete né
di esistenza né di non esistenza,
(857) quello io chiamo
acquietato, indifferente ai piaceri; in lui
non vi sono impedimenti, egli ha
superato l’attaccamento. [57]
Già l “attaccamento”! Un impedimento che
tra altri tiene
lontani da una serenità di vita conseguibile
subito, come primo tornaconto
dell’agire verso l’autosufficienza:
Allora, amico Channo, tu puoi tenere ferma
in mente anche
questa istruzione del Sublime: «Chi è attaccato
si agita, chi non è attaccato
non si agita; non essendo agitati, si è calmi;
essendo calmi, non ci si
inclina; non inclinandosi, non si viene e
non si va; non venendo e non andando,
non si appare e non si dispare; non apparendo
e non disparendo, non v’è più un
di qua, né un di là, né un trapasso tra entrambi:
è proprio la fine del
dolore». [58]
L’attaccamento (a ciò che appaga i sensi,
la compiacenza
dell’individualità, il desiderio di
possedere, ecc.) va estirpato, poiché:
Or così anche appunto,
Sunakkhatto, se un monaco invero fa la guardia
alle sei sedi dei sensi e,
sapendo che l’attaccamento è radice di dolore,
senza più attaccarsi s’è redento
nella fine dell’attaccamento: che egli faccia
riconnettere il corpo
all’attaccamento o faccia ripalpitare il
cuore: questo caso non si dà. [59]
Anche l’amore (la forma più ricorrente di
“palpitamento
del cuore”) si oppone all’emancipazione:
Così è, brahmano; così è brahmano! Ciò che
s’ama dà affanno,
tormento, dolore, tristezza e disperazione;
che vengono dall’amore: Si deve
però, brahmano, secondo i casi intendere:
come ciò che s’ama dia affanno,
tormento, dolore, tristezza e disperazione;
che vengono dall’amore. [60]
Si deve “secondo i casi intendere”, ma una
cosa è fuori
discussione, “agire”, nel senso della dottrina
di Gautama, significa mettersi
nelle condizioni di “non reagire” agli stimoli
karmici, ovvero diventare
indifferenti a tutto ciò che può turbare
e distogliere dal cammino intrapreso.
E questa l’indifferenza estrema ed ideale
porta il nome di “estinzione”:
Ecco che un monaco, re degli dei, ha sentito:
“Nessuna cosa
vale la pena”. Quando il monaco, re degli
dei, ha sentito questo “Nessuna cosa
vale la pena”, allora egli considera ogni
cosa; e quando ha considerato ogni
cosa, allora egli comprende ogni cosa; e
quando ha compreso ogni cosa e poi
prova qualche sensazione, lieta o triste
o né lieta né triste, allora egli
osserva in queste sensazioni le leggi della
caducità, della distruzione, della
dissoluzione, dell’alienazione; e mentre
in queste sensazioni osserva le leggi
della caducità, della distruzione, della
dissoluzione, dell’alienazione, egli
non aderisce a nessuna cosa al mondo; non
aderendo a nessuna cosa al mondo egli
non trema; non tremando egli raggiunge appunto
la propria estinzione. [61]
All’estinzione sono dedicati innumerevoli
passi della
letteratura proto-buddhistica, ma abbiamo
citato questo perché contiene un
dettaglio non irrilevante per il nostro tema.
Il monaco che ha raggiunto
l’estinzione diventa anch’egli un “compiuto”
(il Buddha viene spesso citato
come Compiuto) e in quanto tale diviene “re degli dèi”.
Tale arroganza
blasfema è del tutto assente nelle parole
degli atomisti ellenici, che pure
riducono la divinità a una pura eccellenza
ideale, quasi a una pura qualità che
può interessare ogni uomo che sia capace
di raggiungerla. Qui Gautama è andato
molto oltre, e che non si tratti di un caso
lo testimonia il passo seguente
dove la blasfemia non è più soltanto generica,
ma indirizzata al dio della
creazione Brahmâ:
[…] La natura, Brahmâ, gli dei,
il signore della generazione, il Brahmâ,
gli splendenti, i raggianti, i
possenti, gli ultrapossenti, il tutto, Brahmâ,
io ho riconosciuto come tutto,
come inappagante è la totalità del tutto:
ciò che io ho riconosciuto, e ho
rinunziato al tutto, abdicato al tutto, mi
sono staccato dal tutto, ho rinnegato
il tutto, disprezzato il tutto: E con ciò,
Brahmâ, non solo ti sono eguale in
conoscenza, taccio che non sto sotto di te,
ma ti sono di gran lunga superiore.
[62]
Risulta abbastanza evidente come il colloquio
di Siddharta
Gautama con Brahmâ è giocato sul riconoscergli
da un lato ciò che la tradizione
gli attribuisce, la creazione del mondo,
insieme con l’onnipotenza e
l’onniscienza che ne sono all’origine, ma
nello stesso tempo Brahmâ fa parte di
quel “tutto” che egli ha riconosciuto, rinnegato
e disprezzato. Per questo
motivo egli (come uomo “risvegliato”) può
dire al sommo dio «io ti sono di gran
lunga superiore». Ma la dichiarazione è puramente
retorica, poiché il dio
creatore, insieme a ogni altro dio, è inconsistente
come lo è il mondo che esso
avrebbe creato.
Dobbiamo ora
fare un passo indietro e riprendere il discorso
più propriamente teorico,
riallacciandoci a quanto avevamo detto dei
dharmâ per metterli in
relazione alla fonte di essi, che è evidentemente
da ricercare nella mente del
soggetto, ma, come abbiamo già visto, questa
è in un certo senso soltanto una
faccia del dharma stesso, mentre l'altra faccia è quella
“cosmica”, esterna al soggetto. Questo tipo
di identificazione tra percipiente
e percepito è tipico del Buddhismo, nel quale
si identifica anche l’organo e la
sua funzione relativamente alle sei sedi
dei sensi dove abbiamo 1)
occhio-vista, 2) orecchio-udito, 3) naso-olfatto,
4) lingua-gusto, 5) senso del
tatto-azione del tatto, 6) mente-pensiero.
