CAPITOLO
QUINTO
(Edonismo ed
eudemonismo)
5.1 I Cirenaici
Col nome
collettivo di Cirenaici si indicano gli aderenti
a una scuola di pensiero che
pone il piacere come fine primario dall’esistenza e che ha in
Aristippo di Cirene (435 circa–366 a.C.)
il suo fondatore. Scuola non omogenea,
che si articolerà al suo interno in varie
sfumature etiche e che si manterrà
vitale per almeno due secoli, prima di venire
messa in ombra dall’epicureismo,
che per molti versi ne è un suo superamento,
soprattutto in termini di
completezza teorica e profondità. Epicuro,
infatti, doterà la sua dottrina
edonistica di un fondamento ontologico e
gnoseologico che nei Cirenaici è quasi
totalmente assente. Il pensiero cirenaico
si sviluppa infatti quasi
esclusivamente sul piano di un’etica del
tutto pragmatica e lontana da principi
teorici informatori. Sulla filosofia
cirenaica nella sua generalità esistono giudizi
abbastanza concordi nel mettere
in rilievo alcuni suoi aspetti fondamentali,
che potrebbero essere così
sintetizzati: a) un sensismo assoluto sul
piano etico, b) un fenomenismo
riduzionistico sul piano ontologico, 3) l’abbandono
di ogni indagine sul cosmo
e sulla natura, divenendo l’oggetto del filosofare
l’uomo, la sua fisiologia, le
sue emozioni, i suoi desideri e il modo di
soddisfarli, 4) un certo disprezzo
per le scienze matematiche. Ciò non significa
affatto che la filosofia
cirenaica sia rozza come gli apologeti cristiani
[1]
hanno voluto mostrarla, né che all’interno
di questo orizzonte etico-edonistico
manchino articolazioni dove l’intendimento
conoscitivo ed il processo logico
diano luogo a sviluppi interessanti. Seneca
vede in essa un rientro di aspetti
gnoseologici soltanto apparentemente espunti
(Lettere a Lucilio, XIV, 1,
12):
I Cirenaici tolsero via le indagini naturalistiche
e quelle
logiche e si limitarono a quelle morali,
ma poi in altro modo reintroducono ciò
che pure avevano rimosso. Infatti essi dividono
in cinque parti le indagini
morali: di modo che una riguarda ciò che
è da fuggire e ciò che è da ricercare,
un’altra le affezioni, la terza le azioni,
la quarta le cause, la quinta gli
argomenti. Le cause dlell cose tnono quini
il posto dlle indagini naturali, gli
argomenti di quelle logiche, e le altre di
quelle morali. [2]
E Sesto Empirico (Contro i matematici, VII, 190):
[…[ Dicono dunque i Cirenaici
che criteri di verità sono le affezioni,
che esse sole sono comprensibili e che
non sono fallaci; ma di ciò che produce le
affezioni nulla è comprensibile ed
esente da errori; […] [3]
Diogene Laerzio si occupa principalmente
di Aristipppo e
della sua vita ricca di aneddoti ma ci offre
anche alcune interessanti
valutazioni sui Cirenaici in generale, anche
se accentua un po’ troppo la
fisicità del loro edonismo, quando afferma
(II, 86-87):
[…] ammettono due stati d’animo,
il piacere come movimento calmo, il dolore
come movimento aspro. Il piacere non
differisce dal piacere né v’è un piacere
più dolce di un altro; tutti gli
esseri animali apirano al piacere, rifuggono
dal dolore. Tuttavia il piacere è
quello fisico, che è anche fine supremo,
[…] Il piacere particolare è per se
stesso desiderabile; la felicità non per
se stessa, ma per i piaceri
particolari […] La rimozione del dolore,
che è difesa da Epicuro, sembra a loro
che non sia piacere, e neppure l’assenza
di piacere è dolore. Piacere e dolore
sono in movimento, poiché né l’assenza di
dolore né l’assenza di piacere è
movimento, ché anzi l’assenza di dolore è
quasi come lo stato del dormiente.
[…] I piaceri fisici sono molto preferibili
ai piaceri dell’anima e le pene
fisiche sono peggiori delle pene spirituali.
[…] È sufficiente che noi godiamo
di ogni singolo piacere che ci capiti. […]
La ricchezza produce il piacere, ma
non è per se stessa desiderabile. Affermavano
che le passioni sono
intelleggibili, non le cause da cui derivano.
Non si dedicavano allo studio
della natura per la sua manifesta inintelligibilità,
ma coltivavano la logica
per la sua utilità. […] Nulla è giusto o
onesto per natura, bensì per convenzione
e abitudine. [4]
Aristippo di
Cirene fu allievo di Socrate, ma se questi
ammetteva la ricerca del piacere è
difficile cogliere i segni dell’etica socratica
laddove venga teorizzato che il
piacere va “sempre” perseguito a prescindere
da qualsiasi remora di carattere
morale. Un edonismo così radicale (e per
alcuni versi negatore della “misura”
greca) non doveva rendere la vita facile
al cirenaico, il quale, tuttavia, non
era indigente, poiché godeva di un’estrazione
sociale facoltosa e risulta anche
che non disdegnasse di farsi pagare dagli
allievi. Se pure ha scritto qualcosa
esso è andato perduto e la sua figura può
quindi essere costruita soltanto
attraverso le testimonianze (spesso malevole)
che lo riguardano. Sulle quali,
copiossissime, non ci soffermeremo più di
tanto, in considerazione del taglio
del presente saggio. Aristippo emerge da
esse come una specie di dandy
dell’epoca, coraggioso, indipendente e dotato
di quel “bello spirito” (una
sorta di wit) che alimentava per un verso il biasimo
e per altro verso
l’ammirazione dei suoi contemporanei.
Dice di lui
Diogene Laerzio (II, 66):
[…] Si adattava con disinvoltura
a luogo, a tempo, a persona e recitava il
suo ruolo convenientemente in ogni
circostanza. Perciò più degli altri godeva
del favor di Dioniso, poiché
riusciva sempre a rendere accettabile ogni
situazione. Godeva il piacere dei
beni presenti, ma rinunziava ad affaticarsi
per il godimento di beni non
presenti. Fu per queto che Dioniso lo chiamava
cane (o cinico) regale. [5]
Sarebbe tuttavia
un grave errore dar credito all’aneddottica
e lasciarsi sfuggire alcuni
importanti aspetti dell’etica aristippea
che individueremo in a) l’enunciazione
di un individualismo estremo e di un’autosufficienza
non lontana da quella
cinica, b) la svalutazione di ogni convenzione
sociale e di ogni rispetto per
la tradizione, c) la distinzione di piacere
e sofferenza sulla base del
“movimento” psico-nervoso che essi implicano,
c) il privilegiamento del piacere
immediato e dinamico rispetto a quello differito
e statico, d) una visione
della vita che la considera un processo discontinuo
costituito da “istanti”,
ognuno dei quali va vissuto in quanto tale,
ed e) il riconoscimento di realtà
soltanto ai fenomeni e ai sensi che li rilevano
(in quanto mezzi di accesso
alla realtà e alla conoscenza di essa).
Aspetti etici diversi e che tuttavia, sul
piano dei comportamenti,
trovano una loro sintesi laddove, ad esempio
per a), il piacere va “gestito”
senza diventarne succubi, poiché se esso
è sempre per il bene ed è sempre da
preferire e da perseguire in ogni frangente,
nondiméno, qualora da posseduto
diventi possessore, dev’essere sospeso,
poiché metterebbe in mora il principio di
autosufficienza e autonomia. Per quanto riguarda l’aspetto b) Aristippo
non considera in alcun modo l’ethos della polis, rivendicando lo
sganciamento da esso in nome di un nomadismo
autosufficiente e svincolato da
concetti di patria o di tradizione. Relativamente
al “movimento” c) delle
sensazioni: nel piacere esso ha carattere
di levità (che provoca appunto
godimento) mentre nella sofferenza esso è
violento (nel sonno non vi è
movimento e sono pertanto assenti sia il
piacere che la sofferenza). Ma il
piacere vero è piacere comunque dinamico
(non quindi l’epicurea “assenza di
dolore”) ed è il vero motore positivo dell’esperienza
umana. Considerare la
vita come una successione discontinua di
istanti significa mettere in ombra il
passato e il futuro, con un’etica del carpe diem che troverà seguaci tra
numerosi intellettuali del mondo latino.
Infine, relativamente ad e), il
fenomenismo aristippeo è assoluto, in quanto
sostiene che soltanto ciò che
viene percepito è reale e tale riduzionismo
sensistico e individualistico
rivela in Aristippo indubbi riferimenti anche
alla filosofia sofistica.
Va tuttavia
notato che diversi studiosi tendono a spostare
la teorizzazione dell’edonismo
cirenaico da Aristippo (il “Vecchio”) a suo
nipote Aristippo Metrodidatta (il
“Giovane”) attraverso la figlia Aréte, che
risulta essere stata donna colta e
sensibile alla filosofia del padre. In altre
parole, Aristippo-nonno si sarebbe
limitato a dirigere i propri comportamenti
in senso edonistico (ma ancora con
qualche “misura”) e verso un certo aristocratico
distacco ironico che
privilegiava piuttosto gli elementi dell’autonomia”
esistenziale e
dell’autosufficienza [6].
Secondo questa interpretazione Aristippo
si sarebbe tenuto abbastanza lontano
dall’edonismo rozzo che in seguito venne
spesso attribuito al suo cirenaismo.
Egli sarebbe rimasto fondamentalmente un
“socratico”, che avrebbe mantenuto nei
confronti del piacere un certo distacco non
privo di “riserve”, espresse nel
ben noto aforisma “possedere il piacere ma
non esserne posseduti”.
I seguaci di
Aristippo come è già stato detto non costituiranno
mai una vera e propria
scuola univoca, ma svilupperanno il suo edonismo
in direzioni differenti, e ciò
a conferma della scarsa teorizzazione della
sua filosofia, essendosi limitato
ad indicare una direzione etica relativamente
interpretabile. A parte Aristippo
Metrodidatta, di cui si è detto e al quale
sarebbe da attribuire una certa
radicalizzazione dell’edonismo, emergono
come successori più tardi tre
personaggi di notevole spessore filosofico,
anche se non molto ben documentati,
tutti e tre vissuti tra la seconda metà del
IV e la prima metà del III sec.a.C.
(quindi contemporanei o appena più giovani
di Epicuro) che sono: Egesia,
Annicéri (o Anniceride) e Teodoro detto “L’Ateo”.
Egesia è un
pensatore abbastanza sconcertante, in quanto,
scavando nelle più profonde
pieghe del piacere e del suo conseguimento,
giunge alla conclusione che esso è
irraggiungibile ed ha comunque, quando saltuariamente
viene raggiunto,
caratteri di relatività soggettiva. Da qui
il ragionamento consequenziale per
cui, se la realizzazione del piacere è lo
scopo della vita e se tale scopo, per
ragioni non contingenti ma strutturali al
vivere stesso, risulta non
realizzabile, la via più razionale di risolvere
tale fallimento è quello
dell’annullamento di ciò che si oppone alla
realizzazione del piacere; ovvero,
la vita stessa. Si tratta di un’analisi pessimistica
che porta ad un deduzione
paradossale, ma non per questo illogica,
a riprova che la ragionevolezza non
coincide sempre con la logica. L’errore di
Eresia è di porre una sorta di principio
dello “stato di piacere permanente”, laddove
la ragione ci dice che ciò è
impossibile, e che un’eudemonismo intelligente
si realizza nel cercare di
raggiungere il “massimo piacere possibile”
in base alle condizioni date,
restando lontani da un teorizzazione del
“piacere costante”. L’alternanza
dolore/piacere è ciò che fa sì che si apprezzi
il secondo perché viene sospeso
il primo e in ciò consiste l’edonismo epicureo,
che in questo è estremamente
pragmatico e razionale. Tale radicalismo
edonistico, una sorta di pulsione
autodistruttiva dell’edonismo stesso, farà
guadagnare ad Egesia il soprannome
di Peisithanatos (Persuasore di morte), a cui seguì l’interdimento
dell’insegnamento ad Alessandria per ordine
di Tolomeo I Soter. E tuttavia
anche Eresia promuove quell’atteggiamento
di superiore e distaccata
indifferenze che era già stato di Aristippo.
Nota Diogene Laerzio a proposito
dei suoi seguaci (II, 93):
È assolutamente impossibile conseguire la
felicità, perché il
corpo è affetto da molte sofferenze, l’anima
soffre insieme col corpo e ne è
sconvolta, e la sorte impedisce che si realizzino
molte speranze. Ne consegue
che la felicità non esiste. La vita e la
morte sono volta a volta desiderabili.
[…] Pe lo stolto vivere è utile, per il saggio
è indifferente. […] Il sapiente
non tanto nella scelta dei bene, quanto nella
fuga dei mali sopravanzerà gli
altri, perché il suo fine è di non vivere
tra pene e dolori: e questo fine
conseguono quelli che non fanno alcuna distinzione
tra le cause produttrici di piacere. [7]
Annicéri (o
Anniceride) è un pensatore che cerca di attenuare
la spregiudicatezza
aristippea e il suo radicalismo nel porre
l’autosufficienza (la totale
autonomia e indipendenza dagli altri) come
fine del saggio. Annicéri capisce
che l’uomo, in quanto animale sociale, ha
bisogno degli altri e che soltanto
nel rapporto con gli altri diventa possibile
una ricerca della felicità. Ma per
fare questo si deve attenuare l’autosufficienza
e l’individualismo, per aprirsi
all’altro-da-sé; solo “con l’altro” è conseguibile
il massimo piacere
possibile, mentre escludere l’altro significa
precludersi buona parte delle
possibilità di conseguirlo. Da qui la rivalutazione
di tutti quei fattori del
vivere sociale che Aristippo aveva messo
in mora ed in primis
l’amicizia; e questa si istituisce e si consegue
attraverso una ricerca del
rapporto simpatetico col nostro prossimo.
