CAPITOLO IV
Atomismo e ontologia pluralistica.
INTRODUZIONE
A seguire dai prodromi dell’ateismo veniamo
ora ad occuparci di un indirizzo filosofico
che appare nel V sec.a.C. e che si caratterizza
precipuamente per uno spiccato materialismo
e per l’eliminazione dal suo orizzonte di
ogni elemento divino e trascendentalistico,
determinando storicamente la prima vera weltanschauung atea. Avevamo peraltro rilevato che già
anche il naturalismo milesio presentava quello
spiccato carattere di rottura col mito che
ci ha permesso di considerarlo anticipatore
dell’ateismo. A tal proposito George Minois,
nel suo Storia dell’ateismo, ci offre un’ottima sintesi del panorama culturale
ellenico precedente il V secolo a.C.:
Nel corso di un lungo periodo, dall’età arcaica
fino al tempo dei presocratici, la distinzione
tra ateismo e credo religioso è difficile
da compiersi, in ragione di caratteri peculiari
alla religione e alle correnti filosofiche.
Tutte sono dichiaratamente ostili all’idea
della trascendenza. La realtà ultima è la
natura, increata ed eterna, di cui l’uomo
è parte. Gli stessi dei sono calati nel mondo;
eterni, ma dotati di forme corporee, essi
intervengono costantemente nelle vicende
umane, stabiliscono il destino, fanno conoscere
i loro voleri per bocca degli oracoli, sono
suscettibili di essere influenzati da pratiche
magiche. La religione greca tradizionale
è fortemente orientata verso un panteismo
naturalistico fondato su un complesso di
miti, evidentemente non più facenti parte del vissuto, ma concettualizzati, rielaborati
nella forma e spesso, e spesso degradati
a leggende poetiche. In ambito popolare,
questa religione è satura di un gran numero
di superstizioni e di pratiche magiche e
occulte. Tanto in alto che in basso è dunque
una religione corrosa, che d’un canto si
apre all’ateismo teorico, mediante la tendenza
alla spiegazione simbolica dei miti, e dall’altro
all’ateismo pratico, con l’assimilazione
dei miti nella vita quotidiana. […]
Le correnti filosofiche presocratiche, che
si accostano alla realtà con abito razionale,
mescolano natura e divinità, privilegiando
a tal punto il primo termine, che il loro
sostanziale panteismo rasenta l’ateismo.
Non occorrerà molto a far scivolare la loro
dottrina verso un materialismo naturalistico.
L’idea essenziale di queste filosofie è che
esiste una realtà sostanziale, senza inizio
né fine, una “materia” (hylé) di cui tutti gli enti non sono che modificazioni:
l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene,
il fuoco per Eraclito, la terra per altri.
Questa materia prima è al contempo divina;
essa è animata da un soffio, una sorta di
spirito organizzatore, che la rende materia
viva. Tale concezione ilozoista (da hylé,materia, e zoè, vita) è considerata generalmente come origine
del materialismo […] [1]
Va detto che l’ilozoismo, in effetti, è sì
anti-mitico, e in quanto tale può venire
considerato pre-ateistico, ma per molti versi
mantiene una tangenza con la religiosità
abbastanza spiccata. Considerare tutta la
materia come vivente e animata, e quindi
dotata di una qualche forma di “psichicità”,
è pur sempre un modo di ammettere una qualche
forma di “divinizzazione” del cosmo [2].
Ma prima di passare all’analisi dei testi
vogliamo anteporre, quale introduzione all’argomento,
una notazione storica estremamente interessante,
poiché (per quanto se ne sappia) risulta
essere, in assoluto, la prima citazione dell’ateismo,
seguita dalla relativa formulazione della
sua irrimediabile condanna. Si tratta di
un passo de le Leggi (X, 885 b) in cui Platone definisce il proprio
atteggiamento nei confronti di chi disconosce
la religione e ne viola i principi dottrinali
e comportamentali. Il padre dell’idealismo
stigmatizza tre tipi di empietà, dal più
grave al più lieve, in questi termini:
[…] Qualora agisca o parli così, ciò accade
per una di queste tre affezioni che egli
subisce, [1] o perché non crede a ciò di
cui ho parlato, o , in secondo luogo, [2]
perché pensa che pur esistendo gli dèi non
si interessino degli uomini, o finalmente,
in terzo luogo, [3] perché ritiene che con
sacrifici e preghiere si possono facilmente
placare e sedurre. [3]
L’ateismo teoretico vero e proprio è evidentemente
soltanto quello relativo a [1], mentre il
[2] corrisponde a quello che sarà anche l’atteggiamento
di Epicuro, che all’epoca veniva considerato
una sorta di ateismo attenuato. Il [3] evidentemente
non ha nulla a che fare con l’ateismo e corrisponde
piuttosto ai livelli più bassi della superstizione
religiosa. Platone ci fornisce poi un’ulteriore
precisazione, poiché l’ateismo radicale è
per lui di due tipi, uno a) grave (l’ateismo
pratico) e uno b) gravissimo (l’ateismo teoretico)
(X, 908 d):
E infatti l’uno [a)] sarà, quanto al discorso,
pieno di libertà di parola sugli dèi, i sacrifici
i giuramenti, e, se non fosse punito, forse
col ridere degli altri potrebbe rendere altri
come lui, ma l’altro [b)] pensa come il primo
e, d’altra parte, è stimato uomo di spirito, pieno di astuzia, ingannatore […]
Ed ecco le sue “proposte di legge” (X, 908
e):
Ma per coloro che non obbediranno sia questa
la legge sull’empietà: Se qualcuno commette
empietà nelle parole e nelle opere, chi vi
si imbatte difenda la legge e lo denunci
ai magistrati; i magistrati che per primi
ne avranno notizia lo portino davanti al
tribunale [...]
E vediamo infine quali punizioni avrebbe
voluto infliggere il buon Platone ai colpevoli
di praticare l’ateismo pratico a) e quello
teorico b) (X, 909 e):
[…] l’una [a)] è quella ironica e dissimulatrice
e che commette errori che sono degni di morte
non una volta sola, né due, ma di più ancora,
l’altra [b)] che richiede l’ammonizione e
insieme il carcere.
Se l’ateismo teoretico avrebbe dovuto prevedere
la pena di morte (non una né due ma di più
ancora!) quello pratico forse doveva essere
così diffuso che si prevedeva “soltanto”
il carcere. In realtà, questo tipo di empietà
(in considerazione di una struttura dottrinaria
quasi inesistente) si presenta non tanto
come negazione del divino quanto come un
non-riconoscimento degli dèi tradizionali
o come una deviazione omissiva di una cultualità
puramente formale, nonché piuttosto debole
dal punto di vista delle ricadute esistenziali
e quindi “pratiche”. Eterodossia, come è
noto, comunque assai pericolosa, almeno a
partire dal 432 a.C. [4], se Socrate, a causa di essa, ha potuto
subire quel processo in qualità di corruttore
dei giovani e fomentatore di scarso rispetto
religioso, che si concluse con la sua condanna
a morte.
4.1) Caso e necessità nell’atomismo
Prima di affrontare nel dettaglio il pensiero
dei teorici dell’atomismo dobbiamo soffermarci
su un problema interpretativo che mina alla
base ogni lettura della fisica atomistica
rendendola incoerente e contraddittoria.
Ci riferiamo alle ripetute e gravi contraddizioni
nelle testimonianze e nei frammenti concernenti
Leucippo e Democrito per quanto attiene la
causa prima “a monte” del moto (concetto questo assolutamente fondamentale
nella cosmologia atomistica) che viene identificata
ora nel caso e ora nella necessità. Tale aporia, sottolineata da molti gli
studiosi, è stata tuttavia perlopiù lasciata
persistere in quanto tale, senza essere stata
adeguatamente tematizzata, se non con qualche
modesto tentativo di dirimerla da parte di
alcuni interpreti (che ci sentiamo di poter
definire “filo-idealistici”) con risultati
non solo insoddisfacenti ma talvolta anche
capziosi e strumentali. Questa grave insufficienza
nell’esegesi della filosofia atomistica ha
finito per generare equivoci assai gravi
e soprattutto non ha permesso di definire
i termini teorici di un pensiero rivoluzionario,
e manifestamente ateo, in un panorama filosofico
ellenico che nel V sec. a.C. si presentava
ancora agonistico ed articolato, ma che diventerà
ben presto monocorde col platonismo e l’aristotelismo.
Ciò deriva sia dalla forza di questi due
indirizzi filosofici e sia dalla debolezza
dei seguaci della filosofia atomistica, i
quali, incapaci di innovare le tesi dei due
fondatori, per oltre un secolo rimarrando
completamente in ombra (finché non sarà Epicuro
a riproporle). [5]
Naturalmente non intendiamo dare peso più
di tanto alla citazione di Diogene Laerzio
circa l’ostilità (con intenti “distruttivi”)
di Platone nei confronti del pensiero atomistico,
ma la registriamo in quanto dato storiografico
non irrilevante. Riferisce Diogene:
Aristosseno nelle sue Memorie sparse afferma che Platone ebbe l’intenzione di
bruciare tutte le opere di Democrito che
poté raccogliere, ma che i pitagorici Amicla
e Clinia lo distolsero dal suo proposito,
in quanto non ne avrebbe tratto utilità alcuna,
perché ormai i libri erano ampiamente diffusi
nel pubblico. Infatti, Platone, che pure
menziona quasi tutti i filosofi arcaici,
non accenna mai a Democrito neppure là dove
avrebbe dovuto contraddirlo, evidentemente
perché era consapevole che avrebbe dovuto
gareggiare col migliore dei filosofi […]
[6]
Il fatto che non ci sia pervenuto nessuno
degli scritti di Leucippo e di Democrito
ci lascia presumere quello che definiremo
eufemisticamente una qualche “difficoltà
ambientale”. Difficoltà che ha fatto sì che
il loro pensiero sia stato successivamente
desumibile soltanto attraverso tarde testimonianze
non sempre attendibili e che si sia verificato
nei secoli il sovrapporsi di nozioni, opinioni
e interpretazioni, che hanno finito per irrigidire
l’atomismo in uno schema concettuale “bloccato”
nelle sue aporie [7]. Questa schematizzazione dell’atomismo,
sia nelle sue tesi “tradizionali” e sia nelle
sue contraddizioni, ne ha fatto una specie
di “fossile”, filosofico, incastrato in una
sua nicchia storiografica priva di veri sviluppi
teorici (almeno sino ad Epicuro). Questo
“placcaggio a terra” dell’atomismo (se ci
si passa il temine rugbistico) è andato ovviamente
a tutto favore dell’idealismo a cui esso
ha inteso opporsi, nell’intento di indicare
un orizzonte ontologico ateo, fuori dalle
logiche sia mitico-religiose che metafisico-monistiche.
Ma l’atteggiamento di Platone nei confronti
dell’atomismo ci permette anche di introdurre
qui una nota che anticipa l’analisi che condurremo
sulla dicotomia caso/necessità. La nostra impressione è infatti che Platone,
nella sua feroce invettiva contro l’ateismo,
pensi a Democrito come rappresentante contemporaneo
riconosciuto e “deputato” dell’atomismo,
ma che in realtà ciò che lo sconcerta maggiormente
potrebbe essere proprio la “casualità” originaria
(posta da Leucippo) insita nella teorizzazione
del movimento cosmogonico atomistico (e non già la necessarietà
che Democrito ha invece, come spiegheremo,
teorizzato in seguito). Platone infatti,
e a più riprese (specialmente nelle opere
tarde), fa riferimento a una “provvidenzialità
divina” necessitata non lontanissima (ontologicamente)
dalla necessità [8] democritea (come d’altra parte sarà poi
per gli Stoici) quale esito operativo della
suprema e divina intelligenza con la quale essa si indentifica. A tal
proposito vale la pena ricordare qualche
sua affermazione. Si legga nel Timeo (47, a):
« Nel discorso precedente, tranne poche parole,
si è trattato solo delle operazioni dell’intelligenza.
Ora occorre dire anche di ciò che avviene
per la necessità. Perché [a] l’origine di questo mondo è mista, derivando
da una combinazione della necessità e dell’intelligenza
»
Ed ancora nello stesso dialogo (53 d):
«Quest’origine [geometrica] noi assegniamo
al fuoco e agli altri corpi, seguendo la
ragione verosimile congiunta con la necessità:
quanto ai principi superiori a questi, li
sa dio e degli uomini quello che gli è caro.»
Ma è poi nel X libro di Leggi che Platone meglio esplicita il suo pensiero
contro il caso (accomunando egli probabilmente Empedocle,
Sofisti ed Atomisti), quando afferma (889
a – d):
« Dicono alcuni che tutto ciò che è, che
è stato e che sarà dipende in parte dalla
natura, in parte dall’arte, in parte dal
caso. […] Le cose più grandi e importanti,
dicono, fra quelle sopra elencate e le più
belle, sembra le facciano la natura e il
caso, […] Essi dicono che ciascuno di questi
[gli elementi “primi”] essendo mosso e spostato
a caso dalla forza propria a ciascuno di
loro, […] si fusero insieme, ivi, proprio
per questa stessa causa, in tal modo essi
hanno dato origine all’intero cielo e a tutto
ciò che è nel cielo e a tutti gli animali
e a tutte le piante, una volta che tutte
le stagioni per la causa di cui si è detto
vennero ad esserci, e tutto ciò, non per
l’azione, dicono, di una mente, né di un
dio o di un’arte, ma, come stiamo riferendo
noi, si fonda sulla natura e sul caso.» [9]
Ne segue una splendida definizione della
religione che viene messa in bocca a tali
irriducibili “empi” casualisti, non senza
un certo tono di scherno:
«Caro mio, questi cominciano col dire che
gli dèi sono frutto dell’arte degli uomini,
non sono per natura, sono per certe leggi
e convenzioni, sono diversi da luogo a luogo,
come cioè ciascun popolo convenne con se
stesso nello stabilirli per convenzione,
come fissando una legge.» [10]
Se in quel tempo, o immediatamente dopo,
il pensiero di Leucippo e Democrito è stato
combattuto, o perlomeno trascurato e frainteso,
la nostra netta impressione è che esso non
abbia avuto miglior destino neppure in seguito.
E non diremo del periodo dominato dalla teologia
cristiana (a dipresso quindici secoli) ma
neppure in tempi molto recenti (dopo la meritoria
raccolta documentale del Diels all’inizio
del ‘900 [11]) a causa di un abito mentale vagamente (e
in qualche caso “nettamente”) idealistico,
che ne ha impedito una lettura corretta.
Basti pensare al pervicace tentativo di minimizzare
la portata del pluralismo leucippeo per ricondurlo
all’ovile del monismo parmenideo che viene
operato da molti illustri “platonici” contemporanei
[12]. Ma occorre tuttavia ammettere che per un
pensiero filosofico otto-novecentesco dominato
dall’idealismo hegeliano e post-hegeliano
(si pensi all’”Italia filosofica” di Croce
e Gentile!) il pensiero atomistico poteva
esser ritenuto, tutto sommato, di assai scarso
interesse e quasi opzionale l’occuparsene
seriamente se non per rafforzare l’eterno
monismo parmenideo rimesso in auge da Heidegger
(e ripreso recentemente da numerosi neo-idealisti
[13]). Ma se l’affrontare il problema poteva
essere un’opzione in un mondo filosofico
che operava con un ermeneutica filo-idealistica,
a noi, che (ateisticamente) all’idealismo
ci opponiamo, tocca “d’obbligo” il tentare
di dirimere la questione. Ma prima di fornire
una risposta vorremmo porre preliminarmente
una domanda elementare ed ovvia: «È possibile immaginare che nella Greca del
V secolo ci potessero essere filosofi di
professione, stimati e seguiti, così ingenui
e sprovveduti da consentire il permanere
di una contraddizione così plateale nelle
loro tesi, tali da minarne alla base la credibilità
e la coerenza? » La risposta ad un minimo di buon senso
comune!
Vediamo intanto: si tratta di una questione
poi così proibitiva? Molto difficile lo è
sicuramente. Ma la nostra impressione è che
un vero interesse per cercarne una soluzione
e raggiungere una conseguente chiarificazione
del pensiero atomistico sia del tutto mancato
anche da parte di chi se n’è occupato con
le migliori (o soltanto apparentemente migliori?)
intenzioni ermeneutiche. Un po’ per la ragione
su accennata, ovvero che gli studiosi che
se ne sono occupati tra ‘800 e’900 erano
quasi tutti di scuola idealistica (e che
quindi guardavano ad una filosofia materialista
con occhi idealisti) e un po’ perché (forse)
il fatto che il pensiero atomistico apparisse
lacunoso ed incoerente, anziché recare fastidio,
ha potuto persino far comodo.
Si noti poi che, tanto per restare in famiglia,
in un contesto intellettuale come quello
italiano, se non dominato certo impregnato
di cattolicesimo (e rimasto praticamente
impermeabile al pensiero illuministico-materialistico)
l’opposizione concettuale caso/necessità nell’atomismo poteva ben apparire argomento
non degno d’indagine, e perfino futile se
confrontato con gli “alti” problemi della
fede. Ma non è improbabile, al contrario,
che si percepisse chiaramente che una cosmologia
che ponesse come causa prima della costituzione
del mondo cause impersonali e “materiali”
come il caso e la necessità significasse mettere fuori gioco un Dio-Persona
creatore di cui essi avrebbero resa superflua
l’ipostatizzzione. Quindi, l’aporia caso/necessità, che per noi è una lacuna fondamentale nella
documentazione sul pensiero atomistico, poteva
apparire non solo una questione di mero dettaglio
concernente una teoresi filosofica del passato,
ma portatrice di una filosofia aberrante
che era meglio lasciare in ombra. Per noi
atei è invece l’aspetto fondamentale di una
teoresi filosofica storicamente importantissima,
lasciando il quale in sospeso si rischia
di rendere la stessa, per alcuni versi, inconsistente.
Tenendo fede al nostro intento cominciamo
allora subito coll’accennare a quello che
viene considerato l’unico frammento trasmessoci
di una frase che sarebbe stata scritta o
pronunciata da Leucippo stesso e che ci è
pervenuta attraverso Aezio [14] (I, 25, 4, Doxographi 321, Vorsokratiker 67.B.2). Una presunta base di partenza che
recita:
«Leucippo asserisce che tutto è conforme
alla Necessità e partecipa del medesimo destino.
Infatti, nell’opera intitolata Sull’intelligenza afferma: “nulla avviene invano, mentre tutto
consegue dalla ragione e dalla necessità”».
[15]
Ora, a parte il fatto che non è certo che
Leucippo in realtà abbia mai scritto un’opera
con tale titolo (ma più probabilmente Democrito)
[16], va anche ricordato che Aezio vive nel I
secolo e che quindi almeno cinque secoli
lo separano dalla supposta affermazione originale
di Leucippo. Ma non è meno importante notare
che in altre due testimonianze egli stesso
contraddice il frammento suddetto, affermando
l’esatto contrario. Nella prima (II 3, 2 – Dox. 330, Vorsokrat. 67.A.22) accomunando i tre atomisti afferma:
«Leucippo, Democrito ed Epicuro affermano
che [il mondo] non è animato né è governato
dalla provvidenza, ma è sorto dagli atomi,
per opera di una forza irrazionale» [17].
Nella seconda (I 4, 1-4 – Dox. 289, Vorsokrat. 67.A.24, Us. Epicurea fr.308), che è una lunga esposizione della
Grande cosmologia, egli riferisce nell’incipit:
«Il mondo pertanto si costituì assumendo
una figura ricurva; e la sua formazione seguì
questo processo: poiché gli atomi sono soggetti
a un movimento casuale e non preordinato
e si muovono incessantemente e con velocità
grandissima, […]» [18].
Noi ci troveremmo pertanto di fronte (secondo
numerosi studiosi) ad un ipsissimum verbum di Leucippo nel primo frammento; il problema
è poi che lo stesso Aezio ci regala una patente
negazione del suo contenuto in altri due
luoghi della sua testimonianza. Ne deriva
che la teorizzazione della necessità nel primo frammento, come causa del moto
cosmogonico degli atomi da parte di Leucippo,
entra in aperta contraddizione con Leucippo
stesso nelle altre due. Ma è ancora più interessante
notare che poi (con molta chiarezza) egli
ci precisa in un terzo frammento (I, 25,
3, Dox. 321, Vors. 68.A.66d) quanto segue:
Parmenide e Democrito affermano che tutto
avviene per necessità: e che essa è fato
e giustizia e provvidenza e produttrice del
mondo. [19]
un’associazione di Democrito con Parmenide
gravida di significato per il problema che
stiamo affrontando, ed insieme una definizione
“canonica” del necessitarismo deterministico
che non lascia dubbi circa la collocazione
ontologica di Democrito nell’opinione di
Aezio.