L’annullamento di questa “sestupla
sede” (dei sensi) si consegue con l’Ottuplice
Sentiero; ciò secondo la seguente
argomentazione del già citato Sâriputto (articolata
su una serie di passaggi
ripetitivi di cui ne riportiamo un paio):
Ma che è, fratelli, la sete di vivere, che
è l’origine della
sete di vivere, che è l’annientamento della
sete di vivere? Sei specie di sete
di vivere o fratelli, vi sono: la sete delle
forme, la sete dei suoni, la sete
degli odori, la sete dei sapori, la sete
dei contatti, la sete delle cose.
L’origine della sensazione determina la sete
di vivere, l’annientamento della
sensazione determina l’annientamento della
sete di vivere. Ma questa è la via
che mena all’annientamento della sete di
vivere, il santo sentiero ottopartito,
cioè: retta cognizione, retta intenzione,
retta parola, retta azione, retta
vita, retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento.
[63]
[…]
E inoltre ancora, o fratelli: se il santo
uditore conosce
la sestupla sede e l’origine della sestupla
sede, conosce l’annientamento della
sestupla sede, e la via, che mena all’annientamento
della sestupla sede, egli
ha pertanto, o fratelli, la retta cognizione,
la sua cognizione è giusta, il
suo amore alla dottrina provato, egli appartiene
a questa nobile dottrina, Ma
che è, fratelli, la sestupla sede, che è
l’origine della sestupla sede, che è
la via che mena all’annientamento della sestupla
sede? Sei sedi dei sensi, o
fratelli, vi sono: la sede del senso della
vista, la sede del senso dell’udito,
la sede del senso dell’olfatto, la sede del
senso del gusto, la sede del senso
del tatto, la sede del senso del pensiero.
L’origine di immagine e concetto
determina l’oggetto della sestupla sede,
l’annientamento di immagine e concetto
determina l’annientamento della sestupla
sede. Ma questa è la via, che mena
all’annientamento della sestupla sede, il
santo sentiero ottopartito, cioè:
retta cognizione, retta intenzione, retta
parola, retta azione, retta vita,
retto sforzo, retto sapere, retto raccoglimento.
[64]
Nel discorso completo (collo stile ripetitivo
e ridondante
che già conosciamo) vengono definiti e oggettivati
vari fenomeni umani di cui
liberarsi ed il procedimento liberatorio
per conseguire tale risultato. Da un
lato abbiamo quindi i fenomeni negativi da
annullare, dall’altra gli stadi
della via che da essi ci libera; dei primi
è attore l’individuo “negativo”,
degli altri l’individuo “positivo”. Già,
ma tra attore ed atto dove sta
l’individuo reale che si rende protagonista
del processo? La domanda rimane
senza risposta. Ed infatti in questo paradossale
fenomenismo (difficilmente
assimilabile per il nostro “occidentale”
modo di pensare) sta tutto il senso
della dottrina buddhistica, dove ogni fenomeno
è reale soltanto nel suo
divenire e mai in una sua essenza, senza
quindi che sia possibile individuare un
soggetto che in un determinato momento o
luogo “sia” e “si determini”. In altre
parole: è il divenire che determina un individuo
(le sue percezioni, i suoi
pensieri, i suoi comportamenti), il quale
però alla fin fine non esiste in
quanto individualità. Infatti, soltanto nella
misura in cui viene eliminato ciò
che è imputabile all’individualità, sorge
allora un positivo procedere verso il
nirvâna, quale unica realtà cosmica permanente. L’individuo
in
quanto tale “non esiste”, ma si avvia sulla
strada del raggiungimento di
qualcosa “che esiste” nella misura in cui
riesce progressivamente a spogliarsi
di una falsa e falsificante sensazione di
individualità da cui è affetto.
Veniamo ora al
secondo pilastro teorico del Buddhismo antico:
la teoria degli skandhâ (khandâ
in pâli), spesso tradotti con “aggregati”
[65].
Si tratta di cinque aspetti della persona
umana che ne sintetizzano il suo
“funzionamento” e che potremmo pertanto chiamare
anche “aggregati funzionali”.
Essi sono: 1) corpo, corporeità sensoriale
(rûpa), 2) sensazione (vedanâ),
3) percezione (sanjnâ), 4) impulsi (sanskarâ), 5)
coscienza (vijnâna). Ogni skanda è connesso agli altri, per cui la
coscienza è nel corpo come questo è in quella.
Essi sono visti come una sorta di recettori
dharmici, in quanto ognuno
dei cinque skandhâ funziona in rapporto a una serie di dharmâ di
riferimento che lo determina. La teoria degli
skandhâ si lega allora a
quella dei dharmâ, nel senso che il rûpa-skandha (il corpo) ha in
sé i dharmâ terra, acqua, fuoco e aria, il vedanâ-skandha (la
sensazione) comprende le sue cause dharmiche,
il sanjnâ-skandha (la
percezione) i dharmâ elementari che sostituiscono i suoi oggetti,
il sanskâra-skandha
(impulsi e condizionamenti)
comprendono i dharmâ che riguardano le attività vitali, le condizioni
biologiche, genetiche, ambientali, ecc.,
il vijnâna-skandha (la
coscienza) è in rapporto dharmico con gli
altri quattro a con le loro
interrelazioni.