Ma per poter costituire legami di
amicizia occorre anche liberarsi da un eccesso
di individualismo e tentare di
comprendere il desiderio dell’altro per contemperarlo
col proprio e “insieme”
tendere al piacere comune. Insieme all’amicizia
Annicéri invita l’edonista a
coltivare anche i sentimenti della gratitudine
e dell’affetività parentale,
nonché persino (contrapponendosi in ciò nettamente
al messaggio del cosmopolita
Aristippo) l’amore per la patria. Sentiamo
in proposito ancora Diogene Laerzio
(II, 96-97):
[…] esistono nella vita reale
l’amicizia e la gratitudine e l’onore dei
genitori e che talvolta bisogna agire
per amore di patria. […] La ragione non è
sufficiente al fine di avere fiducia
in noi stessi e di essere superiori all’opinione
del volgo, ma dobbiamo educare
il nostro carattere e vincere l’innata cattiva
disposizione che è cresciuta
insieme con noi. Non bisogna farsi l’amico solo per motivi
di
interesse (altrimenti, venuti meno questi
motivi, bisogna allontanarsene), ma
anche per un sentimento di benevolenza, per
cui siamo disposti ad affrontare
anche disagi. Ed infatti pur avendo come
fine il piacere e pur affliggendoci se
ne siamo privati, dobbiamo tuttavia sopportare
volentieri per amore dell’amico.
[8]
Non sappiamo se questo edificante programma
corrisponda
realmente alla dottrina etica proposta da
Annicéri, ma si tratta comunque di un
chiaro segno del fatto che il cirenaismo,
evolvendosi, ha finito per recare in
sé anche i segni della propria negazione,
avendo tra le sue linee evolutive
anche la tendenza verso un piacere sempre
più complesso, che finiva per
coincidere con un eudemonismo partecipativo
assai distante dalle premesse poste
da Aristippo un secolo prima. E tuttavia,
per l’argomento del nostro studio, è
importante rilevare che il recupero di aspetti
dell’etica tradizionale non è
stato accompagnato da quelli concernenti
la religione e che quindi il
cirenaismo contiene elementi abbastanza spiccati
di ateismo.
Teodoro l’Ateo
completa la triade dei successori di Aristippo
ed è forse quello il cui
pensiero presenta aspetti che travalicano
il campo dell’etica per assumere
alcuni elementi più specificamente teoretici.
Diogene Laerzio nell’occuparsi di
lui sottolinea subito l’elemento emergente:
Teodoro eliminò radicalmente le
comuni credenze negli dèi e ci è occorso
di leggere un suo libro Degli dèi
punto spregevole. […] Non ammetteva l’amicizia,
perché essa non c’è né tra gli
stolti né tra i sapienti: per gli uni eliminato
il bisogno, svanisce anche
l’amicizia; i sapienti bastano a se stessi
e non hanno bisogno di amici.
Sosteneva anche che è ragionevole che l’uomo
buono non esponga al pericolo la
propria vita per la patria, perché non deve
rigettare la propria saggezza per
l’utilità degli stolti. Nostra patria è il
mondo. [9]
Teodoro si riallaccia così per un verso ad
Aristippo il
Vecchio e al suo programma provocatorio,
ma nello stesso tempo sembra proporre
una maggior razionalizzazione dell’atteggiamento
etico, sì da scostarsi dalla
filosofia puramente sensistica teorizzata
da lui (o da suo nipote Aristippo
Metrodidatta). È la ricca aneddotica che
lo riguarda a renderci l’immagine di
un uomo riflessivo, che privilegia l’autosufficienza
e la ricerca di un piacere
complesso, costituito da elementi sia sensibili
che intellettuali. L’aristippeo
perseguimento del piacere “per istanti” sembra
non interessare più a Teodoro,
che nella migliore tradizione greca ritiene
che “il giusto mezzo” sia l’unico
che possa garantire continuità e persistenza
al piacere, permettendogli di
istituire una condizione di “gioia” che non
ha più a che fare col godimento
istantaneo e fuggevole. Le sensazioni fugaci
non lasciano traccia e non servono
per il conseguimento di un piacere vero,
che diventa invece possibile soltanto
con una razionale analisi del vivere e delle
sue possibilità esistenziali, in
base ad un “calcolo” dell’opportunità. Per
Teodoro il raggiungimento del
piacere possibile presuppone anche una certa
relativizzazione del male fisico
inevitabile in rapporto al bene fisico possibile;
entrambi vanno quindi
tendenzialmente considerati realtà (per quanto
possibile) “indifferenti”
rispetto alle finalità che si pone il saggio.
Ne consegue che la tematizzazione
bene/male diventa controproducente ed il
primo può tanto più emergere quanto
meno se ne fa oggetto di desiderio da contrapporre
al secondo. Questa sorta di
“indifferentismo” edonistico proietta la
filosofia teodorea in un ambito che va
oltre i limiti del cirenaismo e per un verso
lo riallaccia a Democrito (che
perseguiva l’eutimìa) e per altro lo rende tangente (ancor più di
Annicèri) all’epicureismo, che persegue l’aponìa e l’atarassia.
Ma Teodoro riprende anche alcuni atteggiamenti
comportamentali di Aristippo che
risultano da lui coniugati con quelli di
un “antiedonista” come Diogene di
Sinope, realizzando quindi sul piano del
comportamento interumano una fusione
di aristipppismo e di cinismo. Egli riprende
infatti la parresìa (spregiudicatezza
di eloquio) di Diogene fino ai limiti di
quell’anaidéia (impudenza
arrogante) che aveva fatto di Diogene la
figura dell’”anti-sociale”
provocatorio e impudente per antonomasia,
che non teme di rendersi antipatico,
ma ne fa anzi una bandiera della propria
libertà. Questo atteggiamento lo
oppone nettamente al suo contemporaneo Annicèri
(che abbiamo visto teorizzare
invece la simpatia) e lo conduce ad essere
un dissacratore dei sentimenti in
generale e della ricerca del consenso tramite
amicizia e benevolenza.
In questo
coacervo di atteggiamenti, dove la misura
nella ricerca del piacere si coniuga
con la dismisura di una ricerca di aristocratica
“libertà dagli altri” che va
ben oltre Aristippo, si coglie tuttavia un’elaborazione
conseguente ad una
riflessività razionale che porta Teodoro
di Cirene a creare un sistema etico
non particolarmente innovativo, ma indubbiamente
coerente, aldilà della sua
articolazione piuttosto ampia. Questo razionalismo
pragmatico non poteva che
condurlo ad occuparsi anche della credenza
negli dèi, in quanto essa è elemento
dirimente per la gestione del vivere quotidiano,
delle aspettative
escatologiche e del raggiungimento della
possibile gioia di vivere, in ragione
del “legame” che la credenza, in quanto tale,
determina. Infatti, chi crede in
un essere superiore in qualche modo sempre
ne dipende e la sua libertà di
realizzarsi risulta così compromessa in partenza.
Il risultato a cui perviene
la riflessione teodorea è la recisa negazione
dell’esistenza della divinità (è
purtroppo perduto il suo scritto Sugli dèi), andando in ciò ben oltre
Epicuro, che spedirà gli dèi nei lontani
intermondi, ma non ne negherà,
almeno ufficialmente, che esistano.
Secondo alcuni Evemero sarebbe partito proprio
dalle riflessioni
teodoree per trasformare gli dèi della mitologia
greca in personaggi mitici
divinizzati dalla credulità popolare e ciò
farà sì che la sua tesi diverrà
utilissimo strumento nelle mani dei teologi
cristiani per contrappore la
“verità” del dio della Bibbia alla “falsità”
degli dèi pagani.
5.2) Epicuro
Sul terreno
gnoseologico Epicuro è il pensatore a cui
toccherà, in un certo senso,
risolvere quelle contraddizioni che la confusione
Leucippo/Democrito trascinava
con sé. Lo farà conferendo coerenza all’atomismo
attraverso alcune importanti
innovazioni. Egli, infatti: a) ridimensiona
l’importanza della “figura” degli
atomi, introducendo col “peso” [10]
un elemento più materiale a fondamento del
moto, b) sostituisce il movimento
vorticoso degli atomi (casuale in Leucippo,
necessario in Democrito) con la
loro caduta sulla verticale, c) perfeziona
il concetto di casualità ma nello
stesso tempo anche quello di autonomia, introducendo
una declinazione
(κλίσις) nella
caduta che favorisce lo scontro
tra gli atomi, ma la cui causa può essere
sia esogena e sia endogena, d) riduce i processi conoscitivi esclusivamente
alla
sensazione, eliminando la conoscenza razionale
di Democrito. Sul terreno
dell’etica Epicuro sviluppa quella democritea
in termini più spiccatamente
sensistici ed edonistici, riallacciandosi
anche a quella cirenaica [11]
(colla quale è stata spessa confusa in epoca
cristiana), ma
“intellettualizzandola” ed eliminadone alcune
rozzezze. Il piacere si
radicalizza come principio eudemonistico
unico del vivere (non senza derivarne
qualche aspetto anche anche all’Etica Nicomachea di Aristotele) ma è un
piacere assai più della mente che del corpo.
Un piacere fisico-psichico
temperato di intellettualità, realizzabile
soprattutto attraverso
l’eliminazione dello spiacevole e del turbativo,
piuttosto che nella pura
ricerca del godimento. Epicuro (come già
Democrito) rifiuta il piacere smodato
e intenso, considerato negativo in quanto
transitorio, instabile e turbativo,
mentre consiglia quello misurato ed equilibrato,
in quanto foriero di uno stato
in cui il corpo, la mente e la sensibilità
personale contribuiscono ad una
condizione di rilassata tranquillità, ideale
per l’attività filosofica.
Per comprendere
adeguatamente l’evoluzione dell’ateismo antico
e il suo sfociare nella teoresi
epicurea occorre tenere conto del salto temporale
che separa Democrito da
Epicuro. Tra i due c’è quasi un secolo, e
in mezzo le scuole post-socratiche,
il pensiero di Platone e soprattutto quello
di Aristotele, l’edonismo
cirenaico, la matematica dei post-pitagorici,
la medicina di Ippocrate, le
ricerche naturalistiche di Teofrasto, la
storiografia di Erodoto, Tucidite e
Senofonte. Ma in meno di un secolo è soprattutto
cambiato lo scenario politico;
il mondo classico della polis è stato messo in crisi dall’espansionismo
di Filippo il Macedone e suo figlio Alessandro
sta per conquistare ed unificare
il mondo antico verso Oriente. L’uomo greco
perde via via la sua identità di
cittadino integrato nella ristretta comunità
della polis, diventando
libero suddito di un grande impero, dove
tradizioni ed usanze si diluiscono in
un più vasto orizzonte. In tale clima anche
la cultura filosofica assume una
nuova configurazione, che rende più attuale
l’atteggiamento cosmopolita e
individualista che era stato di Democrito,
il quale aveva in tal senso
certamente precorso i tempi. La cooptazione
di divinità extraelleniche allenta
i legami della religione tradizionale con
lo stato e si fa strada un pluralismo
culturale prima sconosciuto, in cui anche
l’ateismo ha modo di prendere piede.
La dimensione
individualistica che si va instaurando non
può che allontanare le persone dalla
sfera pubblica, conducendole verso la loro
sfera privata; l’etica si sgancia
così dalla politica, perdono validità le
virtù civiche e si accentua la
riflessione sulla singolarità individuale
e sui problemi dell’esistenza. Tutto
questo favorisce il grande successo della
filosofia epicurea, che pure si
sviluppa nella riservatezza della comunità
chiusa del Giardino. Essa diverrà
nota come una razionale e pragmatica lettura
materialistica del cosmo e della
natura e come base per l’instaurazione di
un etica senza dèi. Essi vengono
infatti trasferiti in un luogo del cosmo
lontano dagli uomini e dai loro
problemi, in una sorta di dorato ghetto di
indifferenza e di beata apatia. [12]
Un operazione per certi versi quasi più blasfema
dell’aperto ateismo di un
Leucippo e di un Democrito, poiché degli
dèi qui non si nega l’esistenza, ma li
si rende inutili, antropologicamente privi
di alcun significato. L’aggettivo
“divino”, che Democrito usava per qualificare
gli atomi sferici (più “nobili”)
del fuoco e dell’anima, viene assunto dal
linguaggio filosofico epicureo per
qualificare dei “modelli” di felicità e non
per indicare essenze dalle quali
attendersi qualcosa, sia nel male che nel
bene.
Epicuro nasce
nel 342 a. C. in un zona periferica dell’Ellade;
assimila attraverso buoni
maestri indirizzi filosofici differenti e
per alcuni versi antitetici (il platonismo
e l’atomismo), a 32 anni incomincia a insegnare
la “sua” filosofia, che è uno
sviluppo di quella di Democrito. Vi è qualche
apporto dei Cinici sul piano dell
“autarchia” individuale, ma dove la provocatoria
“naturalezza” di un Diogene,
liberata dai bisogni imposti dalle convenzioni
sociali (ed in quanto tale
“contro” la società) viene fusa con l’edonismo
cirenaico dando luogo a una
ricerca del piacere intimo, che non si oppone
alla società ma le diventa
estraneo. La vita pubblica, con le sue tensioni
e le sue polemiche, viene
espunta dalla sfera individuale, venendo
invece privilegiata la ricerca e la
riflessione, col fine ultimo di conseguire
l’aponìa, poiché l’assenza di
dolore è già in se stessa la miglior forma
di piacere stabile. La sfera del “pubblico”
diventa così una realtà da evitare per i
suoi effetti perniciosi sulla
riflessione filosofica e quale impedimento
peril raggiungimento della felicità.
Quando Epicuro giunge ad Atene prende dimora
in un sobborgo di periferia, in
una casa circondata da un grande orto e prossima
all’aperta campagna e questa
casa in mezzo al verde diventerà il Giardino, un luogo silenzioso e
confortevole, dove il maestro coi suoi allievi
(in realtà un gruppo di amici)
si incontra per rilassarsi, per riflettere
e per conversare.
