CAPITOLO IV

                                     Atomismo e ontologia pluralistica.

 

 

 

                                                INTRODUZIONE

 

    A seguire dai prodromi dell’ateismo veniamo ora ad occuparci di un indirizzo filosofico che appare nel V sec.a.C. e che si caratterizza precipuamente per uno spiccato materialismo e per l’eliminazione dal suo orizzonte di ogni elemento divino e trascendentalistico, determinando storicamente la prima vera weltanschauung atea. Avevamo peraltro rilevato che già anche il naturalismo milesio presentava quello spiccato carattere di rottura col mito che ci ha permesso di considerarlo anticipatore dell’ateismo. A tal proposito George Minois, nel suo Storia dell’ateismo, ci offre un’ottima sintesi del panorama culturale ellenico precedente il V secolo a.C.:

 

    Nel corso di un lungo periodo, dall’età arcaica fino al tempo dei presocratici, la distinzione tra ateismo e credo religioso è difficile da compiersi, in ragione di caratteri peculiari alla religione e alle correnti filosofiche. Tutte sono dichiaratamente ostili all’idea della trascendenza. La realtà ultima è la natura, increata ed eterna, di cui l’uomo è parte. Gli stessi dei sono calati nel mondo; eterni, ma dotati di forme corporee, essi intervengono costantemente nelle vicende umane, stabiliscono il destino, fanno conoscere i loro voleri per bocca degli oracoli, sono suscettibili di essere influenzati da pratiche magiche. La religione greca tradizionale è fortemente orientata verso un panteismo naturalistico fondato su un complesso di miti, evidentemente non più facenti parte  del vissuto, ma concettualizzati, rielaborati nella forma e spesso, e spesso degradati a leggende poetiche. In ambito popolare, questa religione è satura di un gran numero di superstizioni e di pratiche magiche e occulte. Tanto in alto che in basso è dunque una religione corrosa, che d’un canto si apre all’ateismo teorico, mediante la tendenza alla spiegazione simbolica dei miti, e dall’altro all’ateismo pratico, con l’assimilazione dei miti nella vita quotidiana. […]

    Le correnti filosofiche presocratiche, che si accostano alla realtà con abito razionale, mescolano natura e divinità, privilegiando a tal punto il primo termine, che il loro sostanziale panteismo rasenta l’ateismo. Non occorrerà molto a far scivolare la loro dottrina verso un materialismo naturalistico.

    L’idea essenziale di queste filosofie è che esiste una realtà sostanziale, senza inizio né fine, una “materia” (hylé) di cui tutti gli enti non sono che modificazioni: l’acqua per Talete, l’aria per Anassimene, il fuoco per Eraclito, la terra per altri. Questa materia prima è al contempo divina; essa è animata da un soffio, una sorta di spirito organizzatore, che la rende materia viva. Tale concezione ilozoista (da hylé,materia, e zoè, vita) è considerata generalmente come origine del materialismo […] [1]

 

Va detto che l’ilozoismo, in effetti, è sì anti-mitico, e in quanto tale può venire considerato pre-ateistico, ma per molti versi mantiene una tangenza con la religiosità abbastanza spiccata. Considerare tutta la materia come vivente e animata, e quindi dotata di una qualche forma di “psichicità”, è pur sempre un modo di ammettere una qualche forma di “divinizzazione” del cosmo [2]. 

     Ma prima di passare all’analisi dei testi vogliamo anteporre, quale introduzione all’argomento, una notazione storica estremamente interessante, poiché (per quanto se ne sappia) risulta essere, in assoluto, la prima citazione dell’ateismo, seguita dalla relativa formulazione della sua irrimediabile condanna. Si tratta di un passo de le Leggi (X, 885 b) in cui Platone definisce il proprio atteggiamento nei confronti di chi disconosce la religione e ne viola i principi dottrinali e comportamentali. Il padre dell’idealismo stigmatizza tre tipi di empietà, dal più grave al più lieve, in questi termini:

 

[…] Qualora agisca o parli così, ciò accade per una di queste tre affezioni che egli subisce, [1] o perché non crede a ciò di cui ho parlato, o , in secondo luogo, [2] perché pensa che pur esistendo gli dèi non si interessino degli uomini, o finalmente, in terzo luogo, [3] perché ritiene che con sacrifici e preghiere si possono facilmente placare e sedurre. [3]

 

L’ateismo teoretico vero e proprio è evidentemente soltanto quello relativo a [1], mentre il [2] corrisponde a quello che sarà anche l’atteggiamento di Epicuro, che all’epoca veniva considerato una sorta di ateismo attenuato. Il [3] evidentemente non ha nulla a che fare con l’ateismo e corrisponde piuttosto ai livelli più bassi della superstizione religiosa. Platone ci fornisce poi un’ulteriore precisazione, poiché l’ateismo radicale è per lui di due tipi, uno a) grave (l’ateismo pratico) e uno b) gravissimo (l’ateismo teoretico) (X, 908 d):

 

E infatti l’uno [a)] sarà, quanto al discorso, pieno di libertà di parola sugli dèi, i sacrifici i giuramenti, e, se non fosse punito, forse col ridere degli altri potrebbe rendere altri come lui, ma l’altro [b)] pensa come il primo e, d’altra parte, è stimato uomo di  spirito, pieno di astuzia, ingannatore […]

 

Ed ecco le sue “proposte di legge” (X, 908 e):

 

Ma per coloro che non obbediranno sia questa la legge sull’empietà: Se qualcuno commette empietà nelle parole e nelle opere, chi vi si imbatte difenda la legge e lo denunci ai magistrati; i magistrati che per primi ne avranno notizia lo portino davanti al tribunale [...]

 

E vediamo infine quali punizioni avrebbe voluto infliggere il buon Platone ai colpevoli di praticare l’ateismo pratico a) e quello teorico b) (X, 909 e):

 

[…] l’una [a)] è quella ironica e dissimulatrice e che commette errori che sono degni di morte non una volta sola, né due, ma di più ancora, l’altra [b)] che richiede l’ammonizione e insieme il carcere.

 

Se l’ateismo teoretico avrebbe dovuto prevedere la pena di morte (non una né due ma di più ancora!) quello pratico forse doveva essere così diffuso che si prevedeva “soltanto” il carcere. In realtà, questo tipo di empietà (in considerazione di una struttura dottrinaria quasi inesistente) si presenta non tanto come negazione del divino quanto come un non-riconoscimento degli dèi tradizionali o come una deviazione omissiva di una cultualità puramente formale, nonché piuttosto debole dal punto di vista delle ricadute esistenziali e quindi “pratiche”. Eterodossia, come è noto, comunque assai pericolosa, almeno a partire dal 432 a.C. [4], se Socrate, a causa di essa, ha potuto subire quel processo in qualità di corruttore dei giovani e fomentatore di scarso rispetto religioso, che si concluse con la sua condanna a morte.

 

                           

   

 

                               4.1) Caso e necessità nell’atomismo

 

    Prima di affrontare nel dettaglio il pensiero dei teorici dell’atomismo dobbiamo soffermarci su un problema interpretativo che mina alla base ogni lettura della fisica atomistica rendendola incoerente e contraddittoria. Ci riferiamo alle ripetute e gravi contraddizioni nelle testimonianze e nei frammenti concernenti Leucippo e Democrito per quanto attiene la causa prima “a monte” del moto (concetto questo assolutamente fondamentale nella cosmologia atomistica) che viene identificata ora nel caso e ora nella necessità. Tale aporia, sottolineata da molti gli studiosi, è stata tuttavia perlopiù lasciata persistere in quanto tale, senza essere stata adeguatamente tematizzata, se non con qualche modesto tentativo di dirimerla da parte di alcuni interpreti (che ci sentiamo di poter definire “filo-idealistici”) con risultati non solo insoddisfacenti ma talvolta anche capziosi e strumentali. Questa grave insufficienza nell’esegesi della filosofia atomistica ha finito per generare equivoci assai gravi e soprattutto non ha permesso di definire i termini teorici di un pensiero rivoluzionario, e manifestamente ateo, in un panorama filosofico ellenico che nel V sec. a.C. si presentava ancora agonistico ed articolato, ma che diventerà ben presto monocorde col platonismo e l’aristotelismo. Ciò deriva sia dalla forza di questi due indirizzi filosofici e sia dalla debolezza dei seguaci della filosofia atomistica, i quali, incapaci di innovare le tesi dei due fondatori, per oltre un secolo rimarrando completamente in ombra (finché non sarà Epicuro a riproporle). [5]