Ma se il primo e
il secondo pilastro della dottrina buddhistica
sono interdipendenti così lo è
il terzo con essi; la legge del “nesso causale”,
il pratîtya-samutpada” (paticca
samuppâda in pâli)[66], si
lega direttamente sia alla teoria dharmica
e sia a quella degli “aggregati”
umani, in un certo senso completandole e
legittimandole. Esso è, a ben vedere,
il momento analitico delle Quattro Nobili
Verità, èd è espresso canonicamente
da una serie di dodici elementi concatenati,
sì da fa pensare ad una metaforica
catena di anelli relativi ad altrettante
situazioni esistenziali. In realtà i
dodici anelli potrebbero anche essere interpretati
non già come una catena
lineare, quanto piuttosto come una catena
circolare [67],
infatti il dodicesimo anello (vecchiaia e
morte), quale massimo male assoluto,
si collega al primo (l’ignoranza), in quanto
malattia primaria dell’uomo. In
diversi luoghi del Canone si esemplifica il pratîtya-samutpada (in
qualche caso anche con meno di dodici elementi,
ma col medesimo significato) in
modo sostanzialmente ripetuto e costante.
Vediamolo nella formulazione che ne
dà il Glasenapp (riportando in nota varianti
di altri autori):
1) l’avidyâ,
il non conoscere la verità: da essa scaturiscono:
2) i sanskarâ,
quali impulsi [68]che danno
forma al karma. Da essi proviene:
3) vijnâna, una
coscienza che è il nucleo dell’essere individuale.
Da essa nasce:
4) nâma-rûpa, nome e
corporeità: cioè l’individualità di un essere
spirituale e corporeo al tempo
stesso, che si forma nel grembo materno.
E dall’individualità:
5) shad-âyatana, la
sestuplicità dei sensi (i fondamenti dl vedere,
udire, gustare, toccare,
pensare ricettivamente). Dai sensi nasce:
6) sparsha, il
contatto, ovvero lo stimolo sensorio prodotto
dal contatto col mondo esterno.
Dal contatto scaturisce:
7) vedanâ, la
sensibilità [69]. Da qui
nasce:
8) trishnâ, la
sete, la brama, da cui proviene:
9) upâdâna, l’attaccamento
alla vita, cioè una sete divenuta cronica
attraverso l’abitudine.
Dall’attaccamento alla vita nasce:
10) bhava, il divenire karmico, il
presupposto d’una nuova esistenza. Dal divenire
karmico
proviene:
11) jâti,
una (nuova) nascita. Da essa scaturisce:
12) jarâ-marana,
l’invecchiare e il morire.
Secondo il Glasenapp lo schema intende rispondere
alla
domanda fondamentale che ogni uomo si pone:
«Perché divento vecchio. Perché
devo morire?». La risposta è: «Perché sei
nato!», tale nascita deriva dal
divenire karmico di un’esistenza precedente.
Ma a monte di ciò sta la volontà
di vivere (l’attaccamento) e a monte ancora
il desiderio, le sensazioni, ecc.
Via via si risale così (per nesso causale)
sino alla causa ultima e manifesta
del doloroso divenire: “il non conoscere
la verità” (l’avidyâ) [70].
Rileva inoltre lo studioso tedesco che tutta
l’argomentazione risponde ad un
modo di pensare completamente estraneo alla
nostra logica occidentale, in
quanto, nella formula del “nesso casuale”,
non viene fatta alcuna differenza
tra sostanze, qualità, processi, cause materiali
e situazioni psichiche. Tali
fattori eterogenei sono quindi concatenati
con una certa arbitrarietà, come se
fossero delle realtà concrete che sorgono
l’una dall’altra per interdipendenza
funzionale. [71]
La tradizione
buddhista ha suddiviso i dodici punti del
pratîtya-samutpada in tre
tronconi temporali, dove il primo e il secondo
punto (avidyâ e sanskarâ)
si riferiscono al passato, dal terzo al decimo
(vijnâna, nâma-rûpa,
shad-âyatana, sparsha, vedanâ, trishnâ, upâdâna,
bhava) al presente, l’undicesimo e il dodicesimo
(jâti e
jarâ-marana) all’avvenire. In questo modo il presente,
ovvero l’individuo
di riferimento, diventa il collegamento karmico
(e quindi samsarico) tra
un’esistenza precedente (a sua volta collegante
un precedente e un susseguente
propri) e una posteriore (che istituirà a
sua volta un analogo collegamento).
Il pratîtya-samutpada quindi, oltre al significato primario di
esemplificazione del nesso causale, ne porta
uno secondario relativo
all’infinita catena samsarica. Ad essa sono
condannati gli individui che non
scoprono mai la propria ignoranza (legata
al senso dell’individualità e alla
non-conoscenza delle Quattro Nobili Verità)
e delinea quindi una funesta
ripetizione dall’errore esistenziale dell’uomo
“non risvegliato”, che si rivela
incapace di uscire dal sansâra e si autocondanna a perpetuare la catena
della sofferenza.
A questo punto
possiamo tentare una sintesi della nostra
ricerca e delineare alcuni aspetti
principali del Buddhismo coerenti col punto
di vista ateistico. Alla base del
sistema stanno le Quattro Nobili Verità,
ovvero la consapevolezza che
l’esistenza umana è dominata dal dolore e
ciò perché l’uomo è schiavo del
desiderio di realizzarsi e appagarsi come
individualità (come un Io
determinato). Bisogna pertanto eliminare
tale desiderio perché la soggiacenza
al dolore possa finire e tale eliminazione
è possibile attraverso l’Ottuplice
Sentiero. Abbiamo qui un punto cardine di
tutta la teorizzazione buddhista,
consistente in una radicale e inappellabile
condanna del senso
dell’individualità, che è invece un generale
fondamento della concezione
dell’uomo nella filosofia occidentale ed
anche in buona parte della stessa
filosofia indiana (Vedismo, Sânkhya, Giainismo,
Nyâya-Vaishesika, ecc.). Ciò
comporta anche la negazione dell’anima in
ogni sua forma, ma quel che è più
importante che Gautama non si limita a negare
l’anima individuale, ma anche
quella cosmica (l’âtman che coincide col brâhman nell “uno-tutto”
onnicomprensivo). Non esiste una anima cosmica
eterna perché di eterno non vi è
assolutamente nulla; l’unico fenomeno “reale”
è quel continuo divenire che
nullifica e distrugge ogni realtà particolare,
trasformandola continuamente in
qualcos’altro destinato a scomparire a sua
volta. Il Buddhismo si presenta
pertanto come una sorta di fenomenismo assoluto,
dove ci sono soltanto false
apparenze che si susseguono annullandosi
a vicenda nella relazione che le
connota e nello stesso tempo le distrugge.