Il raffronto preliminare sopra citato (ma
sull’argomento torneremo) ci pare già abbastanza
sufficiente per delineare uno scenario interpretativo
estremamente complicato e contraddittorio,
proprio a partire dal dossografo di cui possediamo
più larga messe di citazioni sul pensiero
atomistico e che, come è facile evincere,
per le sue contraddizioni interne rende assai
problematico l’utilizzo delle sue testimonianze.
A meno di operare (e lo vedremo) una sola
correzione, che permetterà di rendere chiaro
e significativo il panorama testimoniale
di Aezio. L’assumere (come perlopiù è stato
fatto) il frammento D.321 come la “verità”
su Leucippo ci pare francamente del tutto
arbitrario, fuorviante e soprattutto miope,
poiché estrarre da un insieme di elementi
un elemento isolato e contrapporlo a tutti
gli altri in nome di una supposta maggiore
“autenticità” rispetto agli altri ci pare
operazione non solo dubbia, ma fortemente
sospetta.
Se i frammenti e le testimonianze del più
importante dossografo che si occupa degli
atomisti non sono in grado di aiutarci a
chiarire i termini della questione possiamo
tentare un ampliamento della ricerca ed andare
ad esaminare l’intero corpus dei documenti a nostra disposizione, schematizzando
un poco il problema ed analizzando per blocchi
il materiale disponibile. Imposteremio il
nostro lavoro premettendo che a noi pare
di poterne individuare due aspetti collaterali
sui testi pervenutici, che sono quello motivazionale
e quello situazionale, a fronte dei quali
il nostro lavoro analitico-interpretativo
sarà, fatalmente, ancora una volta motivazionale
e situazionale; poiché l’interpretante opera
sempre in base alle prorie convinzioni e
nel contesto che gli mette a disposizione
la materia prima su cui lavorare. Fatta questa
premessa diremo quindi subito che è nostra
convinzione che vi sia stato un sostanziale
fraintendimento del pensiero ontologico degli
atomisti del V sec.a.C., sia da parte dei
loro contemporanei e sia da parte della filosofia
posteriore, compresa molta ermeneutica recente
[20]. Su questo argomento torneremo in modo analitico
in alcune note ai singoli frammenti, ma qui
vorremmo completare il nostro pensiero con
alcune precisazioni che chiariscono la nostra
precedente affermazione circa l’inevitabile
motivazionalità nell’intepretazione di ciò
che è frammentario o poco chiaro. Se non
si vuol essere ipocriti si deve ammettere
che l’interpretante è “sempre” condizionato
dalla propria weltanschauung (che agisce come un vis a tergo) in rapporto all’oggetto interpretando e
alla weltanschauung di cui esso è (o si suppone), portatore.
L’approccio ermeneutico è quindi sempre problematico
e si configura in un “incontro” in cui l’interpretato
è un oggetto non-protetto in quanto è l’interpretante
che conduce il gioco e che, quand’anche sia
animato dalle migliori intenzioni di neutralità
e di oggettività, ha sempre la facoltà di
concluderlo a suo piacimento rispettando
professionalmente soltanto i limiti della
“decenza” interpretativa. Ciò significa che
nel momento in cui avanzo il sospetto che
l’intepretazione del pensiero atomistico
sia stata perlopiù invalidata da una weltanschauung idealistica o teologica (o perlomeno da
un background idealistico-teologico) nello
stesso tempo devo ammettere che la mia intepretazione
potrebbe venire invalidata a causa del mio
atteggiamento anti-idealistico e anti-teologico.
Mi corre quindi l’obbligo intellettuale di
supporre che “se” al pensiero manifestamente
materialistico degli atomisti sottostassero
elementi idealistico-teologici nascosti “proprio”
gli ermeneuti sulla cui opera io avanzo il
mio sospetto sarebbero stati in grado di
portarli alla luce, mentre io tenderei sicuramente
a fraintendeli o ad occultarli.
Ma procediamo con una prima osservazione.
In assenza di scritti originali degli atomisti
dobbiamo tenere presente che coloro che hanno
parlato di loro e del loro pensiero sono
stati verosimilmente legati ad un atteggiamento
ricorrente (e storiograficamente accertato)
col quale i pensatori antichi di solito esprimevano
giudizi sugli altri. Atteggiamento condizionato
dalla forte competizione presente nel mondo
filosofico ellenico, per cui ciò che un pensatore
dice di un altro va sempre assunto con una
certa cautela. Ciò innanzitutto per una questione
di “schieramento”, in funzione della lotta
per il predominio culturale, per cui gli
appartenenti a una certa scuola si trovavano
a competere (spesso per accaparrarsi allievi)
coi rappresentanti delle altre scuole, con
elementi di conflittualità spesso molto accesi
e non privi di “colpi bassi”. Ci pare di
poter cogliere quindi tre “modalità” di giudizio
“sull’altro” storicamente accertate che sono
1) la obbiettiva, 2) la omissiva plagiatoria
e 3) la mistificatoria. Dove la prima si
verificava perlopiù all’interno di una stessa
scuola o indirizzo di pensiero, la seconda
quando un filosofo occultava o negava i debiti
nei confronti di un altro per millantare
la propria originalità, la terza quando un
pensatore volgeva a favore o a conferma delle
proprie tesi ciò che esaminava o citava,
“leggendo” spesso sotto un angolatura strumentale
e capziosa.
Nel contesto che stiamo trattando a noi pare
di poter fare tre esempi sufficientemente
chiari. Attribuiremmo la prima modalità (sia
pure con molte riserve) ad Aristotele, il
quale, pur nella sostanziale ostilità nei
confronti delle tesi atomistiche, sembra
riferirle in modo corretto in base agli elementi
in suo possesso (ed analizzarle con sufficiente
obbiettività). Alla seconda ci pare riferibile
il comportamento di Epicuro, il quale nega
recisamente ogni debito nei confronti di
Democrito e molto probabilmente arriva al
punto di negare “consapevolmente” ogni realtà
storica alla figura di Leucippo (senza il
quale nessun pensiero atomistico è pensabile)
pur di evidenziare l’originalità della propria
teoria fisica [21] (che con tutta evidenza si presenta soltanto
quale modificazione, però non-marginale,
dell’atomismo leucippeo). Per la terza non
possiamo che riferirci a Platone, che nella
sua grandezza rimane certamente uno dei pensatori
più faziosi e mistificatori nei confronti
delle tesi filosofiche a cui si opponeva
che la storiografia filosofica possa ricordare.
Diremo allora che questo aspetto ci aiuta
abbastanza poco nella nostra analisi, se
non nella misura in cui induce ad una sorta
di “dubbio sistematico” circa l’attendibilità
delle dichiarazioni documentali.
Il contesto della cultura greca del V sec.a.C.
ci costringe a considerare il clima culturale
in cui si sono mossi Leucippo e Democrito
e quelli afferenti i secoli posteriori, in
cui si sono più o meno conservati gli echi,
a volte stravolti, delle loro teorizzazioni.
Il già accennato prevalere dell’idealismo
platonico (accanto all’aristotelismo) ha
sicuramente limitato la presenza dell’atomismo
già nel V sec., mettendolo subito in ombra,
ma il nuovo clima culturale dell’epoca ellenistica
ha favorito poi una ripresa di interesse
nei suoi confronti. Ed è proprio grazie a
questa nuova temperie culturale, legata all’internazionalizzazione
della filosofia ed in buona misura alla filosofia
epicurea, se il pensiero atomistico ha goduto
di un rilancio, fino ad attestarsi poi nel
mondo romano nella forma lucreziana.
Per quanto riguarda l’analisi dell’atomismo
di Democrito risulta punto centrale la questione
circa le due Cosmologie (la Grande e la Piccola), una questione che si è posta fin dal secolo successivo all’apparizione dell’atomismo,
come conseguenza dell’accorpamento dei testi
rimasti di Leucippo sotto il nome di Democrito
nella tetralogia di Trasillo. Se a ciò abbia
contribuito più una crescente ostilità ambientale
(determinata dal trionfo dell’idealismo platonico)
oppure un qualche tipo di “appropriazione”
già da parte dello stesso Democrito del pensiero
del suo maestro è difficile dire, poiché,
almeno per quanto riguarda la seconda ipotesi,
non disponiamo di nessun elemento sicuro,
se non l’anonimo frammento che compare nei
Papiri Ercolanensi (Vol. Herc. coll.alt VIII 58-62 fr. 1 [Crönert Kolotes p.147]) e che a proposito della Grande Cosmologia di Leucippo ci dice:
…..il quale scrive che… quei principi sono
stati precedentemente menzionati nella Grande cosmologia, opera che viene attribuita a Leucippo,
e che [Democrito] viene smascherato e confutato
in questo suo spingersi ad appropriarsi delle
dottrine altrui sino al punto non solo di
trasporre nella Piccola cosmologia quanto già si riscontra nella Grande cosmologia,…[22]
Ci troveremmo qui di fronte ad un vero e
proprio plagio che può essersi verificato
o meno (l’etica democritea parrebbe farci
escludere un comportamento così meschino!)
ma questo frammento conferma comunque ciò
che appare già abbastanza nettamente in base
ad altri numerosi elementi disponibili, ovvero
che la stesura della Grande Cosmologia è di Leucippo e che solo parte di essa è
passato nella Piccola, che è di Democrito. Ma potrebbe anche darsi che non fosse così,
e che nella Piccola l’Abderita già ponesse in modo chiaro il
fondamento ontologico della necessità, accettando dal maestro la teoria pluralistica
degli atomi, ma non quella del movimento
casuale di essi. Ed infatti il concetto di
vortice acquista in Democrito un importanza particolare
e ad esso si lega quello di necessità come sua origine. In altre parole, il concetto
di vortice potrebbe essere stato meglio tematizzato
da Democrito proprio allo scopo di fare da
“Cavallo di Troia” del principio di necessità, senza dover entrare in aperta contraddizione
col suo maestro. Contraddizione la quale,
se fosse stata invece esplicitata, avrebbe
evitato tutti gli equivoci di cui soffre
la storiografia atomistica.
Ma vi è ancora un altro elemento assai importante
che rafforza le conclusioni a cui siamo giunti
ed è quello che ritroviamo nella Fisica aristotelica (B 4, 196 a 25) laddove lo
Stagirita rileva polemicamente:
[…] E proprio questo è stranissimo: difatti,
da una parte essi dicono che gli animali
e le piante né sono né nascono fortuitamente,
ma che la natura o la mente o qualche altra
cosa di tal genere ne è la causa […], dall’altra
parte, invece, sostengono che il cielo e
i fenomeni più divini derivano dal caso […]
[23]
Lo Stagirita si esprime al plurale poiché
pensa all’omologia Leucippo-Democrito, ma
è a questi che si riferisce, nel cui pensiero
ritiene di intravvedere un “dualismo” erroneo,
che stigmatizza come “stranissimo”. In realtà
Aristotele evidenzia la presunta incoerenza
atomistica per sostenere qui il “proprio”
dualismo ontologico, cioè quello per cui
il cosmo “divino” (quello degli enti del
cielo) è mosso da necessità, mentre quello “mortale” (la natura che
concerne piante ed animali) presenta diffusi
caratteri di casualità. In realtà un dualismo ontologico in Democrito
sembra risultare del tutto assente, ma Aristotele
crede di coglierlo perché confonde Leucippo
con Democrito, ovvero compie un’arbitraria
(ma incolpevole) operazione di sovrapposizione
delle tesi esposte nella Grande cosmologia riguardanti il mondo fisico e il cosmo,
con le tesi naturalistiche che Democrito
espone nella Piccola.
Ma a proposito del passo succitato della
Fisica si impongono due ulteriori rilievi: 1) non
esiste alcuna chiara testimonianza sul fatto
che Leucippo si sia mai occupato di biologia
e del mondo vivente in generale, essendo
i suoi interessi noti e documentati concentrati
esclusivamente sulla fisica e sulla cosmologia.
All’opposto, Democrito risulta esser stato
uno dei più grandi e acuti naturalisti del
suo tempo e ne è prova l’abbondanza di frammenti
che riguardano le sue tesi biologiche, fisiologiche
e naturalistiche, 2) Aristotele rileva la
contraddizione, come fa anche in altri luoghi
delal sua opera (cfr. Parti degli animali, I, A, 1, 641 15-25) perché pare cogliere
attentamente tutte le occasioni possibili
per invalidare le teorie atomistiche ove
non siano conciliabili con le proprie, ma
si guarda bene dal cercare le origini della
confusione documentale sui due atomisti,
quantunque nell’ordine temporale sia più
vicino ad essi di ogni altro pensatore importante
(escluso ovviamente Platone che però, come
sappiamo, ne era feroce nemico). Correlando
le due constatazioni noi possiamo delineare
un quadro abbastanza chiaro della vertenza
di cui ci siamo occupando, poiché lo Stagirita
(relativamente alla seconda) che forse disporrebbe
ancora degli strumenti per sciogliere le
aporie insite nell’accavallarsi delle tesi
leucippee e democritee non lo fa per qualche
sua buona ragione. E d’altra parte (relativamente
alla prima) evidenzia una contradizione che
però è tale solo a partire dalla raccolta
unitaria di Trasillo e probabilmente non
dalle singole testimonianze, anche soltanto
verbali, che certamente al suo tempo dovevano
esser ancora in circolazione. Questo sorta
di silenzio-assenso dello Stagirita sull’inevitabilità
della confusione e delle contraddizioni insite
nel corpus democriteum già al suo tempo ci dice chiaramente come
una sorta di congiura filosofica in parte
consapevole e in parte no abbia determinato
l’apparente incoerenza della filosofia atomistica.
Incoerenza che è stata assunta e ratificata
in seguito, se non addirittura alimentata
dagli autori stoici e neoplatonici prima
e cristiani poi.
Se infine assumiamo (cosa che appare assai
probabile) che Epicuro abbia “eliminato”
dallo scenario filosofico Leucippo (operazione
fattibile proprio in base alla raccolta unitaria
di Trasillo) mentre non abbia potuto fare
altrettanto con Democrito, in relazione alla
vasta messe di documenti che a lui si riferivano
e all’esistenza di testimonianze dirette
sul suo operato, comincia a delinearsi in
modo sufficientemente chiaro lo stato delle
cose. Ma vi è di più, Epicuro potrebbe aver
occultato l’esistenza di Leucippo perché
proprio da lui avrebbe tratto la casualità
cosmogonica che faceva al caso suo, ma che
gli appariva incompleta e non strettamente
conciliabile colla sua etica libertaria.
La “casualità” motoria di Leucippo, a nostro
avviso, sarebbe diventata allora la “declinazione”
della traiettoria di caduta dglei atomi in
Epicuro attraverso il passaggio, teoricamente
fondamentale, dagli atomi-forma leucippei
agli atomi-peso, che cadono lungo la verticale
e che deviando da essa si urtano e dallo
scontro si genera la materia composta visibile.
Possiamo allora incominciare a trarre delle
conclusioni, che per quanto si basino in
parte su ipotesi non fondanti (ma soltanto
rafforzative del nostro ragionamento) delineano
tuttavia un quadro abbastanza chiaro della
situazione interpretativa di cui ci stiamo
occupando. Secondo noi Leucippo è il creatore
di una teoria atomistica che si pone in termini
puramente fisici e cosmologici, con a base
della formazione della materia composta il
moto “casuale” degli atomi. Il suo allievo
Democrito ne ha assunto le linee principali
ad eccezione di quella relativa al moto,
che diventa per lui “necessario”, poiché
è il vortice che lo genera ad avere origine dalla necessità. Se ne evince che mentre la teoria democritea,
avendo assunto come causa cosmica primaria
la necessità potrebbe teoricamente fare riferimento al
parmenidismo, ciò è da escludere per Leucippo,
che mette invece nettamente in mora l’essere necessario di Parmenide. A fronte di ciò
si comprende come sia stato possibile che
i dossografi posteriori, avendo a disposizione
l’ontologia deterministica di Democrito (ma
di cui si sapeva che non aveva avuto contatti
diretti con la filosofia eleatica) non abbiano
fatto altro che far risalire a Leucippo un
rapporto con gli Eleati, stravolgendone completamente
il pensiero. Un equivoco storico esiziale
come si è visto, ma la incoerenza e la contraddittorietà
potrebbero essersi determinate anche per
una certa ”forzatura” da parte dei post-platonici
dell’Accademia mirante a fare dell’atomismo
una metafisica sussidiaria dell’eleatismo.
Operazione che non aveva certo fatto Platone,
a cui il caso teorizzato dall’atomismo andava benissimo
per poter stigmatizzarne con più forza un
empio ateismo che negava la provvidenza divina.
Negazione che, evidentemente, poteva assumere
un carattere decisamente “forte” con il casualismo
e assai più “debole” col necessitarismo.
Concludiamo questa fase generale della nostra
analisi dell’atomismo passando infine ad
un aspetto documentale-statistico, che ci
viene a ulteriore sostegno di quanto sopra
evidenziato. Sotto questo aspetto siamo in
grado di produrre una discreta quantità di
esemplificazioni, attraverso testimonianze
numerose e relative ad un arco temporale
che va dal IV sec.a.C al VI sec.d.C. Testimonianze
le quali, a nostro avviso, pur nella diffusa
contraddittorietà tra esse presenti, se esaminate
con la dovuta attenzione, confermano in gran
parte la tesi che andiamo sostenendo, ovvero
che Leucippo ha teorizzato come causa cosmogonica
primaria il caso e Democrito, invece, la necessità. Le elencheremo seguendo uno schema che
le raggruppa a seconda che la testimonianza
concerna Leucippo (Le) o Democrito (De) e se gli si attribuisca la necessità (Ne) oppure caso (Cas) come causa del movimento. L’elencazione
schematizza le differenti tipologie di affermazioni
ed all’interno di queste le testimonianze
vengono elencate con criterio crononologico.
Attingendo principalmente ai Die Fragmente der Vorsokratiker raccolti dal Diels e successivamente revisionati
e completati dal Kranz abbiamo operato i
seguenti raggruppamenti: A) LeNec: necessità riferita Leucippo, B) LeDeNec: necessità riferita a Leucippo insieme a Democrito,
C) LeCas: caso riferito a Leucippo, D) DeCas: caso riferito a Democrito E) LeDeCas: caso riferito a Leucippo insieme a Democrito,
F) DeNec: necessità riferita a Democrito.
A) Gruppo LeNec:
1) Aezio I, 25, 4, Vorsokrat. 67.B.2, Dox. 321, (vedi pag.97).
2) Ippolito Refutatio contra omnes haereses I, 12, 2, Dox. 564:
[…] Leucippo […] sostiene che i mondi nascano
<in questo modo>: quando molti corpi
si staccano […] e intrecciandosi a circolo
generano gli astri, e questi ammassi atomici
si accrescono e si disgregano secondo la
necessità. Leucippo non definisce, però,
quale sia tale necessità. [24]
3) Diogene Laerzio, IX, 31 ss., Vors. 67.A.1:
[…] Leucippo sostiene che il tutto è infinito
ed è in parte pieno e in parte vuoto (33)
[…] Come il mondo nasce, così anche cresce,
decade e perisce conformemente ad una necessità,
la cui peculiarità egli non chiarisce. [25]
B) Gruppo LeDeNec:
1) Aristotele, Fisica, B, 4, 195 b 36:
Alcuni [gli atomisti] dubitano anche se [il
caso] esista o no: dicono infatti che nulla
viene prodotto dal caso, ma che esiste una
causa determinata di tutte le cose che noi
diciamo prodursi spontanemente o per caso.
[26]
2) Simplicio, Fisica, 28, 15 (dopo 67.A.8), Vorsokrat. 68.A.38 (da Teofrasto):
[…] perciò essi [Leucippo e Democrito] anche
dicono che soltanto per coloro che considerano
infiniti gli elementi tutto si svolge in
modo conforme a ragione. [27]
C) Gruppo LeCas:
1) Aezio, I, 4, 2, Vors. 67.A.24, Dox.289 (vedi pag. 98).
2) Aezio, II, 3, 2, Vors. 67.A.22, Dox.329 (vedi pag. 98).