L’epicureismo
gode verso la fine del IV secolo a.C. di
un contesto sociologico e culturale
indubbiamente favorevole; la filosofia di
Epicuro si diffonderà in seguito
soprattutto verso Occidente, permeando (insieme
allo stoicismo) la cultura
romana; ciò fino all’irrompere del Cristianesimo
e al suo successivo
instaurarsi quale religione di stato. E tuttavia
esso non verrà mai annullato,
arrivando a lambire persino la trionfante
teologia cristiana e ad insinuarsi
tra le sue pieghe, e non sempre soltanto
come esempio biasimevole di
perversione e sregolatezza [13],
vi sono anzi giudizi decisamente favorevoli
[14].
I frequentatori del giardino sono una sorta di aristocrazia
intellettuale e nello stesso tempo un esempio
estremo di democrazia d’estrazione;
esso infatti è aperto anche alle donne e
agli schiavi, due categorie che per
ragioni diverse erano state escluse dalla
cultura classica. Ma Epicuro non era
personaggio esente da pecche: dalle discussioni
del giardino [15]
era esclusa ogni altra filosofia che non
fosse la sua; pur dovendo molto a
Democrito egli negava di aver ripreso il
suo pensiero (parrebbe arrivando
persino a definirlo “giudice di chiacchiere”),
instaurando infine tra i suoi
allievi un vero e proprio culto della personalità.
Diogene Laerzio
ci rende una biografia di Epicuro sostanzialmente
encomiastica, ma nella quale
(per dovere di cronaca) riporta una serie
piuttosto lunga di maldicenze e
diffamazioni sul suo conto. Il suo carattere
(pareva facile all’insulto e alla
derisione) non risulterebbe tale da essersi
attirato molta simpatia, ad
eccezione di quella dei suoi discepoli, che
rasentava spesso la devozione.
Sembrerebbero però, queste diffamazioni,
perlopiù dovute ad un sostanziale
fraintendimento della sua filosofia, che
presentandosi come fondata sul piacere
non poteva che generare diffidenza, soprattutto
tra i postplatonici e gli
stoici. Vale la pena comunque di citare qualcuno
di questi fenomeni
diffamatori, perché potrebbero essere all’origine,
o almeno concause, di
atteggiamenti e scritti di Epicuro il cui
contenuto è volto soprattutto a
difendersi dagli attacchi al suo pensiero
e alla sua vita privata [16]. Scrive Diogene:
Lo stoico Diotimo, manifestò la sua ostilità
a Epicuro
calunniandolo molto amaramente con la pubblicazione
di cinquanta epistole
scandalose sotto il nome di Epicuro […] inoltre,
prostituiva uno dei fratelli e
conviveva con l’etera Leonzio e faceva passare
per sue la dottrina atomistica
di Democrito e quella edonistica di Aristippo
[…] E a Pitocle, che era un
giovane bello: «Mi assiderò – scrive – ed
aspetterò che tu, mio desiderio,
giunga da me, simile a un dio» […] E viene
anche citato un passo della sua
opera Del fine, così: «Non so quale bene io possa concepire,
se eccettuo
i piaceri del gusto o le gioie dell’amore
o i piaceri che derivano dall’udito o
dalla contemplazione della bellezza» […]
Ed Epitteto lo chiama cinedòlogo,
ovvero predicatore di sconcezze, e lo critica
molto aspramente. […] Inoltre
Timocrate … riferisce che Epicuro era così
dedito alla dissolutezza che
vomitava due volte al giorno […] E che Epicuro
molte lacune aveva nella
preparazione scientifica, ma ancora maggiore
ignoranza mostrava nelle questioni
della vita quotidiana […] [17]
Per precisare subito:
Ma la follia di questi critici è
evidente. Perché il nostro uomo ha sufficienti
testimoni della sua invincibile
probità di sentimenti verso tutti: la patria
che l’onorò con statue di bronzo;
gli amici, il cui numero fu tale […] l’ininterrotta
continuità della sua scuola
[…] e l’innumerevole schiera dei discepoli
[…] e la gratitudine ai suoi
genitori, la benefica generosità verso i
fratelli, la mitezza verso i servi […]
[18]
Fino ad una piuttosto improbabile religiosità
unita
all’amor di patria: [19]
Le parole non riescono a
rappresentare la profondità della sua disposizione
spirituale verso gli dèi e
di amor di patria. [20]
E ad un’invece più probabile sobrietà e frugalità
unita ad
amicale socievolezza:
[…] E gli amici venivano a lui
da ogni parte e vivevano insieme con lui
nel giardino, come riferisce anche
Apollodoro […] con un tenore di vita molto
semplice e modesto. «Si contentavano
– dice – di una ciotola di vino, ma di solito
bevevano sempre acqua». […] Ed
egli stesso dice nelle Epistole che si contentava solo di acqua e di un
semplice pane. [21]
E relativamente alla sua formazione culturale:
Apollodoro nella sua Cronologia
dice che Epicuro fu allievo di Nausifane
[e di Prassifane]. Ma, invero, Epicuro
lo nega e nella lettera ad Euriloco affema
di essere autodidatta. [22]
Quella di negare sistematicamente ogni debito
verso i
pensatori precedenti è una vera e propria
strategia di Epicuro, che in ogni
occasione tende a valorizzare se stesso e
a sottolineare l’originalità del suo
pensiero. In questa prospettiva (a meno che
si tratti di pura disinformazione)
va anche posta la negazione dell’esistenza
di Leucippo. Infatti, pur ammettendo
di malavoglia “qualche” debito verso Democrito,
egli potrebbe aver cercato di
“eliminare” letteralmente Leucippo (da cui
Democrito ha tratto praticamente
quasi tutta la sua fisica) e “giocarsela”
soltanto con l’Abderita
sull’attribuzione dell’originalità delle
proposte atomistiche.
Diogene Laerzio
ci ha anche tramandato, fortunatamente, alcuni
documenti originali di Epicuro
che ci permettono di accedere direttamente
al suo pensiero: tre Epistole,
le Massime capitali e il Testamento [23].
Cominceremo con l’Epistola ad Erodoto, una sorta di compendio della
fisica di Epicuro, destinato a coloro che
non hanno la possibilità di studiarne
a fondo la dottrina della natura. Ne riporteremo
i passaggi principali, ovvero
quelli che presentano delle varianti significative
rispetto all’atomismo di
Democrito, accompagnandoli con un breve commento
o una nota a pié di pagina
quando opportuno:
(38) […] è in base alle
sensazioni che dobbiamo tenere conto di tutte
le nostre esperienze sensibili e
in genere di ogni atto apprensivo immediato,
sia esso un atto conoscitivo della
mente o delle stesse affezioni, che si producono
in noi per essere in grado di
fare induzioni, sia su ciò che attende conferma,
sia su ciò che sfugge al
dominio dei sensi. […]
(39) Infatti che i corpi
esistano è attestato universalmente dalla
sensazione stessa che costituisce
anche il necessario punto di partenza
per inferire con la ragione ciò che non cade
sotto i sensi. [24]
Come avevamo anticipato, nel riprendere Democrito,
Epicuro
pone in sottordine la conoscenza basata sul
ragionamento (secondaria) e si
affida a quella fornita dai sensi (primaria).
E precisa appunto che la
sensazione è il “necessario punto di partenza”
di ogni inferenza della ragione.
In ciò si coglie il pragmatismo e l’empirismo
di Epicuro, che vuole eliminare
ogni fonte di equivoco relativamente alle
nostre possibilità cognitive. Ma
questa sua posizione riprende anche quella
dei Cirenaici, che consideravano le
sensazioni le uniche fonti di conoscenza.
Epicuro passa poi ad alcune
precisazioni che riprendono l’atomismo di
Democrito nel sottolineare che gli
atomi rimangono immutati nella dissoluzione
dei loro composti. Essi, infatti,
si muovono incessantemente ed eternamente
nel vuoto e non vengono percepiti dai
nostri sensi che sono attivi soltanto nei
confronti delle sostanze composte.
Dopo averci detto che i mondi sono infiniti
(ma già lo sosteneva Leucippo)
Epicuro riprende la teoria degli èidola democritei, con qualche
interessante precisazione:
(46) […] queste immagini noi
chiamiamo simulacri (èidola). Il loro movimento attraverso lo spazio,
poiché avviene senza incontrare alcun ostacolo
di corpi contrapposti, compie
ogni percorso immaginabile in un tempo inconcepibilmente
veloce: è infatti la
presenza o l’assenza di urti che produce
lentezza o velocità […] (47) […]
perciò la sua velocità [dell’èidolon] sarà adeguata agli ostacoli
incontrati […] (48) Oltre a ciò la produzione
dei simulacri avviene con la
stessa velocità del pensiero. Infatti dalla
superficie dei corpi si diparte un
continuo flusso di simulacri con una velocità
pari a quella del pensiero.
Questo flusso dalla superficie dei corpi
è incessante [ma non vi è riduzione dl
corpo in quanto la materia che lo costituisce
si riforma continuamente]; tale
flusso conserva per molto tempo la disposizione
e l’ordine che gli atomi
avevano nei corpi solidi, sebbene qualche
volta avvenga che possa subire un
certo disordine. Per di più nell’ambiente
esterno a noi si verificano
improvvise e rapide combinazioni o concrezioni
(sustàseis) perché esse
non richiedono che la pienezza del corpo
si costituisca anche in profondità. [25]
Viene poi introdotta la “vibrazione” all’interno
dell’atomo, grazie alla quale gli èidola che partono dall’oggetto ne
conservano l’esatta forma:
(50) Tali immagini si muovono
con grande velocità e per questa ragione
danno la visione dell’oggetto nella
sua unità e compattezza e per di più conservano
la corrispondenza dell’oggetto
da cui provengono conformemente all’armonico
impulso che ha radici nella
vibrazione degli atomi che avviene nella
profondità del corpo solido da cui le
immagini si dipartono.
L’èidolon dice sempre il “vero” dell’oggetto da cui
parte, ma è la nostra mente che può distorcere
i contenuti del messaggio:
L’inganno e l’errore dipendono sempre da
ciò che la nostra
opinione aggiunge a quello che attende di
essere criticamente confermato o
almeno non contraddetto; ciò per un moto
che in stretta connessione con la
facoltà immaginativa e tuttavia da essa distinto
produce in noi l’inganno. […]
non si potrebbe dare alcun errore se non
si producesse in noi un altro
movimento connesso in qualche modo con la
percezione intuitiva e
rappresentativa ma anche distinto da
essa. È a causa di questo moto, dunque, che
si verifica l’errore nel caso esso
non riceva conferma o riceva prova contraria;
se invece viene confermato e non
riceve prova contraria abbiamo la conoscenza
vera. [26]
Si ha qui l’impressione che Epicuro, dopo
aver messo fuori
dalla porta la conoscenza razionale (o autentica)
di Democrito, la faccia poi
rientrare dalla finestra, poiché ci pare
che possa essere solo la ragione a
farci evitare quel “movimento” improprio
che distorce l’immagine e che per
contro può effettuare la “conferma” del messaggio
che ci è pervenuto dagli èidola. Per quanto riguarda l’udito e l’olfatto sono
sempre i flussi
eidolici a determinare la sensazione, ed essi viaggiano
come suoni e
come odori.
Occupiamoci ora
delle proprietà degli atomi e facciamo un
passo indietro al paragrafo (43) dove
Epicuro, certamente a conoscenza della Metafisica di Aristotele nella
quale veniva rimproverato agli Atomisti di
non aver chiarito la natura del moto
degli atomi, prova a perfezionare la teorizzazione
leucippeo-democritea.
Troviamo così l’introduzione del concetto
di un declinazione (in greco
κλισις, tradotto
poi da Lucrezio con clinamen)
nella traiettoria degli atomi:
Gli atomi poi sono in continuo moto (43)
e gli uni cadono
perpendicolarmente, gli altri declinano spontaneamente
dal moto retto, gli
altri rimbalzano per l’urto; di questi poi
gli uni nel loro moto divergono
lontani fra loro, gli altri trattengono questo
stesso rimbalzo, quando siano
respinti dagli atomi che ad essi si intrecciano,
o quando sono contenuti da
altri atomi fra loro intrecciati. [27]
Epicuro ci dice che alcuni atomi “declinano”
spontaneamente, ma alcuni paragrafi più in
là riprende l’argomento introducendo
invece un elemento accidentale ed esterno,
che chiama prima “ostacolo” e poi
solamente “intoppo”:
Per di più: è necessario che gli atomi (61)
siano equiveloci,
quando procedano attraverso il vuoto senza
cozzare contro nulla: perché il
pesante non si muoverà più veloce del piccolo
e leggero, quando però non trovi
ostacolo, né il piccolo del grande, avendo
il suo corso sempre in una sola
direzione quando nulla contro esso s’opponga;
né più veloce sarà il moto in
alto né quello laterale per effetto degli
urti, né quello in basso per causa
del proprio peso: Infatti fino a quando perduri
l’una o l’altra specie di
questi due moti, il movimento perdurerà veloce
come il pensiero, fino a che
qualche intoppo non vi si opponga, o dall’esterno,
o dal proprio peso, contro
l’impulso ricevuto da ciò che produsse il
rimbalzo. [28]
Nel vuoto il
moto verticale degli atomi è completamente
libero; che cos’è dunque che può
produrre resistenza o impedimento sì da “deviare”
tale moto? Epicuro non lo
precisa. Ciò che se ne deduce è che la caduta
in verticale degli atomi può, a
causa di “qualcosa” di indefinito, subire
una deviazione di traiettoria. Ma a
mutare la traiettoria non può essere che
un elemento “casuale” presente nel
vuoto, che viene a trovarsi o che si pone
sulla traiettoria dell’atomo.
All’urto segue un “rimbalzo”, contro
cui il peso dell’atomo farebbe opposizione.
L’urto avviene quindi con un
oggetto esterno e casuale, ma pare che ad
esso segua una sorta di “opposizione”
interna; se ne deduce che: la declinazione
avviene a) spontaneamente, oppure b)
perché la traiettoria è deviata da un ostacolo
incontrato nella caduta, ma in
questo caso il peso dell’atomo “si oppone
alla deviazione”. Abbiamo quindi due
cause del clinamen, la seconda, esogena e casuale, a cui si oppone
il
peso dell’atomo e la prima in cui l’atomo
“spontaneamente” devia dalla propria
traiettoria. Ma questo farebbe pensare che
l’atomo possegga una specie di
libertà di deviare il proprio percorso, concetto
peraltro non esplicitato, ma
che farebbe pensare a quanto già Democrito
aveva espresso come “automatismo”
interno all’atomo (però non libero ma necessitato).