Il divenire
buddhista si esplicita nella dottrina dei dharmâ e riceve una
formulazione esemplare nel formulazione dei
dodici stadi del “nesso causale”
(il pratîtya-samutpâda). In esso viene esemplificato il divenire
dell’uomo in una forma universale che vale
anche per il divenire dl cosmo nella
sua totalità. Il Buddha è reticente su molti
punti concernenti il cosmo in
generale, poiché esso è presupposto “analogo”
all’uomo, che diventa quindi
modello microscopico della totalità macroscopica.
L’uomo, in quanto costituito
da un flusso flusso di dharmâ (elementi cosmici), fa da paradigma di
ogni fenomeno esistente nel cosmo e del cosmo
stesso nel suo insieme. L’io,
infatti, e un non-sé (anattâ) che riflette il non-sé generale,
il quale presenta i caratteri dell’assoluta
impermanenza (anicca)
nel flusso del divenire. L’io si manifesta come coscienza (il quinto skanda)
e questa non è che uno dei cinque “aggregati”
che costituiscono l’uomo. Ma
questi skandâ, come abbiamo già visto, contengono gli stessi
elementi (gli stessi dharmâ) che compongono l’universo nella sua
complessità. L’uomo è così emblematico di
ciò che è realmente l’universo che lo
spazio (âkâsha) e il tempo (kâla) si presentano (alla coscienza
individuale invischiata nell’ignoranza) come
la cornice in cui si inseriscono
gli oggetti di desiderio, quali coordinate
estensive della brama di vita e di
possesso che condannano l’uomo a rimanere
immerso (se non “si risveglia”)
nell’irrimediabile fluire della sofferenza.
Abbiamo cercato
di delineare il nucleo teorico più propriamente
ateo del Buddhismo originario.
Va detto tuttavia che il Buddha (analogamente
a quanto farà Epicuro in ambito
greco) non elimina del tutto gli dèi (i devâ) dalla sua weltanschauung,
ciò che egli elimina è la “divinità”, in
quanto eternità, onniscienza e
onnipotenza. I devâ buddhisti sono soggetti al samsâra né più né
meno degli uomini [72]
e si trovano nella più totale incapacità
di liberarsene. È in questo senso che
il Buddha può dire al dio della creazione:
« E con
ciò, Brahmâ, non solo ti sono eguale in conoscenza,
taccio che non sto sotto di
te, ma ti sono di gran lunga superiore.». E Gautama può usare questo
tono perché ha fatto ciò che nessun dio è
stato in grado di fare: insegnare
all’umanità la strada del nirvâna, la sola che può liberarla dal dolore
e dalla condanna samsarica.
Abbiamo
dedicato al Buddhismo maggior spazio rispetto
agli altri sistemi orientali che
si presentano come atei in quanto maggiore
è la documentazione su di esso e
maggiore è stato il suo impatto sul pensiero
occidentale. Una prima ragione di
ciò può consistere nel fatto che si tratta
di una filosofia salvifica di tipo
universalistico, che prescinde dal mondo
indiano ed anzi ne condanna le
stratificazioni castali. Per Siddharta tutti
gli uomini sono uguali e tutti
condannati all’ignoranza; nonché ad affannarsi
e a soffrire fino alla morte,
dando luogo (attraverso la procreazione)
a nuove esistenze condannate a loro
volta all’ignoranza e al dolore. Egli indica
quindi il vero ed unico
“universale” rimedio nella rinuncia alla
propria falsa individualità e nel
cammino verso il nirvâna. La seconda ragione potrebbe consistere
nel
fatto che il Buddha affronta temi antropologici
ed etici comuni anche alle
filosofie occidentali a carattere esistenzialistico.
Non è tuttavia un caso che
gli influssi del buddismo si riscontrino
principalmente nel pensiero
irrazionalistico, sia esso filosofico o psicanalitico,
poiché la filosofia
buddhista si appoggia ad una logica anomala,
che si legittima soltanto
all’interno del sistema nel suo complesso.
D’altra parte è evidente che la
filosofia del Buddhismo si presenta più come
prassi che come speculazione, e
che ciò che vi è di teorico non è fine a
se stesso, ma indirizzato al
completamento e all’affinamento della prassi.
Si sarà notato
che all’aspetto soteriologico del Buddhismo,
che ne rimane comunque prerogativa
fondamentale, non abbiamo dedicato grande
attenzione; ciò perché è quello che
ci interessa meno dal punto di vista filosofico,
in quanto è l’elemento che
configura e definisce il Buddhismo come una
religione. Non è un caso infatti
che chiunque lo assuma come tale trascuri
spesso gli elementi teoretici che noi
abbiamo invece evidenziato. Questi infatti
si sofferma principalmente sugli
aspetti soteriologici, proprio per acquisire
quegli elementi che concernono la prassi
salvifica. La nostra analisi potrebbe persino
essere considerata carente
(se non addirittura sviante), infatti noi
non abbiamo analizzato il Buddhismo,
come d’altra parte anche il Samkhya o il
Giainismo sotto il profilo della
prassi salvifica ma unicamente sotto quello
della speculazione sulla struttura
del mondo e dell’esistenza umana. Si potrebbe
persino pensare che noi abbiamo
tradito lo spirito dei sistemi filosofici
che abbiamo considerato, avendo
trascurato la loro “funzione” salvifica.