D) Gruppo DeCas:
1) Dionigi (vescovo di Alessandria) ap. Eusebio Praeparatio evangelica XIV 23, 2-3, Vors. 68.A.43:
Gli uni, i quali danno il nome di atomi a
corpi indistruttibili estremamente piccoli
e infiniti di numero e presuppongono l’esistenza
di uno spazio vuoto di grandezza illimitata,
dicono che questi atomi si muovono come capita
nel vuoto e s’incontrano casualmente per
loro impeto disordinato […] Professarono
questa dottrina Epicuro e Democrito […] [28]
2) Dionigi (vescovo di Alessandria) ap. Eusebio Praeparatio evangelica XIV 27, 4, Vors. 68.B.118:
Lo stesso Democrito, a quanto si riferisce,
diceva […] che egli parte da un principio
vuoto e da un’ipotesi erronea senza veder
né l’origine né la necessità […] per scarso
sapere e stoltezza ed infatti egli pone il
caso come padrone e signore di tutto ciò
che è universale e divino ed afferma che
tutto avviene per caso, mentre poi bandisce
il caso dalla vita degli uomini e biasima
come ignoranti coloro che lo tengono in gran
conto. [29]
3) Lattanzio, Institutiones divinae, I, 2, Vorsokrat. 68.A.70b:
[…] cominciare da quella questione che sembra
essere per natura la prima, se vi sia una
provvidenza che a tutte le cose provvede
o se tutto nel mondo sia stato prodotto e
si svolga per opera del caso, opinione questa
che ebbe il suo primo assertore in Democrito
ed ebbe un propugnatore in Epicuro. [30]
4) Simplicio, Physica, 327, 24, Vorsokrat. 68.A.67:
Ma anche Democrito, là dove dice «dal tutto
si distaccò un vortice di forme d’ogni genere»
(ma non dice come né per quale causa), sembra
significare che il vortice si produce spontaneamente
e casualmente. [31]
E) Gruppo LeDeCas:
1) Aristotele, Fisica, B 4, 196 a, 25:
Vi sono alcuni, al contrario, che considerano
il caso come causa di questo cielo e di tutti
i mondi: ché dal caso deriverebbero il vortice
e il movimento che separa e dispone il tutto
secondo quest’ordine. [32]
2) Aristotele, Fisica, B 4, 196 b, 5, Vors. 68.A.70a:
Vi sono alcuni che considerano come causa
il caso, il quale è impenetrabile alla ragione
umana, essendo qualcosa di divino e di straordinario.
[33]
3) Cicerone, Sulla natura degli dèi, I, 24, 66, Vorsokrat. 67.A.11, Dox. 119:
[…] Giacché queste sono le riprovevoli opinioni
di Democrito, oppure anche, anteriormente,
di Leucippo: dicono che ci sono dei corpuscoli
[…] e che da essi è stato prodotto il cielo
e la terra, non perché natura alcuna li costringesse,
ma solo perché s’incontrano in modo puramente
casuale […] [34]
F) Gruppo DeNec:
1) Aristotele Generazione degli animali E, 8, 789 b 2, Vors. 68.A.66b:
Democrito lasciate da parte le cause finali,
riconduce alla necessità [meccanica] tutte
le operazioni della natura. [35]
2) Teofrasto, De causis plantarum II, 11, 7, Vorsokrat. 68.A.162:
(7) Non sembra nel giusto Democrito, quanto
al modo onde ripone nelle medesime necessità
la causa per cui le piante […] [36]
3) Cicerone, De fato, 17, 39, Vorsokrat. 68.A.66a:
Tutte le cose derivano dal fato si che il
fato attribuisce loro una piena necessità:
tale fu l’opinione di Democrito, Eraclito,
Empedocle, Aristotele. [37]
4) Cicerone, De divinatione I, 3, 5, Vorsokrat. 68.A.138a:
… E mentre uno scrittore autorevole come
Democrito dichiarava in parecchi luoghi di
ammettere la previsione del futuro […] [38]
5) Aezio, I, 25, 3, Dox. 321, Vorsokrat. 68.A.66d:
Parmenide e Democrito affermano che tutto
avviene per necessità: e che essa è fato
e giustizia e provvidenza e produttrice del
mondo. [39]
6) Plutarco, Stromata 7, Vors. 68.A.39, Dox. 581:
Democrito di Abdera suppose l’univeso infinito
[…] Le cause dei corpi che attualmente nascono
e si dissolvono non hanno avuto alcun principio,
ma via via da tempo infinito tutte assolutamente
le cose passate presenti e future sono governate
dalla necessità. [40]
7) Diogene di Enoanda, fr. 33 col. 2 p. 41
William Lpz. 1907, Vors. 68.A.50:
A chi seguisse la dottrina di Democrito,
dicendo che gli atomi non hanno assolutamente
movimento libero (dato il loro continuo reciproco
urtarsi), e che di qui appare che tutti i
corpi i muovono per una legge di necessità,
noi potremo rispondere: e come non sai, chiunque
tu sia, che negli atomi c’è anche un movimento
libero, ignorato da Democrito, ma che Epuro
mise in luce […] [41]
8) Dionigi (vescovo di Alessandria) ap. Eusebio Praeparatio evangelica XIV 27, 5, Vors. 68.B.119:
[…] Iniziando dunque le “esortazioni” Democrito
dice: «Gli uomini…della propria mancanza
di senno». Per sua natura infatti il caso
contrasta con la saggezza […] Gli uomini
si sono foggiato l’idolo del caso come una
scusa per la propria mancanza di senno. [42]
9) Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 113, Vors. 68.A.83:
[…] Sicché il mondo non si muoverebbe già,
come pretendono i seguaci di Democrito, per
necessità e mediante un vortice. [43]
10) Diogene Laerzio, IX, 44-45, Vors. 68.A.1:
[…] Gli atomi sono infiniti per grandezza
e per numero, si muovono vorticosamente,
per l’universo e generano tutte le cose composte.
[…] (45) Tutto accade genera secondo necessità;
egli chiama necessità il vortice che è la
causa della genesi di tutte le cose. [44]
11) Simplicio, De caelo p. 294, 33 Heib. [fr.208 Rose], Vors. 68.A.37:
Poche frasi di ciò che Aristotele ha scritto
nel libro Su Democrito dimostreranno le diverse visioni speculative
di quegli uomini: «Democrito sostiene […]
Sino a un determinato momento Democrito ritiene
che le sostanze atomiche restino permanentemente
connesse tra loro sino a quando una più forte
necessità veniente da ciò che le contiene
le scuote e le disperde separanole vicendevolmente».
[45]
12) Simplicio, Physica, 330, 14, Vors. 68.A.68b:
La frase «come quell’antica dottrina che
negava il caso» sembra detta in rapporto
a Democrito, questi infti benché nella sua
cosmogonia paresse valersi del caso, nei
problemi particolari invece afferma che il
caso non è causa di nulla […]. [46]
Nel gruppo A) LeNec abbiamo tre testimonianze, la prima delle
quali è quella citatissima (e ritenuta fondamentale)
con la quale Aezio avrebbe riportato le parole
di Leucippo stesso. Ma questo frammento,
come si è già osservato, risulta inconciliabile
con gli altri due già citati e che abbiamo
ripreso nel gruppo C) LeCas e quindi da essi praticamente eliso; tanto
più in quanto quello si colloca verosimilmente
dopo il Vors.67.A.24 (I, 4, 2) e prima del Vors.67.A.22 (II, 3, 2), per cui risulta impensabile
che l’autore abbia potuto inserire un testo
in contraddizione sia con uno che lo precede
sia con un altro che lo segue. La nostra
ipotesi è quindi che il Vors.67.B.2 (I, 25, 4) soffra o di un errore di
trascrizione o di un lapsus dell’autore all’interno
di un complesso di testimonianze rese molto
difficili dalla confusione Leucippo/Democrito
(presente anche nei Vetusta Placita postulati dal Diels ai quali Aezio avrebbe
attinto). E se questo frammento anziché essere
di Leucippo fosse “proprio” di Democrito?
Vediamo: se noi spostiamo questo frammento
da Leucippo a Democrito il puzzle sgangherato
comincia a prendere una forma del tutto chiara,
poiché scompaiono le contraddizioni, in quanto
questo Vors.67.B.2 va ad accordarsi perfettamente col
frammento 5) del gruppo F) DeNec (il Vors.68.A.66d), dove Aezio attribuisce la necessità a Democrito, accomunandolo a Parmenide.
Quindi, nell’insieme dei frammenti aeziani
(se vogliamo riconoscervi un minimo di coerenza)
ci troviamo di fronte all’impossibilità logica
di utilizzare il Vors.67.B.2 riferito a Leucippo, per una patente
contraddittorietà interna, mentre appena
lo passiamo a Democrito i conti tornano perfettamente.
Ma vi è ancora un’altra considerazione che
noi riteniamo dirimente, poiché mentre il
Vors.68.B.2 è null’altro che la lapidaria sintesi
di una teoria cosmologica attribuita a Leucippo,
il Vors.67.A.24, al contrario, costituisce un’esposizione
chiara, esauriente e circostanziata di una
teoria esauriente, che sappiamo (da una serie
di elementi ricorrenti e ripetuti) essere
proprio quella leucippea; alla quale attingerà
Democrito per la propria, che verrà esposta
nella Piccola cosmologia. E l’incipit:
«Il mondo pertanto si costituì assumendo
una figura ricurva; e la sua formazione seguì
questo processo: poiché gli atomi sono soggetti
a un movimento casuale e non preordinato
e si muovono incessantmente e con velocità
grandissima, […]»
trova il suo completamente logico nel testo
che segue, permettendoci un quadro sia pur
parziale, ma chiaro, della fisica di Leucippo,
che trova statisticamente conferma nella
maggior parte del corpus di tutte le altre testimonianze su Leucippo.
Questo è allora “il” testo fondamentale a
cui fare riferimento, sia per la sua “fattura”
chiara, sia per la sua struttura interna
e sia perché è l’unico che conferisce omogeneità
e coerenza alla maggior parte delle altre
affermazioni relative alla cosmogonia leucippea.
Per chiudere col gruppo A) LeNec restano da considerare le testimonianze
di Ippolito (Refutatio contra omnes haereses I, 12, 2, Dox. 564) e quella di Diogene Laerzio (IX, 30
ss.) le quali, come è evidente, sono assai
simili e quindi da riferirsi ad una fonte
comune. In termini cronologici, tra l’altro, quella
del primo precederebbe la seconda, in quanto
Sant’Ippolito già nel 212 era prestigioso
esponente del clero romano, mentre Diogene
è ritenuto operoso dopo il 220 (e fino al
250). In ogni caso va notato che quella di
Diogene, il quale dà per scontato che la
Grande cosmologia sia di Democrito (IX, 40), costruisce la
sua descrizione della fisica leucippea alla
luce di una sostanziale identificazione con
quella democritea. Ma mentre relativamente
a Leucippo, essendo come è ovvio scarsissimi
gli elementi biografici, egli si diffonde
sulla fisica, il contrario avviene per Democrito
(IX 34 e ss.) dove la fisica è trattata con
poche frasi schematiche, mentre l’esposizione
della biografia è molto estesa e ricca di
elementi aneddotici piuttosto precisi. Pur
tenendo conto che Diogene è uno storiografo
più che un filosofo, dal confronto tra le
due “vite” si evince che Diogene parla della
fisica leucippea in riferimento alle notizie
di cui dispone sulla Grande cosmologia (che ritiene di Democrito). Come se i due
avessero detto le stesse cose e Diogene,
disponendo di molto materiale biografico
sul seondo trasferisce parte del materiale
teorico sul primo, assegnando a Leucippo
ciò che ritiene comune ad entrambi. In quanto
poi ad Ippolito, che inserisce la sua definizione
della fisica Leucippea all’interno del suo
pamphlet contro l’eresia, non potremo certo chiedere
al teologo cristiano troppi scrupoli nell’utilizzo
di fonti riguardanti un notorio empio ateo,
relativamente al quale sia una teoria casualistica
che una necessitaristica sono parimenti considerate
perverse e contrarie a quella rigorosamente
provvidenzialistica di cui egli è testimone.
Passando al gruppo B) LeDeNec, costituito da due frammenti, abbiamo nel
primo l’importante testimonianza di Aristotele,
il quale nella Fisica, come si sa, non fa distinzioni tra Leucippo
e Democrito e quindi attribuisce ad entrambi
(ma qui non facendone i nomi) ed indifferentemente
la teorizzazione della necessità come causa primaria dell’essere del mondo.
Quella di Simplicio è d’altra parte molto
tarda (sec.VI) e non solo tributaria della
Fisica dello stagirita (di cui è commentatore)
ma anche (e comprensibilmente) tendenzialmente
favorevole a trovare conferme in una teoria
necessitaristica che sulla base del neoplatonismo
a cui aderisce gli permette di tentare una
fusione con l’aristotelismo.
Del gruppo C) LeCas abbiamo già parlato a proposito di quello
A) LeNec, al quale si contrappone, e non possiamo
che sottolineare ancora una volta la fondamentale
importanza della testimonianza di di Aezio
che troviamo nel frammento Vors.67.A.24, che spicca per chiarezza e coerenza
in tutto il contesto dei frammenti riferiti
a Leucippo, e che riprenderemo nel paragrafo
ad esso dedicato.
Il gruppo D) DeCas è quello che ci crea maggiori problemi interpretativi,
poiché appare come una strana isola nel metaforico
mare del necessitarismo democriteo. Ma se
si considera che tre testimonianze (le due
di Dionigi di Alessandria e quella di Lattanzio)
sono formulate da due teologi molto impegnati
nella lotta contro il paganesimo, si può
comprendere che se si deve etichettare negativamente
un pensatore appartenente al mondo pagano
(e per di più notoriamente ateo quale aggravante)
la migliore efficacia si raggiunge qualificandolo
come casualista, al di là di ogni ragionevole
dubbio sul fatto che potesse essere invece
un necessitarista.
La testimonianza di Simplicio, da ultimo,
ha carattere abbastanza dubitativo e si connette
comunque a quanto largamente affermato da
Aristotele, alla cui Fisica egli fa riferimento. Se poi si considera
il fatto che egli, in quanto neoplatonico,
non può che essere monista e necessitarista,
si evince come la sua opinione sia assai
poco attendibile (oppure eventualmente attendibile
“per inversione”) in quanto un monista-necessitarista
è probabile che tenda a ritenere un pluralista
“oppositivamente” casualista.
Veniamo ora al gruppo E) LeDeCas in cui troviamo due testimonianze di Aristotele
e una di Cicerone, dove quelle dello stagirita
sono in aperta e clamorosa contraddizione
con quanto esposto nello stesso Libro IV della Fisica pochi paragrafi prima. Ma a tal proposito
va notato che Aristotele utilizza un espediente
sottile per evitare la contraddizione, poiché,
mentre altrove fa esplicitamente i due nomi
(Leucippo e Democrito) accomunandoli nelle
sue esposizioni, nei due passi qui ricordati
e in quello precedente (del gruppo LeDeNec) si astiene dal nominare i due atomisti
e li definisce come “alcuni”, rimanendo così
nel vago. Ma abbiamo poi il frammento tratto
dal Sulla generazione degli animali (E 8, 789 b 2, Vors. 68.A.66b) nel quale con assoluta chiarezza
ci dice che Democrito «riconduce alla necessità»
tutto ciò che avviene in natura, mentre in
tutta l’opera dello stagirita non si trova
nulla di simile riferito a Leucippo. Per quanto riguarda poi Cicerone, uomo profondamente
religioso, vale quanto detto a proposito
dei teologi cristiani, che abbiamo già visto
lanciare senza indugi agli atomisti l’accusa
di casualismo.
Siamo così arrivati all’ultimo gruppo, il
F) DeNec, nel quale si contano ben dodici testimonianze,
tutte molto esplicite nell’attribuire a Democrito
la teorizzazione della necessità, ma qui vi è un elemento di interesse in
più, perché troviamo il già ricordato passo
di Aristotele da Sulla generazione degli animali seguito da due testimonianze di Cicerone
ancora più rilevanti. Nella prima (De fato, 17, 39) si dice «Tutte le cose derivano dal
fato si che il fato attribuisce loro una
piena necessità: tale fu l’opinione di Democrito,
Eraclito, Empedocle, Aristotele» dove Democrito
è citato per primo e seguito da Eraclito
e Aristotele, che necessitaristi certo sono,
e da un invece meno probabile Empedocle. Ma è la seconda che a nostro parere è ancora
più significativa, poiché se Cicerone, ottimo
conoscitore della filosofia stoica), afferma
(De divinatione I, 3, 5): «…E mentre uno scrittore autorevole
come Democrito dichiarava in parecchi luoghi
di ammettere la previsione del futuro […]»
ciò significa che ha colto l’essenza del
necessitarismo democriteo come base della
divinazione che egli ammette e in cui crede.
Il futuro è infatti prevedibile solamente
in una prospettiva del divenire assolutamente
deterministica, e dove quindi il futuro è
“leggibile” in quanto “già scritto”. A questo
proposito potremmo ancora aggiungere alla
nostra raccolta di citazioni quella di Clemente
Alessandrino (Stromata, VI, 32, Vors. 68.A.18) dove si parla di Democrito non
solo come filosofo necessitarista ma anche
un preveggente:
Democrito, per aver predetto molti fenomeni,
come gli consentiva il suo studio delle regioni
celesti, fu soprannominato “Sapienza”. [47]
Proseguendo la nostra disamina del gruppo
gruppo, DeNec alla citazione 5) torniamo ad imbatterci
in un luogo fondamentale della testimonianza
di Aezio su Democrito, su cui ci siamo già
soffermati all’inizio di questo paragrafo
e che ribadiamo costituire un tassello fondamentale
a sostegno della nostra tesi. Ai numeri 2),
6) e 7) abbiamo le testimonianze di Teofrasto,
di Plutarco e di Diogene di Enoanda, le quali,
da angolazioni culturali differenti confermano
quanto sopraesposto. Saremmo invece propensi
a non attribuire troppa importanza alla testimonianza
8) di Dionigi d’Alessandria, se non altro
perché contraddittoria rispetto alla più
sopra citata Vors 68.B.118 (la 2) di DeCas), mentre le 9) e 10), rispettivamente di
Sesto Empirico e Diogene Laerzio, vanno a
rafforzare quanto precedentemente affermato,
da un punto di vista scettico e da uno eclettico
(ma con forti simpatie epicuree). Per quanto
riguarda le 11) e 12) di Simplicio, molto
più tarde, esse completano il quadro che
abbiamo delineato ed a questo punto non ci pare di avere molto altro
da aggiungere sull’argomento.
Riteniamo di aver compiuto un operazione
euristica, analitica ed esplicativa che dovrebbe
finalmente portare un po’ di chiarezza su
uno dei punti più intricati ed oscuri della
storiografia filosofica. Siamo consapevoli
di aver dovuto utilizzare nel nostro lavoro
molte ipotesi e poche certezze, pensiamo
tuttavia di aver operato nella correttezza
che si impone in situazioni di questo genere.
Senza avere la pretesa di porre la nostra
come soluzione “definitiva” del problema
e come ultima parola a scioglimento dell’aporia
documentale caso/necessità di cui soffre la storiografia atomistica,
pensiamo che essa possa costituire un importante
contributo filologico e un punto forse decisivo
nella ricostruzione della filosofia atomistica.
[1] Georges Minois Storia dell’ateismo Editori Riuniti 2000, pp. 37-38.
[2] È interessante notare come l’ilozoismo rappresenti una tentazione costante della filosofia materialistica. In epoca rinascimentale Telesio, Bruno e Campanella lo teorizzarono esplicitamente. In epoca moderna è particolarmente interessante il caso di Ernst Heinrich Haeckel, un naturalista–filosofo tedesco il quale, pur partendo da posizioni materialistiche ed essendo uno dei più prestigiosi esponenti del darwinismo tedesco, ha finito per teorizzare una sorta di panpsichismo che ricorda certe forme filosofico-mistiche tipiche della filosofia indiana. Haeckel integrò l’evoluzionismo di Darwin con una Legge biogenetica fondamentale, in base alla quale l’ontogenesi (lo sviluppo dell’embrione) ricapitolerebbe la filogenesi in modo abbreviato e incompleto. Da tali premesse Haeckel ha sviluppato un ilozoismo assai suggestivo, che ha avuto vasta eco nel mondo filosofico e scientifico europeo della fine del XIX secolo (esclusa l’Italia, dominata dal pensiero idealistico e cattolico, dove H. fu praticamente ignorato). La sua ultima opera, L’enigma del mondo (pubblicata nel 1899) sfocia in un esplicito ilozoismo, col quale viene teorizzato che gli atomi e l’etere (la materia del vuoto cosmico) siano animati.