    Naturalmente non intendiamo dare peso più di tanto alla citazione di Diogene Laerzio circa l’ostilità (con intenti “distruttivi”) di Platone nei confronti del pensiero atomistico, ma la registriamo in quanto dato storiografico non irrilevante. Riferisce Diogene:

 

    Aristosseno nelle sue  Memorie sparse afferma che Platone ebbe l’intenzione di bruciare tutte le opere di Democrito che poté raccogliere, ma che i pitagorici Amicla e Clinia lo distolsero dal suo proposito, in quanto non ne avrebbe tratto utilità alcuna, perché ormai i libri erano ampiamente diffusi nel pubblico. Infatti, Platone, che pure menziona quasi tutti i filosofi arcaici, non accenna mai a Democrito neppure là dove avrebbe dovuto contraddirlo, evidentemente perché era consapevole che avrebbe dovuto gareggiare col migliore dei filosofi […] [6]

 

Il fatto che non ci sia pervenuto nessuno degli scritti di Leucippo e di Democrito ci lascia presumere quello che definiremo eufemisticamente una qualche “difficoltà ambientale”. Difficoltà che ha fatto sì che il loro pensiero sia stato successivamente desumibile soltanto attraverso tarde testimonianze non sempre attendibili e che si sia verificato nei secoli il sovrapporsi di nozioni, opinioni e interpretazioni, che hanno finito per irrigidire l’atomismo in uno schema concettuale “bloccato” nelle sue aporie [7]. Questa schematizzazione dell’atomismo, sia nelle sue tesi “tradizionali” e sia nelle sue contraddizioni, ne ha fatto una specie di “fossile”, filosofico, incastrato in una sua nicchia storiografica priva di veri sviluppi teorici (almeno sino ad Epicuro). Questo “placcaggio a terra” dell’atomismo (se ci si passa il temine rugbistico) è andato ovviamente a tutto favore dell’idealismo a cui esso ha inteso opporsi, nell’intento di indicare un orizzonte ontologico ateo, fuori dalle logiche sia mitico-religiose che metafisico-monistiche.

    Ma l’atteggiamento di Platone nei confronti dell’atomismo ci permette anche di introdurre qui una nota che anticipa l’analisi che condurremo sulla dicotomia caso/necessità. La nostra impressione è infatti che Platone, nella sua feroce invettiva contro l’ateismo, pensi a Democrito come rappresentante contemporaneo riconosciuto e “deputato” dell’atomismo, ma che in realtà ciò che lo sconcerta maggiormente potrebbe essere proprio la “casualità” originaria (posta da Leucippo) insita nella teorizzazione del movimento cosmogonico atomistico (e non già la necessarietà che Democrito ha invece, come spiegheremo, teorizzato in seguito). Platone infatti, e a più riprese (specialmente nelle opere tarde), fa riferimento a una “provvidenzialità divina” necessitata non lontanissima (ontologicamente) dalla necessità [8] democritea (come d’altra parte sarà poi per gli Stoici) quale esito operativo della suprema e divina intelligenza con la quale essa si indentifica. A tal proposito vale la pena ricordare qualche sua affermazione. Si legga nel Timeo (47, a):

 

  « Nel discorso precedente, tranne poche parole, si è trattato solo delle operazioni dell’intelligenza. Ora occorre dire anche di ciò che avviene per la necessità. Perché [a] l’origine di questo mondo è mista, derivando da una combinazione della necessità e dell’intelligenza »

 

Ed ancora nello stesso dialogo (53 d):

 

«Quest’origine [geometrica] noi assegniamo al fuoco e agli altri corpi, seguendo la ragione verosimile congiunta con la necessità: quanto ai principi superiori a questi, li sa dio e degli uomini quello che gli è caro.»

 

Ma è poi nel X libro di Leggi che Platone meglio esplicita il suo pensiero contro il caso (accomunando egli probabilmente Empedocle, Sofisti ed Atomisti), quando afferma (889 a – d):

 

« Dicono alcuni che tutto ciò che è, che è stato e che sarà dipende in parte dalla natura, in parte dall’arte, in parte dal caso. […] Le cose più grandi e importanti, dicono, fra quelle sopra elencate e le più belle, sembra le facciano la natura e il caso, […] Essi dicono che ciascuno di questi [gli elementi “primi”] essendo mosso e spostato a caso dalla forza propria a ciascuno di loro, […] si fusero insieme, ivi, proprio per questa stessa causa, in tal modo essi hanno dato origine all’intero cielo e a tutto ciò che è nel cielo e a tutti gli animali e a tutte le piante, una volta che tutte le stagioni per la causa di cui si è detto vennero ad esserci, e tutto ciò, non per l’azione, dicono, di una mente, né di un dio o di un’arte, ma, come stiamo riferendo noi, si fonda sulla natura e sul caso.» [9]

 

Ne segue una splendida definizione della religione che viene messa in bocca a tali irriducibili “empi” casualisti, non senza un certo tono di scherno:

 

«Caro mio, questi cominciano col dire che gli dèi sono frutto dell’arte degli uomini, non sono per natura, sono per certe leggi e convenzioni, sono diversi da luogo a luogo, come cioè ciascun popolo convenne con se stesso nello stabilirli per convenzione, come fissando una legge.» [10]

 

    Se in quel tempo, o immediatamente dopo, il pensiero di Leucippo e Democrito è stato combattuto, o perlomeno trascurato e frainteso, la nostra netta impressione è che esso non abbia avuto miglior destino neppure in seguito. E non diremo del periodo dominato dalla teologia cristiana (a dipresso quindici secoli) ma neppure in tempi molto recenti (dopo la meritoria raccolta documentale del Diels all’inizio del ‘900 [11]) a causa di un abito mentale vagamente (e in qualche caso “nettamente”) idealistico, che ne ha impedito una lettura corretta. Basti pensare al pervicace tentativo di minimizzare la portata del pluralismo leucippeo per ricondurlo all’ovile del monismo parmenideo che viene operato da molti illustri “platonici” contemporanei [12]. Ma occorre tuttavia ammettere che per un pensiero filosofico otto-novecentesco dominato dall’idealismo hegeliano e post-hegeliano (si pensi all’”Italia filosofica” di Croce e Gentile!) il pensiero atomistico poteva esser ritenuto, tutto sommato, di assai scarso interesse e quasi opzionale l’occuparsene seriamente se non per rafforzare l’eterno monismo parmenideo rimesso in auge da Heidegger (e ripreso recentemente da numerosi neo-idealisti [13]). Ma se l’affrontare il problema poteva essere un’opzione in un mondo filosofico che operava con un ermeneutica filo-idealistica, a noi, che (ateisticamente) all’idealismo ci opponiamo, tocca “d’obbligo” il tentare di dirimere la questione. Ma prima di fornire una risposta vorremmo porre preliminarmente una domanda elementare ed ovvia: «È possibile immaginare che nella Greca del V secolo ci potessero essere filosofi di professione, stimati e seguiti, così ingenui e sprovveduti da consentire il permanere di una contraddizione così plateale nelle loro tesi, tali da minarne alla base la credibilità e la coerenza? » La risposta ad un minimo di buon senso comune!

    Vediamo intanto: si tratta di una questione poi così proibitiva? Molto difficile lo è sicuramente. Ma la nostra impressione è che un vero interesse per cercarne una soluzione e raggiungere una conseguente chiarificazione del pensiero atomistico sia del tutto mancato anche da parte di chi se n’è occupato con le migliori (o soltanto apparentemente migliori?) intenzioni ermeneutiche. Un po’ per la ragione su accennata, ovvero che gli studiosi che se ne sono occupati tra ‘800 e’900 erano quasi tutti di scuola idealistica (e che quindi guardavano ad una filosofia materialista con occhi idealisti) e un po’ perché (forse) il fatto che il pensiero atomistico apparisse lacunoso ed incoerente, anziché recare fastidio, ha potuto persino far comodo.

    Si noti poi che, tanto per restare in famiglia, in un contesto intellettuale come quello italiano, se non dominato certo impregnato di cattolicesimo (e rimasto praticamente impermeabile al pensiero illuministico-materialistico) l’opposizione concettuale caso/necessità nell’atomismo poteva ben apparire argomento non degno d’indagine, e perfino futile se confrontato con gli “alti” problemi della fede. Ma non è improbabile, al contrario, che si percepisse chiaramente che una cosmologia che ponesse come causa prima della costituzione del mondo cause impersonali e “materiali” come il caso e la necessità significasse mettere fuori gioco un Dio-Persona creatore di cui essi avrebbero resa superflua l’ipostatizzzione. Quindi, l’aporia caso/necessità, che per noi è una lacuna fondamentale nella documentazione sul pensiero atomistico, poteva apparire non solo una questione di mero dettaglio concernente una teoresi filosofica del passato, ma portatrice di una filosofia aberrante che era meglio lasciare in ombra. Per noi atei è invece l’aspetto fondamentale di una teoresi filosofica storicamente importantissima, lasciando il quale in sospeso si rischia di rendere la stessa, per alcuni versi, inconsistente.