Ma noi, infatti, li abbiamo esaminati
esclusivamente dal punto di vista filosofico-antropologico;
vale a dire per i
significati speculativi che esse presentano
dal nostro punto di vista.
Giunti alla
fine di questo capitolo, dedicato all’ateismo
nell’antico pensiero indiano, ci
pare di poter concludere che, a parte il
Carvakâ materialistico di cui si sa
poco o nulla, sia nel Sâmkhya che troviamo gli aspetti più interessanti
concernenti la teoresi atea, proprio perché,
col suo dualismo, rende
impossibile ogni ricaduta in una religione
di tipo sacrale o in un
trascendentalismo panteistico (da cui non
è immune nemmeno il buddhismo). Nel Sâmkhya
le anime individuali (i purushâ), chiuse in se stesse, escludono ogni
riferimento ad un principio che le trascenda.
Ma nello steso tempo
l’autosufficienza della materia (la prakriti) esclude un creatore e un
reggitore da cui potrebbe derivare la sua
origine e dipendere il suo
divenire.
Sentiamo infine
il dovere intellettuale di ammettere decisamente
i nostri limiti interpretativi.
La nostra forma mentis è infatti quella dell’uomo occidentale e
non
vediamo ragioni sufficienti per tradirla,
ma nello stesso tempo non possiamo
evitare di domandarci in quale misura siamo
veramente adeguati a comprendere
l’essenza del pensiero indiano. D’altra parte,
trenta secoli di cultura non si
cancellano con la buona volontà, e un nostro
approccio più “comprensivo” dei
significati riposti della speculazione indiana
sarebbe forse persino fuori dei
nostri orizzonti. Noi peraltro ci occupiamo
di ateismo ed il compito che ci
siamo prefissi è di estrarre da contesti
non sempre esplicitamente atei (ma per
lo più solo per una nostra convenienza argomentale)
gli aspetti che
legittimamente sono ascrivibili all’ambito
dell’ateismo e alla sua weltanschauung.
È stato detto
che tutta la speculazione indiana ha sempre
e comunque, in sottofondo, un
profondo senso religioso. Ne siamo assolutamente
convinti, e proprio perché
nutriamo profondo rispetto per questo aspetto
antropologico di quel mondo
culturale che rimane a noi relativamente
lontano, perseguiamo una chiarezza
d’intenti che ci impedisce di mescolare le
carte o di equivocare
sull’equivocabile. Noi abbiamo cercato di
capire perché, dove e come, nei tempi
antichi, da un capo all’altro del mondo,
allorquando le religioni, nelle più
svariate forme, dominavano la vita e la cultura
dell’uomo, siano stati
introdotti in filosofia elementi ateistici
in contesti eminentemente teistici.
Questo è il fine che ci siamo posti ed è
in questo quadro che vanno giudicate
le nostre considerazioni, che hanno un senso
e una validità esclusivamente
nell’ambito euristico in cui ci muoviamo.
[1] A rigore, anche nel pensiero cinese, tra le pieghe sia del Confucianesimo sia del Taoismo più antichi, si possono cogliere degli aspetti vagamente ateistici, in una certa sostanziale debolezza dell’afflato più specificamente religioso e cultuale rispetto a quello etico. Aspetto, questo, sicuramente dominante nel Confucianesimo e sotteso al Taoismo nella dottrina del wu-wei (dell’inazione), per quanto in questo risulti prevalente la ricerca dell’esperienza estatica. Sia detto comunque per inciso: i due si oppongono poi tra loro, nell’essere il Confucianesimo una filosofia della socialità mentre il Taoismo è un ascetismo dell’individualità. Va però rilevato che, in quel contesto culturale, rimangono sempre presenti degli elementi metafisici mai negati e costantemente presupposti; ciò tanto più in un etica sociale ricca di formalismi di carattere ritualistico qual è il Confucianesimo. Nella filosofia cinese infatti, oltre al principio cosmico del tao (l’essere originario indifferenziato e perfetto) e alla polarità delle due categorie dello yin (femminile) e dello yang (maschile), permangono i riferimenti a una divinità del cielo (il Ti) e ad altre divinità minori. I cinesi hanno sempre distinto un Taoismo filosofico e uno religioso; ovviamente nel primo la cultualità è assente, ma l’ipostasi di una totalità originaria e trascendentale ci consente di definirla una filosofia sostanzialmente panteistica.
[2] Il caso più noto e importante è certamente quello di Schopenhauer, che trae dal Vedânta l’idea dell’illusorietà del mondo fenomenico e insieme la visione di una sostanziale unità dell’universo vivente sotto forma della comune “volontà di vita”. Dal Buddhismo originario egli trae invece la negazione di ogni divinità personale e la concezione della sostanziale indentità di corpo ed anima individuali.
[3] Sarvepalli Radhakrishnan nel suo Religioni orientali e pensiero occidentale (Bompiani 1966 – p.125) sostiene che tra i Mitanni della Cappadocia erano noti già nel XV sec.a.C. i nomi degli dèi vedici.
[4] Fu Megastene, ambasciatore di Seleuco Nicatore (avendo soggiornato alla corte del re indiano Chandragupta tra il 302 e il 291 a.C.) a rilasciare per primo testimonianze dirette del mondo filosofico e religioso indiano.