[3] Platone Opere complete – vol.7 - Le leggi (X Libro) – Laterza 1992 – p.320.
[4] Si tratta dell’anno in cui viene approvato, su istanza di un certo Diopite, un decreto che prevedeva di procedere penalmente contro tutti coloro che non credevano negli dèi ufficialmente riconosciuti. (Georges Minois Storia dell’ateismo p.41).
[5] A questo proposito è interessante la citazione da parte di M. Andolfo (Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti – Rusconi 1999, p. 522) di un saggio di G.Zuccante (Da Democrito ad Epicuro ovvero perché l’Atomismo fu per più di un secolo messo in disparte come dottrina filosofica, in Fra il pensiero antico e il moderno, Milano 1905, pp.167-194) in cui si sostiene che «[…] i continuatori di Democrito hanno scarsissima importanza nella storia della filosofia in quanto si sono serviti dell’Atomismo per lo più per trarne conseguenze scettiche, obliando il vero “spirito” dell’Atomismo.»
[6] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – vol. II, Laterza 1983, p.367-368. E’ comunque altamente significativo il fatto che nei suoi scritti Platone non citi “mai” gli atomisti: un’ “innominabilità” prossima al desiderio della loro “non-esistenza”.
[7] Così bloccato nelle sue aporie che un grande studioso della filosofia antica, Rodolfo Mondolfo; nel suo Problemi del pensiero antico (Zanichelli 1936) non si è peritato del minimo accenno a questa colossale aporia della quale ci stiamo qui occupando.
[8] Platone Opere complete – 6 – Timeo – Laterza 1974 - p.408.
[9] Platone Opere complete – 7 – Leggi, X – Laterza 1992 - p.324-325.
[10] Ivi p.325
[11] A Hermann Diels va il merito di aver raccolto, attraverso un paziente e decennale lavoro di ricerca e catalogazione, uno straordinario corpus di documenti relativi ai pensatori greci che precedono in ordine temporale la comparsa di Socrate sullo scenario filosofico ellenico. Un grave limite della raccolta, a nostro avviso, sta però nel fatto che viene ignorato ogni criterio cronologico e che i frammenti vengono classificati “per argomento”, accostando pertanto autori appartenenti ad epoche e contesti completamente differenti. Del 1879 è la pubblicazione del Doxographi Graeci, a cui segue Fragmente der Vorsocratiker, la cui prima edizione è del 1903. Seguita da altre edizioni (tra il 1906 e il 1922) l’opera, dopo la morte dell’autore (nel 1922), è stata curata con modesti aggiornamenti, mantenendo la struttura originaria, da Walter Kranz, sicché le edizioni posteriori al 1934 vengono citate con la doppia nominazione Diels-Kranz.
[12] Penso a Giovanni Reale e ai suoi seguaci, tra i quali includerei Matteo Andolfo, traduttore e curatore di quella dei Vorsokraticker di Diels-Kranz (Atomisti antichi - Bompiani 2001) concernenti l’atomismo che utilizzeremo e citeremo più volte. Andolfo pone un titolo veramente stupefacente al Capitolo III del suo saggio critico che precede la parte documentale, che suona: L’ontologia e la gnoseologia degli Atomisti come “inveramento” di Parmenide. Tale titolo appare meno stupefacente (o quanto meno se ne capisce il motivo) quando si constata che la sua analisi trae spunto da un saggio di Reale e Ruggiu proponente una rilettura “innovativa” del poema parmenideo, tale da lasciare spazio ad una “continuità” ontologica tra la molteplicità, in quanto doxa, e l’unità, in quanto aletheia. Su questa base le insufficienze teoriche parmenidee verrebbero, secondo Andolfo, “risolte” attraverso una sorta di “completamento” da parte degli Atomisti. È particolarmente interessante, a tal proposito, il seguente passo: «Certamente, la visione ancora pre-metafisica (ossia ancora al di qua della netta distinzione tra fisico e metafisico) degli Atomisti rende aporetica la loro soluzione, poiché una volta ammessa la Molteplicità originaria degli atomi come differenziazione intrinseca dell’Essere stesso e complementare alla sua unità [sic!], la necessità del vuoto come esplicazione del moto atomico è superflua dal punto di vista logico-metafisico, mentre regge solo se l’Essere è qualcosa che, pur essendo invisibile, è anche fisico: […]». Ovvero, l’atomismo materialistico “regge” soltanto se riconosce lo “spirito” dell’Essere parmenideo e vi si “auto-include”!
[13] Trai quali, in primis, Emanuele Severino.
[14] Aezio è un seguace eclettico della filosofia aristotelica vissuto nel I sec. ed è una fonte notevolissima di citazioni e testimonianze sulla filosofia antica. Il Diels lo studiò a lungo e arrivò ad ipotizzare una fonte più antica a cui Aezio avrebbe attinto (insieme al suo contemporaneo Ario Didimo) che indicò come i Vetusta placita, ritenendo che la composizione di essi fosse avvenuta nella prima metà del I sec.a.C. Da questa stessa fonte (sempre secondo il Diels) potrebbero derivare (in base alle analogie coi Placita) anche brani delle opere di Cicerone, Censorino e Filodemo. I Vetusta placita deriverebbero, a loro volta, dall’opera dossografica di Teofrasto, il cui influsso sarebbe presente sia in Ippolito che in Diogene Laerzio.
[15] Atomisti antichi, (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.121.
[16] Diogene Laerzio riferisce che nel catalogo di Trasillo (IX, 45-49) l’opera Sull’intelligenza viene attribuita al Democrito. (Atomisti antichi a cura di M.Andolfo, p.145).
[17] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 1981, p.655.
[18] Ivi, p.656.
[19] Ivi, p.694.
[20] Si potrebbe aggiungere che tale fenomeno è ubiquitario e appartiene ad ogni tempo. Anzi, in molti casi essere operatori della filosofia significa precipuamente “schierarsi” nel tenzone intellettuale. La figura del filosofo “fuori del mondo” e perso nelle sue meditazioni è uno stereotipo assai più letterario che reale.
[21] È Diogene Laerzio a riferirci (X, 13) che Epicuro negava l’esistenza di Leucippo (come peraltro l’assai probabile suo alunnato presso il democriteo Nausifane) nella frase « […] Secondo Epicuro ed Ermarco il filosofo Leucippo non sarebbe mai esistito, mentre altri – e tra questi l’epicureo Apollodoro – affermano che Leucippo fu maestro di Democrito.» (Diogene Laerzio Vite di filosofi, Laterza 1983, vol.II, p.404).
[22] Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti secondo la raccolta di H.Diels e W.Kranz (a cura di M. Andolfo) – Rusconi 1999 - p.263. Questa testimonianza è interessante anche per un’altra ragione, perché posta in rapporto al passo di Diogene Laerzio (67.A.2) dove si dice che Epicuro negava l’esistenza di Leucippo mentre il suo allievo Apollodoro di Tiro l’affermava, abbiamo qui una ulteriore smentita in ambito epicureo (qual è quello dei Papiri ercolanensi) dell’affermazione del maestro. Ciò conferma che tra i seguaci del filosofo del Giardino si era ben consapevoli dell’esistenza della figura di Leucippo, della sua importanza quale fondatore dell’Atomismo e forse di qualche manovra non proprio limpida ai danni della sua figura di filosofo.
[23] Aristotele Opere, vol.III, Fisica – Laterza 1983, p.37.
[24] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.105.
[25] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – vol. II, Laterza 1983, p.364-365.
[26] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.694.
[27] Ivi, p.684.
[28] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.686.
[29] Ivi, p.773.
[30] Ivi, p.695.
[31] Ivi, p.694.
[32] Aristotele Opere, vol.III, Fisica – Laterza 1983, p.37.
[33] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.695.
[34] Ivi, p.651-652.
[35] I Presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.694.
[36] Ivi, p.735.
[37] Ivi, p.694.
[38] Ivi, p.727.
[39] Ivi, p.694.
[40] Ivi, p.685.
[41] Ivi, p.689.
[42] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.773-774.
[43] Ivi, p.700.
[44] Diogene Laerzio Vite dei filosofi, Laterza 1983, vol.II, p.369.
[45] Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.153.
[46] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.694-695.
[47] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.672.
4.2 La questione leucippea.
La comparsa della tesi atomistica sullo scenario
della filosofia greca assume il significato
di un irruzione di pluralismo estremo nel
panorama di una fisica e di una metafisica
dominate dalla pervicace ricerca di un origine
“unica” per tutte le cose esistenti [48]. Un operazione di questo tipo deve aver
generato all’epoca uno sconcerto non facilmente
assorbibile, soprattutto nell’originaria
versione leucippea basata su un casualismo
ontologico che doveva apparire intollerabile.
Non meno intollerabile di quanto non appaia
anche nei tempi moderni, a giudicare dal
pervicace e ripetuto tentativo di “addomesticare”
l’atomismo leucippeo sostenendo, un impossibile
e surrettizia derivazione dall’eleatismo,
sulla base, come si è visto, di inconsistenti
notizie circa un alunnato di Leucippo presso
Zenone di Elea.
Ma non soltanto di questo si tratta, infatti
il problema non è tanto biografico quanto
filosofico, e sotto due aspetti entrambi
fondamentali: quello del metodo e quello
del merito. Per quanto riguarda il primo
aspetto va detto che la filosofia di Zenone
si costituisce attraverso un procedere logico-dialettico
che farà scuola e rimarrà esempio procedurale
per tutta la logica successiva. Ma ciò è
del tutto estraneo a Leucippo, e non soltanto
perché dai documenti che ci informano sulla
sua filosofia (e che verosimilmente ne riprendono
l’argomentazione) è del tutto assente questo
modo di argomentare, ma perché probabilmente
per esporre la fisica degli atomi sarebbe
del tutto inefficace. È infatti il discorso
zenoniano un tipo di discorso su base confutativa
prima che affermativa e quindi del tutto
inutile per proporre e descrivere una nuova
teoria fisica. Si aggiunga che sulla base
dei testi a nostra disposizione appare in
Zenone mancare completamente gli argomenti
fisico o cosmogonico e che persino quello
ontologico è reso pochissimo e con poche
tracce del tutto insignificanti e tributarie
di Parmenide [49]. La filosofia di Zenone, d’altra parte, si costituisce attraverso “ragionamenti”
logico-dialettici astratti (che anticipano
molti posteriori procedimenti matematici),
mentre quella leucippea è fatta di descrizioni
fisico-cosmologiche concrete; perciò esse
si muovono in direzioni completamente differenti
e sul piano ontologico del tutto opposte.
Ma vi è poi un problema specifico di merito,
in quanto l’obbiettivo che si pone Zenone
è quello di dimostrare l’inesistenza dell’infinito
e della molteplicità, mentre quella di Leucippo
è quella di porre un infinito (il vuoto)
come condizione dell’esistenza della molteplicità
degli atomi. C’è veramente da domandarsi
in virtu di quali stravaganti supposizioni
sia stato possibile collegare tra loro posizioni
filosofiche così puntualmente contrarie ed
oppositive.
Tolto di mezzo ogni riferimento all’eleatismo,
in quanto inconsistente e contraddittorio,
la domanda che ci si può porre è però se
la filosofia leucippea sia lo straordinario
frutto di un pensiero rivoluzionario e innovativo
oppure non abbia trovato dei precedenti a
cui appoggiarsi od agganciarsi, e in tal
caso quali siano questi precedenti e come
abbiano potuto porsi come prodromi dell’atomismo
leucippeo. Ma se teniamo presente che Leucippo
è uno ionio (probabilmente di Mileto) diventa
immediatamente chiaro come la sua filosofia
non sia che il coronamento di un lungo processo
evolutivo del pensiero greco-ionio [50].
Della vita di Leucippo si conosce poco o
nulla (ne è stata persino messa in dubbio
la reale esistenza) e non vi è nulla di certo
per poterne tracciare adeguatamente la figura,
la sua patria e le sue vere ascendenze culturali.
Le opere di lui sono poi, come si è visto,
spesso confuse (o fatte confluire) con quelle
del suo allievo Democrito [51]. Le fonti alle quali attingere sono pertanto
costituite dalla tarda biografia di Diogene
Laerzio e da un numero abbastanza limitato
di testimonianze che coprono un arco di nove
secoli. Sentiamo subito che cosa dice Diogene
(IX, 30 sgg., Vors. 67.A.1):
Leucippo nacque ad Elea; secondo certuni,
ad Abdera; secondo altri, a Mileto. Fu scolaro
di Zenone. Egli affema che le cose sono infinite
di numero e si trasformano le une nelle altre;
e che l’universo consta di vuoto e di pieno.
[…] [52]
Abbiamo fatto qui parlare per primo il biografo
per eccellenza, in quanto estensore del testo
più corposo su Leucippo, ma non dobbiamo
dimenticare che Diogene scrive nel III secolo;
quindi non possiamo esimerci dal chiederci
quali elementi di certezza egli potesse possedere
per affermare che Leucippo fosse di Elea
(ed in più allievo di Zenone) dal momento
che, per quanto ci risulti, prima di lui soltanto lo Pseudo-Galeno (Historia philosopha, 3) e Clemente Alessandrino (Stromata, I, 64) avevano affermato essere Leucippo
scolaro di Zenone; affermazione ripetuta
poi da Sant’Ippolito (Refutatio I,12) che verosimilmente lo desumeva dal
testo di Clemente di cui era certamente a
conoscenza. Quali elementi potessero avere
i sopra-citati per definire Leucippo scolaro
di Zenone non lo sappiamo, ma è certo che
questo alunnato di Leucippo sotto il famoso
eleate compare molto tardi e paiono quindi
legittimi seri dubbi circa l’attendibilità
di tale asserzione, tra l’altro maturata
in ambiti piuttosto estranei alla fisica
e alla cosmologia. Infatti è solo nello scritto
psudo-galenico (verosimilmente nato in ambito
medico-filosofico e più tardo rispetto agli
autentici scritti di Galeno) che compare
questa assoluta novità. Ciò poiché, in ordine
di tempo, la testimonianza più antica che
possediamo su Leucippo rimane ancora sempre
quella di Aristotele, il quale non cita mai
la patria d’origine di Leucippo né fa alcun
accenno a Zenone come suo maestro. Piuttosto,
nel considerarlo il fondatore della scuola
di Abdera (e nell’accostarlo costantemente
a Democrito) se non ci lascia pensare che
lo ritenga abderita neppure ce lo fa escludere.
Nell’ordine temporale della documentazione
di cui disponiamo lo Stagirita è seguito
poi da Aezio (I sec.), il quale invece sembra
avere un idea molto precisa di dove sia nato
Leucippo, laddove afferma (I, 3, 15, Dox.285, Vors. 67.A.12):
Leucippo di Mileto poneva quali principi
ed elementi del reale il pieno e il vuoto.
[53]
Ovviamente non è detto che Aezio, quattro
secoli dopo Aristotele, avesse maggiori elementi
per definire la patria di Leucippo, ma è
importante notare che comunque, sino a questo
momento, né di un suo alunnato presso Zenone
e tanto meno di una sua provenienza da Elea
si parla.
Ma torniamo alla già ricordata Historia philosopha (Hist. Philos., 3, Dox.601, Vors. 67.A.5), uno scritto già attribuito a Galeno
e poi rivelatosi da studi novecenteschi non
di lui, nel quale (parlando di Zenone) si
afferma:
Leucippo di Abdera, scolaro di costui [Zenone d’Elea], per primo arrivò alla scoperta degli atomi.
[54]
Quali elementi poteva avere questo misterioso
Pseudo-Galeno per rendere una simile affermazione?
Non possiamo saperlo come è ignoto il personaggio,
ma il fatto che nessuno prima di lui ne avesse
accennato appare certamente molto significativo.
Quel che è certo è che tale affermazione,
ritenuta di Galeno e complice il grande prestigio
di lui (ricordiamo che fu medico personale
degli imperatori Marco Aurelio e Commodo)
ha dato inizio a tutta una serie di deduzioni
circa Elea come luogo di nascita di Leucippo
che alla luce delle precedenti testimonianze
(verosimilmente più attendibili) appaiono
del tutto arbitrarie. La notizia di un presunto
alunnato di Leucippo sotto Zenone nasce dunque
in ambito romano intorno al II-III sec. e
quindi almeno sei secoli più tardi dell’esistenza
reale di Leucippo.
Ma torniamo a Diogene Laerzio per rilevare
un particolare non privo di significato,
ovvero che Diogene aggiunge quel «secondo
certuni, ad Abdera; secondo altri, a Mileto».Ciò
significa che egli sente il dovere di citare
anche l’esistenza di voci difformi sulla
patria di Leucippo e si deve presumere che,
se lo fa, è perché ha qualche dubbio sulla
veridicità della sua affermazione, anche
(e se non altro) in relazione sia all’omissione
di Aristotele e sia alla precisazione di
Aezio. Se vogliamo poi completare il quadro
delle nostre testimonianze abbiamo Sant’Epifanio
che nel IV sec. (Adversus haereses, III, 2, 9, Dox.590, Vors.67.A.33) parla di un «Leucippo di Mileto, o di Elea» [55] e ancora più tardi (VI sec.) Simplicio,
che ci riferisce di un «[…] Leucippo, di Elea o di Mileto (perché
su di lui c’è l’una e l’altra tradizione),
parteggiando per la filosofia di Parmenide
non seguì però la stessa via di Parmenide
e di Senofane […]» [56]
Dalle osservazioni e dalle citazioni sopra
fatte ne emerge che non vi è nessuna buona
ragione storiografica per affermare che Leucippo
sia stato scolaro di Zenone, poiché le testimonianze
in tal senso sono tutte molto tarde, essendo
la più recente in tal senso quella già citata
dello Pseudo-Galeno, che non sembra poter
risalire ad un epoca precedente la seconda
metà del II secolo o l’inizio del III. In
quanto a Diogene Laerzio, si sa come egli
sia uno straordinario “raccoglitore” di notizie
assai preziose, ma che non pare sufficientemnte
critico nel selezionare le sue fonti di informazione,
le quali sono poi, ricordiamolo, quelle del
mondo greco-romano in un pieno III secolo
ormai caratterizzato dalla forte presenza
della cultura cristiana e di quella neoplatonica
(ideologicamente nemiche e contrapposte,
ma, ovviamente, entrambe del tutto aliene
dall’occuparsi di un misterioso filosofo
ateo del V sec.a.C. se non per condannarlo).
Ma ammettiamo che lo Pseudo-Galeno sia personaggio
credibile e che abbia qualche buona ragione
per indicare Zenone come maestro di Leucippo,
occorrerà allora anche sottolineare il fatto
che egli definisce Leucippo come nativo di
Abdera. Dunque, secondo l’autore dell’Historia philosopha Leucippo dovrebbe essere un abderita che
per qualche ragione si sarebbe trasferito
ad Elea, oppure che avesse avuto qualche
occasione di prendere lezioni da Zenone in
qualche altro luogo. Ricordiamo che sino
a questo Pseudo-Galeno nessuno aveva mai
parlato di Zenone come maestro di Leucippo
e tanto meno che egli potesse essere nativo
di Elea; il ché avverà soltanto più tardi
con Diogene Laerzio. Ora, se ci vediamo deduttivamente
indotti ad escludere ogni riferimento ad
Elea come luogo d’origine di Leucippo ci
si deve chiedere “come” e “dove” egli avrebbe potuto prendere
lezioni da Zenone fuori di Elea. Abbiamo
appreso nel Parmenide (127 a-b) platonico che Zenone, al seguito
di Parmenide, avrebbe soggiornato ad Atene
in occasione di una ricorrenza quadriennale
delle Grandi Panatenee [57]. Questa visita, in base ai dati biografici
e storici, avrebbe potuto avvenire intorno
alla metà del V sec.a.C. Bisognerebbe allora
presumere che: 1) Leucippo si trovasse ad Atene in quel frangente
e 2) Zenone vi tenesse lezioni di filosofia.
Supposizioni, entrambe, assai problematiche;
la prima perché non abbiamo notizia alcuna
di un soggiorno di Leucippo ad Atene, la
seconda perché sappiamo che Parmenide e Zenone
sarebbero stati nella città attica per ragioni
eminentemente politiche e non certo culturali.