    Tenendo fede al nostro intento cominciamo allora subito coll’accennare a quello che viene considerato l’unico frammento trasmessoci di una frase che sarebbe stata scritta o pronunciata da Leucippo stesso e che ci è pervenuta attraverso Aezio [14] (I, 25, 4, Doxographi 321, Vorsokratiker 67.B.2). Una presunta base di partenza che recita:

 

«Leucippo asserisce che tutto è conforme alla Necessità e partecipa del medesimo destino. Infatti, nell’opera intitolata Sull’intelligenza afferma: “nulla avviene invano, mentre tutto consegue dalla ragione e dalla necessità”». [15]

 

Ora, a parte il fatto che non è certo che Leucippo in realtà abbia mai scritto un’opera con tale titolo (ma più probabilmente Democrito) [16], va anche ricordato che Aezio vive nel I secolo e che quindi almeno cinque secoli lo separano dalla supposta affermazione originale di Leucippo. Ma non è meno importante notare che in altre due testimonianze egli stesso contraddice il frammento suddetto, affermando l’esatto contrario. Nella prima (II  3, 2 – Dox. 330, Vorsokrat. 67.A.22) accomunando i tre atomisti afferma:

 

«Leucippo, Democrito ed Epicuro affermano che [il mondo] non è animato né è governato dalla provvidenza, ma è sorto dagli atomi, per opera di una forza irrazionale» [17].

                                         

Nella seconda (I 4, 1-4 – Dox. 289, Vorsokrat. 67.A.24, Us. Epicurea fr.308), che è una lunga esposizione della Grande cosmologia, egli riferisce nell’incipit:

 

«Il mondo pertanto si costituì assumendo una figura ricurva; e la sua formazione seguì questo processo: poiché gli atomi sono soggetti a un movimento casuale e non preordinato e si muovono incessantemente e con velocità grandissima, […]» [18].

 

Noi ci troveremmo pertanto di fronte (secondo numerosi studiosi) ad un ipsissimum verbum di Leucippo nel primo frammento; il problema è poi che lo stesso Aezio ci regala una patente negazione del suo contenuto in altri due luoghi della sua testimonianza. Ne deriva che la teorizzazione della necessità nel primo frammento, come causa del moto cosmogonico degli atomi da parte di Leucippo, entra in aperta contraddizione con Leucippo stesso nelle altre due. Ma è ancora più interessante notare che poi (con molta chiarezza) egli ci precisa in un terzo frammento (I, 25, 3, Dox. 321, Vors. 68.A.66d) quanto segue:

 

Parmenide e Democrito affermano che tutto avviene per necessità: e che essa è fato e giustizia e provvidenza e produttrice del mondo. [19]  

 

un’associazione di Democrito con Parmenide gravida di significato per il problema che stiamo affrontando, ed insieme una definizione “canonica” del necessitarismo deterministico che non lascia dubbi circa la collocazione ontologica di Democrito nell’opinione di Aezio.

    Il raffronto preliminare sopra citato (ma sull’argomento torneremo) ci pare già abbastanza sufficiente per delineare uno scenario interpretativo estremamente complicato e contraddittorio, proprio a partire dal dossografo di cui possediamo più larga messe di citazioni sul pensiero atomistico e che, come è facile evincere, per le sue contraddizioni interne rende assai problematico l’utilizzo delle sue testimonianze. A meno di operare (e lo vedremo) una sola correzione, che permetterà di rendere chiaro e significativo il panorama testimoniale di Aezio. L’assumere (come perlopiù è stato fatto) il frammento D.321 come la “verità” su Leucippo ci pare francamente del tutto arbitrario, fuorviante e soprattutto miope, poiché estrarre da un insieme di elementi un elemento isolato e contrapporlo a tutti gli altri in nome di una supposta maggiore “autenticità” rispetto agli altri ci pare operazione non solo dubbia, ma fortemente sospetta.

    Se i frammenti e le testimonianze del più importante dossografo che si occupa degli atomisti non sono in grado di aiutarci a chiarire i termini della questione possiamo tentare un ampliamento della ricerca ed andare ad esaminare l’intero corpus dei documenti a nostra disposizione, schematizzando un poco il problema ed analizzando per blocchi il materiale disponibile. Imposteremio il nostro lavoro premettendo che a noi pare di poterne individuare due aspetti collaterali sui testi pervenutici, che sono quello motivazionale e quello situazionale, a fronte dei quali il nostro lavoro analitico-interpretativo sarà, fatalmente, ancora una volta motivazionale e situazionale; poiché l’interpretante opera sempre in base alle prorie convinzioni e nel contesto che gli mette a disposizione la materia prima su cui lavorare. Fatta questa premessa diremo quindi subito che è nostra convinzione che vi sia stato un sostanziale fraintendimento del pensiero ontologico degli atomisti del V sec.a.C., sia da parte dei loro contemporanei e sia da parte della filosofia posteriore, compresa molta ermeneutica recente [20]. Su questo argomento torneremo in modo analitico in alcune note ai singoli frammenti, ma qui vorremmo completare il nostro pensiero con alcune precisazioni che chiariscono la nostra precedente affermazione circa l’inevitabile motivazionalità nell’intepretazione di ciò che è frammentario o poco chiaro. Se non si vuol essere ipocriti si deve ammettere che l’interpretante è “sempre” condizionato dalla propria weltanschauung (che agisce come un vis a tergo) in rapporto all’oggetto interpretando e alla weltanschauung di cui esso è (o si suppone), portatore. L’approccio ermeneutico è quindi sempre problematico e si configura in un “incontro” in cui l’interpretato è un oggetto non-protetto in quanto è l’interpretante che conduce il gioco e che, quand’anche sia animato dalle migliori intenzioni di neutralità e di oggettività, ha sempre la facoltà di concluderlo a suo piacimento rispettando professionalmente soltanto i limiti della “decenza” interpretativa. Ciò significa che nel momento in cui avanzo il sospetto che l’intepretazione del pensiero atomistico sia stata perlopiù invalidata da una weltanschauung idealistica o teologica (o perlomeno da un background idealistico-teologico) nello stesso tempo devo ammettere che la mia intepretazione potrebbe venire invalidata a causa del mio atteggiamento anti-idealistico e anti-teologico. Mi corre quindi l’obbligo intellettuale di supporre che “se” al pensiero manifestamente materialistico degli atomisti sottostassero elementi idealistico-teologici nascosti “proprio” gli ermeneuti sulla cui opera io avanzo il mio sospetto sarebbero stati in grado di portarli alla luce, mentre io tenderei sicuramente a fraintendeli o ad occultarli. 

    Ma procediamo con una prima osservazione. In assenza di scritti originali degli atomisti dobbiamo tenere presente che coloro che hanno parlato di loro e del loro pensiero sono stati verosimilmente legati ad un atteggiamento ricorrente (e storiograficamente accertato) col quale i pensatori antichi di solito esprimevano giudizi sugli altri. Atteggiamento condizionato dalla forte competizione presente nel mondo filosofico ellenico, per cui ciò che un pensatore dice di un altro va sempre assunto con una certa cautela. Ciò innanzitutto per una questione di “schieramento”, in funzione della lotta per il predominio culturale, per cui gli appartenenti a una certa scuola si trovavano a competere (spesso per accaparrarsi allievi) coi rappresentanti delle altre scuole, con elementi di conflittualità spesso molto accesi e non privi di “colpi bassi”. Ci pare di poter cogliere quindi tre “modalità” di giudizio “sull’altro” storicamente accertate che sono 1) la obbiettiva, 2) la omissiva plagiatoria e 3) la mistificatoria. Dove la prima si verificava perlopiù all’interno di una stessa scuola o indirizzo di pensiero, la seconda quando un filosofo occultava o negava i debiti nei confronti di un altro per millantare la propria originalità, la terza quando un pensatore volgeva a favore o a conferma delle proprie tesi ciò che esaminava o citava, “leggendo” spesso sotto un angolatura strumentale e capziosa.