Il concetto di questa
supposta libertà verrà ripreso e tematizzato
da Lucrezio nel De rerum natura
(II, 252) trasferendo poeticamente il comportamento
dell’atomo a quello
dell’uomo, con un’operazione analogica di
sicuro effetto lirico, ma di cui non
può sfuggire l’arbitrarietà.
L’epistola ad
Erodoto prosegue trattando dell’anima e sostanzialmente
ancora sulla linea di
Democrito, ma con la preoccupazione di legarla
indissolubilmente al corpo e
fugare quindi ogni ipotesi sulla sua trascendenza
rispetto ad esso:
(63) Dopo di ciò, facendo
riferimento alle sensazioni, alle affezioni
o sentimenti – così infatti
assicureremo un saldissimo fondamento alla
nostra teoria – bisognerà
considerare che l’anima è una sostanza corporea
composta di sottili particelle,
sparsa per tutto l’organismo, assai simile
ad un soffio mescolato a calore,
affine all’uno e all’altro [29].
[…] Ciò è immediatamente
manifestato dalle capacità dell’anima, dai
sentimenti interni, dalle sue
affezioni, dalle passioni, dalle intellezioni
e da tutte quelle facoltà alla
cui privazione cessiamo di vivere. (64) Bisogna
ritenere con certezza che la
causa della sensazione risiede nell’anima;
essa non l’avrebbe mai avuta se non
fosse in qualche modo contenuta nel restante
organismo. [30]
Le sensazioni sono pertanto la fonte di ogni
conoscenza e
possono darsi all’uomo solo grazie all’anima,
che è anche all’origine delle
emozioni e dei sentimenti. Ma essa è fatta
di materia ed è tutt’uno col corpo,
in una sorta di sinergia per cui le sue funzioni
vivificano il corpo e nello
stesso tempo ne sono dipendenti, infatti:
(65) […] Non è possibile,
infatti, concepire l’anima come senziente
se non in questo complesso di anima e
di corpo, né pensare che essa possa avere
i medesimi moti sensitivi quando il
corpo che la contiene e la circonda non è
più tale da consentirle quei suoi
movimenti […] [31]
Quindi non è l’anima che vivifica il corpo,
ma è il corpo
che vivendo rende possibile il funzionamento
dell’anima. Per Epicuro non solo
l’anima non è immortale (come pensava Platone),
ma non è neppure principio e
fonte di vita per il corpo. D’altra parte,
nulla di incorporeo esiste, se non
il vuoto:
(67) Bisogna ancora considerare
che ciò che diciamo incorporeo, secondo l’accezione
più generale del termine,
si riferisce a ciò che può esser pensato
come esistente per se stesso; ma in
realtà niente di incorporeo può essere pensato
come sussistente eccetto il
vuoto. [32]
Da qui il giudizio inappellabile sui seguaci
di Platone:
[…] Perciò quelli che affermano
che l’anima è incorporea vaneggiano; se lo
fosse non potrebbe né agire né
patire (68) mentre è evidente che l’anima
possiede entrambe queste qualità
contingenti. [33]
Come l’anima non esiste senza un corpo di
riferimento,
così le qualità essenziali di un corpo (forma,
colore, dimensione, peso, ecc.)
sono pensabili soltanto come inerenti ad
esso [34],
pur esistendo anche altre qualità puramente
contingenti e definite per
convenzione. Come pure è convenzionale la
nozione di “tempo” in quanto mezzo
“di misura”:
(72) si deve anche ritenere per
certo che non possiamo porre il problema
del tempo allo stesso modo di tutte le
altre proprietà che si osservano nell’oggetto
riferendoci alle anticipazioni [35]
che troviamo in noi stessi, ma bisogna considerarlo
in base a quella evidenza
immediata per la quale noi diciamo “molto
tempo” o “poco tempo”, […] [36]
I mondi hanno
origine nell’infinito e sono di forma diversa,
così come diverse, ma non
infinite, sono le forme delle cose che li
costituiscono. Ma ogni mondo possiede
una forma determinata, come determinata è
la “natura” che genera gli esseri
viventi e che si evolve “apprendendo” dalle
circostanze. Così è accaduto che
una sua parte, la ragione dell’uomo, abbia
in seguito appreso e sviluppato le
conoscenze primarie. Infatti:
(75) Bisogna anche supporre che
la natura apprese molte e diverse cose e
molti impulsi, costretta a ciò dalle
circostanze; la ragione degli uomini, in
seguito, ha perfezionato ed ha
aggiunto nuove scoperte a quanto era stato
indicato dalla natura più
rapidamente in alcuni casi, più lentamente
in altri, e in determinati periodi
di tempo secondo un processo più rapido,
in altri più lento. [37]
Questa integrazione dell’uomo nella natura
da cui deriva è
estremamente importante, perché determina
una definizione della genesi del
linguaggio a partire dalla natura stessa:
Per cui anche i nomi delle cose
non furono originariamente stabiliti per
convenzione, ma a crearli fu la natura
stessa degli uomini che a seconda delle diversità
delle stirpi, provando
particolari emozioni e ricevendo particolari
percezioni, emetteva anche l’aria
in maniera propria improntata dal singolo
stato d’animo e dalla particolare
percezione secondo le differenze esistenti
tra i luoghi in cui si trovavano a
vivere. (76) Più tardi poi, di comune accordo
nell’ambito di ciascun popolo
furono stabilite particolari espressioni
per potersi capire reciprocamente con
maggiore chiarezza e concisione. [38]
Mentre Democrito privilegiava l’aspetto “convenzionale”
del linguaggio Epicuro ne accentua invece
l’origine “naturale”, integrando, sia
il linguaggio sia l’animale che lo ha creato
e lo utilizza, con la natura
stessa.
Secondo Epicuro
un “qualcuno” (Dio o Primo Motore) che regolasse
i movimenti degli astri ne
sarebbe in qualche modo dipendente e ciò
non si accorderebbe con la beatitudine
che conviene a un dio, perciò il modo d’essere
e di muoversi di essi dipende
esclusivamente “dal modo in cui essi si originarono”.
Ma neppure essi stessi
sono dèi, proprio in quanto il loro movimento
contrasterebbe col loro status
divino. Opponendo così a una spiegazione
causale di tipo teologico una
spiegazione naturale e razionale il Nostro
fissa un criterio estremamente
importante rispetto al monismo di una causa
divina o ad una divinità degli
astri stessi, quello della pluralità delle
cause naturali:
Perciò, se giungessimo a rinvenire le molteplici
cause delle
rivoluzioni, del sorgere e del tramontare,
delle eclissi e degli altri fenomeni
simili, non dovremmo credere che su questo
punto non si sia arrivati a quella
conoscenza necessaria per il (80) raggiungimento
della tranquillità e della
felicità. […] Così se riterremo che un fenomeno
possa verificarsi in una data
maniera, ma riconosciamo che esso può verificarsi
in più modi, conserveremo la
tranquillità proprio come se realmente sapessimo
che esso si verificherà in
quella determinata maniera. [39]
Quindi l’approccio pluralistico alla realtà
garantisce non
soltanto la correttezza delle tesi cosmologiche,
ma anche la condizione etica
della tranquillità di chi sa di esser nel
giusto. Infatti:
(81) È necessario soprattutto
riflettere su questo: il più grave turbamento
dell’anima dell’uomo ha le sue
origini nella credenza che i corpi celesti
siano perfetti ed eterni e nello
stesso tempo possano avere volontà, azioni,
intenzionalità in contrasto col
loro stato; […] [40]
L’epistola ad
Erodoto si chiude con una esortazione ad
attenersi sempre alla sensazione,
quale principio conoscitivo fondamentale,
nei termini seguenti:
(82) […] La perfetta
tranquillità dello spirito consiste nella
libertà da questi errori e timori e
nel tenersi fermi nella mente i principi
generali e fondamentali. Per cui
bisogna sempre attenersi all’immediatezza
delle sensazioni e delle affezioni
che si verificano in noi, secondo un criterio
generale per quelle generali,
secondo un criterio particolare per quelle
particolari, e attenersi
all’evidenza immediata in accordo con ognuno
dei nostri criteri di giudizio. Se
così ci comporteremo, sapremo trovar la causa
dell’origine dei nostri
turbamenti e delle nostre paure e ce ne libereremo
indagando le ragioni dei
fenomeni celesti e di tutti gli altri che
tanto timore arrecano agli uomini. [41]
L’Epistola a
Pitocle inizia con una ripresa del principio della
pluralità delle cause,
ma essa tratta poi quasi esclusivamente dei
fenomeni del cielo e dell’atmosfera
considerati sotto i loro molteplici aspetti
(astri, nuvole, tuoni, lampi,
terremoti, ecc.) e quindi non riveste particolare
interesse per la nostra
ricerca. Riporteremo tuttavia la chiusa,
nella quale Epicuro muove
l’esortazione che segue:
Tutte queste cose, o Pitocle, tienile bene
a mente: potrai così
in molte occasioni star lontano dalle favole
dei miti e potrai comprendere alte
dottrine dello stesso genere. In particolar
modo considera attentamente le
dottrine che trattano dei criteri conoscitivi
[42]
delle affezioni e del fine a cui si rivolge
ogni nostro ragionare. Quando le
avrai bene indagate ti potranno far comprendere
facilmente le cause dei
fenomeni particolari. Coloro che non amano
questo genere di ricerche non
potranno mai conoscere bene tutto questo
né raggiungere il fine a cui tende
tale studio. [43]
Passiamo ora
all’Epistola a Meneceo, in cui Epicuro ci consegna il nucleo centrale
della sua etica, quella che, secondo un termine
ormai in uso, delinea il
“quadrifarmaco”, ovvero quella sorta di terapia
contro il male di vivere,
contro i dolori e i turbamenti irrazionali,
che permette il raggiungimento del
piacere di vivere e della felicità spirituale.
Questo eudemonismo radicale si
esprime in quattro punti principali: a) Liberazione
dal timore degli dèi, che
per la loro natura non si occupano degli
uomini, b) Liberazione dalla paura
della morte, c) Acquisizione della consapevolezza
che la felicità è facilmente
raggiungibile, d) Apprendimento del modo
corretto di sopportare il dolore, che
è quasi sempre passeggero e comunque meno
temibile di quanto si pensi. [44]
Essa si apre così.
(122) Nessuno che sia giovane indugi a filosofare,
né divenuto
vecchio si stanchi di filosofare, perché
non si è mai né troppo giovani né
troppo vecchi per acquistare la salute dell’anima.
Chi dice che l’età per la
filosofia non è ancora venuta o è già passata
è come se dicesse che non è
ancora giunta o è già passata l’età per la
felicità. [45]
L’esortazione determina un rapporto indissolubile
tra
filosofia e felicità; questa va conseguita
in ogni fase dell’esistenza e quindi
non esiste un’età privilegiata per filosofare.
Per il giovane filosofare
significa maturare ed allontanare ogni timore
per il suo futuro, per il vecchio
significa mantenersi giovane ed essere soddisfatto
di aver vissuto. Poiché solo
la filosofia procura felicità, che è il massimo
bene a cui aspira l’uomo. La
frase successiva precisa:
[…] Per prima cosa considera la
divinità come un essere vivente, immortale
e felice, secondo quanto suggerisce
la nozione del divino quasi impressa in noi
dalla natura e non attribuirle
niente che sia estraneo all’immortalità e
discordante con la beatitudine.
Perché gli dèi esistono: evidente è infatti
la loro conoscenza. Ma non esistono
nella forma in cui li concepisce il volgo
togliendo loro ogni fondamento di
esistenza reale. Empio non è colui che rinnega
gli dèi del volgo, ma colui che
riferisce agli dèi le opinioni del volgo.
Infatti i giudizi del volgo a
proposito degli dèi non sono prenozioni ma
(124) false supposizioni. Perciò a
causa di esse si usa ricondurre agli dèi
i più grandi danni e i più grandi
benefici. Non avendo intimità che con le
proprie virtù essi accolgono coloro
che sono loro simili, considerando estraneo
chi non è conforme alla loro
natura.
Il passo si presenta come una grande metafora
filosofica,
nella quale è dato cogliere i principi fondamentali
dell’etica epicurea
attraverso i vari passaggi che la compongono.
Nella prima frase citata si
afferma che la divinità va considerata “come”
un essere vivente, immortale e
felice, in accordo con la “nozione” che la
natura ha “impresso”, soprattutto
“non attribuendole” niente di discordante
con l’immortalità e la beatitudine.
Ma l’immortalità è degli atomi, che sono
alla base di tutto ciò che esiste,
mentre la beatitudine è l’apice della felicità
a cui ogni uomo idealmente
tende; quindi queste entità divine sono dei
“modelli” filosofici ed assiologici
di riferimento e non essenze dotate di divinità
“reale”; perdipiù esse
risultano comunque estranee all’uomo nel
loro status di immortalità e
isolata beatitudine. La frase « Perché gli
dèi esistono: evidente è infatti la
loro conoscenza.» acquista infatti un senso
compiuto soltanto se l’“evidenza”
viene riferita alla pregnanza dei principi
etici di cui gli dèi sono investiti
e dei quali sono soltanto “forma” linguistica.
Epicuro è infatti consapevole
che “immortalità” e “beatitudine”, in quanto
principi astratti e fuori della
portata dell’uomo (ma nello stesso tempo
immaginati come reali) debbono
ricevere un’investitura reale, ancorché puramente
simbolica. Gli dèi sono
pertanto “simboli” di un’umanità ideale a
cui tendere attraverso la filosofia,
tale da determinare un’altrettanto simbolica
“assenza di morte” nell’orizzonte
dell’uomo. Sul piano reale del vissuto vi
corrisponde l’aponìa, che
predispone alla meditazione filosofica e
rende possibile la felicità che ne è
suo compimento.