Nella nostra ricerca volta a definire con
caratteri di sufficiente probabilità la patria
di Leucippo ci restano ancora tre possibilità
di indagine che non lasceremo cadere: a)
quella storica, b) quella geografica e c)
quella antroponimica. Relativamente alla
a) noteremo allora che Abdera sarebbe stata
fondata, secondo il mito, da Ercole, mentre
in realtà è colonia fondata e costituita
da emigrati di Clazomene verso la metà del
VII sec.a.C. Successivamente distrutta dai
Traci venne poi ricostruita da abitanti di
Teo (località poco a sud di Clazomene) in
fuga dall’avanzata dell’impero persiano;
sotto il cui dominio, comunque, Abdera cadde
nel 515, rimanendovi poi sino al 478 a.C.,
data alla quale entrò a far parte della Lega
delio-attica (rimanendovi sino al 411). Sono
proprio questi gli anni, a cavallo della
metà del V sec., in cui Leucippo, sempre
che di Abdera non sia nativo, è arrivato
in questa città, poiché Democrito (che vi
nasce nel 460 circa) potrebbe essere diventato
suo allievo dopo il 445.
L’insieme delle circostanze storiche sopra
ricordate ci lascia pensare che Leucippo
potrebbe aver fatto parte della seconda ondata
migratoria dalle coste ioniche verso aree
della Grecia più lontane dal centro del dominio
persiano, ma comunque raggiungibili abbastanza
facilmente. Clazomene e Teo sono città della
Lidia, che è regione confinante con la Caria,
e si trovano rispettivamente tra gli ottanta
e i settanta chilometri circa da Mileto,
che è una delle città più citate come possibile
patria di Leucippo, sia pure soltanto da
Aezio in poi. Il quale, in ogni caso, precede
di almeno due secoli Diogene Laerzio che
la indica invece in Elea (sulla scorta dello
Pseudo-Galeno), ma che non va dimenticato
l’associa comunque anche ad Abdera («secondo
alcuni») e a Mileto («secondo altri»). Ne
consegue che Mileto assume un grado di probabilità
di essere patria di Leucippo non molto inferiore
a quella di Abdera, in considerazione del
fatto che Aristotele, almeno in un caso (De caelo, III, Γ, 4, 303 a 4), si preoccupa
di aggiungere l’aggettivo “abderita” al solo
Democrito (οϊον Λεύιππος
τε καί Δημόκριτος
ό Άβδηρίτης) lasciandoci in sospeso reltivamente a Leucippo.
Non è inprobabile che lo Stagirita fosse
a conoscenza di voci che non davano Leucippo
come nativo di Abdera e che in tale occasione
abbia voluto precisare il luogo di nascita
di Democrito, astenendosi motivatamente dall’attribuire
la stessa provenienza al primo, in quanto
non era in possesso di elementi sicuri.
Per quanto riguarda l’elemento b) geografico
della nostra analisi va notato che Abdera
era facilmente raggiungibile dalle località
dell’Asia Minore sia via mare sia via terra
in un tempo relativamente breve. E d’altra
parte la temperie storica in cui si colloca
la vicenda della nascita della filosofia
atomistica rende possibile anche un eventuale
trasferimento di emergenza, senza grandi
difficoltà e in tempi abbastanza ristretti.
Si aggiunga che essendo Abdera fondata da
popolazioni ioniche, sia con la prima ondata
(da Clazomene) sia con la seconda (da Teo),
l’origine etnica della popolazione ne faceva
un contesto in cui non solo si parlava lo
stesso dialetto delle città della Caria e
delle zone limitrofe, ma in cui anche relativamente
ad ascendenze storiche e culturali, nonché
usi e costumi, essa poteva rappresentare
un contesto sociale relativamente famigliare
sia per un lidio che per un cario. All’opposto,
l’ipotesi di una provenienza italica di Leucippo
pare del tutto improbabile, sia perché l’unica
possibilità di trasferimento era quella via
mare, sia per la grande distanza esistente
tra la costa tirrenica e le coste settentrionali
dell’Egeo e sia, infine, poiché non si vede
la ragione per cui un greco di Elea avrebbe
dovuto lasciare una patria che stava attraversando
un periodo di grande prosperità (in seguito
alla caduta di Sibari e alle lotte con con
Poseidonia e Lao, nonché all’apertura dei
commerci con gli Etruschi (antichi nemici)
per cercare fortuna così lontano e in un
area funestata di recente dalle guerre persiane.
Rimane l’elemento c) antroponimico, di per
se stesso di importanza non trascurabile,
ma che correlato agli elementi sopra esaminati
risulta rafforzativo delle nostre tesi e
per alcuni versi dirimente. L’antroponimia è branca dell’onomastica che
stabilisce in termini storici, contestuali
e topologici, come un nome proprio di persona
sia nato, si sia diffuso in una certa area
e sia stato usato in quella o in altre aree.
Leucippo è il nome proprio di molti personaggi
mitici appartenenti ad un areale abbastanza
vasto che copre il mondo ellenico attorno
al Mar Egeo, concentrandosi tuttavia specialmente
nell’area peloponnesiaca meridionale e sulle
coste dell’Asia Minore. Va aggiunto che,
al femminile, il nome Leucippo veniva declinato
in Leucippe e che vi sono numerose eroine
mitiche con questo nome, la prima delle quali
(in una certa tradizione) sarebbe stata moglie
di Laomedonte (uno dei primi re di Troia)
e quindi madre di Priamo. In altre tradizioni
Leucippe è moglie di Testio (eroe etolo)
e madre di Ificlo (protagonista di leggende
tessali), in altre va riferita a Micene,
in quanto figlia di Testore e sorella di
Calcante (il mitico indovino omerico), in
altre ancora è madre di Euristeo (re di Tirinto,
Micene e Midea in Argolide). Emergono qui
una linea mitica principale, quella del Peloponneso
meridionale, ed in subordine quella troiana
e quella tessala. In ogni caso nulla che
possa riferirsi al mondo tirrenico. Per quanto
riguarda il nome maschile Leucippo abbiamo
almeno nove linee mitologiche derivate da
altrettanti personaggi mitici differenti.
Li elenchiamo in successione:
1. E’ figlio di Enomao (re dell’Elide) in
una variante laconica del mito di Dafne.
Innamorato della ninfa (e quindi concorrente
di Apollo) si travestì da ragazza per avvicinarla,
ma l’inganno gliela fece perdere definitivamente.
In un’altra versione più cruenta Artemide
venne a sapere dell’inganno e lo uccise.
In un’altra variante ancora è un Apollo geloso
che trova il modo di toglierlo di mezzo provocando
l’ira delle compagne di Dafne.
2. Nipote di Eolo (re di Messene), figlio di
Periere e fratellastro di Tindaro. Fu padre
di Febe e Ilera, che andarono spose a Castore
e Polluce. La leggenda era diffusa in ambito
peloponnesiaco (Laconia e Messenia) e collegata
alle imprese dei Dioscuri.
3. Figlio di Turimaco, re di Sicione (Argolide
settentrionale). La sua figlia Calchinia
venne ingravidata da Poseidone. Il figlio
che ne nacque (Perato) venne adottato da
Leucippo, che ne fece il suo successore.
4. Figlio dell’eroe cario Nasso (eponimo
dell’isola di Nasso), di cui Leucippo fu
re. Sotto il regno di suo figlio Smerdio
si verifica l’episodio dell’abbandono di
Arianna da parte di Teseo. E’ leggenda tipica
dell’ambito cario-egeo.
5. Figlio di Xantio (discendente di Bellerofonte).
Per una maledizione di Afrodite si innamorò
della propria sorella e ne diventò l’amante.
In seguito a vicende drammatiche legate al
suo incesto passò in Tessaglia e con dei
tessali fondò poi una colonia a Creta. Cacciato
dai compagni ritornò in Asia Minore e fondò
la città di Cretineone, nella regione di
Mileto. In una variante di questa leggenda
Leucofrine, figlia di Mandrolito di Magnesia
sul Menandro, aveva tradito la propria patria
per amore di Leucippo (che era a capo di
un esercito nemico).
6. Uno dei figli avuti da Eracle con una
delle figlie di Tespio (eroe eponimo della
città beota di Tespi). Eracle, come è noto,
è capostipite della stirpe dorica e quindi
appartenente ad una mitologia micenea e forse
pre-micenea. Tuttavia la sua diffusione ne
fa un personaggio mitologico quasi ubiquitario
di tutto il mondo ellenico e quindi difficilmente
riferibile ad una regione in particolare.
7. Figlio di Euripilo, personaggio mitico
le cui leggende si dispiegano tra la Tessaglia
e il Golfo di Patrasso. In altre varianti
Euripilo è un figlio di Posidone che regnò
su Cirene in Libia.
8. Figlio di Pimandro, eroe beota fondatore
della città di Pimandria (poi Tanagra). Leucippo
venne ucciso involontariamente dal padre
con un sasso che era stato lanciato contro
il muratore Policrito che l’aveva insultato
durante la costruzione delle mura della città.
In seguito all’involontario delitto Pimandro
dovette abbandonare la Beozia. Fu ospitato
da Achille che lo mandò in missione presso
Elefenore di Calcide, nell’isola di Eubea.
9. Leucippo è figlia di Galatea [58], una donna di Festo (Creta), sposata ad
un certo Lampro. Scopertasi incinta il marito
le esprime l’auspicio che ella partorisca
un maschio, nel caso di una femmina avrebbe
dovuto esporla e lasciarla morire. Quando
le nasce una bambina Galatea la veste da
maschio e le dà il nome di Leucippo. Crescendo
Leucippo diventò però una bellissima ragazza,
la quale, timorosa del padre, si recò al
santuario di Latona, chiedendole di poter
cambiare sesso. Desiderio che venne esaudito
dalla dea [59].
Come si noterà il nome Leucippo (così come
nella versione femminile Leucippe) ricorre
in un’area intorno al mar Egeo piuttosto
vasta e tuttavia circoscrivibile, che si
estende dall’Elide e dalla Messenia (a ovest)
alla Tessaglia (a nord) a Nasso e alla Caria
(a est) e a Creta (a sud). Non esiste nessun
riferimento al mondo tirrenico né a quello
più genericamente italico. Noi riteniamo
quindi che anche questo elemento antroponimico
possa costituire l’ultimo tassello della
nostra analisi e ci permetta, insieme con
gli altri elementi emersi più sopra, di giungere
alla conclusione che con buona probabilità
Leucippo potrebbe essere stato nativo della
stessa Abdera o ivi trasferito al seguito
di correnti migratorie, più o meno connesse
alle guerre persiane, provenienti da città
sulle coste dell’Asia Minore. Disponendo
però di alcune indicazioni (in primis quella di Aezio) che indicano in Mileto
la sua città natale (cfr. anche le leggende
4, 5 e soprattutto la 9) ci sembra di poter
ragionevolmente concludere che Mileto potrebbe
essere stata la città natale di Leucippo
o che da essa potesse provenire la sua famiglia.
Se la nostra analisi è corretta la provenienza
da Elea va quindi recisamente esclusa e con
essa il suo non meno improbabile alunnato
presso Zenone.
4.3) Leucippo.
Ci è ora possibile affrontare l’analisi della
filosofia leucippea in modo corretto, avendo
preliminarmente chiarito che si deve escludere
dal suo orizzonte il fumoso e improbabile
alunnato di Leucippo presso Zenone di Elea,
poiché non vi è, a dispetto di tutte le forzature
ermeneutiche di cui ha sofferto, alcun punto
di contatto col pensiero parmenideo e ancora
meno con quello zenoniano, che è incentrato
su questioni logico-dialettiche completamente
estranee al mondo ionico a cui Leucippo appartiene,
nonché all’indagine fisico-naturalistica
che lo guida. Siccome però è difficile pensare
Leucippo come un fungo che spunta improvvisamente
nel bosco del pensiero greco, occorre vedere
se sia possibile individuare qualche ascendenza
della sua filosofia che risulti più plausibile.
Noi pensiamo che non possano esserci dubbi
sul fatto che la filosofia leucippea si colleghi
“direttamente” a quella di Anassagora (che
la precede di non moti anni), della quale
costituisce una sorta di affinamento speculativo,
ma con la quale mantiene molti punti di contatto, individuabili
nell’analogia nous/movimento e in quella omeomerìe/atomi. D’altra parte è solo il caso di ricordare
che entrambi i filosofi provengonono dallo
stesso contesto culturale, quello dell Ionia
[60], che era già stata la culla del pensiero
fisico-naturalistico del VII e VI sec.a.C.
E tuttavia vi è in Leucippo una novità fondamentale
rispetto ad Anassagora ed è la teorizzazione
di un nuovo concetto fisico, il vuoto [61], in cui accade tutto ciò che di reale può
accadere e senza il quale non accadrebbe
nulla. Già i pitagorici avevano parlato in
qualche modo di vuoto, ma esso era in un
certo qual senso “incoerente” con la teoria
dei numeri e quindi improprio in quel contesto.
Per gli Eleati poi, com’è noto, il vuoto
era concetto fuori causa, semmai relegabile
nell’impossibilità del non-essere. Leucippo,
invece, elegge proprio il vuoto a fondamento della propria fisica, mettendo
con ciò in mora quel concetto di non-essere
eleatico fino a convertirlo (semmai ne avesse
tenuto conto) in origine e culla dell’essere
(quindi esso stesso elemento d’essere in
quanto lo rende possible). Ma, ed è novità
rivoluzionaria, il Nostro sostituisce l’unità
del cosmo con una dualità strutturale, che
è a sua volta origine di una pluralità di
costituenti elementari indivisibili [62]. Una filosofia che quindi non può, come
sostiene qualcuno, partire dall’unità eleatica
per “salvare” la molteplicità dei fenomeni,
ma che parte da questa per teorizzare il
rapporto cosmogonico vuoto-movimento-atomi,
in modo completamente avulso ed estraneo
all’“essere” parmenideo.
Ma a ben vedere il concetto di vuoto posto
da Leucippo corrisponde esattamente a quello
di spazio-vuoto in senso moderno, da ciò
il modo completamente nuovo con cui questo
ionio del V sec.a.C. concepiscela realtà,
con importantissime ricadute anche nel campo
scientifico. Aristotele (che nega il vuoto
sia perché esso sarebbe infinito e sia perché
in esso non ci sarebbero “luoghi” reali e
quindi sarebbe impossibile il movimento)
rimane invece concettualmente “aldiquà” del
vuoto leucippeo [63], che mostra di non comprendere, sostituendovi
il suo concetto di spazio, come sede del
moto dei corpi fisici in un universo statico
ed immutabile.
Il più importante scritto di Leucippo, l’opera
in cui risultava esposta la sua teoria fisico-cosmogonica
è, come si è già visto [64], la Grande Cosmologia, che deve essere sempre tenuta ben distinta
dalla Piccola Cosmologia, invece di Democrito. A causa di oscure
vicende, a cui si è già accennato, quest’opera
fondamentale della filosofia greca è andata
in gran parte dispersa, venendo inoltre in
seguito perlopiù assegnata al più famoso
e assai meglio documentato allievo [65]. Fortunatamente una parte di essa ci è pervenuta
attraverso Aezio, dossografo non sempre attendibile,
ma che in questo caso, per la coerenza discorsiva
del frammento, sembra doversi riferire a
una descrizione che potrebbe non scostarsi
troppo dall’originale. Si tratta del frammento
289 dal Doxographi Graeci di Diels (più tardi 67.A.24 [66] dei Vorsokratiker), che ci offre verosimilmente un passo importante
della Grande cosmologia, ma che si colloca sicuramente (si noti
l’inciso “allora”) dopo un’esposizione preliminare
andata perduta nella quale dovevano esser
teorizzati il vuoto, gli atomi e l’infinità dei mondi [67] :
(1) Il cosmo, allora, si costituì configurandosi
secondo una figura ricurva in questo modo:
essendo gli atomi soggetti a un moto casuale
e imprevedibile e muovendosi senza sosta
e velocemente, molti corpi si radunarono
in uno stesso luogo [e] per questo hanno
una tale varietà di configurazioni e di grandezze.
(2) Raccoltisi in un identico luogo, quanti
di loro erano più grandi e più pesanti si
collocarono nel punto assolutamente più basso;
quanti di loro, invece, erano piccoli, rotondi,
lisci e scorrevoli, venivano espulsi in corrispondenza
del sopraggiungere degli altri atomi e venivano
sospinti in alto, nella regione superiore.
Allora, al venire meno della potenza che
li sospingeva, sollevandoli verso l’alto,
l’impulso non li conduceva più verso la regione
superiore e per l’impedimento degli atomi
sottostanti non potevano venir condotti neanche
verso il basso, sicché si piegarono a comprimersi
nei luoghi dove c’era possibilità di essere
accolti. Questi erano i luoghi circostanti
e in essi si dispose la moltitudine degli
atomi. Essendosi intrecciati a vicenda lungo
tutta la curvatura di quei luoghi generarono
il cielo. [68]
Fin qui si possono evidenziare i seguenti
punti: a) l’universo ha un “inizio”, b) ha
una forma “curva”, c) gli atomi si muovono
di “moto veloce e intermittente” [69], d) questo moto è “casuale” [70], e) gli atomi si stratificano nel vuoto
in base al loro “peso”. Ma proseguiamo:
(3) Essendo svariati gli atomi della stessa
natura, come sopra si è detto, fuoriuscendo
verso la regione più alta, diedero compimento
alla natura degli astri. La quantità di atomi
fuoriusciti per evaporazione percosse l’aria
comprimendola. Quest’ultima allora prese
a soffiare secondo il movimento e trascinò
nel suo moto ventoso gli astri, girando circolarmente
con loro, e tuttora ne custodisce il movimento.
In seguito, dagli atomi rimasti nella sede
inferiore fu generata la terra, mentre dagli
atomi presenti nella regione superiore furono
formati il cielo, il fuoco e l’aria. (4)
Essendo rimasta ancora molta materia nella
terra, materia che si condensava sotto lo
sferzare dei venti e sotto l’influsso delle
auree astrali, si compresse tutta la configurazione
delle sue parti più piccole, generando la
natura umida: questa, per il suo carattere
fluido, fu portata verso il basso, verso
i luoghi cavernosi e idonei a recepirla e
a conservarla, oppure l’acqua stessa rese
certi luoghi cavi e idonei a farle da recipiente.
Le principali parti del cosmo furono generate
in questo modo. [71]
Prosegue il criterio “densimetrico” di stratificazione
dei corpi e la formazione del moto ventoso
circolare (il “vortice”), dove il vento generatore
è la forza che in un certo senso ordina la
struttura cosmica e custodisce il movimento
[72]. L’acqua si genera dalla terra “per compressione”
e va a riempire i bacini naturali che l’accolgono
mentre altri ne genera con la sua erosione.
Si noterà che fin qui la moltitudine degli
atomi pare andare a costituire i classici
quattro elementi già visti in Empedocle;
il fuoco, l’aria, la terra e l’acqua. Ma mentre nel filosofo di Agrigento questi
erano originari ed eterni, in Leucippo non
lo sono; essi sono già infatti natura “secondaria”,
di grado derivato da quella originaria (gli
atomi) di cui sono soltanto aspetti macroscopici
percepibili.
Nei suoi repertori documentali il Diels (Doxographi Greci del 1879 e Die Fragmente der Vorsokratiker del 1903 e seguenti) ha posposto al frammento
da cui sono tratti i due passi che abbiamo
citato (e con lo stesso numero di catalogo)
un brano di provenienza completamente diversa,
che egli ha tratto dall’Epistola a Pitocle di Epicuro resaci da Diogene Laerzio. Ancorché
tale associazione verrebbe a confermare la
nostra tesi, in quanto nella penultima frase
si esprime chiaramente contro la necessità, affermando:
[…] Infatti non deve solo generarsi un coacervo
atomico né un vortice nel cui vuoto venga
per necessità ricevuto il cosmo, affinché
questo si generi, come si opina comunemente,
un cosmo che poi si crescerebbe sino a venire
in urto con un altro, come sostengono alcuni
dei cosiddetti “fisici”. Ciò, infatti, è
in contrasto coi fenomeni. [73]
ci sembra corretto non accettare questo “incollaggio”,
in quanto si tratta di un testo epicureo
e soltanto in via induttiva riferibile ad
un precedente testo leucippeo. Anche se sembra
assai probabile la mala fede di Epicuro nel
negare l’esistenza di Leucippo ciò non significa
che egli, in questo brano dell’Epistola a Pitocle, “ripeta” un passo della Grande cosmologia, mentre è assai più probabile che egli faccia
riferimento alla Piccola cosmologia di Democrito, certamente più nota all’epoca
e probabilmente ancora in circolazione e
di cui contesta però la necessità causale a fronte di un «come si opina comunemente»
e di un «come sostengono alcuni dei cosiddetti
“fisici”». Com’è noto Epicuro, infatti, col
concetto di “declinazione” della caduta degli
atomi (parenklisis-clinamen), re-introduce il caso nella fisica atomistica. Proprio quel caso che Democrito aveva espunto e sostituito
con la necessità.