    Nel contesto che stiamo trattando a noi pare di poter fare tre esempi sufficientemente chiari. Attribuiremmo la prima modalità (sia pure con molte riserve) ad Aristotele, il quale, pur nella sostanziale ostilità nei confronti delle tesi atomistiche, sembra riferirle in modo corretto in base agli elementi in suo possesso (ed analizzarle con sufficiente obbiettività). Alla seconda ci pare riferibile il comportamento di Epicuro, il quale nega recisamente ogni debito nei confronti di Democrito e molto probabilmente arriva al punto di negare “consapevolmente” ogni realtà storica alla figura di Leucippo (senza il quale nessun pensiero atomistico è pensabile) pur di evidenziare l’originalità della propria teoria fisica [21] (che con tutta evidenza si presenta soltanto quale modificazione, però non-marginale, dell’atomismo leucippeo). Per la terza non possiamo che riferirci a Platone, che nella sua grandezza rimane certamente uno dei pensatori più faziosi e mistificatori nei confronti delle tesi filosofiche a cui si opponeva che la storiografia filosofica possa ricordare. Diremo allora che questo aspetto ci aiuta abbastanza poco nella nostra analisi, se non nella misura in cui induce ad una sorta di “dubbio sistematico” circa l’attendibilità delle dichiarazioni documentali. 

    Il contesto della cultura greca del V sec.a.C. ci costringe a considerare il clima culturale in cui si sono mossi Leucippo e Democrito e quelli afferenti i secoli posteriori, in cui si sono più o meno conservati gli echi, a volte stravolti, delle loro teorizzazioni. Il già accennato prevalere dell’idealismo platonico (accanto all’aristotelismo) ha sicuramente limitato la presenza dell’atomismo già nel V sec., mettendolo subito in ombra, ma il nuovo clima culturale dell’epoca ellenistica ha favorito poi una ripresa di interesse nei suoi confronti. Ed è proprio grazie a questa nuova temperie culturale, legata all’internazionalizzazione della filosofia ed in buona misura alla filosofia epicurea, se il pensiero atomistico ha goduto di un rilancio, fino ad attestarsi poi nel mondo romano nella forma lucreziana.

    Per quanto riguarda l’analisi dell’atomismo di Democrito risulta punto centrale la questione circa le due Cosmologie (la Grande e la Piccola), una questione che si è posta fin dal secolo successivo all’apparizione dell’atomismo, come conseguenza dell’accorpamento dei testi rimasti di Leucippo sotto il nome di Democrito nella tetralogia di Trasillo. Se a ciò abbia contribuito più una crescente ostilità ambientale (determinata dal trionfo dell’idealismo platonico) oppure un qualche tipo di “appropriazione” già da parte dello stesso Democrito del pensiero del suo maestro è difficile dire, poiché, almeno per quanto riguarda la seconda ipotesi, non disponiamo di nessun elemento sicuro, se non l’anonimo frammento che compare nei Papiri Ercolanensi  (Vol. Herc. coll.alt VIII 58-62 fr. 1 [Crönert Kolotes p.147]) e che a proposito della Grande Cosmologia di Leucippo ci dice:

 

 …..il quale scrive che… quei principi sono stati precedentemente menzionati nella Grande cosmologia, opera che viene attribuita a Leucippo, e che [Democrito] viene smascherato e confutato in questo suo spingersi ad appropriarsi delle dottrine altrui sino al punto non solo di trasporre nella Piccola cosmologia quanto già si riscontra nella Grande cosmologia,…[22]

 

Ci troveremmo qui di fronte ad un vero e proprio plagio che può essersi verificato o meno (l’etica democritea parrebbe farci escludere un comportamento così meschino!) ma questo frammento conferma comunque ciò che appare già abbastanza nettamente in base ad altri numerosi elementi disponibili, ovvero che la stesura della Grande Cosmologia è di Leucippo e che solo parte di essa è passato nella Piccola, che è di Democrito. Ma potrebbe anche darsi che non fosse così, e che nella Piccola l’Abderita già ponesse in modo chiaro il fondamento ontologico della necessità, accettando dal maestro la teoria pluralistica degli atomi, ma non quella del movimento casuale di essi. Ed infatti il concetto di vortice acquista in Democrito un importanza particolare e ad esso si lega quello di necessità come sua origine. In altre parole, il concetto di vortice potrebbe essere stato meglio tematizzato da Democrito proprio allo scopo di fare da “Cavallo di Troia” del principio di necessità, senza dover entrare in aperta contraddizione col suo maestro. Contraddizione la quale, se fosse stata invece esplicitata, avrebbe evitato tutti gli equivoci di cui soffre la storiografia atomistica.

    Ma vi è ancora un altro elemento assai importante che rafforza le conclusioni a cui siamo giunti ed è quello che ritroviamo nella Fisica aristotelica (B 4, 196 a 25) laddove lo Stagirita rileva polemicamente:

 

[…] E proprio questo è stranissimo: difatti, da una parte essi dicono che gli animali e le piante né sono né nascono fortuitamente, ma che la natura o la mente o qualche altra cosa di tal genere ne è la causa […], dall’altra parte, invece, sostengono che il cielo e i fenomeni più divini derivano dal caso […] [23]

 

Lo Stagirita si esprime al plurale poiché pensa all’omologia Leucippo-Democrito, ma è a questi che si riferisce, nel cui pensiero ritiene di intravvedere un “dualismo” erroneo, che stigmatizza come “stranissimo”. In realtà Aristotele evidenzia la presunta incoerenza atomistica per sostenere qui il “proprio” dualismo ontologico, cioè quello per cui il cosmo “divino” (quello degli enti del cielo) è mosso da necessità, mentre quello “mortale” (la natura che concerne piante ed animali) presenta diffusi caratteri di casualità. In realtà un dualismo ontologico in Democrito sembra risultare del tutto assente, ma Aristotele crede di coglierlo perché confonde Leucippo con Democrito, ovvero compie un’arbitraria (ma incolpevole) operazione di sovrapposizione delle tesi esposte nella Grande cosmologia riguardanti il mondo fisico e il cosmo, con le tesi naturalistiche che Democrito espone nella Piccola.

    Ma a proposito del passo succitato della Fisica si impongono due ulteriori rilievi: 1) non esiste alcuna chiara testimonianza sul fatto che Leucippo si sia mai occupato di biologia e del mondo vivente in generale, essendo i suoi interessi noti e documentati concentrati esclusivamente sulla fisica e sulla cosmologia. All’opposto, Democrito risulta esser stato uno dei più grandi e acuti naturalisti del suo tempo e ne è prova l’abbondanza di frammenti che riguardano le sue tesi biologiche, fisiologiche e naturalistiche, 2) Aristotele rileva la contraddizione, come fa anche in altri luoghi delal sua opera (cfr. Parti degli animali, I, A, 1, 641 15-25) perché pare cogliere attentamente tutte le occasioni possibili per invalidare le teorie atomistiche ove non siano conciliabili con le proprie, ma si guarda bene dal cercare le origini della confusione documentale sui due atomisti, quantunque nell’ordine temporale sia più vicino ad essi di ogni altro pensatore importante (escluso ovviamente Platone che però, come sappiamo, ne era feroce nemico). Correlando le due constatazioni noi possiamo delineare un quadro abbastanza chiaro della vertenza di cui ci siamo occupando, poiché lo Stagirita (relativamente alla seconda) che forse disporrebbe ancora degli strumenti per sciogliere le aporie insite nell’accavallarsi delle tesi leucippee e democritee non lo fa per qualche sua buona ragione. E d’altra parte (relativamente alla prima) evidenzia una contradizione che però è tale solo a partire dalla raccolta unitaria di Trasillo e probabilmente non dalle singole testimonianze, anche soltanto verbali, che certamente al suo tempo dovevano esser ancora in circolazione. Questo sorta di silenzio-assenso dello Stagirita sull’inevitabilità della confusione e delle contraddizioni insite nel corpus democriteum già al suo tempo ci dice chiaramente come una sorta di congiura filosofica in parte consapevole e in parte no abbia determinato l’apparente incoerenza della filosofia atomistica. Incoerenza che è stata assunta e ratificata in seguito, se non addirittura alimentata dagli autori stoici e neoplatonici prima e cristiani poi.            

    Se infine assumiamo (cosa che appare assai probabile) che Epicuro abbia “eliminato” dallo scenario filosofico Leucippo (operazione fattibile proprio in base alla raccolta unitaria di Trasillo) mentre non abbia potuto fare altrettanto con Democrito, in relazione alla vasta messe di documenti che a lui si riferivano e all’esistenza di testimonianze dirette sul suo operato, comincia a delinearsi in modo sufficientemente chiaro lo stato delle cose. Ma vi è di più, Epicuro potrebbe aver occultato l’esistenza di Leucippo perché proprio da lui avrebbe tratto la casualità cosmogonica che faceva al caso suo, ma che gli appariva incompleta e non strettamente conciliabile colla sua etica libertaria. La “casualità” motoria di Leucippo, a nostro avviso, sarebbe diventata allora la “declinazione” della traiettoria di caduta dglei atomi in Epicuro attraverso il passaggio, teoricamente fondamentale, dagli atomi-forma leucippei agli atomi-peso, che cadono lungo la verticale e che deviando da essa si urtano e dallo scontro si genera la materia composta visibile. 