Il fatto che gli
dèi non esistano nella forma in cui “li concepisce
il volgo” conferma questa
tesi, poiché gli dèi ufficiali della mitologia
greca per loro natura sono
eminentemente “come li concepisce il volgo”,
vale a dire coinvolti nell’umanità
che non si dà la pena di pensarli ”filosoficamente”.
Allora essi diventano come
li si vuole, differendo solo per rango dall’uomo
comune e presentandosi come
entità che possono esser blandite con devozione
ed offerte, al fine di ottenere
da essi favore o protezione. Infatti «i giudizi del volgo a proposito degli
dèi non dono prenozioni ma false supposizioni.
Perciò a causa di esse si usa
ricondurre agli dèi i più grandi danni e
i più grandi benefici.» E’
difficile scorgere condanna più radicale
di tutta la religione greca dopo quella
di Senofane, ma Epicuro è riuscito a porla
in modo da non incorrere in una censura troppo severa, avendo egli asserito
preliminarmente e con forza la “realtà” degli
dèi. Ma non solo gli dèi “del
volgo”, ovvero quelli della tradizione, sono
“fuori” dalle prenozioni (dalle prolessi)
che anticipano la conoscenza vera, che è
quella conseguibile con la filosofia,
perciò la frase finale corona emblematicamente
(ed anche astutamente) la tesi
soggiacente a tutto il periodo. Infatti,
non avendo gli dèi che “intimità con
le proprie virtù” (con le quali si identificano)
essi possono “accogliere”
soltanto l’attenzione dei loro simili (ovvero
di quelli che filosofano),
considerando estraneo chi non è conforme
alla loro natura (cioè quelli che
considerano gli dèi essenze “realmente” interessate
agli uomini e alle loro
vicende). Questa frase perderebbe ovviamente
ogni senso qualora non la si
connettesse alla premessa epicurea che gli
dèi sono estranei alla vita degli
uomini e che sono collocati in un intermondo privo di alcun rapporto col
mondo umano. [46]
Epicuro passa
poi a parlare della morte, un altro elemento
topico della sua filosofia,
affermando che “niente è per noi la morte”,
infatti:
La retta conoscenza che la morte è nulla,
per noi rende
godibile la stessa condizione mortale della
nostra vita, non prolungando
indefinitamente il tempo ma togliendo il
desiderio dell’immortalità. [47]
Infatti immortali sono soltanto gli atomi
che ci
costituiscono e che costituiscono la natura
di cui facciamo parte, la quale, attraverso
le prolessi, ci permette di intuire le cose del mondo
e i
principi gnoseologici ed etici che lo concernono.
Chiude questo passo la frase
famosa:
[…] quando ci siamo noi non c’è
la morte, e quando essa sopravviene non ci
siamo più noi. Ma il volgo ora fugge
la morte come (126) il più grande dei mali
ora la cerca come cessazione dei
mali della vita. Il saggio, al contrario,
non rifiuta la vita né teme la morte;
non è contrario alla vita né ritiene che
sia un male non vivere. [48]
Si noti che, qui come altrove, il termine
“volgo” va
contrapposto a “saggio” e non riferito all’estrazione
sociale (che come
sappiamo per Epicuro era priva d’importanza),
ma piuttosto alla categoria di
coloro che non perseguono la saggezza, ovvero
non coltivano la filosofia (per
questa ragione altre traduzioni sostituiscono
il termine con la perifrasi “la
maggior parte”). [49]
Segue un rimprovero verso coloro che non
amano la vita e si rammaricano di
essere nati, ai quali chiede per quale ragione,
coerentemente, non si suicidino.
Occorre poi sapere che il nostro futuro non
dipende dalla nostra volontà, ma
nello stesso tempo non ci è del tutto indipendente:
in altre parole (come
traduce il Bignone) “non è né nostro né interamente non nostro”. [50]
Viene poi affrontato il problema del desiderio,
assolutamente centrale
nell’etica di Epicuro, e che è espresso in
modo straordinario nella sua
lapidarietà da una frase a lui attribuita
riportata da Giovanni Stobeo (Florilegium,
III, 17, 23, p.495 Hense): «Se vuoi far ricco qualcuno, non aggiungere
niente ai suoi beni, ma detrai qualcosa ai
suoi desider.i». Poiché i
desideri sono solo in parte naturali e perlopiù
invece vani (e quindi
negativi), essi vanno scelti o rifiutati
in base ad una previa valutazione
della loro natura:
[…] Infatti, una sicura
conoscenza di essi sa riferire ogni atto
di scelta e di rifiuto alla salute del
corpo e alla tranquillità dell’anima: questo
è il fine di una vita felice.
Perché è in vista di questo che compiamo
tutte le nostre azioni allo
scopo di sopprimere sofferenze e turbamenti.
[51]
Non si può non cogliere un interessante rapporto
della
filosofia epicurea col Buddhismo. Qui come
là (ma in modo più radicale in
questo) viene incriminato il desiderio vano,
come sicura fonte di sofferenza,
che allontana l’uomo dall’aponia (e in definitiva dall’eudaimonia)
per Epicuro e dal nirvana per il Buddha. Dopo aver poi ribadito che
«il
piacere è principio e fine della felicità», ma che «non tutti i piaceri
sono da ricercarsi, così come non ogni dolore
è da rifuggirsi» Epicuro ci
dice che bisogna sempre valutare attentamente
“vantaggi e svantaggi”. Segue
allora un altro aspetto fondamentale della
sua etica, cioè l’autosufficienza
(di derivazione cinica e cirenaica), che
è fondamentalmente l’indipendenza dai
desideri e dai beni non indispensabili:
(130) Consideriamo un grande
bene l’autosufficienza, non perché sempre
ci debba bastare il poco, ma perché
se non abbiamo molto, dobbiamo saperci contentare
del poco, profondamente
convinti come siamo che tanto più piacevolmente
si gode l’abbondanza quanto
meno se ne ha bisogno, e che tutto ciò che
è secondo natura è facilmente
procacciabile, mente ciò che è vano è di
difficile attuazione. [52]
Ritorna il concetto di “naturalezza”, di
sintonia con la
natura: che è insieme frugalità e “misura”.
Con ciò Epicuro coglie l’occasione
per fugare le maldicenze che avvolgono il
suo pensiero:
Quando noi
diciamo che il piacere è un bene non intendiamo
parlare del piacere dei
dissoluti e dei gaudenti, come credono alcuni
che o non conoscono la nostra
dottrina o le sono avversi o la interpretano
male, ma il non soffrire in quanto
al corpo (132) e il non avere turbamenti
nell’anima. Perché non banchetti o
feste continue, non godersi giovinetti e
donne, né il mangiar pesci o altro che
offra una ricca mensa rendono dolce la vita,
ma la sobria ragione che scruta a
fondo le cause di ogni atto di scelta o di
avversione e allontani le false
opinioni che rendono gli animi colmi di inquietudine.
[53]
Da ciò l’elogio della phrónesis (saggezza e
prudenza), che è addirittura più importante
(in quanto più basilare) della
filosofia, in quanto da essa derivano tutte
le altre virtù. Epicuro riassume
poi i punti principali della sua esposizione
(l’atteggiamento verso gli dèi,
quello di fronte alla morte, quello delle
aspirazioni “secondo natura”, quello
del perseguimento della felicità) per stigmatizzare
coloro che ritengono che
tutto accada “per necessità” ed è evidente
con ciò che si riferisce
principalmente agli Stoici, ma non meno a
Democrito, che come abbiamo visto
aveva indebolito la “casualità” leucippea
a favore di un maggior necessitarismo
nel moto degli atomi, come si evince dalla
frase seguente [54]:
[…] Era meglio infatti credere
ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi
del destino dei fisici: quelli
offrivano una speranza con la possibilità
di placare gli dèi con onori, mentre
nel fato vi è una necessità implacabile.
[55]
Epicuro è così preoccupato di difendere la
libertà, e con
essa la speranza di poter incidere sul proprio
destino, che non esita a preferire
al necessitarismo persino quella “religione
del volgo” contro la quale si era
scagliato in precedenza. Prima della frase
di esortazione finale e commiato
perciò egli fa da ultimo l’elogio della ragione,
che sempre deve guidare i
nostri atti, contro l’affidamento alla fortuna,
della quale il saggio non deve
mai tenere conto:
[…] è meglio cadere nella
sfortuna con retta ragione che avere grande
fortuna ed essersi comportati
sconsideratamente; perché è preferibile che
nelle nostre azioni qualcuna di
esse, pur compiuta con ragione, non sia condotta
a buon fine piuttosto che
un’azione stolta sia condotta a buon fine
dalla fortuna. [56]
A completamento di questa esposizione dell’etica
epicurea
riporteremo alcune delle 40 Massime Capitali e qualche altra del Gnomologio
Vaticano (81 in tutto, ma parecchie corrispondono
a Massime capitali);
si tratta di quelle che ci pare aggiungano
qualcosa o completino i temi
trattati dall’Epistola a Meneceo. Cominciamo con le prime [57]:
II – Nulla è per noi la morte:
perché ciò che si dissolve non ha più sensibilità
e ciò che è insensibile non è
niente per noi.
III – Non dura ininterrottamente
il dolore della carne ma il massimo permane
un tempo brevissimo; e quello che
appena supera il piacere corporeo non dura
molto tempo. Le lunghe malattie poi
arrecano alla carne più piacere che dolore.
V – Non è possibile vivere
felici se non si vive saggiamente, giustamente
e bene, né una vita prudente,
moderata e giusta senza vivere felici. A
chi manca ciò non è possibile vivere
felicemente.
VIII – Nessun piacere per se
stesso è un male, ma i mezzi per procurarsi
alcuni piaceri spesso recano molti
più turbamenti che piaceri.
XI – Se non ci turbasse la paura
dei fenomeni celesti e non temessimo che
la morte possa essere per noi qualcosa
che ci tocca da vicino e non ci nuocesse
l’ignoranza del confine dei piaceri e
dei dolori, non avremmo alcun bisogno della
scienza della natura.
XVI – Poca importanza ha la
fortuna per il saggio, perché le cose più
grandi e più importanti sono
preordinate dalla ragione, e così, per tutto
il corso del tempo le governa e le
governerà.
XXI – Chi ha chiara
consapevolezza dei limiti della vita sa che
è facile liberarsi dal dolore per
ciò che manca e ottenere ciò che rende la
vita perfetta, pertanto, egli non ha
affatto bisogno di tendere a cose che comportino
lotta.
XXII – Bisogna considerare
attentamente il fine reale che ci è dato
e fare in modo di riportare tutte le
nostre opinioni ad una certezza evidente;
altrimenti tutto sarà pieno di dubbi
e di inquietudini.
XXVII – Di tutti i beni che la
saggezza procura per la completa felicità
della vita il più grande è l’acquisto
dell’amicizia.
XXXI – Il diritto secondo natura
è il simbolo dell’utilità reciproca al fine
che non sia fatto né ricevuto
danno.
XXXIII – La giustizia non è
qualcosa che esista per sé, ma è una convenzione
nata nei reciproci rapporti e
in quei luoghi nei quali si sia stretto un
patto di non recare o ricevere
danno.
Ed ora alcune massime dal Gnomologio Vaticano:
XIV – Una volta sola si nasce,
due volte non ci è concesso ed è necessario
non essere più per l’eternità; tu
però pur non essendo padrone del tuo domani
rimandi la gioia; ma la vita se ne
va in questo indugio ed ognuno di noi giunge
alla morte senza aver mai goduto
della pace.
XXIII – Ogni amicizia è
desiderabile per se stessa anche se ha avuto
origine dall’utilità.
XXV – La povertà commisurata al
bene secondo natura è una grande ricchezza;
la ricchezza senza misura è una
grande povertà.
XXXIII – Grida la carne: non
avere fame, non avere sete, non avere freddo;
chi abbia queste cose e speri di
continuare ad averle potrebbe contendere
in felicità con lo stesso Giove.
XXXVIII – Assolutamente da poco
è colui per il quale sussistono molte ragioni
convincenti per abbandonare la
vita.
LII – L’amicizia tutta intorno,
con ritmo di danza trascorre la terra annunciando
a tutti noi di destarci
all’elogio della felicità.
LVIII – Bisogna liberarsi una
buona volta dal carcere delle occupazioni
quotidiane e dalla politica.
LXVIII – Niente basta a colui
cui il sufficiente non basta.
LXXVII – Il più grande frutto
del bastare a se stessi è la libertà.
La
preoccupazione che il Giardino continui a vivere come scuola di
filosofia e di vita è in queste poche parole
del suo Testamento:
[…] Ed in continua successione,
a quelli che seguano la mia scuola, assegno
la dimora del giardino, affinché,
insieme con Aminomaco e Timocrate, secondo
il loro potere, la mantengano, ed a
coloro che succederanno ad essi come eredi,
secondo il modo più sicuro di trasmissione,
perché conservino il giardino essi pure,
come quelli a cui l’abbiano a lasciare
i discepoli della mia scuola. [58]
5.3) Lucrezio.
Passiamo ora ad
occuparci di Tito Lucrezio Caro (98 ca –
54 ca a.C.), il poeta latino che nel De
rerum natura tradurrà la filosofia di Epicuro in poesia,
introducendovi un
tormento esistenziale sconosciuto all’impassibile
greco e rendendo famoso quel
termine clinamen che, forse proprio grazie a lui, acquisterà
una
connotazione decisamente etica, quasi come
sinonimo di “libertà”. Il poema
didascalico De rerum natura (dedicato a Gaio Memmio) si compone di sei
libri. Nel primo e nel secondo Lucrezio tratta
della materia, dello spazio,
della nascita e corruzione delle cose del
mondo. Nel secondo e nel terzo
l’attenzione si sposta sull’uomo. Negli ultimi
due il tema è l’universo in
generale e i fenomeni fisici.