Riteniamo qui opportuna una breve digressione
di carattere scientifico, per sottolineare
come la teoria atomistica leucippea riveli
sì delle straordinarie intuizioni, ma come
rimanga comunque assai lontana dalla realtà
fisica che la scienza moderna va evidenziando.
L’atomo reale è, in effetti, costituito di
un minuscolo “pieno” dotato di peso (il nucleo)
e di un (proporzionalmente) enorme “vuoto”,
che lo circonda e in cui si muovono gli elettroni
(che hanno peso quasi nullo). L’atomo è quindi
una struttura costituita nella massima parte
dal vuoto e con al centro un nucleo infinitamente
piccolo, ma che può pesare anche relativamente
molto. C’è di più, il peso è realmente un
“pieno”; infatti un atomo di piombo è più
pieno di uno di ferro, poiché il suo peso,
ovvero la sua massa, è 207 contro 56 circa,
dove questa massa è data dal numero di protoni
e neutroni che costituiscono il nucleo. Quanto
maggiore è il numero di queste particelle
pesanti tanto meno l’atomo è vuoto. Presi
due corpi standard di eguale volume (per
es. 1 dm) dei due metalli, quello di
piombo è realmente “più pieno” di protoni
e neutroni rispetto a uno di ferro, ed inversamente
“meno vuoto”. Se prendiamo un atomo leggerissimo
come quello dell’idrogeno (che ha massa 1)
potremo dire che esso è 56 volte più vuoto
di quello del ferro e 207 volte più vuoto
di quello del piombo. Riteniamo pertanto
che un enunciazione della teoria di Leucippo
che non tenesse conto di queste nostre precisazioni
(e venisse gabellata tout court per “anticipazione” della fisica moderna)
potrebbe generare equivoci gnoseologici assai
gravi. Infatti, gli atomi leucippei (a differenza
di quelli reali) sono “tutti pieni” e per
di più “forme” e non masse.
Concludiamo l’analisi del frammento Dox. 289 della Grande Cosmologia per ribadire (reperita juvant) come Democrito, introducendo e legando
assieme i due concetti di necessità e di vortice, per un verso abbia effettuato una sostituzione
della causa cosmogonica “prima”, ma nello
stesso tempo, pur mettendo così in ombra
il caso, non si sia poi peritato di negarlo chiaramente,
lasciandolo così sussistere “sullo sfondo”.
Da ciò il già citato equivoco aristotelico,
che imputava agli atomisti le contraddizioni
ben evidenziate nella Fisica (II, 4, 196 a 25-35) e da ciò la sviante
identificazione dell’atomismo democriteo
con quello del suo maestro, le cui disastrose
conseguenze cognitive già abbiamo evidenziato
al paragrafo 3.1. Ovviamente potrebbe anche
risultare legittima la tesi che le modificazioni
portate da Democrito all’interno dell’impianto
leucippeo debbano essere considerate come
una evoluzione di esso, nel senso che l’allievo
abbia cercato di delineare un passaggio dal
caos originario al relativo ordine del mondo
reale attraverso l’ “inserimento” della necessità in termini di cogenza (per salvaguardare
il relativo ordine del mondo reale). Ma anche
ammettendo ciò, in ogni caso, le due versioni
dell’atomismo differiscono per un punto di
partenza assai rilevante, che non può essere
omesso (come abbiamo già sostenuto) in quanto
concettualmente dirimente. [74]
Come abbiamo visto Aristotele mette insieme
il caso leucippeo e la necessità democritea come l’aspetto biunivoco di una
teoria sì interessante, ma fondamentalmente
incoerente:
Vi sono alcuni, al contrario che considerano
il caso come causa di questo cielo e di tutti
i mondi: ché dal caso deriverebbero il vortice
e il movimento che separa e dispone il tutto
secondo quest’ordine. [75]
Ma ciò che è ancora più interessante è il
fatto che egli ritenga qui che dal caso derivi,
attraverso il vortice e il movimento, l’ordine.
In altre parole, lo Stagirita ha perfettamente
tematizzato l’evidente contraddizione caso/necessità insita nel “pasticcio” di cui è vittima
l’atomismo e la compone riconoscendo il caso come origine del vortice e del movimento che crea l’ordine. Gli sfugge
però che l’ordine per Democrito è diventato
“necessitato” e che per una sortas di feed back concettuale la necessità va a sostiture il caso, contraddicendo con ciò Leucippo. Aristotele
evidentemente non possedeva elementi storiografici
che gli lasciassero intravvedere la la dicotomia
esistente tra l’originaria cosmogonia leucippea
e le varianti democritee, ma non era giunto
al punto di mistificare i dati al punto di
minimizzare la teorizzazione del caso, come una sorta di appendice della necessità.
Gli atomi per Leucippo erano delle pure “forme”
della materia e ad avere peso erano unicamente
i corpi da essi formati per aggregazione.
Tali elementi “primi” si differenziano per
“figura”, per “ordine” e per “posizione”.
L’importanza delle teorizzazioni di Leucippo
sono testimoniate dalla presenza (più o meno
esplicita) di esse nelle trattazioni filosofiche
posteriori, specialmente in quella di Aristotele.
Si noti che persino l’idealista e anti-atomista
Platone sembra quasi riprendere involontariamente
il concetto di vuoto leucippeo là dove afferma (Timeo, 51 a, b):
[…] e v’è poi una specie sempre esistente,
quella dello spazio, la quale è immune da
distruzione, e dà sede a tutte le cose che
hanno nascimento, e si può percepire senza
il senso, per mezzo d’un ragionamento bastardo
[intermedio tra ragione e percezione], ed
è appena credibile, guardando alla quale
noi sogniamo e diciamo esser necessario che
tutto quello che è e si trovi in qualche
luogo e che occupi qualche spazio, e che
quello che non è né in terra né in qualche luogo del cielo, non
è niente. [76]
E poco più avanti (52 d, 53 e):
Ecco dunque in breve il mio ragionamento
secondo che io penso. V’erano anche prima
che esistesse il cielo tre principi distinti,
l’essere, lo spazio e la generazione […]
[77]
Ma che cosa sono questo “essere”, questo
“spazio” e questa “generazione” se non dei
corrispondenti del “pieno”, del “vuoto” e
del “movimento” di Leucippo? E tuttavia,
è in Aristotele che noi ritroviamo maggiore
attenzione ai principi dell’atomismo. Scrive
egli nella Fisica (IV, 6, 213 b 31 - 213 b 1-4):
Ora [parla di Anassagora e dei suoi seguaci],
non è questo che si deve mostrare, ossia
che l’aria è qualcosa, ma che non vi è un
intervallo diverso dai corpi, né come separabile
né come esistente in atto, il quale separi
ogni corpo così da non essere continuo, come
affermano Democrito, Leucippo e molti altri
tra i fisiologi, o anche se sia alcunché
d’esterno a ogni corpo continuo. Ebbene,
costoro [Anassagora, ecc.] non giungono neppure
alle porte rispetto al problema, ma [vi giungono]
piuttosto coloro che sostengono che [il vuoto]
esiste. [78]
Veniamo ora al passo della Metafisica (I, A, 4, 985 b, 4-10) dove egli afferma:
[…] Leucippo, invece, e il suo compagno Democrito
affermano che sono elementi il pieno e il
vuoto, [considerando l’uno come essere, l’altro
come non-essere], identificando il pieno
e il solido con l’essere, il vuoto col non-essere
(perciò essi sostengono anche che l’essere
non esiste affatto più del non-essere, giacché
il vuoto è reale come il corpo), e secondo
loro queste sono le cause della realtà, e
cause in senso materiale. [79]
Il passo è chiarissimo; se il vuoto e il
pieno hanno pari dignità ontologica non si
vede come il non-essere parmenideo (ciò che
non c’è, ovvero ciò che è impossibile) possa
diventare il non-essere leucippeo (cio che
c’è, ed è reale). Eppure vi sono a tuttoggi
degli storici della filosofia che (come abbiamo
già sottolineato) osano ancora sostenere
che gli atomi leucippei deriverebbero da
un sorta di “frantumazione” dell’essere eleatico;
per cui Leucippo non negherebbe il primato
ontologico dell’essere di Parmenide (il tutto
“pieno”) ma si muoverebbe ancora sempre “all’interno”
della sua ontologia [80]. Come abbiamo già rilevato, la patente arbitrarietà
di una simile tesi è evidente: non solo Leucippo
si oppone all’ontologia di Parmenide, ma
la rovescia completamente. Il vuoto leucippeo
(il non-essere) può essere infatti inteso
anche quale realtà primaria che “rende possibile”
qualcosa come l’essere in atto; infatti,
può esistere un “pieno” poiché il vuoto genera
(o almeno consente) il movimento che lo crea;
perciò senza il vuoto il pieno semplicemente
non esisterebbe. Mentre, in teoria, il vuoto
(l’abisso di Esiodo o anche il “nulla”) potrebbe
esistere indipendentemente dal pieno. Se
la nostra analisi è corretta l’essere (il
pieno) non è più “origine”, poiché è il vuoto
(il non-essere) a diventarlo, assumendo questo
pertanto una priorità ontologica che risulta
del tutto opposta rispetto alla filosofia
eleatica.
Ma è il caso di soffermarci anche su un passo
che incontriamo poco dopo (I, A, 4, 985 b, 13-20) in cui Aristotele
muove agli Atomisti il rimprovero di non
aver approfondito l’origine del moto:
[…] Essi riducono, tuttavia, queste differenze
a tre, ossia alla figura, all’ordine e alla
posizione, giacché affermano che l’oggetto
si distingue per proporzione, per contatto
e per direzione; ma tra queste tre cose,
la proporzione si identifica con la figura,
il contatto con l’ordine, la direzione on
la posizione: difatti A differisce da N per
figura, AN da NA per ordine, Z da N per posizione.
Ma per quel che concerne il movimento, ossia
quale sia la sua origine e quale sia il modo
in cui esso è presente nella realtà delle
cose, anche questi filosofi, presso a poco
come gli altri, hanno lasciato correre per
negligenza. [81]
Questo rimprovero non ci sembra giustificato,
poiché allo Stagirita, in un eccesso di rigore
analitico, sembra sfuggire che il movimento
è intrinseco agli atomi e non una causa che
agisce su di essi. Gli atomi di Leucippo
sono tali in quanto dotati, come abbiamo
visto, di un movimento intrinseco, continuo,
casuale e imprevedibile. Sarebbe come se
noi volessimo separare uno spin dallo spinning della particella elementare cui afferisce. Se pure Democrito, come vedremo, sembra ritenere
questo moto intrinseco non attribuibile al
caso (ma ad una necessità interna agli atomi stessi) rimane il fatto
che questo movimento primario degli atomi
(che Aristotele sembra confondere col moto
secondario dei corpi) non può venire considerato
a parte, essendo un attributo “proprio” degli
atomi, inscindibile dal fatto stesso di “essere
atomi”.
Ma Aristotele coglie poi molto bene, e rende
con chiarezza, il pensiero atomistico relativamente
alla formazione e alle modificazioni degli
enti (Della generazione e della corruzione I (A), 8, 324 b 35, passim sino a: 325 a 28) :
[…] Ma sono stati Leucippo e Democrito quei
pensatori che, partendo da un principio conforme
alla realtà naturale, hanno dato le loro
spiegazioni con la massima correttezza metodologica
e mediante un unico procedimento razionale
che abbraccia tutti i problemi.
Alcuni filosofi antichi [gli Eleati] reputarono,
invero, che l’essere è necessariamente uno
e immobile; difatti, secondo loro, il vuoto
non esiste e il movimento non può, dal canto
suo, svilupparsi per il fatto che il vuoto
non ha esistenza separata, e neppure esiste
una pluralità di cose, perché non esiste
ciò che terrebbe disgiunta una cosa dall’altra;
[…]
Leucippo, invece, credeva di essere in possesso
di argomentazioni le quali, svolgendosi in
accordo con la percezione sensibile, non
avrebbe eliminato né la generazione né la
corruzione, e neppure il movimento e la pluralità
delle cose esistenti […] egli afferma che
il vuoto è non-essere e che nulla di ciò-che-è
si identifica col non-essere: difatti l’essere
nella sua più autentica accezione, si identifica
con ciò-che-è-tutto-quanto-pieno. [82]
4.4) Democrito
Prima di parlare specificamente di Democrito
dobbiamo fare una considerazione preliminare,
in relazione al suo maestro, poiché, come
è già stato sufficientemente rilevato ed
evidenziato, Democrito è autore della Piccola cosmologia, la quale, nel riprendere le tesi esposte
nella Grande da Leucippo, vi apporta alcune modifiche
assai importanti. Sarebbe storiograficamente
fondamentale poter effettuare qualche confronto
tra le due, ma per fare ciò dovremmo disporre
di frammenti omogenei, il ché non si dà,
purtroppo. Della Grande abbiamo quel frammento resoci da Aezio che è abbastanza significativo,
ma largamente incompleto, ed i frammenti
di cui disponiamo relativi alla Piccola non permettono un confronto diretto, e tuttavia
ci pare rendano bene la misura degli sviluppi
democritei. Su Democrito i dati biografici
sono abbastanza precisi (nato ad Abdera nel
460 circa e morto nel 370 a.C.circa) e le
testimonianze sulla sua vita e sul suo pensiero
piuttosto copiose (anche se largamente sofferenti
della confusione/sovrapposizione già ricordata).
Un’esposizione esauriente delle sue teorie
ce la offre la vita di Diogene Laerzio, la quale, quantunque
assai tarda, è sostanzialmente coerente con
le testimonianze più antiche. Diogene afferma:
(44) I punti fondamentali della sua dottrina
sono i seguenti: i principi originari dell’universo
sono gli atomi e il vuoto, tutte le altre
cose sono mera opinione. I mondi sono infiniti,
soggetti alla generazione e alla corruttibilità.
Nulla diviene dal non essere e nulla perisce
nel non essere. Gli atomi sono infiniti per
grandezza e per numero; si muovono vorticosamente
nell’universo e generano così tutte le cose
composte, fuoco, acqua, aria e terra; perché
anche queste sono unioni di determinati atomi,
che per la loro solidità sono impassibili
e incambiabili. Il sole e la luna sono costituiti
di tali masse atomiche levigare e sferiche
e così egualmente l’anima, che è identica
alla mente. La nostra vista è una conseguenza
della incidenza delle immagini sui nostri
occhi. Tutto accade secondo necessità; egli
chiama necessità il vortice che è la causa
della genesi di tute le cose. [83]
Le “immagini sui nostri occhi” sono quegli
eidola di cui Democrito è importante teorizzatore
(ripresi poi da Epicuro) e che vanno a costituire
l’elemento primo della teoria della conoscenza
dell’Abderita. Rispetto ad Aristotele che, come abbiamo
visto, vedeva l’insanabile contraddizione
tra la teorizzazione del caso come causa del cielo e della necessità come causa del mondo vivente, Diogene sembrerebbe
(sei secoli dopo) non registrarla più. E
in effetti (lo abbiamo visti al § 4.1) da
un certo momento in poi il fattore “caso”
in riferimento a Democrito viene perlopiù
abbandonato e si parla soltanto più di necessità. Ma non si deve pensare che ciò dipenda da
una sedimentazione conoscitiva, ma semmai
proprio dal fatto che il caso, nel suo significato ontologico, viene proprio
“espulso” dall’ambito della filosofia e confinato
nell’oblìo. Ma sull’argomento fisico-cosmogonico
non torneremo, concentrando invece la nostra
attenzione sugli aspetti più originali della
filosofia democritea, costituiti dalle sue
teorie di carattere astronomico, biologico,
fisiologico, antropologico, cognitivo ed
etico. Aristotele che pure non è stato tenero
con Democrito (ma assai più severo sarà Teofrasto
in De sensu [49 e ss.]) doveva avere una certa stima
di lui (almeno in campo biologico) quando
scrive (Della generazione e corruzione, I (A), 2, 315 a 30-35):
A dirla in breve, nessun filosofo si è occupato
di alcuna di queste questioni se non in modo
superficiale, ove si eccettui Democrito;
[…] [84]
Un resoconto sufficientemente ampio della
Piccola cosmologia è quello resoci da Diodoro Siculo (che lo
riprende da Ecateo di Abdera), il cui inizio
ricalca un po’ quello leucippeo visto a suo
tempo (Dox.289) ma senza alcun accenno al moto cosmogonico originario, per cui gli argomenti
sembrano svilupparsi “a valle” di esso. Ma
è proprio tale sviluppo a darci un’idea precisa
dello spessore teorico della ricerca filosofica
democritea, che appare il più grande naturalista
teorico precedente Aristotele. Riferisce
Diodoro (Bibliotheca historica I, 7, 1):
(1) Conformemente alla mescolanza originaria
di tutto il reale, la terra e il cielo condividevano
un’unica forma, essendo mescolate le loro
nature; in seguito, invece, con la separazione
reciproca dei corpi, il cosmo venne ad abbacciare
la struttura che lo configura e che è visibile
attualmente in esso […] [85]
Abbiamo qui una chiara esposizione di come
il cosmo all’inizio si presentasse come una
sorta di chàos esiodeo (che nel frammento leucippeo manca),
un regno dell’indistinto dove tutto era mescolato.
Ma in seguito le analogie si fanno stringenti:
[…] avvenne che l’aria assunse un moto continuo
e le sue componenti ignee furono condotte
nella sede atmosferica suprema, giacché la
sua natura tendeva verso l’alto a motivo
della propria intrinseca leggerezza [86]
Sono dal più al meno gli stessi termini del
frammento riferito a Leucippo, ma dove la
“leggerezza” viene da democrito riferita
al fuoco. Il seguito, rispetto al maestro,
non presenta importanti novità sino al punto
in cui viene detto:
(3) […] in molteplici luoghi si rigonfiarono
bolle di umidità, intorno alle quali sorsero
putredini circoscritte da sottili membrane,
il ché è tutt’ora visibile nei luoghi melmosi
e paludosi quando si verifichi simultaneamente
il rafreddarsi della regione in questione
e l’infuocarsi repentino dell’aria, anziché
un suo mutamento progressivo e graduale di
temperatura. [87]
Qui il distacco dal frammento leucippeo appare
evidente, si parla di “putredini” e di “temperatura”,
concetti non più puramente cosmogonici ma
decisamente “biologici” e rivelativi di un’attenta
attività osservativa a base della teoria.
Ma occorre qui definire ciò che è all’origine
della vita, che per Democrito è l’anima.
Un concetto molto importante per l’abderita,
per il quale però l’anima è principio vitale
rigorosamente materiale (in quanto “soffio
vitale” del corpo) secondo la miglior tradizione
greca, ma anche centro della sensibilità
e della nobiltà umana. Vediamo come Aristotele
ci delinea l’anima democritea (De anima, I (A), 2, 404 a, 1-9):
Onde Democrito afferma che essa è una sorta
di fuoco o di calore: essendo infinite le
“figure” o atomi, quelli sferoidali li chiama
fuoco e anima (paragonabili a ciò che noi
diciamo corpuscoli sospesi nel pulviscolo
e che appaiono nei raggi di sole penetranti
attraverso le imposte). L’intera riserva
di tali semi dice che costituiscono gli elementi
di tutta la natura (e lo stesso pensa Leucippo)
e che gli atomi sferoidali costituiscono
l’anima per la grandissima facilità di siffatte
forme a penetrare dovunque e a muovere tutto
il resto, essendo esse in movimento, giacché
questi filosofi suppongono che l’anima imprime
agli esseri il movimento. Perciò riguardano
la respirazione come il criterio della vita.