   Possiamo allora incominciare a trarre delle conclusioni, che per quanto si basino in parte su ipotesi non fondanti (ma soltanto rafforzative del nostro ragionamento) delineano tuttavia un quadro abbastanza chiaro della situazione interpretativa di cui ci stiamo occupando. Secondo noi Leucippo è il creatore di una teoria atomistica che si pone in termini puramente fisici e cosmologici, con a base della formazione della materia composta il moto “casuale” degli atomi. Il suo allievo Democrito ne ha assunto le linee principali ad eccezione di quella relativa al moto, che diventa per lui “necessario”, poiché è il vortice che lo genera ad avere origine dalla necessità. Se ne evince che mentre la teoria democritea, avendo assunto come causa cosmica primaria la necessità potrebbe teoricamente fare riferimento al parmenidismo, ciò è da escludere per Leucippo, che mette invece nettamente in mora l’essere necessario di Parmenide. A fronte di ciò si comprende come sia stato possibile che i dossografi posteriori, avendo a disposizione l’ontologia deterministica di Democrito (ma di cui si sapeva che non aveva avuto contatti diretti con la filosofia eleatica) non abbiano fatto altro che far risalire a Leucippo un rapporto con gli Eleati, stravolgendone completamente il pensiero. Un equivoco storico esiziale come si è visto, ma la incoerenza e la contraddittorietà potrebbero essersi determinate anche per una certa ”forzatura” da parte dei post-platonici dell’Accademia mirante a fare dell’atomismo una metafisica sussidiaria dell’eleatismo. Operazione che non aveva certo fatto Platone, a cui il caso teorizzato dall’atomismo andava benissimo per poter stigmatizzarne con più forza un empio ateismo che negava la provvidenza divina. Negazione che, evidentemente, poteva assumere un carattere decisamente “forte” con il casualismo e assai più “debole” col necessitarismo.      

    Concludiamo questa fase generale della nostra analisi dell’atomismo passando infine ad un aspetto documentale-statistico, che ci viene a ulteriore sostegno di quanto sopra evidenziato. Sotto questo aspetto siamo in grado di produrre una discreta quantità di esemplificazioni, attraverso testimonianze numerose e relative ad un arco temporale che va dal IV sec.a.C al VI sec.d.C. Testimonianze le quali, a nostro avviso, pur nella diffusa contraddittorietà tra esse presenti, se esaminate con la dovuta attenzione, confermano in gran parte la tesi che andiamo sostenendo, ovvero che Leucippo ha teorizzato come causa cosmogonica primaria il caso e Democrito, invece, la necessità. Le elencheremo seguendo uno schema che le raggruppa a seconda che la testimonianza concerna Leucippo (Le) o Democrito (De) e se gli si attribuisca la necessità (Ne) oppure caso (Cas) come causa del movimento. L’elencazione schematizza le differenti tipologie di affermazioni ed all’interno di queste le testimonianze vengono elencate con criterio crononologico. 

    Attingendo principalmente ai Die Fragmente der Vorsokratiker raccolti dal Diels e successivamente revisionati e completati dal Kranz abbiamo operato i seguenti raggruppamenti: A) LeNec: necessità riferita Leucippo, B) LeDeNec: necessità riferita a Leucippo insieme a Democrito, C) LeCas: caso riferito a Leucippo, D) DeCas: caso riferito a Democrito E) LeDeCas: caso riferito a Leucippo insieme a Democrito, F) DeNec: necessità riferita a Democrito.

 

 A) Gruppo LeNec:

 

1) Aezio I, 25, 4, Vorsokrat. 67.B.2, Dox. 321, (vedi pag.97).

 

2) Ippolito Refutatio contra omnes haereses I, 12, 2, Dox. 564:

 

 […] Leucippo […] sostiene che i mondi nascano <in questo modo>: quando molti corpi si staccano […] e intrecciandosi a circolo generano gli astri, e questi ammassi atomici si accrescono e si disgregano secondo la necessità. Leucippo non definisce, però, quale sia tale necessità. [24]

 

3) Diogene Laerzio, IX, 31 ss., Vors. 67.A.1:

 

[…] Leucippo sostiene che il tutto è infinito ed è in parte pieno e in parte vuoto (33) […] Come il mondo nasce, così anche cresce, decade e perisce conformemente ad una necessità, la cui peculiarità egli non chiarisce. [25]

 

 

B) Gruppo LeDeNec:

 

1) Aristotele, Fisica, B, 4, 195 b 36:

 

Alcuni [gli atomisti] dubitano anche se [il caso] esista o no: dicono infatti che nulla viene prodotto dal caso, ma che esiste una causa determinata di tutte le cose che noi diciamo prodursi spontanemente o per caso. [26]

 

2) Simplicio, Fisica, 28, 15 (dopo 67.A.8), Vorsokrat. 68.A.38 (da Teofrasto):

 

[…] perciò essi [Leucippo e Democrito] anche dicono che soltanto per coloro che considerano infiniti gli elementi tutto si svolge in modo conforme a ragione. [27]

 

 

C) Gruppo LeCas:

 

1) Aezio, I, 4, 2, Vors. 67.A.24, Dox.289 (vedi pag. 98).

 

2) Aezio, II, 3, 2, Vors. 67.A.22, Dox.329 (vedi pag. 98).

 

 

D) Gruppo DeCas:

 

1) Dionigi (vescovo di Alessandria) ap. Eusebio Praeparatio evangelica XIV 23, 2-3, Vors. 68.A.43:

 

    Gli uni, i quali danno il nome di atomi a corpi indistruttibili estremamente piccoli e infiniti di numero e presuppongono l’esistenza di uno spazio vuoto di grandezza illimitata, dicono che questi atomi si muovono come capita nel vuoto e s’incontrano casualmente per loro impeto disordinato […] Professarono questa dottrina Epicuro e Democrito […]  [28]

 

 

2) Dionigi (vescovo di Alessandria) ap. Eusebio Praeparatio evangelica XIV 27, 4, Vors. 68.B.118:

 

    Lo stesso Democrito, a quanto si riferisce, diceva […] che egli parte da un principio vuoto e da un’ipotesi erronea senza veder né l’origine né la necessità […] per scarso sapere e stoltezza ed infatti egli pone il caso come padrone e signore di tutto ciò che è universale e divino ed afferma che tutto avviene per caso, mentre poi bandisce il caso dalla vita degli uomini e biasima come ignoranti coloro che lo tengono in gran conto. [29]

 

 

3) Lattanzio, Institutiones divinae, I, 2, Vorsokrat. 68.A.70b:

 

[…] cominciare da quella questione che sembra essere per natura la prima, se vi sia una provvidenza che a tutte le cose provvede o se tutto nel mondo sia stato prodotto e si svolga per opera del caso, opinione questa che ebbe il suo primo assertore in Democrito ed ebbe un propugnatore in Epicuro. [30]

 

4) Simplicio, Physica, 327, 24, Vorsokrat. 68.A.67:

 

    Ma anche Democrito, là dove dice «dal tutto si distaccò un vortice di forme d’ogni genere» (ma non dice come né per quale causa), sembra significare che il vortice si produce spontaneamente e casualmente. [31] 

 

 

E) Gruppo LeDeCas:

 

1) Aristotele, Fisica, B 4, 196 a, 25:

 

Vi sono alcuni, al contrario, che considerano il caso come causa di questo cielo e di tutti i mondi: ché dal caso deriverebbero il vortice e il movimento che separa e dispone il tutto secondo quest’ordine. [32]

 

2) Aristotele, Fisica, B 4, 196 b, 5, Vors. 68.A.70a:

 

    Vi sono alcuni che considerano come causa il caso, il quale è impenetrabile alla ragione umana, essendo qualcosa di divino e di straordinario. [33]

 

3) Cicerone, Sulla natura degli dèi, I, 24, 66, Vorsokrat. 67.A.11, Dox. 119:

 

[…] Giacché queste sono le riprovevoli opinioni di Democrito, oppure anche, anteriormente, di Leucippo: dicono che ci sono dei corpuscoli […] e che da essi è stato prodotto il cielo e la terra, non perché natura alcuna li costringesse, ma solo perché s’incontrano in modo puramente casuale […] [34]

 

 

F) Gruppo DeNec:

 

1) Aristotele Generazione degli animali E, 8, 789 b 2, Vors. 68.A.66b:

 

Democrito lasciate da parte le cause finali, riconduce alla necessità [meccanica] tutte le operazioni della natura. [35]

 

2) Teofrasto, De causis plantarum II, 11, 7, Vorsokrat. 68.A.162:

 

(7) Non sembra nel giusto Democrito, quanto al modo onde ripone nelle medesime necessità la causa per cui le piante […] [36]

 

3) Cicerone, De fato, 17, 39, Vorsokrat. 68.A.66a:

 

Tutte le cose derivano dal fato si che il fato attribuisce loro una piena necessità: tale fu l’opinione di Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele. [37]

 

 

4) Cicerone, De divinatione I, 3, 5, Vorsokrat. 68.A.138a:

 

… E mentre uno scrittore autorevole come Democrito dichiarava in parecchi luoghi di ammettere la previsione del futuro […] [38]

 

 

5) Aezio, I, 25, 3, Dox. 321, Vorsokrat. 68.A.66d:

 

Parmenide e Democrito affermano che tutto avviene per necessità: e che essa è fato e giustizia e provvidenza e produttrice del mondo. [39]

 

 

6) Plutarco, Stromata 7, Vors. 68.A.39, Dox. 581:

 

    Democrito di Abdera suppose l’univeso infinito […] Le cause dei corpi che attualmente nascono e si dissolvono non hanno avuto alcun principio, ma via via da tempo infinito tutte assolutamente le cose passate presenti e future sono governate dalla necessità. [40]

 

7) Diogene di Enoanda, fr. 33 col. 2 p. 41 William Lpz. 1907, Vors. 68.A.50:

 

    A chi seguisse la dottrina di Democrito, dicendo che gli atomi non hanno assolutamente movimento libero (dato il loro continuo reciproco urtarsi), e che di qui appare che tutti i corpi i muovono per una legge di necessità, noi potremo rispondere: e come non sai, chiunque tu sia, che negli atomi c’è anche un movimento libero, ignorato da Democrito, ma che Epuro mise in luce […] [41]

 

8) Dionigi (vescovo di Alessandria) ap. Eusebio Praeparatio evangelica XIV 27, 5,  Vors. 68.B.119:

 

[…] Iniziando dunque le “esortazioni” Democrito dice: «Gli uomini…della propria mancanza di senno». Per sua natura infatti il caso contrasta con la saggezza […] Gli uomini si sono foggiato l’idolo del caso come una scusa per la propria mancanza di senno. [42]

 

9) Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 113, Vors. 68.A.83:

 

[…] Sicché il mondo non si muoverebbe già, come pretendono i seguaci di Democrito, per necessità e mediante un vortice. [43]

 

10) Diogene Laerzio, IX, 44-45, Vors. 68.A.1:

 

[…] Gli atomi sono infiniti per grandezza e per numero, si muovono vorticosamente, per l’universo e generano tutte le cose composte. […] (45) Tutto accade genera secondo necessità; egli chiama necessità il vortice che è la causa della genesi di tutte le cose. [44]

 

11) Simplicio, De caelo p. 294, 33 Heib. [fr.208 Rose], Vors. 68.A.37:

 

    Poche frasi di ciò che Aristotele ha scritto nel libro Su Democrito dimostreranno le diverse visioni speculative di quegli uomini: «Democrito sostiene […] Sino a un determinato momento Democrito ritiene che le sostanze atomiche restino permanentemente connesse tra loro sino a quando una più forte necessità veniente da ciò che le contiene le scuote e le disperde separanole vicendevolmente». [45]

 

12) Simplicio, Physica, 330, 14, Vors. 68.A.68b:

 

    La frase «come quell’antica dottrina che negava il caso» sembra detta in rapporto a Democrito, questi infti benché nella sua cosmogonia paresse valersi del caso, nei problemi particolari invece afferma che il caso non è causa di nulla […]. [46]

 

 

    Nel gruppo A) LeNec abbiamo tre testimonianze, la prima delle quali è quella citatissima (e ritenuta fondamentale) con la quale Aezio avrebbe riportato le parole di Leucippo stesso. Ma questo frammento, come si è già osservato, risulta inconciliabile con gli altri due già citati e che abbiamo ripreso nel gruppo C) LeCas e quindi da essi praticamente eliso; tanto più in quanto quello si colloca verosimilmente dopo il Vors.67.A.24 (I, 4, 2) e prima del Vors.67.A.22 (II, 3, 2), per cui risulta impensabile che l’autore abbia potuto inserire un testo in contraddizione sia con uno che lo precede sia con un altro che lo segue. La nostra ipotesi è quindi che il Vors.67.B.2 (I, 25, 4) soffra o di un errore di trascrizione o di un lapsus dell’autore all’interno di un complesso di testimonianze rese molto difficili dalla confusione Leucippo/Democrito (presente anche nei Vetusta Placita postulati dal Diels ai quali Aezio avrebbe attinto). E se questo frammento anziché essere di Leucippo fosse “proprio” di Democrito? Vediamo: se noi spostiamo questo frammento da Leucippo a Democrito il puzzle sgangherato comincia a prendere una forma del tutto chiara, poiché scompaiono le contraddizioni, in quanto questo Vors.67.B.2 va ad accordarsi perfettamente col frammento 5) del gruppo F) DeNec (il Vors.68.A.66d), dove Aezio  attribuisce la necessità a Democrito, accomunandolo a Parmenide. Quindi, nell’insieme dei frammenti aeziani (se vogliamo riconoscervi un minimo di coerenza) ci troviamo di fronte all’impossibilità logica di utilizzare il Vors.67.B.2 riferito a Leucippo, per una patente contraddittorietà interna, mentre appena lo passiamo a Democrito i conti tornano perfettamente. 

    Ma vi è ancora un’altra considerazione che noi riteniamo dirimente, poiché mentre il Vors.68.B.2 è null’altro che la lapidaria sintesi di una teoria cosmologica attribuita a Leucippo, il Vors.67.A.24, al contrario, costituisce un’esposizione chiara, esauriente e circostanziata di una teoria esauriente, che sappiamo (da una serie di elementi ricorrenti e ripetuti) essere proprio quella leucippea; alla quale attingerà Democrito per la propria, che verrà esposta nella Piccola cosmologia. E l’incipit:

 

«Il mondo pertanto si costituì assumendo una figura ricurva; e la sua formazione seguì questo processo: poiché gli atomi sono soggetti a un movimento casuale e non preordinato e si muovono incessantmente e con velocità grandissima, […]»  

 

trova il suo completamente logico nel testo che segue, permettendoci un quadro sia pur parziale, ma chiaro, della fisica di Leucippo, che trova statisticamente conferma nella maggior parte del corpus di tutte le altre testimonianze su Leucippo. Questo è allora “il” testo fondamentale a cui fare riferimento, sia per la sua “fattura” chiara, sia per la sua struttura interna e sia perché è l’unico che conferisce omogeneità e coerenza alla maggior parte delle altre affermazioni relative alla cosmogonia leucippea. 

    Per chiudere col gruppo A) LeNec restano da considerare le testimonianze di Ippolito (Refutatio contra omnes haereses I, 12, 2, Dox. 564) e quella di Diogene Laerzio (IX, 30 ss.) le quali, come è evidente, sono assai simili e quindi da riferirsi ad una fonte comune. In  termini cronologici, tra l’altro, quella del primo precederebbe la seconda, in quanto Sant’Ippolito già nel 212 era prestigioso esponente del clero romano, mentre Diogene è ritenuto operoso dopo il 220 (e fino al 250). In ogni caso va notato che quella di Diogene, il quale dà per scontato che la Grande cosmologia sia di Democrito (IX, 40), costruisce la sua descrizione della fisica leucippea alla luce di una sostanziale identificazione con quella democritea. Ma mentre relativamente a Leucippo, essendo come è ovvio scarsissimi gli elementi biografici, egli si diffonde sulla fisica, il contrario avviene per Democrito (IX 34 e ss.) dove la fisica è trattata con poche frasi schematiche, mentre l’esposizione della biografia è molto estesa e ricca di elementi aneddotici piuttosto precisi. Pur tenendo conto che Diogene è uno storiografo più che un filosofo, dal confronto tra le due “vite” si evince che Diogene parla della fisica leucippea in riferimento alle notizie di cui dispone sulla Grande cosmologia (che ritiene di Democrito). Come se i due avessero detto le stesse cose e Diogene, disponendo di molto materiale biografico sul seondo trasferisce parte del materiale teorico sul primo, assegnando a Leucippo ciò che ritiene comune ad entrambi. In quanto poi ad Ippolito, che inserisce la sua definizione della fisica Leucippea all’interno del suo pamphlet contro l’eresia, non potremo certo chiedere al teologo cristiano troppi scrupoli nell’utilizzo di fonti riguardanti un notorio empio ateo, relativamente al quale sia una teoria casualistica che una necessitaristica sono parimenti considerate perverse e contrarie a quella rigorosamente provvidenzialistica di cui egli è testimone.   