[5] È il caso degli antichi sistemi Nyâya e Vaisheshika (più tardi fusi insieme) i cui intenti sono per il primo di carattere logico e per il secondo di carattere cosmologico e materialistico. Questi due sistemi tuttavia, indipendentemente dall’apparente pluralismo strutturale e atomistico, finiscono per presupporre il brahman, quale unico principio immanente a tutto ciò che esiste nell’universo, ricadendo pertanto in un sostanziale panteismo monistico. Inoltre, il fine ultimo di questa filosofia rimane sempre quello etico della salvazione dall’ignoranza e dal dolore piuttosto che quello puramente gnoseologico. Come nota il Gonda: «Sottolineando l’ordine morale del mondo, che si rivela nel karman , il nyaya e il vaisesica - che pongono in primo piano la filosofia naturale – acquisirono un timbro etico.» (Jean Gonda Le religioni dell’India – Jaca Book 1980, vol. I, p. 394.).
Joseph Campbell nell’Appendice A di Filosofie e religioni dell’India di Heinrich Zimmer (Mondadori 2001 – p. 491) afferma: « […] quando il sistema Vaisesika e il sistema Nyaya (osserva Garbe) si fusero insieme, la scuola che ne risultò adottò concezioni teistiche, ma non vide mai nel Dio personale, che pure ammetteva, il creatore della materia.»
[6] Helmut von Glasenapp Filosofia dell’India – SEI 1996, pp.
23-24.
[7] Heinrich Zimmer Filosofie e religioni dell’India – Mondadori 2001, p. 33.
[8] La parola veda significa “scienza” ed è passata ad indicare i testi che la descrivono. Essi sono costituiti anche da narrazioni, ma la parte più specifica è quella che riguarda le regole della ritualità alle quali i brahmani (i sacerdoti arii) dovevano attenersi. Queste regole riguardano per lo più le formule di invocazione da pronunciare, i canti da intonare e le procedure da seguire per la corretta realizzazione del rito. I Veda costituiscono il patrimonio culturale e religioso degli invasori Arii ed in età arcaica la loro lettura era riservata alla classe dei bramani e vietata a tutte le altre.
[9] Alla base di tutto il sistema castale indiano sta il concetto di dharma, ovvero del “dovere” etico correlato al proprio stato, determinato rigorosamente dalla nascita. Il criterio retributivo del samsâra (la trasmigrazione delle anime) fa sì che la condizione in cui nasce un individuo sia “quella che gli spetta” in base ai meriti e ai demeriti registrati nella vita precedente. Ma il sansâra non riguarda soltanto l’uomo, bensì tutti gli esseri viventi; pertanto, correlato al progresso verso condizioni più elevate, sussiste il regresso a condizioni inferiori, compresa quella animale.
[10]
Va tuttavia rilevato che tra i sei antichi
sistemi derivanti dal patrimonio
vedico vi è stata la già citata fusione tra
il Nyâya e il Vaisheshika.
Lo Yoga, per quanto riguarda gli aspetti teorici,
si basa
sostanzialmente sul Sâmkhya, ma ne differisce poi più o meno nettamente
in quanto è tendenzialmente teista o panteista.
[11] Il Vecchiotti nel suo Introduzione alla storia della filosofia indiana (Quattroventi 1995 – p.75) osserva: « […] Dicevamo “visioni” e non “sistemi”, per la pretesa indiana della sincronia delle soluzioni, anche se è vero che tanto a livello religioso e pratico quanto a livello teoretico-critico, questa sincronia-discronia formale finisce poi per dar luogo a una molteplicità di soluzioni nette e precise di non facile rifusione o identificazione, non solo tra visione e visione, pretesa già in partenza irrealizzabile, ma addirittura all’interno di ciascuna visione, laddove si dà propriamente luogo a diversi sistemi. Il che rappresenta poi il lato più bello e più valido della ricerca umana, nonostante ogni mistico tentativo di antifilosofia e di antiragione. »
[12] È indubitabile che la filosofia di Schopenhauer non avrebbe potuto essere concepita nel suo impianto complessivo senza il decisivo apporto della filosofa vedantica e buddhistica.
[13] La parola ha un etimo incerto. Nota il Glasenapp (Filosofia dell’India – SEI 1988 – p. 101) che secondo alcuni potrebbe derivare dalla radice verbale “carv” (masticare), a indicare chi mangia con piacere, secondo altri deriverebbe da “câru-vâka (che parla piacevolmente), a significare una dottrina gradita ai più. Altri ancora ritengono che Cârvakâ potrebbe essere stato il mitico fondatore della dottrina.
[14] Il Glasenapp cita un antico testo vedânta (il Mokshadharma, XII,218,8) in cui si legge: «I nâstikâ affermano che l’anima non è altro che il corpo stesso.».
[15] Hans Wolfgang Schumann nel suo Il Buddha storico (Salerno Editore 1986 – p. 52) cita un opera di ispirazione materialistica composta nel VI sec. a.C. dal titolo Barhaspatisûtra, di cui ci sono pervenute soltanto alcune citazioni frammentarie.
[16] Helmut von Glasenapp Filosofia dell’India - SEI 1996 – p. 101. L’autore cita anche la seguente frase a lui attribuita: «Tutta la teologia non è che un inganno per colui che conosce il mondo.» (ivi p.102 e nota 12 p.200)
[17] Glasenapp op.cit. – p.100.
[18] Il Glasenapp rileva che già nella Bhagavad-Gîtâ (circa VII sec.a.C.) veniva combattuto il materialismo (4, 40, 16, 8 e segg.).
[19] Il Glasenapp (op.cit. p.272) così sintetizza l’etica cârvâka: «I precetti dell’etica, sanzionati dai Veda o da un’altra autorità religiosa, sono delle opere umane inventate da sacerdoti o da monarchi, come mezzo per dominare gli sciocchi. Uno spirito forte sa che non vi è nulla al di fuori della percezione sensibile: l’unico inferno che esista è il dolore fisico, l’unico dio supremo, un re potente, l’unica liberazione, l’annientamento del corpo che avviene con la morte. Perciò il pieno godimento dei sensi è il solo scopo della vita: chi è scaltro, dunque, vivrà quanto più lietamente possibile e – libero da tutte le illusioni etiche e religiose, con sovrano disprezzo per quei pazzi che credono ai principi metafisici – terrà d’occhio il proprio interesse senza riguardo alcuno, finché quegli elementi “riunitisi in lui per il piacere e il dolore” non sarnno tornati nuovamente agli elementi cosmici.».