Ci sembra
importante iniziare il nostro esame dell’opera
di Lucrezio con la presentazione
del suo eroe (I, versi 62-79):
Mentre la vita umana giaceva sulla terra
Turpe spettacolo, oppressa dal
grave peso della religione,
che mostrava il suo capo dalle
regioni celesti con orribile
aspetto incombendo dall’alto
sugli uomini
per primo un uomo di Grecia ardì
sollevare gli occhi
mortali a sfidarla, e per primo
drizzarlesi contro;
non lo domarono le leggende
degli dèi, né i fulmini, né il minaccioso
brontolio del cielo; anzi tanto
più ne stimolarono
il fiero valore dell’animo, così
che volle
infrangere per primo le porte
sbarrate dell’universo.
E dunque trionfò la vivida forza
del suo animo
E si spinse lontano, oltre le
mura fiammeggianti del mondo
E percorse con il cuore e la
mente l’immenso universo,
da cui riporta a noi vittorioso
quel che può nascere,
quel che non può, e infine per
quale ragione ogni cosa
ha un potere definito e un
termine profondamente connaturato.
Perciò a sua volta abbattuta
sotto i piedi la religione
È calpestata, mentre la vittoria
ci eguaglia al cielo. [59]
Non manca di epicità questo elogio ad Epicuro
(sì, che
qualcuno vi ha colto un eco dell’omerica
Iliade) in cui viene
sottolineata la sfida quasi prometeica che
Il Greco ha mosso contro la
religione. In realtà noi sappiamo che (stando
alla lettera dei testi epicurei)
le cose non stanno proprio così, ma è interessante
cogliere qui come Lucrezio
attribuisca ad Epicuro il “proprio” ateismo
radicale per sottolinearne
l’autorevolezza d’origine. Nel filosofo
greco (invece assai prudente in fatto di
religione), che egli ha eletto a padre
spirituale, Lucrezio proietta il suo senso
di rivolta verso la religione
istituita e il suo deciso rifiuto di ogni
spiegazione sacrale dell’universo. Un
poco più avanti si rafforza questo atteggiamento
antireligioso (I, versi
101-109):
[…] Tanto male poté suggerire la
religione
Ma anche tu [Memmio] forse un giorno, vinto
dai terribili detti
Dei vati, forse cercherai di
staccarti da noi.
Davvero, infatti, quante favole
sanno inventare,
tali da poter sconvolgere le
norme della vita
e turbare ogni tuo benessere con
vani timori!
Giustamente, poiché se gli
uomini vedessero la sicura fine
Dei loro travagli, in qualche
modo potrebbero
contrastare le superstizioni e
insieme le minacce dei vati. [60]
Dunque le “favole” dei sacerdoti sconvolgono
la vita delle
persone, introducendo degli elementi estranei
di timore infondato che turbano
ogni possibile tentativo di sentirsi felici.
E poco più avanti (I, versi
146-150 e 155-158):
Queste tenebre, dunque, e questo terrore
dell’animo
occorre che non i raggi del sole
né i dardi lucenti del giorno
disperdano, bensì la realtà
naturale e la scienza.
Il suo fondamento per noi di qui
assumerà il proprio inizio:
che mai nulla nasce dal nulla
per cenno divino. […]
E perciò, quando avremo veduto
che nulla può nascere dal nulla,
allora già più agevolmente di
qui potremo scoprire
l’oggetto delle nostre ricerche,
da cosa abbia vita ogni essenza,
e in qual modo ciascuna si
compia senza opera alcuna di dèi. [61]
Lucrezio prosegue nel suo sviluppo poetico
della fisica
epicurea fino al punto in cui confuta la
tesi eraclitea del fuoco come origine
di tutte le cose. È qui interessante notare
come il poeta, senza mezzi termini,
bolli il linguaggio filosofico poco chiaro
(I, 635-644):
Perciò quanti ritennero che la sostanza delle
cose fosse il
fuoco
E che di solo fuoco consistesse
l’intero universo,
in grande misura appaiono
aberrare dalla retta ragione.
Entra per primo in battaglia il
loro capo Eraclito,
famoso per l’oscurità del
linguaggio più fra gli stolti
che fra i savi greci i quali
ricercano il vero.
Infatti gli sciocchi ammirano a
amano tutto ciò che appena
Distinguono celato sotto
contorte parole
E affermano vero quel che può
accarezzare con eleganza l’orecchio
E quel che sia camuffato in
gradevole suono. [62]
Dopo aver contestato Eraclito, viene il turno
di
Anassagora e delle sue omeomerìe per giungere alla conclusione del libro
col discorso diretto a Memmio (I, versi 1114-1117):
Così con lieve sforzo potrai comprendere
queste verità;
infatti un concetto trarrà luce
dall’altro, né l’oscura notte
t’impedirà il cammino, così da
non lasciarti scorgere gli ultimi segreti
della natura: tanta luce fra
loro si daranno le cose.
Passiamo ora al
Secondo Libro e andiamo direttamente al passaggio
dove viene posto il clinamen
degli atomi, per constatare come esso si
traduca immediatamente (sotto forma di
domanda retorica) in contenuto etico analogico,
quale “libero arbitrio” dei
viventi sempre volti alla ricerca di ogni
possibile piacere (II, 243-262):
Perciò è sempre più necessario
che i corpi deviino un poco;
ma non più del minimo, affinché
non ci sembri di poter immaginare
movimenti obliqui che la
manifesta realtà smentisce.
Infatti è evidente, a portata
della nostra vista,
che i corpi gravi in se stessi
non possono spostarsi di sghembo
quando precipitano dall’alto,
come è facile constatare.
Ma chi può scorgere che essi non
compiono affatto
Alcuna deviazione dalla linea
retta del loro percorso?
Infine, se ogni moto è legato sempre ad altri
E quello nuovo sorge dal moto
precedente in ordine certo,
se i germi primordiali con
l’inclinarsi non determinano un qualche
inizio di movimento che infranga
le leggi del fato
così che da tempo infinito causa
non sussegua a causa,
donde ha origine sulla terra per
i viventi questo libero arbitrio,
donde proviene, io dico, codesta
volontà indipendente dai fati,
in virtù della quale procediamo
dove il piacere ci guida,
e deviamo il nostro percorso non
in un momento esatto,
né in un punto preciso dello
spazio, ma quando lo decide la mente?
Infatti senza alcun dubbio a
ciascuno un proprio volere
Suggerisce l’inizio di questi
moti che da esso si irradiano nelle membra.
[63]
Il cupo pessimismo di Lucrezio (che morrà
suicida) erompe
verso la fine del libro con una sorta di
profetico annuncio della corruzione e
della morte del mondo “ormai stremato ed
esausto” (II, versi 1139-1152):
Giustamente dunque le cose
periscono quando estenuate
dal deflusso soccombono tutte
agli urti esterni,
poiché in vecchiaia il cibo
infine viene a mancare
e i corpuscoli martellanti
dall’esterno non cessano di stremare
alcuna cosa e di vincerla ostili
con gli urti.
Così dunque anche le mura del
vasto mondo
espugnate d’attorno crolleranno
corrose in rovina.
Ogni cosa dev’essere infatti
ristorata dal cibo che la rinnovi,
e sostenuta da esso: tutto
dev’essere sostentato dal cibo,
ma invano, perché con il tempo
le vene non sopportano più
quanto basti alla vita, né la
natura appresta il necessario.
Ormai la nostra età è stremata,
la terra esausta produce
A stento meschini esemplari, la
terra che un giorno generò
Ogni specie e creò dal suo
grembo animali dai corpi possenti. [64]
La poesia visionaria lucreziana immagina
il mondo come un
immenso organismo “le cui vene non sopportano più quanto basti
alla vita”.
Ma sono specialmente “i corpuscoli martellanti dall’esterno” che “non
cessano di stremar alcuna cosa e di vincerla
ostili con gli urti”. Ma che
cosa sono questi “corpuscoli”? Gli atomi
stessi o le misteriose entità che
urtando contro di essi ne declinano la caduta?
Più che un teoria della
“distruzione” forse un topos poetico dettato dalla depressione.
Passiamo ora al
Terzo Libro, nel quale ci è dato cogliere
un passaggio concettuale molto
importante, poiché si cerca di chiarire attraverso
la differenza tra anima e
animus ciò che in Epicuro era rimasto piuttosto
indeterminato. Va
tuttavia notato che nella lingua latina esiste
tra i due termini una
differenziazione che ricorda in qualche modo
quella già esistente nella lingua
greca tra psyché (anima) e noùs (intelletto). L’anima
(come la psyché) è diffusa in tutto il corpo e costituisce
il
soffio vitale (ma per Epicuro “corpo nel
corpo”) di esso. L’animus invece è
qualcosa di più simile al noùs (III, versi 136-140):
Ora affermo che l’anima e
l’animo sono tenuti
Avvinti tra loro, e formano tra
sé una stessa natura.
Ma è il capo, per così dire, è
il pensiero a dominare tutto il corpo:
quello che noi denominiamo animo
e mente
e che ha stabile sede nella zona
centrale del petto. [65]
Per Lucrezio animus e mens sono la stessa
cosa e tale cosa ha sede nella zona centrale
del petto, vale a dire in quella
collocazione che ancora oggi nel linguaggio
comune viene riferita al “cuore”,
quale recettore delle emozioni e centro della
sensibilità etica ed estetica.
Ed infatti la mens latina (che non possiede la ratio) non
corrisponde a ciò che indica la parola italiana
“mente” (centro del pensiero)
ma piuttosto sentimento, indole, carattere,
coscienza, cuore. Lucrezio poi
aggiunge (versi 141-146):
Qui palpitano infatti l’angoscia
e il timore, qui intorno
Le gioie provocano dolcezza; qui
è dunque la mente, l’animo.
La restante parte dell’anima,
diffusa per tutto il corpo,
obbedisce e si muove al volere e
all’impulso della mente.
Questa da sé sola prende
conoscenza, e da sé gioisce,
quando nessuna cos stimola
l’anima e il corpo. [66]
Dunque l’animo e l’anima sono connessi, ma
questa dipende da quello. L’animus-mens infatti
“prende per sé conoscenza” e
“per sé gioisce”. Noi abbiamo pertanto un
concetto di animo che si avvicina a
quello moderno di anima, come centro delle
emozioni e della sensibilità.
Lucrezio anticipa così, attraverso una duplicazione
del “mens sana in corpore
sano” in un “corpus sanum a mente sana”,
il concetto moderno di stato
psico-somatico, dove lo stato della psiche
determina il benessere o il disagio
corporeo attraverso il sistema nervoso simpatico. Infatti (versi 152-162):
Tuttavia se la mente è turbata
da un più veemente timore,
constatiamo che tutta l’anima
corrisponde attraverso le membra,
e così sudore e pallore appaiono
per tutto il corpo,
la lingua sembra impastoiarsi e
la voce morire,
gli occhi annebbiarsi, sibilare
le orecchie, gli arti afflosciarsi,
infine vediamo spesso gli uomini
crollare a terra
per il terrore dell’animo; così
che è facile a chiunque arguire
che l’anima è congiunta con
l’animo e, percossa da una violenta
emozione dell’animo, a sua volta
scuote e turba il corpo.
Questo medesimo ragionamento dimostra che
la natura dell’animo
e dell’anima è corporea. […] [67]
Prosegue Lucrezio spiegandoci che l’animo
è costituito da
atomi ancora più sottili di quelli dell’anima,
ma che si deve pensare a qualche
cosa d’altro di ancora pù originario e costuituito
da atomi ancora più piccoli
e mobili (i principia ab origine, gli elementi primordiali o particelle
basilari) per spiegare “i moti sensitivi”
e “il pensiero” ed essi sovrintendono
al “senso” [68] basilare
del corpo che vive (III, versi 241-246 e
258-265):
È dunque necessario che ad esse
si aggiunga una quarta natura.
Questa è tuttavia completamente
priva di nome;
ma nulla esiste più mobile e
sottile di essa,
e neanche costituito da
particelle più piccole e levigate:
è questa a diffondere per prima
i moti sensitivi delle membra.
Infatti si muove per prima,
costituita da minuscoli elementi; […]
Ora mio malgrado la povertà del patrio linguaggio
Mi trattiene, pur anelante,
dallo spiegare in qual modo
armonizzati fra loro i primi
elementi esplichino le vitali funzioni;
tuttavia, secondo le mie forze,
toccherò per sommi capi l’argomento. [69]
“Secondo le sue forze” Lucrezio tenta di
spiegarci che
questi elementi primordiali agiscono in modo
coordinato e che da essi dipende
tutta la nostra esistenza: dal movimento,
alle emozioni, ai sentimenti. Ma essi
sono anche alla base “della violenta forza
dei leoni”, “della fredda mente dei cervi”
e “della natura più placida dei buoi” dai
quali l’uomo non differisce più di
tanto, poiché in fondo esso resta pur sempre
un animale (versi 307-318):
Così è la stirpe degli uomini.
Sebbene l’educazione ne renda
Ugualmente forbiti alcuni,
tuttavia essa lascia
Le primitive tracce del
carattere nell’animo di ognuno.
Né si deve credere che quei mali
si possano estirpare dalle radici,
così che uno non sia
eccessivamente incline all’ira,
l’altro non sia troppo presto
afferrato dalla paura,
e un terzo non subisca torti più
arrendevolmente del giusto.
In molte altre attitudini devono
differire tra loro
le varie nature degli uomini e i
costumi che ne derivano;
dei quali ora non posso esporre
gli occulti motivi,
né trovare tanti nomi per le
molteplici forme
dei corpuscoli primordiali, da
cui ha origine la diversità delle cose.
Dunque se l’anima rende vivo il corpo e l’animo
determina
i moti sensitivi e il pensiero, a determinare
la profonda “differenza” tra uomo
e uomo sono i corpuscoli primordiali che
conferiscono il “senso”. Infatti (III,
versi 331-336 e 350-353):
Con particelle elementari così
intrecciate tra loro fin dall’origine [dell’essere
vivente]
Si producono insieme fornite
d’una vita di eguale destino;
ed è chiaro che ognuna di per
sé, senza l’energia dell’altra,
le facoltà del corpo e
dell’anima separate, non potrebbero aver
senso;
ma con moti reciprocamente
comuni spira dall’una e dall’altra
quel senso acceso in noi
attraverso gli organi. […]
Per il resto, se alcuno nega che il corpo
sia provvisto di
sensibilità
E crede che l’anima mista
all’intera compagine del corpo
Assuma da sola questo moto che
usiamo denominare senso,
entra in conflitto con i
fenomeni reali e palesi. [70]
Ma l’animo si può ammalare né più ne meno
del corpo e la
“morte dell’animo” non è meno terribile delle
morte del corpo (versi 461-466):
[…] così vediamo l’animo
soffrire crudeli affanni,
cordoglio e timore; perciò
dev’essere anch’esso partecipe della morte.