    Passando al gruppo B) LeDeNec, costituito da due frammenti, abbiamo nel primo l’importante testimonianza di Aristotele, il quale nella Fisica, come si sa, non fa distinzioni tra Leucippo e Democrito e quindi attribuisce ad entrambi (ma qui non facendone i nomi) ed indifferentemente la teorizzazione della necessità come causa primaria dell’essere del mondo. Quella di Simplicio è d’altra parte molto tarda (sec.VI) e non solo tributaria della Fisica dello stagirita (di cui è commentatore) ma anche (e comprensibilmente) tendenzialmente favorevole a trovare conferme in una teoria necessitaristica che sulla base del neoplatonismo a cui aderisce gli permette di tentare una fusione con l’aristotelismo. 

    Del gruppo C) LeCas abbiamo già parlato a proposito di quello A) LeNec, al quale si contrappone, e non possiamo che sottolineare ancora una volta la fondamentale importanza della testimonianza di di Aezio che troviamo nel frammento Vors.67.A.24, che spicca per chiarezza e coerenza in tutto il contesto dei frammenti riferiti a Leucippo, e che riprenderemo nel paragrafo ad esso dedicato.

    Il gruppo D) DeCas è quello che ci crea maggiori problemi interpretativi, poiché appare come una strana isola nel metaforico mare del necessitarismo democriteo. Ma se si considera che tre testimonianze (le due di Dionigi di Alessandria e quella di Lattanzio) sono formulate da due teologi molto impegnati nella lotta contro il paganesimo, si può comprendere che se si deve etichettare negativamente un pensatore appartenente al mondo pagano (e per di più notoriamente ateo quale aggravante) la migliore efficacia si raggiunge qualificandolo come casualista, al di là di ogni ragionevole dubbio sul fatto che potesse essere invece un necessitarista.

    La testimonianza di Simplicio, da ultimo, ha carattere abbastanza dubitativo e si connette comunque a quanto largamente affermato da Aristotele, alla cui Fisica egli fa riferimento. Se poi si considera il fatto che egli, in quanto neoplatonico, non può che essere monista e necessitarista, si evince come la sua opinione sia assai poco attendibile (oppure eventualmente attendibile “per inversione”) in quanto un monista-necessitarista è probabile che tenda a ritenere un pluralista “oppositivamente” casualista. 

    Veniamo ora al gruppo E) LeDeCas in cui troviamo due testimonianze di Aristotele e una di Cicerone, dove quelle dello stagirita sono in aperta e clamorosa contraddizione con quanto esposto nello stesso Libro IV della Fisica pochi paragrafi prima. Ma a tal proposito va notato che Aristotele utilizza un espediente sottile per evitare la contraddizione, poiché, mentre altrove fa esplicitamente i due nomi (Leucippo e Democrito) accomunandoli nelle sue esposizioni, nei due passi qui ricordati e in quello precedente (del gruppo LeDeNec) si astiene dal nominare i due atomisti e li definisce come “alcuni”, rimanendo così nel vago. Ma abbiamo poi il frammento tratto dal Sulla generazione degli animali (E 8, 789 b 2, Vors. 68.A.66b) nel quale con assoluta chiarezza ci dice che Democrito «riconduce alla necessità» tutto ciò che avviene in natura, mentre in tutta l’opera dello stagirita non si trova nulla di simile riferito a Leucippo.  Per quanto riguarda poi Cicerone, uomo profondamente religioso, vale quanto detto a proposito dei teologi cristiani, che abbiamo già visto lanciare senza indugi agli atomisti l’accusa di casualismo.

    Siamo così arrivati all’ultimo gruppo, il F) DeNec, nel quale si contano ben dodici testimonianze, tutte molto esplicite nell’attribuire a Democrito la teorizzazione della necessità, ma qui vi è un elemento di interesse in più, perché troviamo il già ricordato passo di Aristotele da Sulla generazione degli animali seguito da due testimonianze di Cicerone ancora più rilevanti. Nella prima (De fato, 17, 39) si dice «Tutte le cose derivano dal fato si che il fato attribuisce loro una piena necessità: tale fu l’opinione di Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele» dove Democrito è citato per primo e seguito da Eraclito e Aristotele, che necessitaristi certo sono, e da un invece meno probabile Empedocle.  Ma è la seconda che a nostro parere è ancora più significativa, poiché se Cicerone, ottimo conoscitore della filosofia stoica), afferma (De divinatione I, 3, 5): «…E mentre uno scrittore autorevole come Democrito dichiarava in parecchi luoghi di ammettere la previsione del futuro […]» ciò significa che ha colto l’essenza del necessitarismo democriteo come base della divinazione che egli ammette e in cui crede. Il futuro è infatti prevedibile solamente in una prospettiva del divenire assolutamente deterministica, e dove quindi il futuro è “leggibile” in quanto “già scritto”. A questo proposito potremmo ancora aggiungere alla nostra raccolta di citazioni quella di Clemente Alessandrino (Stromata, VI, 32, Vors. 68.A.18) dove si parla di Democrito non solo come filosofo necessitarista ma anche un preveggente:

 

Democrito, per aver predetto molti fenomeni, come gli consentiva il suo studio delle regioni celesti, fu soprannominato “Sapienza”. [47]

 

    Proseguendo la nostra disamina del gruppo gruppo, DeNec alla citazione 5) torniamo ad imbatterci in un luogo fondamentale della testimonianza di Aezio su Democrito, su cui ci siamo già soffermati all’inizio di questo paragrafo e che ribadiamo costituire un tassello fondamentale a sostegno della nostra tesi. Ai numeri 2), 6) e 7) abbiamo le testimonianze di Teofrasto, di Plutarco e di Diogene di Enoanda, le quali, da angolazioni culturali differenti confermano quanto sopraesposto. Saremmo invece propensi a non attribuire troppa importanza alla testimonianza 8) di Dionigi d’Alessandria, se non altro perché contraddittoria rispetto alla più sopra citata Vors 68.B.118 (la 2) di DeCas), mentre le 9) e 10), rispettivamente di Sesto Empirico e Diogene Laerzio, vanno a rafforzare quanto precedentemente affermato, da un punto di vista scettico e da uno eclettico (ma con forti simpatie epicuree). Per quanto riguarda le 11) e 12) di Simplicio, molto più tarde, esse completano il quadro che abbiamo delineato ed a      questo punto non ci pare di avere molto altro da aggiungere sull’argomento.

    Riteniamo di aver compiuto un operazione euristica, analitica ed esplicativa che dovrebbe finalmente portare un po’ di chiarezza su uno dei punti più intricati ed oscuri della storiografia filosofica. Siamo consapevoli di aver dovuto utilizzare nel nostro lavoro molte ipotesi e poche certezze, pensiamo tuttavia di aver operato nella correttezza che si impone in situazioni di questo genere. Senza avere la pretesa di porre la nostra come soluzione “definitiva” del problema e come ultima parola a scioglimento dell’aporia documentale caso/necessità di cui soffre la storiografia atomistica, pensiamo che essa possa costituire un importante contributo filologico e un punto forse decisivo nella ricostruzione della filosofia atomistica.   


 NOTE: Capitolo IV - Parte prima

[1] Georges Minois Storia dell’ateismo Editori Riuniti 2000, pp. 37-38.

[2] È interessante notare come l’ilozoismo rappresenti una tentazione costante della filosofia materialistica. In epoca rinascimentale Telesio, Bruno e Campanella lo teorizzarono esplicitamente. In epoca moderna è particolarmente interessante il caso di Ernst Heinrich Haeckel, un naturalista–filosofo tedesco il quale, pur partendo da posizioni materialistiche ed essendo uno dei più prestigiosi esponenti del darwinismo tedesco, ha finito per teorizzare una sorta di panpsichismo che ricorda certe forme filosofico-mistiche tipiche della filosofia indiana. Haeckel integrò l’evoluzionismo di Darwin con una Legge biogenetica fondamentale, in base alla quale l’ontogenesi (lo sviluppo dell’embrione) ricapitolerebbe la filogenesi in modo abbreviato e incompleto. Da tali premesse Haeckel ha sviluppato un ilozoismo assai suggestivo, che ha avuto vasta eco nel mondo filosofico e scientifico europeo della fine del XIX secolo (esclusa l’Italia, dominata dal pensiero idealistico e cattolico, dove H. fu praticamente ignorato). La sua ultima opera, L’enigma del mondo (pubblicata nel 1899) sfocia in un esplicito ilozoismo, col quale viene teorizzato che gli atomi e l’etere (la materia del vuoto cosmico) siano animati.   