[20] Giuseppe
Tucci Storia della filosofia indiana
– Laterza 1987 – p. 69-70)
[21] Rileva ancora il Glasenapp (op.cit. p.103) che oltre ad un materialismo grossolano (dhûrta), peraltro prevalente, la tradizione ne riconosce anche un altro più raffinato (sushikshita), che ipotizzava un sesto elemento (spirituale) nel corpo umano, concernente la psiche individuale. Ma anche questo era strettamente connesso al corpo e pertanto, come esso, mortale.
[22] Ci sono pervenuti i commenti di Mâthara, di Gaudapâda e di Vâcaspatimishra. Quello di Gaudapâda è il più noto ed utilizzato. È stato tradotto in Italiano da Corrado Pensa in: Īsvarakrisna Sâmkhyakârikâ – Editore Boringhieri – Torino 1960.
[23] Letteralmente il termine significa “enumerazione”.
[24]
Va notato tuttavia che il termine nella storia
della filosofia indiana (prima e
dopo il Sâmkhya) ha assunto anche altre accezioni.
Già nel Rig-Veda (10,
90) si parla di purusha come del mitico uomo primordiale da cui derivano
gli altri esseri del mondo. Ma il
concetto di purusha ritorna anche nella Katha-upanishad e nella Shvetâshvatara-upanishad
(entrambe posteriori al VI sec.a.C.) dove
esso diventa lo “spirito globale”
che tutto pervade, assumendo pertanto i caratteri
dell’âtman
riscontrabili nelle upanishad più antiche.
[25] Ivi p.39.
[26] Ivi p.40
[27] Ivi p.51
[28] Ivi pp. 51-52.
[29] Ivi p.87.
[30] Ivi p.116.
[31] Ivi p.117.
[32] Significativa la strofa 58 che recita: «L’immanifesto [la prakriti, come principio dell’essere] agisce per liberare l’anima [il purusha] non diversamente dalla gente comune che si adopera per soddisfare il desiderio». Op.cit. p.116.
[33] Ivi p.122.
[34] Ivi pp. 123-126.
[35] Ricavo dall’Enciclopedia delle Religioni Garzanti (1989 - p.312) un’entità complessiva dell’attuale comunità giaina superiore ai tre milioni di adepti. Rispetto ad una statistica del 1951, che li dava a 1.618.000, vi sarebbe stato negli ultimi decenni un netto aumento.
[36] Mentre per i laici le regole sono abbastanza allentate per i monaci esse sono rigidissime. Il novizio rinuncia a tutti i suoi averi personali, si rade a zero (in antico vigeva lo strappo della capigliatura) e rinuncia al proprio nome prendendone un altro. Pronuncia infine i cinque voti, che sono: a) non nuocere mai ad alcune essere vivente, b) non mentire, c) non rubare, d) attenersi ad una castità assoluta, e) rinunciare a qualsiasi possesso.
[37] Carlo Della Casa Il giainismo – Bollati Boringhieri 1993 – p. 50.
[38] Ivi – p. 97.
[39] Majjhima Nikāya, Discorso 63. Citato da Giangiorgio Pasqualotto in Illuminismo e illuminazione - La ragione occidentale e gli insegnamenti del Buddha Donzelli 1997 – p.25.
[40] I discorsi di Gotamo Buddho del Majjhimanikâyo (a cura di K.E.Neumann e G De Lorenzo) – Vol.I – Laterza 1916 (stampa anastatica 1980) – pp.429-430.
[41] Per correttezza dobbiamo però notare che buona parte degli studiosi del Buddhismo antico tende a considerarlo un agnosticismo piuttosto che un ateismo. Forse perché si pensa che da una filosofia veramente atea non sarebbero state possibili le derive religiose riscontrabili specialmente nelle scuole del Grande Veicolo (il Mahâyâna). Su tale argomento si esprime uno dei più interessanti studiosi occidentali del Buddhismo, lo scozzese Stephen Batchelor, il quale difende l’agnosticismo insito nella dottrina del Buddha in questi termini: «Storicamente, il buddhismo ha teso a perdere la propria connotazione agnostica istituzionalizzandosi in religione, ossia in un sistema di fede fondato su una rivelazione […] Questa trasformazione del buddhismo in religione tende ad offuscare e allontanare l’eventualità dell’incontro del dharma con la cultura agnostica contemporanea. Il dharma, in effetti, può avere più aspetti in comune con il laicismo ateo che con i capisaldi della religione. […] Come l’agnosticismo contemporaneo ha teso a perdere la propria fiducia in se stesso e a scivolare nello scetticismo, così il buddhismo ha teso a perdere il suo versante critico e a scivolar nella religiosità.» In Il Buddhismo senza fede – Neri Pozza Editore – pp.25-26 passim.
[42] Schopenhauer ,Hartmann e altri.
[43] Ricordiamo
Herman Hesse e i suoi romanzi Siddharta e Il gioco delle perle di
vetro.
[44] Traggo dalla già citata Enciclopedia delle Religioni Garzanti 1989 le seguenti informazioni (p.85): «I Buddhisti costituiscono la quarta comunità religiosa del mondo dopo Cristiani, Islamici e Induisti. Sono attualmente 295.571.000, cioè il 6,2% della comunità mondiale. Il 51% vive nell’Asia Meridionale e il 48,5% nell’Asia Orientale. Il Buddhismo è diffuso in 84 paesi e in alcuni di essi (Giappone, Thailandia, Birmania, Vietnam, Srî Lanka, Cambogia, Laos e Bhutan) è la religione principale. »
[45] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) (a cura di Vincenzo Talamo) Boringhieri Editore 1979 – p.45.