[71]
Lucrezio si lancia in una lunga esposizione
in cui rivela
una conoscenza dell’animo umano e dei suoi
problemi da far invidia a uno
psicologo moderno; si sofferma poi a dimostrare
(seguendo da vicino Epicuro)
come pensare l’anima come qualcosa di immortale
sia un’assurdità e che lo
stesso valga per la natura dell’animo che
“non può nascere sola, priva del
corpo, né esistere separata dai nervi e dal
sangue (versi 788 e 789) per
arrivare all’epicureo “Nulla è la morte per
noi” che sviluppa sino alla fine
del capitolo, in un crescendo che pone in
evidenza una pesante inevitabilità
della morte che ha poco a vedere con la leggerezza
epicurea di una morte “quasi
felice”.
Nel Quarto
Libro Lucrezio tratta delle senzazioni in
termini sostanzialmente fedeli ad
Epicuro, ma amplia poi il discorso su tutto
ciò che risulta ingannevole per
l’uomo: le illusioni, i miraggi e i sogni.
Ma verso la fine introduce
l’argomento relativo alla peggiore e dolorosa
tra queste esperienze fallaci:
quella dell’amore. Vediamone qualche passo
(IV, 1058-1072):
Questa è Venere per noi; di qui il nome amore,
di qui prima stillarono
dolcissime gocce
nel cuore, e a vicenda successe
la gelida pena;
se infatti è lontano chi ami, ti
è accanto l’immagine
del suo volto, ti aleggia alle
orecchie il suo nome soave.
Ma conviene che tali fantasmi si
fuggano, che si ricusi
Ogni alimento d’amore, ad altro
il pensiero si volga,
e il seme si eiaculi in casuali
amplessi,
né lo si serbi, una volta
filtrato, a un amore esclusivo,
futura pena a se stessi e sicuro
travaglio.
Brucia l’intima piaga a nutrirla
e col tempo incarnisce,
divampa nei giorni l’ardore,
l’angoscia ti serra,
se non confondi l’antico dolore
con nuove ferite,
e le recenti piaghe errabondo
lenisca d’instabili amori,
o ad altro tu possa rivolgere i
moti dell’animo. [72]
Lucrezio delinea in pochi ed efficacissimi
versi lo
strazio dell’amore deluso, con tratti espressionistici
nei quali è dato
cogliere il segno di una bruciante esperienza
personale. Poi egli descrive
l’amplesso con crudo realismo, fino al momento
culminante dell’orgasmo seguito
da un altrettanto breve momento di pausa,
dopo di ché il desiderio si riaccende
e gli amanti «vorrebbero sapere» che cosa
esso sia veramente per poter lenire
quella “piaga segreta”(IV, versi 1113-1120):
[…] a tal punto si serrano
cupidamente nella stretta di Venere,
finché le membra, stremate
dall’intensità del piacere, si struggono.
Infine quando il piacere
raccolto si effonde dai nervi,
per un po’ si produce una breve
pausa dell’ardore,
poi torna la medesima rabbia, di
nuovo quella smania li assale,
mentre gli amanti vorrebbero
sapere che cosa desiderano,
e non riescono a trovare un
rimedio che plachi il tormento:
in tale incertezza si consumano
per una piaga segreta. [73]
Lasciamo il Quarto Libro, dove Lucrezio ci
ha dato alcuni
tra i luoghi più alti della sua poesia, e
veniamo al Quinto, nel quale viene
ripreso il tema dell’inarrestabile declino
del mondo e dell’assenza di ogni
provvidenza divina che possa rimediare ai
suoi mali, poiché (V, versi 198 e
199) «non per volere divino è stata per noi
generata la natura del mondo,
segnata da pecche sì gravi». Lucrezio pone
così, diciassette secoli in
anticipo, il problema di un’impossibile teodicea. Con un taglio esistenzialistico ante
litteram (a cui sarà sensibile Giacomo Leopardi) il
poeta descrive la
condizione umana “gettata” in un mondo pieno
d’angosce, al quale forse sarebbe
stato meglio non essere mai nati, poiché
(V, versi 222-227):
Ed ecco il fanciullo, come un naufrago buttato
a riva
Dalle onde infuriate, giace nudo
sul suolo, incapace di parlare,
bisognoso d’ogni aiuto vitale
appena la natura lo getta
sulle prode della vita, con
doglie del grembo materno,
e riempie lo spazio d’un
disperato vagire, come è giusto che faccia
colui cui in vita è serbato il
passare per tante sventure. [74]
Non un dio benevolo quindi, ma una natura
matrigna getta
l’uomo “sulle prode della vita”, per poi
abbandonarlo al suo destino di
sofferenza e solitudine. Un mondo casuale
e caotico, creato da nessuno, senza
ragion d’essere e nato da una materia informe
ci accoglie e ci accompagna (V,
versi 416-423):
Ma ora spiegherò con ordine come
il caotico ammasso
di materia abbia stabilmente
formato la terra, il cielo,
le profondità marine, il
corso del sole e della luna.
Infatti di certo gli elementi
germinali delle cose
non si disposero ognuno al suo
posto per il criterio d’una mente sagace
né pattuirono i moti che ognuno
avrebbe dovuto imprimere,
ma poiché i numerosi germi della
natura in molteplici modi
ormai da tempo infinito sospinti
dagli urti
e dal loro stesso peso sogliono
spostarsi velocemente,
aggregarsi in ogni guisa e
produrre tutte le combinazioni [75]
Gli stessi atomi e lo stesso mondo da essi
formato, che
per Epicuro configuravano una realtà nella
quale fioriva la vita e in cui vi
potevano essere dolori sopportabili e piaceri
da scegliere, nella quale era
possibile realizzare una stabile e pacata
felicità, delineano invece per
Lucrezio un contesto senza scopo e senza
finalità, in cui l’uomo è gettato alla
provvisorietà e alla sofferenza. La morte,
che per Epicuro era il compimento
significativo di un esistenza regolata da
un saggio eudemonismo, diventa in
Lucrezio un assurdo pozzo di non-senso che
tutto risucchia. Ma non è tutto,
poiché l’uomo volontariamente si è legato
mani e piedi alla credenza del
divino. E il poeta si avvia a dare la spiegazione
di questo legame (V, versi
1161-11689):
Ora qual causa ha diffuso fra le
grandi popolazioni
I numi degli dèi, riempito di
altari le città
e fatto sì che venissero accolti
i riti sacri
che tuttora si celebrano
splendidamente in solenni eventi e sedi,
da dove ancor oggi s’insinua nei
mortali il terrore
che innalza su tutta la terra
nuovi templi agli dèi
e costringe la folla a
frequentare nei giorni festivi,
non è certo difficile spiegare
con chiare parole. [76]
La causa di tutto è l’ignoranza. Fin dai
tempi più remoti
gli uomini hanno fantasticato degli dèi,
immaginandoseli grandi e potenti,
assegnando loro l’eternità e la beatitudine
e ad essi connettendo i fenomeni
celesti e naturali come se questi obbedissero
alla loro volontà (V, versi
1183-1193):
Scrutavano inoltre
l’inflessibile norma del cielo,
la vicenda delle varie stagioni
dell’anno,
né potevano comprendere per
quali ragioni questo accadesse.
Non avevano dunque altro scampo
che affidare ogni cosa agli dèi,
e pensare che tutto obbedisse ad
un loro consenso. [77]
Posero in cielo le sedi e le
dimore egli déi,
perché appaiono volgersi in
cielo la notte e la luna,
la luna, il giorno e la notte,e
della notte gli astri severi,
le erranti meteore notturne, le
fiamme volanti,
il sole, le nubi, le piogge, la
neve, la grandine, i venti
i fulmini, i rombi improvvisi,
il minaccioso mormorio dei tuoni. [78]
Gli uomini non si rendono conto di quanto
quell’errata
interpretazione della realtà abbia funestato
la loro esistenza (versi
1194-1197):
O misera stirpe dei mortali, quando ebbe
assegnato
Tali effetti agli déi, e
aggiunto loro la collera acerba!
Quanti gemiti procurarono allora
a se stessi,
quante sofferenze a noi e
lagrime ai nostri figli! [79]
Il Sesto ed
ultimo libro concerne i fenomeni naturali
in ogni loro aspetto, che non vanno
attribuiti ad alcuna potenza divina, ma a
forze inconoscibili e imprevedibili
legate al caso e al caos che pervadono tutta la realtà,
fino al caso
estremo dell’epidemia di peste che Atene
ha dovuto sopportare [80].
Uno scenario di morte, che chiude significativamente
un poema didascalico con
un grido di dolore senza speranza. Uno sforzo
poetico che ha al suo centro
l’esistenza dell’uomo, le sue illusioni,
i suoi fraintendimenti, il suo
autolesionismo e le sue inevitabili sofferenze.
Fin’ora abbiamo
seguito passo passo il testo lucreziano,
dobbiamo adesso tentare una sintesi
del suo pensiero in relazione ai contenuti
e alla forma poetica che li riveste.
Nell’ermeneutica lucreziana si delineano
due flussi poetico-descrittivi, un
primo che potremmo chiamare “espressionistico”
e un secondo che definiremo
“razionalistico”. L’interpretazione espressionistica
di Lucrezio si fonda sugli
evidenti caratteri pessimistici, fino ad
estremi nichilistici (e fin quasi alla
celebrazione del “trionfo della morte”),
della sua poesia. Una poesia che
progetta l’apologia di una filosofia rasserenatrice,
ma ne realizza il suo
opposto nell’angoscia delle cupe e disperanti
atmosfere descrittive, che
punteggiano il poema e che lo concludono
(la peste di Atene chiude il Sesto
Libro). L’interpretazione razionalistica
presuppone invece il distacco
concettuale dell’autore e la sua entusiastica
adesione all’epicureismo, proprio
allo scopo di proporre “didascalicamente”
una via razionalistica per il
superamento dell’ignoranza, dell’angoscia
e della sofferenza, delle l’uomo
soffre anche (o forse soprattutto) per aver
tolto alla natura la sua autonomia
causale, riponendo in presunti voleri divini
i fenomeni che l’uomo percepisce e
patisce. Ciò coinciderebbe con la riappropriazione
di un rapporto naturale con
la natura, madre e matrigna, ma comunque
“vera” rispetto alle “false” ipostasi
divine. Noi pensiamo che entrambe siano attendibili
e che il loro connettersi e
sovrapporsi costituisca l’aspetto più affascinante
e problematico de La
natura delle cose.
Emerge anche in
Lucrezio un sentimento nostalgico nei confronti
di una primitiva “naturalità”
umana che l’avvento delle religioni avrebbe
pervertito, precipitandola così in
un coacervo di false illusioni e di falsi
timori che condizionano l’esistenza e
la coscienza, impedendo all’uomo di scoprire
una via naturale alla felicità.
D’altra parte, innegabilmente in lui vi è
anche una sorta di millenarismo
fatalista, che vede in un’imminente rovina
del mondo la conclusione ultima di
un progressivo esaurimento della sua vitalità.
In questo clima la necessità e
la casualità si intersecano in una matassa
a due fili della quale è difficile
trovare i capi e il loro razionale e opportunistico
svolgimento.
La natura domina il poema lucreziano nella
duplice veste della minaccia di dolore e
morte e della promessa di rinascita e
vita. Visioni idilliche piene di speranza
vitalistica si alternano a scene
cruente di disperante e nichilistica rovina.
In tale contesto l’uomo è solo,
senza alcun dio che lo possa aiutare a risolvere
i suoi problemi, e la sua
solitudine è la causa di una impropria evoluzione
basata che ha condotto
all’affermarsi dei feticci della religione.
L’operazione soteriologica che
Lucrezio vuole avviare, sulle orme di Epicuro,
è quella di liberare l’uomo
dalla schiavitù e dalla deferenza verso il
“divino”, per poter ritornare
all’immanente natura che lo ha generato e
l’avvolge. Ed infatti egli oppone il
mondo animale, sereno e vitale, al mondo
umano pervaso di angoscia e di
doloroso pathos. La realizzazione dell’atarassia
sembra allora prevedere un
implicito ritorno ad una condizione perduta,
dare recuperare attraverso il
rifiuto del “sacro”.
Ma su tutto
insiste l’insufficienza dell’uomo a penetrare
quei misteri che ciò che è a lui
“esterno” racchiude: ovvero la totalità dell’universo,
il nulla che incombe, un
passato da decifrare e un futuro da gestire.
Il De rerum natura si offre
così come un’immensa impresa didascalica
e nello steso tempo come un affettuoso
e disperato affresco di un’umanità sensibile
e sofferente, che non riesce a
trovare la strada per realizzare compiutamente
la propria più autentica essenza
all’interno della natura, la quale a volte
si presenta come una madre accogliente
e a volte come una terribile minaccia.
Con Lucrezio
abbiamo concluso questo quinto capitolo del
nostro lavoro e con lui possiamo
giungere alla conclusione che l’epicureismo
è l’unica dottrina atea antica che
presenta un assetto teoretico compiuto. Essa
dovrà competere nei secoli
successivi all’affermarsi del Cristianesimo
con un dominante Aristotelismo
(sotto forma di Tomismo), con una resistente
tradizione neoplatonica (da
Agostino alla Scuola di Chartres) e con lo
Stoicismo, ad esso antitetico col
suo necessitarismo. In questa tradizione
epicurea, minoritaria nel panorama
filosofico post-antico, si andranno delineando
due correnti principali: una
prima che avrà denotazioni “teoretiche”,
concernendo una visione atea del mondo
e della vita, ed una seconda che si caratterizzerà
per la tendenza a
privilegiare gli aspetti edonistici ed eudemonistici
della filosofia di Epicuro
(e non necessariamente in senso ateistico).