[88]
E segue un’ulteriore precisazione, dove Aristotele
coglie un altro aspetto assai importante
dell’anima democritea, ossia la sua coincidenza
con l’attività pensante. Essa infatti non
è più soltanto ciò che col suo soffio dà
vita a un corpo, ma è il centro delle attività
intellettive (la mente) (I (A), 2 405 a,
8-13):
[…] Ancor più sottilmente si è espresso Democrito
dimostrando il perché di ciascuno di questi
due caratteri: l’anima è lo stesso che intelletto,
e consiste di corpi primi e indivisibili
e può imprimere il movimento per la piccolezza
e la forma delle parti: aggiunge che la forma
più suscettibile di movimento è la sferoidale
e che di atomi siffatti consistono l’intelletto
e il fuoco. [89]
Veniamo ora ad un’altro aspetto estremamente
interessante del pensiero di Democrito, che
traiamo dal già citato frammento di Diodoro
Siculo, quello concernente le sue considerazioni
antropologiche:
(8,1) […] riguardo agli uomini originari,
si dice che conducevano una vita disordinata
e selvaggia, disperdendosi a pascolare e
a procurarsi le piante ritenute più confacente
al proprio e i frutti che spuntavano spontaneamente
sugli alberi. (8,2) Essendo sempre in lotta
con le fiere, l’amor proprio fece loro imparare
a soccorrersi a vicenda, mentre la paura
li portò ad associarsi, e così col tempo
appresero a riconoscersi tra loro tramite
particolari dell’aspetto. (8,3) A poco a
poco la loro voce smise di emettere suoni
inarticolati e privi di significato e imparò
ad articolare vere e proprie parole sino
a che convenirono tra loro parole atte a
simbolizzare ciascuna cosa da loro conosciuta
e alla loro portata, determinando, così,
il sorgere di una interpretazione globale
del mondo. (8,4) Siccome siffatte comunità
sorsero in ogni luogo abitato, la lingua
o il dialetto non potevano essere per tutti
identici, poiché accadeva che ciascuna comunità
coniasse proprie parole. Conseguentemente,
svariati e molteplici furono i caratteri
di quei dialetti e le prime comunità sorte
divennero le capostipiti di tutte le etnie.
[90]
Abbiamo qui una chiara interpretazione dei
primitivi problemi dell’uomo, della nascita
delle prime comunità, dei differenti linguaggi
e, sulla base di questi, dei primi gruppi
etnici. Per Democrito è quindi il linguaggio
a determinare l’identità sociale e non le
ragioni razziali. Ma ecco il seguito:
(8,5) I primi uomini conducevano una vita
faticosa, poiché non era stato scoperto ancora
nulla di quanto giova al vivere; pertanto,
erano nudi e privi di vesti, non abituati
a vivere in abitazioni e a servisri del fuoco,
e ignoravano anche che potesse esserci una
forma non selvatica di nutrimento. (8,6)Infatti,
ignorando che esistesse un modo per conservare
il nutrimento che traevano dai campi, non
si preoccupavano affatto di fare provviste
di frutti in vista di momenti di indigenza
e, così, in inverno molti di loro morivano
a causa del freddo e della mancanza di cibo.
[91]
Un’analisi antropologica ante-litteram, basata sulla pura riflessione filosofica,
che doveva fare scuola, attraverso Epicuro
e Lucrezio, fino a Giambattista Vico [92]. Così si chiude il brano:
(8,7) Non trascorse molto tempo, però, che
questi uomini, giovandosi dell’insegnamento
ricevuto dalle prove sperimentate, iniziarono
a ripararsi in caverne durante l’inverno
e a riporvi i frutti che potevano essere
in esse conservati: Una volta che, poi, conobbero
il fuoco e le altre cose che giovano al vivere,
non passò lungo tempo che scoprirono le arti
e tutte le altre cose utili al vivere comune.
In generale, pertanto, per gli uomini fu
maestra la necessità, che rese familiari
tali tecniche a questo essere che è ben notato
in sé di ausilii per tutti i suoi atti grazie
al possesso delle mani, della ragione e di
un’anima versatile. [93]
Qui la necessità assume il significato di “esperienza”, un’esperienza
determinata “necessariamente” dalle condizione
dell’uomo in un contesto dato; una necessità che attraverso l’esperienza forma la cultura.
In questa evoluzione il fuoco occupa una
posizione centrale, ma da un punto di vista
zoologico le mani sono (insieme alla ragione
e all’anima) un fattore determinante dell’evoluzione.
L’esperienza è legata alle “sensazioni”,
che non rivelano l’essenza della natura (gli
atomi e il vuoto che li accoglie) ma il “modo”
antropico di coglierli, di prenderne conoscenza
e di trarne esperienza pratica.
Un’osservazione di Sesto Empirico (Contro i matematici IX, 24) completa il panorama dell’antropologia
democritea:
Vi sono taluni i quali ipotizzano che la
nostra intuizione degli dèi sia sorta dallo
stupore provato dinanzi a quanto avviene
nel cosmo, e di questa opinione pare essere
stato anche Democrito, il quale asserisce
che gli antichi, osservando quegli eventi
delle regioni celesti che l’uomo subisce,
come i tuoni, i fulmini che lampeggiano,
le congiunzioni astrali e le eclissi soli
e lunari, terrorizzati credettero che fossero
dèi le cause di questi fenomeni. [94]
Ci sia concessa una breve digressione (facendo
un salto temporale di circa quindici secoli)
per notare che questi “antichi” sembrano
una pre-evocazione dei possessori di quelle
“menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni
gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime
fantasie” [95] in cui Giambattista Vico pone l’alba dell’umanità,
i quali:
[…] così, raminghi e soli, dovettero produrre
i figliuoli, con una ferina educazione, nudi
d’ogni umano costume e privi d’ogni umana
favella, e sì in uno stato di bruti animali.
E tanto tempo appunto vi bisognò correre,
che la terra, disseccata dall’umidore dell’universale
diluvio, potesse mandare in aria delle esalazioni
secche a potervisi ingenerare de’ fulmini,
da’ quali gli uomini storditi e spaventati
si abbandonassero alle false religioni di
tanti Giovi […] [96]
Passiamo ora ad occuparci della teoria gnoseologica
democritea sulla quale le maggiori informazioni
ci vengono ancora da Sesto Empirico (Adv. Math. VII, 135, Д):
Talora Democrito riconduce ciò che appare
alle sensazioni, nelle quali afferma che
non si manifesta alcunché di conforme al
vero, bensì solo di conforme all’opinione,
mentre la verità appartiene agli enti in
quanto partecipano degli atomi e del vuoto.
Infatti, Democrito sostiene che “ convenzionale
è il dolce, convenzionale l’amaro, convenzionale
il caldo, convenzionale il freddo, convenzionale
il colore, mentre veri sono gli atomi e il
vuoto». […] [97]
Il concetto di “convenzionalità” [98]delle sensazioni in Democrito era già stato
messo in rilievo da Galeno (De elementis secundum Hippocratem, I, 2, e De medica empiria 1259, 8) ed è elemento definitorio di una
conoscenza di grado inferiore. E poco dopo
Sesto precisa (Ivi, VII, 138, B 8):
Nei Canoni Democrito afferma che vi sono due forme di
conoscenza, l’una che si compie grazie alle
sensazioni e l’altra che si realizza tramite il pensiero
razionale, e chiama quest’ultima “autentica”,
riconoscendo che in essa si può confidare
per giudicare della verità delle cose, mentre
qualifica la prima come “inautentica”, negandole
affidabilità nella conoscenza della verità.
[99]
Eppure sarà proprio questa conoscenza inautentica
ad avere fortuna negli sviluppi dell’atomismo
ed a passare praticamente immutata nella
filosofia di Epicuro come fonte unica del
sapere. Ma qual è il processo fisico attraverso
il quale si determinano le sensazioni? La
soluzione è piuttosto originale: la sensazione
è un fenomeno di “contatto” e si basa sulla
dinamica degli “effluvi” [100]. Tali effluvi sono i veri agenti del contatto
tra il soggetto percipiente e l’oggetto percepito
ed essi vengono chiamati da Democrito eidola. L’eidolon (lett: immagine) è un flusso di atomi che
costituisce una sorta di simulacro dell’oggetto,
che effluisce da esso e giunge agli organi
di senso del percipiente, dando così luogo
a quel tipo di conoscenza che riguarda i
sensi. Tuttavia Democrito conduce la sua
analisi gnoseologica distinguendo il fenomeno
concernente i sensi dal processo intellettivo
e razionale che eventualmente ne fa seguito.
Il pensiero razionale va allora tenuto nettamente
distinto dalla sensazione: l’esercizio della
ragione, ponendo principi teorici e su di
essi sviluppando l’approccio alla realtà,
integra e supera il mondo dell’esperienza
sensibile ed empirica verso una conoscenza
“autentica”.
Lasciamo ora il campo gnoseologico e passiamo
ad occuparci delle concezioni etiche di Democrito,
che non sono meno interessanti di quelle
fisiche, cosmologiche, biologiche ed antropologiche
appena esaminate e che ci rendono bene lo
spessore interiore del personaggio. Cominciamo
col vedere una testimonianza che ci riporta
in qualche misura all’utilizzo di Empedocle
degli dèi come metafora degli elementi (Etymologium Orionis 153, 5):
Secondo Democrito la saggezza è denominata
Atena tritogenia, poiché dal ragionare con
saggezza derivano tre conseguenze: il retto
volere, il retto parlare e il retto agire.
[101]
Aggiungiamo che qua e là Democrito usa l’aggettivo
“divino” col significato di “igneo”. Atomi
di fuoco sono infatti quelli che costituiscono
i corpi più leggeri e sfuggenti, e tra questi
l’anima. Un nemico del materialismo come
Clemente Alessandrino (Stromateis II, 130) ci dà un parere interessante su
Democrito, attribuendogli l’aver posto un
principio etico fondamentale, che verrà poi
ripreso da Epicuro in senso più spiccatamente
edonistico: quello di felicità. Ma qui l’accento
è messo sulla “disposizione d’animo” che
la genera, piuttosto che sull’esperienza
di essa:
Anche gli Abderiti insegnano a proporsi un
fine nella vita: Democrito, nel libro Sui fini, lo identifica con buona disposizione d’animo,
che denomina anche felicità, soggiungendo
spesso queste parole:«il diletto e il suo
contrario costituiscono il discrimine di
ciò che è da accogliere e di ciò che è da
respingere». Questo fine, pertanto, è proposto
come valido tanto per la vita dei giovani
quanto per quella di chi è già vissuto a
lungo.
Ci addentreremo ora nel campo che più specificamente
sembra aver caratterizzato l’etica dell’Abderita,
quello dell’aforistica. Ci troveremo a scegliere
tra quasi trecento aforismi a lui attribuiti
(alcuni simili) e riportati da vari autori;
ci sofferemeremo però solamente su quelli
che ci paiono più significativi od originali
[102]. Cominciamo con quelli citati da un certo
Democrate [103]:
38 - È cosa buona ostacolare coloro che compiono
ingiustizie; se non si riesce nell’intento,
è cosa buona non compiere ingiustizie con
loro.
40 - Gli uomini non divengono felici né con
i beni corporei né con il denaro, bensì con
la rettitudine e una cospicua saggezza.
45 – È ben più infelice chi commette ingiustizia
rispetto a chi la subisce.
50 – Non potrà mai essere retto chi si lascia
completamente sopraffare dalle ricchezze.
60 – È meglio biasimare i propri errori che
quelli altrui.
64 – Molte persone, pur essendo molto erudite,
non hanno intelligenza.
65 – Si deve coltivare la ricchezza del pensiero
e non l’erudizione. [104]
86 – È segno di arroganza mettere lingua
in ogni questione e non volersi porre mai
in ascolto degli altri.
98 – L’amicizia di una sola persona, che,
però, sia intelligente, è migliore di quella
di tutti gli uomini non intelligenti.
105 – La bellezza corporea è animalesca,
se non è accompagnata dall’intelligenza.
Proseguiamo con Plutarco (De pueri educandis 14, 9, F):
145 – Infatti, secondo Democrito, la parola
è ombra dell’azione.
Ed ora Porfirio (De abstinentia, 4, 21):
160 – Democrito ha detto che il vivere male,
dissennatamente, senza temperanza e in modo
empio «Non è tanto un vivere male, quanto
un morire diluito ampiamente nel tempo».
Numerose sono le massime riportate da Giovanni
Stobeo (Eclogae ethicae, II, 1, 12):
169 – un detto di Democrito: «Non bramare
di saper tutto, affinché non ti succeda di
trovarti a esser ignaro di tutto».
172 – Sentenza di Democrito: «La fonte da
cui ci derivano i beni è la stessa da cui
ci potrebbero provenire anche i mali, ma
possiamo evitare questi ultimi senza rinunciare
anche ai beni. Allo stesso modo, le acque
profonde sono di grande utilità e, nel contempo,
sono fonte di possibile danno: infatti, vi
è il rischio concreto di affogare in esse:
eppure esiste un mezzo per sfruttarne i benefici
tutelandosi dal pericolo: imparare a nuotare»
176 – La sorte è magnanima nel donare, ma
è incerta, mentre la natura è autosufficiente.
Perciò, la natura vince, con il poco, ma
certo, sul molto promesso dalla speranza
nella sorte. [105]
179 – Sentenza di Democrito: «La cultura
è un ornamento per coloro che godono di sorte
favorevole, mentre è un rifugio per chi sopporta
una sorte infausta».
181 - Sentenza di Democrito: «Appare più
opportuno esortare alla virtù servendosi
di ragionamenti persuasivi piuttosto che
di costrizioni legali. È verosimile, infatti,
che si lasci andare a compiere ingiustizia
di nascosto chi è fermato, in pubblico, solo
dalla legge, mentre non è verosimile che
compia azioni che deroghino ai propri doveri
né di nascosto né in pubblico chi sia persuaso
a ben agire. Pertanto, chi agisce rettamente
grazie al proprio giudizio e alla propria
conoscenza diviene simultaneamente virtuoso
e schietto».
187 - Sentenza di Democrito: «Per gli uomini
conviene tenere in considerazione più l’anima
che il corpo, poiché la perfezione della
prima pone rimedio al cattivo stato del secondo,
mentre la forza del corpo non apporta alcun
miglioramento all’anima se non è accompagnata
dalla capacità di ragionare».
190 - Sentenza di Democrito: «Non si devono
spendere parole intorno alle azioni» [106]
191 - Sentenza di Democrito: «La buona disposizione
d’animo si ingenera, negli uomini, dalla
misura imposta al godimento e dall’armonia
di vita: l’eccesso e il difetto, invece,
amano l’instabilità e inducono grandi turbamenti
nell’anima. Le anime perturbate dall’alterno
prevalere di stati fra loro grandemente opposti
non possono essere né equilibrate e stabili
né ben disposte. Pertanto si deve indirizzare
la propria attenzione alle cose possibili
e ci si deve accontentare di ciò che è alla
nostra portata, dandosi poco pensiero per
gli uomini che vengono invidiati e ammirati
e tanto meno ossessionandosi per la loro
condizione. Al contrario, si deve osservare
la vita di chi è afflitto da tribolazioni,
riflettendo su ciò che questi patisce in
forte misura, in modo che ti sembrino grandi
e invidiabili le cose che sono alla tua portata
e che possiedi e in modo che non ti accada
di soffrire nell’anima, desiderandone di
ulteriori. Infatti, chi ammira i facoltosi
e le persone ritenute felici da gli altri
uomini e si dà costantemente pensiero per
loro sarà necessariamente spinto a intraprendere
imprese sempre nuove, non escluso l’essere
indotti dal desiderio a compiere azioni irreparabili
e vietate dalla legge. Allora è opportuno
non bramare di conseguire qualunque cosa,
bensì ben disporsi nell’animo accontentandosi
di ciò che si possiede, confrontando la propria
vita con quella di chi ha una sorte peggiore,
ritenendosi felici in rapporto ai patimenti
sofferti da costoro e constatando quanto
sia migliore la vita che si conduce. Divenendo
consapevole di tutto questo, trascorrerai
la vita con animo disposto in modo ancor
più buono e respingerai con poche cause di
rovina della vita, quali l’invidia, la malevolenza
e l’animosità». [107]
201 - Sentenza di Democrito: «Gli stolti
desiderano vivere a lungo, ma non sanno godere
una lunga vita».
202 - Sentenza di Democrito: «Gli stolti
aspirano ai beni che non sono presenti e,
nel contempo, sperperano quelli presenti,
anche se risultano più vantaggiosi di quelli
passati»
203 - Sentenza di Democrito: «Gli uomini,
fuggendo la morte, finiscono per inseguirla».[108]
219 - Ancora di Democrito: «Un desiderio
di ricchezza che non venga mai limitato dalla
sazietà è molto più difficilmente tollerabile
della povertà estrema. Infatti i desideri
più grandi rendono l’indigenza altrettanto
grande».
221 - Sentenza di Democrito: «La speranza
di un guadagno, anche se si sa che è il frutto
di cattive azioni, è l’inizio di una perdita».
226 - Sentenza di Democrito: «La libertà
di parola è parte della libertà personale,
ma il rischio più reale concerne la capacità
di individuare il momento giusto per parlare».
231 - Sentenza di Democrito: «Ricco di comprendonio
è colui che non si doglie di ciò che non
ha, ma che si contenta di ciò che ha».
234 - Sentenza di Democrito: «Gli uomini
cercano di procacciarsi la salute dagli dèi
con gli auspici, ignorando di avere in se
stessi questa potenza; anzi, facendo, per
intemperanza, le cose opposte a quelli che
favorirebbero tale potenza, finiscono per
tradire essi stessi la propria salute, a
causa dei propri desideri». [109]
235 - Sentenza di Democrito: «A coloro che
si volgono ai piaceri del ventre, avendo
superato la misura conveniente sia nei cibi
sia nelle bevande sia nei piaceri d’amore,
i piaceri vengono decurtati in intensità
e di breve durata, nel senso che durano soltanto
finché banchettano e devono, mentre i dolori
sono molti. Infatti, il desiderio di tali
cose permane sempre e anche quando ottengono
ciò che desiderano il piacere s’invola velocemente
e non reca loro alcun giovamento, anzi, il
godimento si abbrevia e hanno di nuovo spasmodico
bisogno di quegli oggetti di piacere».
244 - Sentenza di Democrito: «Anche quando
sei solo, non essere malvagio né nelle parole
né nelle opere: impara, invece, a vergognarti
molto più innanzi a te stesso che agli altri».
[110]
247 - Ancora di Democrito: «Al sapiente ogni
terra è accessibile, poiché tutto il cosmo
funge da patria dell’anima che è buona».
[111]
251 - Sentenza di Democrito: «La povertà
in democrazia è ancora più auspicabile della
cosiddetta felicità sotto il dispotismo,
almeno quanto la libertà è più degna di scelta
della schiavitù». [112]
255 – Quando coloro che non sono privi di
mezzi ardiscono di mettere a disposizione
degli indigenti le proprie sostanze, assistendoli
e aiutandoli, già in questa scelta si palesano
la compassione, la solidarietà e l’amicizia,
nonché il soccorso vicendevole, la concordia
cittadina e altri beni che nessuno riuscirebbe
a elencare completamente. [113]
269 - Sentenza di Democrito: «L’audacia è
principio di azione, la sorte è signora dell’esito
dell’azione».
290 - Sentenza di Democrito: «Scaccia, con
la riflessione, il dolore dell’anima, poiché
quello, essendo libero da vincoli, finisce
per addormentarla».
Contrariamente a ciò che avviene nella convenzionale
storicitica passata e corrente, con la quale
si enfatizza il contenuto della fisica e
della cosmologia democritee (in realtà sostanzialmente
dipendenti da quelle di Leucippo e con sviluppi
modesti rispetto ad esse), noi pensiamo sia
venuto il momento di rivedere questo giudizio.
Gli aforismi succitati ci dicono che l’etica
atea di Democrito si lega direttamente alla
sua cosmologia e al suo naturalismo, con
quel tocco di saggia umanità ed ironia (in
tal senso va intesa la sua fama di “philosophus
ridens”) che gli permette di realizzare l’ideale
dell’eutimìa. Essa è un’etica profonda, assai lontana
dagli schematismi ideologici platonici e
le scienze della natura si sposano coerentemente
con criteri comportamentali assai avanzati
(si pensi solo al cosmopolitismo) [114]. D’altra parte, la sua cultura era così
enciclopedica (si dice abbia scritto settanta
opere sui più vari argomenti), essendosi
occupato persino di grammatica e di estetica,
che ce n’è quanto basta per farne uno dei
più grandi pensatori dell’antichità, senza
dovergli attribuire quel che non gli compete
[115].