[46] Heinrich Zimmer Filosofie e religioni dell’India – Mondadori 2001 – p.382.
[47] Ivi.
[48] Enciclopedia delle religioni – Garzanti 1986 – p.91.
[49] Canone buddhistico – L’orma della disciplina (Dhammapada) Boringhieri Editore 1979 – p.15.
[50] Ivi – pp.94-95.
[51] Ivi – pp.47-48.
[52] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) Boringhieri Editore 1979 – p.205.
[53] I discorsi di Gotamo Buddho del Majjhimanikâyo (a cura di K.E.Neumann e G De Lorenzo) – Vol.II – Laterza 1925 (stampa anastatica 1980) – pp.126-127.
[54] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) - Boringhieri Editore 1979 – p.194.
[55] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. II - pp.461- 462.
[56] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. I - pp.216-217.
[57] Canone buddhistico – Raccolta di aforismi (Sutta Nipâta) op.cit. – p.191-193 passim.
[58] I
discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. III - p.375.
[59] Ivi p.50-51.
[60] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. II - p.393.
[61] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. I - pp.371-372.
[62] Ivi p.478.
[63] I discorsi di Gotamo Buddho - op.cit – Vol. I - p.74.
[64] Ivi p.76.
[65] Il termine viene variamente tradotto con “gruppi di combinazioni dharmiche”, con “formazioni karmiche”, con “gruppi di fattori dell’esistenza”, con “costituenti delle persona umana”, con “aggregati umani”, ecc.
[66] Anche in questo caso il termine pratîtya-samutpada oltre che con “nesso causale” (Glasenapp) è stato tradotto con “produzione dipendente” o “in sequenza”, “coesistenza interdipendente”, “genesi condizionata”, “coproduzione condizionata”, ecc.
[67] Traggo l’immagine da Il Buddhismo di Giangiogio Pasqualotto (p.53). L’autore ci propone anche interessanti corrispondenze con rappresentazioni buddhistiche della Ruota dell’Esistenza (pp.52-54).
[68] Il Tucci (Storia della filosofia indiana – Laterza – Bari 1996), il quale tra l’altro ne offre una versione invertita (da jarâ-marana a avidyâ), traduce sanskarâ con “coefficienti”. La David-Nèel con “configurazioni”, il Vecchiotti con “condizioni di struttura”, il Panikkar con “aggregati”, il Pasqualotto con “intenzioni e tendenze”.
[69] Il Tucci traduce vedanâ con “sensazione”. Così pure Alexandra David-Nèel (Il buddismo del Buddha – ECIG 2003 – p.62), Raimundo Panikkar (Il silenzio di Dio- Borla 1985 – p.116) e Icilio Vecchiotti (Introduzione alla storia della filosofia indiana - QuattroVenti – p.51).
[70] Il Vecchiotti propone questa lettura: «Divento vecchio e muoio perché sono nato, sono nato in quanto c’è stata un’esistenza precedente che ha messo in moto il divenire karmico, che deve manifestarsi in una rinascita: la causa di tutto ciò è l’attaccamento, che è un intensificarsi del desiderare e che è prodotto dal nostro poter patire sensazioni piacevoli e spiacevoli; ma le sensazioni hanno origine dal contatto col mondo esterno, il che presuppone i sei organi di senso, ed essi possono costituirsi solo in una coscienza che rappresenti il nucleo di un’individualità, ma questa coscienza deve essere originata dagli impulsi karmici, che sono effetto dell’ignoranza.» (Introduzione alla storia della filosofia indiana –Quattroventi 1995 – p.52).
Un’analogo tipo di sequenza esplicativa (attribuita a Lakshmi Narasu in Essence of Buddhism) è riportata da Alexandra David-Nèel in Il Buddhisno del Buddha – ECIG 2003 – p. 67-68).
[71] Non è di questo avviso Giangiorgio Pasqualotto, che invece vede una logica ben definita a base del modello del paticcasamuppâda. Ma per coglierla occorre legarla al “nucleo” forte dei due concetti di impermanenza (anicca) e di non-sostanzialtà (anatta): « […] la prima consente di cogliere gli “anelli” non come entità statistiche ma come processi nel tempo, e anche di vedere le connessioni tra i diversi anelli come scansioni del tempo, la seconda consente di capire come e perché l’esistenza di ciascun “anello” dipenda da quella degli altri. In altri termini, il modello della co-produzione condizionata appare come sviluppo analitico della già ricordata formula, presente nel Majjhima Nikâya (115, 11), che recita “Essendoci questo, c’è quello; apparendo questo, appare quello; sparendo questo, sparisce quello; non essendo ci questo, non c’è quello”. Ora è da tener presente che i diversi “anelli” o fattori, benché, per necessità espositiva, vengano disposti uno dopo l’altro, in realtà sono, in vari gradi, presenti tutti contemporaneamente: Ogni fattore, infatti, è nello stesso tempo condizionato (paticcasamuppanna) e condizionante (paticcasamuppâda), per cui nessuno di essi può essere assunto e fatto valere come causa prima.» (G.Pasqualotto – Illuminismo e illuminazione – Donzelli 1997 – p.86).
[72] Alexandra David-Nèel dice degli dèi del Buddhismo: «Le loro dimore celesti, per quanto splendide, e la loro vita, per quanto magnifica, sono soggette alle stesse leggi della decrepitezza e della dissoluzione. Essi sono i nostri fratelli giganteschi, i nostri fratelli sublimi: terribili tiranni, forse…forse protettori compassioneoli, ma non hanno salvato il mondo dalla sofferenza, né sono stati capaci di liberarsene».