In questo contesto la poesia
lucreziana, che sarà il principale veicolo
dell’epicureismo nell’Europa
Occidentale si collocherà in posizione neutra;
ciò grazie alla fondamentale
contraddizione interna che la pervade: l’aderenza
ad una filosofia che intende
essere rasserenante e tranquillizzante e
nello stesso tempo il suo inserimento
in un contesto pessimistico, che sembra rivelare
il fallimento proprio di ciò
che è elemento principale della filosofia
epicurea, vale a dire la sua etica
eudemonistica. Infatti, Lucrezio intendere
fare l’apologia dell’eudemonismo
epicureo, ma il suo intento appare diffusamente
compromesso da un
espressionistico senso dell’ignoranza dell’uomo
e della sofferenza che lo
investe, nonché dal soffuso nichilismo mortifero
che pesa sull’atmosfera
poetica dell’opera, almeno dal Terzo all’ultimo
capitolo del poema. Vedremo,
tuttavia, come la tradizione epicurea, in
modo per lo più sotterraneo rispetto
al dominio della dottina cristiana, giungerà
vitalissima al XVII secolo, per
vivificare una corrente ateistica del naturalismo,
che concorrerà a creare le
premesse per l’avvento dell’Illuminismo razionalistico
e scientistico.
[1] Numerosi sono i giudizi da parte di Eusebio di Cesarea (Praeparatio evangelica XIV) e di Lattanzio (De ira dei, Divinae institutiones, Inst. Epitome) .
[2]
Gabriele Giannantoni I Cirenaici
– Sansoni 1958, p.310.
[3] Ivi, p.342.
[4] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.I, p.78-79 passim.
[5] Ivi, p.71.
[6] Così si esprime Francesco Adorno sul cirenaico (La filosofia antica, vol.I, Feltrinelli 1961, p.171): «Distacco, dominio, piacere come misura, urbanità e calma nella discussione, comprensione umana, “rimanendo dappertutto uno straniero”, raffinamento della cultura e dell’intelligenza sembrano, dunque, i tratti salienti del socratismo di Aristippo, amico di tutti e di nessuno, che poteva stare con tutti e con nessuno, che amava le ricchezze ma poteva farne a meno, come risulta dai molti aneddoti sulla sua vita, narratici fin dalle fonti più antiche.»
[7] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.I, p.80.
[8] Ivi, p.80-81.
[9] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.I, p.81.
[10] Si ricordi che già Leucippo aveva teorizzato il peso come causa di stratificazione nel vuoto degli atomi, non però come causa del movimento.
[11] Epicuro riprende certamente l’etrica di Aristippo di Cirene nell’assunzione del piacere come fine ultimo della vita. Ne differisce in quanto l’edonismo cirenaico era di tipo dinamico, mentre Epicuro teorizza un piacere di tipo statico. Per Epicuro il fatto stesso dell’assenza di dolore (aponia) è già una condizione di piacere. A questa si affianca l’assenza di turbamento, l’atarassia, che nell’epicureismo successivo acquisterà sempre più importanza, diventando prevalente rispetto all’aponia.
[12] Vittorio Enzo Alfieri ha messo a confronto Democrito ed Epicuro sul problema della divinità, rilevando che mentre il primo adotta un punto di partenza gnoseologico il secondo si baserebbe su esigenze logico-metafisiche relative al suo ideale etico (Il concetto del divino in Democrito ed Epicuro in Studi di filosofia greca a cura di V.E.Alfieri e M.Untersteiner – Laterza 1950, pp.87-120).
[13] Nota il Bignone: «Chi passi dalla lettura di alcuni frammenti, pur così scarni, delle lettere di Epicuro alle Confessioni di S.Agostino, o alle epistole e ai trattati di S. Giovanni Crisostomo, di S.Basilio o di Gregorio Nisseno, s’accorge che l’epicureismo fu il tramite, per cui l’antichità mosse a condizioni di spirito che il Cristianesimo sembra aver tratte dal proprio fondo.» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, vol.II, p.223) e più avanti:«Quando S.Agostino, negli anni più agitati della sua giovinezza, meditava di ritirarsi dal mondo coi suoi amici, in un asilo lontano, ove vivere tra la campagna e gli studi […] non faceva che rinnovare l’ideale stato del saggio epicureo […] (Confess., VI, 26)». (Ivi p.235)
[14] Lattanzio (Divinae Institutiones, III, 7, 7) nota: «Epicuro ritiene che il sommo bene consista nel piacere dell’animo, Aristippo in quello del corpo.» (in G.Giannantoni I Cirenaici, Sansoni 1958, p.324).
[15] Scrive a questo proposito Howard Jones: «La scuola aveva un’organizzazione di tipo gerarchico, dove il ruolo di guida (hegemon) aspettava a Epicuro, il solo a fregiarsi del titolo di “sapiente”. Ci si sottometteva alla sua autorità prestando solenne giuramento. Gli altri membri, chiamati philosophoi, potevano ricoprire le cariche di maestro (kathergemon) come Metrodoro, sostituto di Epicuro, e Polieno; di precettori (kathegetes) come Ermaco, il primo successore di Epicuro; e di discepoli (kataskeuazomenoi).» (in La tradizione epicurea – ECIG 1999, p.32.
[16] È quanto sostenuto da Ettore Bignone (uno dei maggiori studiosi di Epicuro) il quale vede, a cominciare dalla precipitosa e drammatica fuga da Mitilene (accusato di corrompere i giovani), un calvario esistenziale costellato da accuse di empietà e di dissolutezza che avrebbe portato il Nostro a una costante difesa del suo pensiero attraverso chiarimenti o vere e proprie sistemazioni concettuali. Secondo questo studioso Epicuro avrebbe impiegato buona parte del suo tempo e delle sue energie intellettuali per mettersi al riparo, per quanto possibile, dai problemi provocati dagli attacchi dei suoi detrattori (soprattutto i seguaci di Platone e Aristotele, e più tardi gli Stoici) che mettevano in difficoltà la stessa permanenza della sua scuola. Ciò spiegherebbe anche, in qualche fase, le sue esortazioni agli allievi a rispettare gli dèi proprio per allontanare da sé l’accusa di ateismo.
[17] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, pp.401-402 passim.
[18] Ivi, p.403.
[19] Nota il Bignone: «[…] Timocrate, come vedremo, accusava Epicuro anche di ateismo. […] Non bisogna infatti dimenticare quanto fosse pericoloso per un filosofo in quel tempo cadere sotto un accusa di empietà» (L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.I. – pp.475-476).
[20] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, p.403.
[21] Ivi p.404.
[22] Ibidem.
[23] A questi documenti va aggiunto il Gnomologio Vaticano (o Sentenze Vaticane). Questo gruppo di massime coincide in parte con le Massime Capitali e sono relative ad un manoscritto scoperto nel 1888 nella Biblioteca Vaticana da H. Wotke e H. Usener. A completamento del quadro complessivo della documentazione su Epicuro va precisato che esistono anche meno importanti frammenti di lettere e di passi di opere perdute. A questi vanno aggiunti gli scritti, le note e i giudizi di autori romani come Cicerone, Plinio, Plutarco, Sesto Empirico, ecc.
[24] Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, pp.78-79.
[25] Ivi pp.81-83 passim.
[26] Ivi p.84.
[27] Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – p.45.
[28] Ivi p. 53.
[29]
Impossibile
non cogliere qui un forte elemento di polemica
nei confronti di Platone, il
quale, nel Fedro (245 c e seguenti) aveva esplicitamente affermato:
«L’anima
è immortale; perché ciò che sempre si muove
è immortale. Ora, ciò che provoca
movimento in altro ed è mosso esso stesso
da qualcos’altro [il corpo], se
subisce un arresto di movimento, smette di
vivere. Solo dunque ciò che muove se
stesso, in quanto non può abbandonare se
stesso, mai cessa di essere in moto,
anzi è scaturigine e principio di moto di
tutte le cose che sono mosse. Ora, il
principio non è generato perché, mentre ogni
cosa che nasce deve per forza
nascere da un principio, questo invece non
deve esser generato da niente: se
altrimenti il principio procedesse da qualcosa,
cesserebbe di esser ancora il
principio».
[30] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.89.
[31] Ivi p.90.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Nota Domenico Pesce nel suo Epicuro (Laterza 1980 – p.43): «Per ottenere il suo scopo [garantire la validità oggettiva della sensazione] Epicuro si vale della dottrina delle categorie (ad Her 68-71) in cui di solito si ravvisa l’influsso di Aristotele ma che risulta, nella sua costituzione, lontanissima da Aristotele. Punto di partenza (ad Her 39-40) è l’affermazione veramente capitale che il tutto è costituito di corpi e di vuoto e che su questo stesso livello ontologico, che noi diremmo aristotelicamente della sostanza, ma che Epicuro designa come quello delle “nature compiute”, nient’altro è non soltanto esistente ma addirittura concepibile.»
[35] Il concetto di anticipazione o prolessi (πρόληψις) è comune anche alla logica stoica. Le anticipazioni sono quei concetti generali presenti nella mente mediante il quale vengono anticipati i dati dell’esperienza.
[36] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.92.
[37] Ivi p.93.
[38] Ibidem.
[39] Ivi p.95.
[40] Ibidem.
[41] Ivi pp.95-96.
[42] Secondo Domenico Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.62-63) nell’Epistola ad Erodoto e nell’Epistola a Pitocle vi è da parte di Epicuro la messa a punto di una dottrina dei principi che si articola in sette punti: 1) Non c’è nascita dal niente né morte nel niente; donde segue che tutto è immutabile. 2) Il tutto è costituito di corpi e di vuoto. 3) I corpi sono o composti o semplici; questi ultimi sono gli atomi. 4) Il tutto è infinito; infinito è il numero degli atomi ed infinita è l’estensione del vuoto. 5) Le figure atomiche sono di numero inconcepibile, ma non infinito. 6) Il movimento degli atomi è eterno, essendo causato dal peso e dal vuoto. 7) Gli atomi differiscono per grandezza , figura e peso.
[43] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando Editore 1998 – p.108.
[44] Del quadrifarmaco questo è certamente il punto meno convincente, ma va detto che Epicuro lo ha sempre difeso (vedi la IV massima capitale) e che Diogene Laerzio ricorda le seguenti su affermazioni in una lettera scritta ad Idomeneo in punto di morte: «Volgeva per me il giorno supremo e pur felice della mia vita, quando questo ti scrivevo. Tali erano i miei mali dei visceri e della vescica, che non comportavano eccesso di violenza. Pure ad essi tutti s’adeguava sempre la gioia dell’animo, nel ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici.» (Epicuro Opere (a cura di E.Bignone) – Laterza 1984 – pp.122-123).
[45] Ivi p.109.
[46] Va tuttavia rilevato che questa nostra lettura, aderente al giudizio prevalente sulla filosofia epicurea, non è condiviso da alcuni. Ad esempio, Domenico Pesce scrive: « […] a dispetto della stretta connessione che una mente moderna è portata a porre tra materialismo ed ateismo, nessuno dubita più della genuinità del sentimento religioso di Epicuro e della serietà del suo pensiero teologico. Vero è che questo sentimento e questo pensiero, proprio perché non debbono contrastare con le premesse del sistema, riescono alquanto singolare l’uno e paradossale l’altro, di modo che la teologia epicurea costituisce un unicum nella storia della filosofia.» (D.Pesce (Introduzione a Epicuro – Laterza 1981 – pp.87-88). Opinione che a noi pare un po’ contorta, poiché, se la filosofia epicurea è un innegabile struttura di grande coerenza filosofica, non si vede per quale ragione dovrebbe diventare un unicum di incoerenza per difendere una supposta “serietà del suo pensiero teologico”.
[47] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro (a cura di L.Giancola) – Armando 1998, p.110.
[48] Ivi p.110-111.
[49] È questo il caso della prestigiosa traduzione del Bignone (Epicuro Opere – Laterza 1984, p.32).
[50] Ibidem.
[51] Epicuro Epistème ed éthos in Epicuro – Armando Editore 1998 – p.111.
[52] Ivi p.112.
[53] Ivi. pp. 112-113
[54] Molti hanno visto in questa frase il motivo di fondo per l’introduzione della klisis (= latino clinamen) e cioè quello di difendere (analogicamente) la libertà dell’uomo nel determinare la propria vita. Secondo questa tesi, non solo Lucrezio avrebbe interpretato correttamente il pensiero di Epicuro, ma la klisis assumerebbe proprio una valenza etica e non fisica, come parrebbe logico pensare. Vedi anche il saggio La dottrina epicurea del “clinamen” di Ettore Bignone in L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro - vol.II - La Nuova Italia 1973, pp.409-456.
[55] Ivi pp.113-114.
[56] Ibidem.
[57] Ivi pp.115-123 passim.
[58] Epicuro Opere
(a cura di E.Bignone) – Laterza 1984, p.79.
[59] Lucrezio La natura delle cose –Rizzoli 2000 – p.77.
[60] Ivi p.81.
[61] Ivi p.85.
[62] Ivi p.121.
[63] Ivi pp.175-177.
[64] Ivi p. 241.
[65] Ivi p. 257.
[66] Ibidem.
[67] Ivi p.259
[68] In latino sensus significa sia ciò che concerne le sensazioni relative alla sensibilità corporea (i cinque sensi) sia la capacità di comprendere, la coscienza e l’origine dei sentimenti.
[69] Ivi p. 265.
[70] Ivi pp. 271-273.
[71] Ivi p. 281.
[72] Ivi pp. 407-409.
[73] Ivi p. 411.
[74] Ivi p. 411.
[75] Ivi pp. 455-457.
[76] Ivi pp. 509-511.
[77] Vedi nota
114 (Par.2.4) su Giambattista Vico.
[78] Ivi p. 511.
[79] Ibidem.
[80] Lucrezio si riferisce al morbo che ha colpito Atene dal 430 al 425 a.C., durante le guerre del Peloponneso poi descritte da Tucidite.