Se si considera che egli è contemporaneo
di Socrate, altra straordinaria figura dell’epoca
in campo etico (e attraverso Platone imposta
come dominante alla cultura greca dell’epoca
successiva) si può cogliere la sostanziale
originalità “pragmatica” dell’etica democritea
rispetto a quella più “idealistica” di Socrate
(ma probabilmente assai “platonizzata” dal
suo famoso allievo). Alla perentorietà del
socratico “conosci te stesso”, a prescindere da ogni indagine che rapporti
l’uomo alla natura in cui è inserito e di
cui fa parte (come ci testimonia Senofonte),
l’Abderita contrappone implicitamente un
più cauto “conosci la natura per conoscere te stesso”, e come ci testimonia il frammento n° 176
di Stobeo (vedi sopra) l “autosufficienza
della natura” va letta come l’orizzonte razionalmente
corretto e pragmaticamente esauriente in
cui inserire la riflessione sull’uomo, che
in essa va compreso e non estratto come un’entità
superiore, avulsa e indipendente. Agli stati
mentali indotti dal divino demone socratico
Democrito contrappone l’eutimia (εύθυμία)[116], la tranquillità d’animo che viene dalla
riflessione sulla natura e sull’’uomo, al
riparo dai turbamenti psichici. Va tuttavia
notato che, sul piano degli atteggiamenti
intimi e interpersonali, l’ironia del “non
sapere”, tipica di Socrate, sembra appartenere
anche al Nostro e renderli più vicini (vedi
Gnomologium Vaticanum, 743 e Greco-Syriaca dicta, 42).
Ci pare allora di poter dire, al di fuori
dei vieti schemi consueti, che l’etica “laica”
del V e del IV sec.a.C. nel mondo greco (fino
alle scuole ellenistiche) sia largamente
tributaria del pensiero democriteo. I concetti
di felicità, di misura (o del giusto mezzo),
della temperanza, dell’onestà morale, della
ricerca psicologica, sono già tutti presenti
in Democrito. Per di più l’immagine di filosofo
enciclopedico che Aristotele incarnerà ha
proprio nell’Abderita il più significativo
precedente. Il dominio culturale di quel
magnifico “pifferaio magico” che è stato
Platone, di cui tutti abbiamo subito più
o meno il fascino dialogico e mitico-letterario,
forse andrebbe contemperato con una maggiore
attenzione ad un pensiero un po’ più “secco”,
meno sgargiante e affascinante, ma che, al
contrario, cela assai più di quanto esibisca.
Con Leucippo e Democrito non solo il materialismo
atomistico riceve formulazione, ma anche
l’ateismo teoretico in esso implicito acquista
dignità filosofica. Ed esso viene delineato
in un modo sufficientemente esauriente, tale
da porsi come una vera e propria weltanschauung atea, comprendente una concezione generale
del mondo fisico e biologico forse incompleta
(e ovviamente dipendente delle scarse conoscenze
del tempo) ma concettualmente significativa,
unita ad un etica della ragionevolezza, dell’equilibrio,
della modestia e del senso della libertà.
A partire da queste premesse Epicuro porterà
innovazioni importanti, sia sul terreno gnoseologico
che su quello etico, ma ciò che sta alla
base della sua fisica è tributario di Leucippo
ed elementi importanti della sua leticagli
derivano da Democrito.
[48] Su questa nostra tesi non saranno ovviamente d’accordo gli studiosi della filosofia antica che definiremo genericamente “platonici”, come Giovanni Reale e molti altri prestigiosi esegeti (tra i quali includerei anche grandi studiosi del passato come lo Zeller, il Mondolfo e Vittorio Enzo Alfieri), che vedono nell’Atomismo, all’opposto di noi, una confema (o una semplice variante) del monismo eleatico.
[49] Diogene Laerzio è l’unico ad accennarne, in termini semplicistici, con le parole (IX, 29) «I punti fondamentli della sua dottrina sono i seguenti: i mondi sono molteplici, il vuoto non esiste.» proseguendo poi con: «La natura di tutte le cose deriva dal caldo e dal freddo e dal secco e dall’umido, che si mutano l’uno nell’altro. Gli uomini sono costituiti da terra e l’anima è una mescolanza degli elementi sopra detti, senza che nessuno di essi prevalga sugli altri.» (Diogene Laerzio Vite di filosofi, Laterza 1983, vol.II, p.363.)
[50] Siamo confortati nella nostra tesi dall’opinione di Theodor Gomperz, che nel suo Pensatori greci (La Nuova italia 1967, p.74) così si esprime sull’argomento: «Poiché qui come in altri punti, la loro teoria è, per così dire, la somma di tutto il lavoro compiuto dai loro prdecessori; l’atomistica è stata il frutto ormai venuto a maturazione dell’albero dell’antica dottrina della materia quale era stata concepita e sviluppata dai filosofi naturalisti della Jonia».
[51] Hermann Diels, nel Vorsokratiker (II, 80), avendo raccolto testimonianze
nettamente divergenti su Leucippo, ne aveva
già concluso che la causa era da imputarsi
alla creazione nel IV sec. a.C. del Corpus Democriteum, in cui erano stati acriticamente messi insieme
scritti di Democrito e di Leucippo.
[52] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.643.
[53] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.105.
[54] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.646.
[55] Ivi, p.660.
[56] Ivi, p.650.
[57] Diogene Laerzio afferma invece: « […] Egli infatti amò la sua patria […] e la preferì all’inutile orgoglio degli Ateniesi, presso i quali non volle mai recarsi, rimanendo in patriaspe tutta la vita.».
[58] Esiste anche un’altra (e più nota) eroina mitica di nome Galatea (figlia di Nereo e amata da Polifemo) che appartiene alla mitologia della Sicilia. In questo caso però non appare nessun personaggio di nome Leucippo.
[59] Si ricorda che Latona (o Leto) è divinità originaria dell’Asia Minore e che secondo la leggenda si è unita con Zeus a Didima (località presso Mileto) e che da quel momento fu vittima della gelosia di Era. Da ciò il suo vagare in cerca di un posto sicuro (che sarà l’isola cicladica di Delo) dove partorirà Apollo e Artemide). Didima (16 km da Mileto) col suo santuario dedicato ad Apollo fu uno dei complessi cultuali più importanti della Grecia. Già attivo in epoca arcaica subì distruzioni e ricostruzioni fino all’erezione el grandioso tempio diptero in epoca ellenistica.
[60] Tra Clazomene e Mileto vi erano circa cento chilometri.
[61] Osserva l’Alfieri: «La premessa logica fondamentale dell’atomismo, per mettere il pensiero in accordo con l’esperienza, è l’affermazione della realtà, e quindi della pensabilità, del non-essere. E, posta l’identificazione eleatica, conforme all’indistinzione verità-realtà, tra essere e pieno, non-essere e vuoto, è così conquistata l’effettiva ed effettivamente pensabile esistenza del vuoto: che è il fondamento necessario per ammettere la molteplicità.» (E.V.Alfieri Atomos idea – Le Monnier 1953 – p.50).
[62] Nota il Farrington: «La logica richiedeva che alla base del mondo della mutabilità ci fosse qualche sostanza permanente. Il buon senso richiedeva che la chiara testimonianza dei nostri sensi relativa all’esistenza di un mondo molteplice e mutevole, non venisse sacrificata alle pretese della logica. La dottrina di Leucippo soddisfaceva entrambe le esigenze.» (Op.cit. p.48).
[63] Va notato che il concetto di vuoto in Leucippo è molto significativo per intuire
l’assoluta grandezza di questo poco conosciuto,
trascurato ed “equivocato” filosofo. Ma si
equivocherebbe ancor più se lo si considerasse
un’anticipazione del vuoto fisico reale (cosmico
e quantistico) quale ci viene reso noto dalla
scienza contemporanea. In effetti questo
è un “quasi–pieno” di particelle “virtuali”
(ma sperimentalmente rilevabili) che, in
un certo senso, sono “in lista d’attesa”
per divenire realtà. Ciò che ha preceduto
il big-bang è proprio questa pseudo-realtà
“non-ancora-reale”: un vuoto quantistico
in attesa di dar vita a particelle elementari
di materia “reale”.
[64] Cfr. § 3.1 pp.98-99.
[65] Va comunque notato che gli esegeti moderni tendono a riattribuire la Grande Cosmologia a Leucippo. Anche lo Zeller era di questo avviso e sull’argomento ha scritto: «Il fondatore della dottrina atomistica è Leucippo. Le idee di questo filosofo ci sono tramandate però in modo incompleto, che tra esse e le opinioni del suo discepolo Democrito non potremo operare una distinzione nel corso della nostra esposizione. Da questa comunque risulterà che tutti i fondamenti del sistema sono già contenuti nelle teorie del maestro e che il suo famoso discepolo, come indagatore della natura, non fa che costruire le sue tesi su di essi, senza modificarli in alcun punto essenziale.» (E. Zeller – R. Mondolfo La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – pp. 137-140).
[66] Il Diels ha associato a questa prima parte della testimonianza una seconda parte, tratta dall’Epicurea dell’Usener, che noi riteniamo non riferibile a Leucippo e verosimilmente (ne ha tutti gli elementi) concernente ivece la fisica epicurea.
[67] È singolare come la tesi della pluralità dei mondi posta da Leucippo attraversi la storia della filosofia con numerosi ritorni (basti pensare a Giordano Bruno) per trovare conferma da parte di non pochi cosmologi moderni (Dennis Sciama, Andrei Linde, Lee Smolin e altri). La pluralità dei mondi è implicita anche nella cosiddetta Teoria delle Superstringhe ed è sottintesa nella teoria del Pre-big-bang che di essa è figlia, formulata all’inizio degli anni ’90 da Gabriele Veneziano (il “primo padre” della teoria delle stringhe). Secondo questo fisico teorico il big-bang che ha dato luogo al “nostro” universo non è che la fase esplosiva di un processo formativo nato da un buco nero di grandi dimensioni, a sua volta nato (insieme a molti altri) in un vuoto quantistico preesistente ed a causa di una perturbazione di esso (cfr. Le scienze - n°429 – maggio 2004 – pp.40-49).
[68] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.113.
[69] Vittorio Enzo Alfieri individua nel suo Atomos idea (Le Monnier 1953 – p.84-85) tre specie di movimento impliciti nella teoria atomistica: 1) il movimento pre-cosmico, 2) il movimento cosmogonico e 3) il movimento degli atomi nel cosmo.
[70] La casualità può essere qui intesa nel senso posto dallo Zeller (E.Zeller-R.Mondolfo La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969 – p.189 e ssgg.), il quale però, stranamente, incorre, secondo noi, in qualche contraddizione, intendendo il “caso” come qualcosa di imputabile a cause non-naturali, ovvero come se si trattasse della divina Tyche: «Questo movimento si può chiamare casuale, solo se per casuale s’intende tutto ciò che non risulta da un’attività finalistica; ma se per casuale s’intende invece un evento che non procede da cause naturali, ciò non s’addice certo agli Atomisti, i quali invece affermano espressamente che nulla nel mondo avviene per caso e che tutto deriva necessariamente da cause precise;» e fin qui saremmo d’accordo anche noi, purché si sottolineasse che in tal caso (nella casualità) le cause “si sconnettono”, ovvero non sono linearmente conseguenti (cfr. Necessità e Libertà, § 3.3). Poi però lo Zeller aggiunge: «e del resto così anche Aristotele come i più recenti scrittori ammettono che gli Atomisti tengono fermo alla necessità di tutto ciò che accade senza eccezione, riconducendo anche ciò che sembra casuale alle sue cause naturali e riuscendo così a dare un’interpretazione rigorosamente fisica dei fenomeni naturali, con una coerenza sconosciuta ai loro predecessori.» e poi conclude con la frase più interessante (in cui noi cogliamo una patente contraddizione): « […]: la necessità naturale è per essi una forza che agisce ciecamente;». Infatti si dice proprio del caso che opera “ciecamente” e “senza necessità”; ma ci chiarisce poi appena dopo il suo punto di vista: «il loro sistema non conosce uno spirito creatore del mondo né una provvidenza nel senso più recente della parola;». Ma sia uno spirito creatore che la provvidenza non determinano forse “sempre” una “necessità” finalistica degli eventi naturali? E ciò non è forse messo in mora proprio dalla casualità?
[71] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.113.
[72] Si notino le forti analogie col nous anassagoreo.
[73] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.115.
[74] È interessante notare come lo Zeller, che parrebbe un convinto negatore del caso e invece assertore della necessità come principio-base dell’atomismo, si esprima nel seguente passaggio: «Essi [gli Atomisti] escludevano, d’altra parte, ogni spiegazione dei fenomeni naturali sulla base di concetti finalistici: la necessità naturale è per essi una forza che agisce ciecamente; […]» (E.Zeller-R.Mondolfo La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969 – p.191). Se non vi è finalismo e se una forza generatrice agisce “ciecamente” (al di là di come la si voglia chiamare) mi sembra difficile sostenere che tale forza non sia proprio… il caso.
[75] Aristotele Opere – vol.III, Fisica – Laterza 1983, p.37.
[76] Platone Opere complete, vol.6, Laterza p.406.
[77] Ivi p.407.
[78] Aristotele Fisica (a cura di M.Zanatta) – UTET – Torino 1999 – p.225.
[79] Aristotele Opere – vol.VI – Laterza 1973, Metafisica, p.19.
[80] Tesi espressa ripetutamente dagli ermeneuti idealisti del passato ed in tempi più recenti da Giovanni Reale.
[81] Aristotele Op. cit. ibidem
[82] Aristotele Opere – vol.IV – Laterza 1983, Generazione e corruzione, pp.43-45 passim.
[83] Diogene Laerzio Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, p.369.
[84] Aristotele Opere, vol.IV – Laterza 1983, p.8.
[85] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.265.
[86] Ibidem.
[87] Ivi, p.267.
[88] Aristotele Opere – vol. IV – Laterza 1983 – p.105.
[89] Ivi - p.108.
[90] Atomisti antichi (a cura M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.267-269.
[91] Ivi,p.269.
[92] Dell’influenza dell’atomismo sulle opinioni del giovane ha parlato Fausto Nicolini nei Brevi cenni della vita e delle opere di Giambattista Vico, che fungeva da introduzione a La scienza nuova (vedi Laterza 1974, p. XII): «Dato tutto ciò [ovvero il suo rapporto e la sua frequentazione con gli esponenti della nuova cultura “anti-gesuitica napoletana della seconda metà del sec.XVII], è affatto naturale che anche il Vico fosse condotto a quel De rerum natura di Lucrezio, che allora faceva girare la testa a non pochi “jeunes fous” napoletani (come li chiamava Antonio Arnauld) non senza orientarne più di uno verso l’ateismo.». Il Vico nel 1693 aveva pubblicato una canzone dal titolo Gli affetti d’un disperato, di chiara ispirazione lucreziana.
[93] Atomisti antichi (cura M.Andolfo) – Rusconi 1999 - pp. 269.
[94] Ivi, pp.181.
[95] Giambattista Vico La scienza nuova (Idea dell’opera) – Laterza 1974 - Vol.I
- p.9.
[96] Ivi – (Libro I, 1, 9) – Vol.I - p.59
[97] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p. 277.
[98] Il Gomperz accosta Democrito a Galilei nella suddivisione del conoscibile tra ciò che appartiene alla natura e ciò che appartiene alla convenzione umana. (Th.Gomperz Pensatori greci, vol II, La Nuova Italia 1967, pp.70-73).
[99] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p. 279.
[100] Secondo Platone (Menone 76 c) già Empedocle avrebbe teorizzato gli effluvi, ma sembra abbastanza probabile che egli accomunasse, generalizzando e indipendentemente dallo specifico, il pluralismo ontologico alla teoria degli effluvi.
[101] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.
261.
[102] La numerazione è quella progressiva del già citato Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 – da p.303 a p.367.
[103] Secondo il Mondolfo il nome Democrate sarebbe una corruzione di “Democrito” (E. Zeller – R. Mondolfo La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – p. 282) e in questo caso il dossografo non sarebbe altri che il filosofo stesso.
[104] In questo aforisma e in quello precedente è dato cogliere la distinzione tra erudizione (πολυμαθία) e sapienza (σοφία) [vedi 216 Stobeo]. Va comunque rilevato che Democrito usa poco il termine sapienza e gli preferisce quello di saggezza (Φρόνησις) e quello di intelletto o prudenza (πολυφροσύνη) come nell’aforisma n°40.
[105] Questo aforisma è stato letto da Vittorio Enzo Alfieri in Atomos idea… (vedi nota 120 dell’Andolfo a p.515 del citato Atomisti antichi […]) come una negazione del caso a favore alla necessità. A me pare che tale costante ricerca degli aspetti gnoseologici in un filosofo che su questo terreno riprende quasi integralmente Leucippo, mettendoci assai poco di suo, possa essere sviante. Penso invece che se ne dovrebbe cogliere il soggiacente significato etico, confermato dai numerosi aforismi concernenti l’accettazione di ciò che “la natura dà” (per es. il n°289) piuttosto che sulla speranza di ciò che “dovrebbe dare” secondo le umane aspettative.
[106] In modo più esplicito risulta qui espresso lo stesso pensiero del n° 145 (Plutarco).
[107] Questa lunga citazione, non priva di qualche oscurità e di qualche ripetizione, ci rende una sintesi dell’etica democritea che potrebbe essere così delineata: 1) il principio della “misura”, peraltro tipico di tutta la cultura greca, 2) il perseguimento della prudenza e della temperanza ad evitare turbamenti eccessivi, 3) perseguire ciò che è alla propria “portata”, senza inseguire velleitariamente gloria e successo, 4) astenersi dall’invidia di coloro che appaiono più fortunati, 5) controllare l’ambizione che può condurre a imprese negative e dannose per sé e per la comunità, 6) confrontare la nostra vita con chi ne ha una più difficile e non con chi l’ha più facile. In estrema sintesi evitare “invidia, malevolenza e animosità”.
[108] Mi sembra completamente ignorata da parte degli esegeti “letterari” la profondità “biologica” di questo aforisma nel quale lapidariamente viene colto il rapporto indissolubile vita/morte, rispetto al quale solo stoltamente si può separare “psichicamente” la morte dalla vita fuggendola, come se così facendo fosse possibile perpetuare la vita al di là delle leggi biologiche.
[109] Una professione di pragmatismo umanistico di straordinaria modernità. Una stigmatizzazione del “desiderio” irrazionale a cui Epicuro non aggiungerà nulla di nuovo.
[110] Solo apparentemente banale questa massima. Nella realtà è un puntuale richiamo all’autocoscienza, come tribunale etico delle proprie aspirazioni e delle proprie azioni.
[111] Una professione di cosmopolitismo e una straordinaria intuizione antropologica sulla “natura” dell’uomo e sulla sua “essenza”, al di là della contingenza di culture e razze.
[112] Vale la pena di riflettere sulla chiarezza e semplicità di questa enunciazione rispetto alla fumosa e ideologica auspicabilità del platonico “governo dei filosofi” (Repubblica, IV, passim).
[113] Non il “buonismo” moralistico, ma l’”opportunità” sociale della solidarietà e della generosità per la realizzazione di un contesto sociale “pragmaticamente” concorde e basato sulla “reciprocità” dei benefici.
[114] Unico elemento negativo (e non di poco conto) appare la sua misoginia, quale emerge dagli aforismi n° 110 e n° 111 dell’elenco del cosiddetto Democrate (Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti secondo la raccolta di H.Diels e W.Kranz (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 – p.313 e 315).
[115] Che Epicuro ignori completamente Leucippo al punto di fare soltanto riferimento a Democrito per le teorie atomistiche e che Aristotele non faccia distinzione tra i due, parlando sempre del secondo, può significare che in circolazione vi erano soltanto opere di Democrito e testimonianze su di lui. Ciò potrebbe aver determinato una situazione culturale contingente, dovuta anche all’evanescenza della figura di Leucippo, di cui si hanno probabilmente si avevano, già allora, elementi biografici scarsi e contraddittori.
[116] L’eutimia democritea e l’aponia (assenza di dolore) di Epicuro confluiranno nell’ atarassia (assenza di turbamento) della filosofia ellenistica in generale (epicureismo, stoicismo, scetticismo).