[3] Platone  Opere complete – vol.7 - Le leggi (X Libro) – Laterza 1992 – p.320.

[4] Si tratta dell’anno in cui viene approvato, su istanza di un certo Diopite, un decreto che prevedeva di procedere penalmente contro tutti coloro che non credevano negli dèi ufficialmente riconosciuti. (Georges Minois Storia dell’ateismo p.41).

[5]  A questo proposito è interessante la citazione da parte di M. Andolfo (Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti – Rusconi 1999, p. 522) di un saggio di G.Zuccante (Da Democrito ad Epicuro ovvero perché l’Atomismo fu per più di un secolo messo in disparte come dottrina filosofica, in Fra il pensiero antico e il moderno, Milano 1905, pp.167-194) in cui si sostiene che «[…] i continuatori di Democrito hanno scarsissima importanza nella storia della filosofia in quanto si sono serviti dell’Atomismo per lo più per trarne conseguenze scettiche, obliando il vero “spirito” dell’Atomismo.»

[6] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – vol. II, Laterza 1983, p.367-368. E’ comunque altamente significativo il fatto che nei suoi scritti Platone non citi “mai” gli atomisti: un’ “innominabilità” prossima al desiderio della loro “non-esistenza”.

[7] Così bloccato nelle sue aporie che un grande studioso della filosofia antica, Rodolfo Mondolfo; nel suo Problemi del pensiero antico (Zanichelli 1936) non si è peritato del minimo accenno a questa colossale aporia della quale ci stiamo qui occupando.

[8] Platone Opere complete – 6 – Timeo – Laterza 1974 - p.408.

[9] Platone Opere complete – 7 – Leggi, X Laterza 1992 - p.324-325.

[10] Ivi p.325

[11] A Hermann Diels va il merito di aver raccolto, attraverso un paziente e decennale lavoro di ricerca e catalogazione, uno straordinario corpus di documenti relativi ai pensatori greci che precedono in ordine temporale la comparsa di Socrate sullo scenario filosofico ellenico. Un grave limite della raccolta, a nostro avviso, sta però nel fatto che viene ignorato ogni criterio cronologico e che i frammenti vengono classificati “per argomento”, accostando pertanto autori appartenenti ad epoche e contesti completamente differenti. Del 1879 è la  pubblicazione del Doxographi Graeci, a cui segue Fragmente der Vorsocratiker, la cui prima edizione è del 1903. Seguita da altre edizioni (tra il 1906 e il 1922) l’opera, dopo la morte dell’autore (nel 1922), è stata curata con modesti aggiornamenti, mantenendo la struttura originaria, da Walter Kranz, sicché le edizioni posteriori al 1934 vengono citate con la doppia nominazione Diels-Kranz.   

[12] Penso a Giovanni Reale e ai suoi seguaci, tra i quali includerei Matteo Andolfo, traduttore e curatore di quella dei Vorsokraticker di Diels-Kranz (Atomisti antichi - Bompiani 2001) concernenti l’atomismo che utilizzeremo e citeremo più volte. Andolfo pone un titolo veramente stupefacente al Capitolo III del suo saggio critico che precede la parte documentale, che suona: L’ontologia e la gnoseologia degli Atomisti come “inveramento” di Parmenide. Tale titolo appare meno stupefacente (o quanto meno se ne capisce il motivo) quando si constata che la sua analisi trae spunto da un saggio di Reale e Ruggiu proponente una rilettura “innovativa” del poema parmenideo, tale da lasciare spazio ad una “continuità” ontologica tra la molteplicità, in quanto doxa, e l’unità, in quanto aletheia. Su questa base le insufficienze teoriche parmenidee verrebbero, secondo Andolfo, “risolte” attraverso una sorta di “completamento” da parte degli Atomisti. È particolarmente interessante, a tal proposito, il seguente passo: «Certamente, la visione ancora pre-metafisica (ossia ancora al di qua della netta distinzione tra fisico e metafisico) degli Atomisti rende aporetica la loro soluzione, poiché una volta ammessa la Molteplicità originaria degli atomi come differenziazione intrinseca dell’Essere stesso e complementare alla sua unità [sic!], la necessità del vuoto come esplicazione del moto atomico è superflua dal punto di vista logico-metafisico, mentre regge solo se l’Essere è qualcosa che, pur essendo invisibile, è anche fisico: […]».  Ovvero, l’atomismo materialistico “regge” soltanto se riconosce lo “spirito” dell’Essere parmenideo e vi si “auto-include”!

[13] Trai quali, in primis, Emanuele Severino.

[14] Aezio è un seguace eclettico della filosofia aristotelica vissuto nel I sec. ed è una fonte notevolissima di citazioni e testimonianze sulla filosofia antica. Il Diels lo studiò a lungo e arrivò ad ipotizzare una fonte più antica a cui Aezio avrebbe attinto (insieme al suo contemporaneo Ario Didimo) che indicò come i Vetusta placita, ritenendo che la composizione di essi fosse avvenuta nella prima metà del I sec.a.C. Da questa stessa fonte (sempre secondo il Diels) potrebbero derivare (in base alle analogie coi Placita) anche brani delle opere di Cicerone, Censorino e Filodemo. I Vetusta placita deriverebbero, a loro volta, dall’opera dossografica di Teofrasto, il cui influsso sarebbe presente sia in Ippolito che in Diogene Laerzio.

[15] Atomisti antichi, (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.121.

[16] Diogene Laerzio riferisce che nel catalogo di Trasillo (IX, 45-49) l’opera Sull’intelligenza viene attribuita al Democrito. (Atomisti antichi a cura di M.Andolfo, p.145).

[17] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 1981, p.655.

[18] Ivi, p.656.

[19] Ivi, p.694.

[20] Si potrebbe aggiungere che tale fenomeno è ubiquitario e appartiene ad ogni tempo. Anzi, in molti casi essere operatori della filosofia significa precipuamente “schierarsi” nel tenzone intellettuale. La figura del filosofo “fuori del mondo” e perso nelle sue meditazioni è uno stereotipo assai più letterario che reale.  

[21] È Diogene Laerzio a riferirci (X, 13) che Epicuro negava l’esistenza di Leucippo (come peraltro l’assai probabile suo alunnato presso il democriteo Nausifane) nella frase « […] Secondo Epicuro ed Ermarco il filosofo Leucippo non sarebbe mai esistito, mentre altri – e tra questi l’epicureo Apollodoro – affermano che Leucippo fu maestro di Democrito.» (Diogene Laerzio  Vite di filosofi, Laterza 1983, vol.II, p.404).

[22] Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti secondo la raccolta di H.Diels e W.Kranz (a cura di M. Andolfo) – Rusconi 1999 - p.263. Questa testimonianza è interessante anche per un’altra ragione, perché posta in rapporto al passo di Diogene Laerzio (67.A.2) dove si dice che Epicuro negava l’esistenza di Leucippo mentre il suo allievo Apollodoro di Tiro l’affermava, abbiamo qui una ulteriore smentita in ambito epicureo (qual è quello dei Papiri ercolanensi) dell’affermazione del maestro. Ciò conferma che tra i seguaci del filosofo del Giardino si era ben consapevoli dell’esistenza della figura di Leucippo, della sua importanza quale fondatore dell’Atomismo e forse di qualche manovra non proprio limpida ai danni della sua figura di filosofo. 

[23] Aristotele Opere, vol.III, Fisica – Laterza 1983, p.37.

[24] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.105.

[25] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – vol. II, Laterza 1983, p.364-365.

[26] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.694.

[27] Ivi, p.684.

[28] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.686.

[29] Ivi, p.773.

[30] Ivi, p.695.

[31] Ivi, p.694.

[32] Aristotele Opere, vol.III, Fisica – Laterza 1983, p.37.

[33] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.695.

[34] Ivi, p.651-652.

[35] I Presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.694.

[36] Ivi, p.735.

[37] Ivi, p.694.

[38] Ivi, p.727.

[39] Ivi, p.694.

[40] Ivi, p.685.

[41] Ivi, p.689.

[42] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.773-774.

[43] Ivi, p.700.

[44] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi, Laterza 1983, vol.II, p.369.

[45] Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.153.

[46] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.694-695.

[47] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.672.

 

 

 

                                    4.2 La questione leucippea.

 

    La comparsa della tesi atomistica sullo scenario della filosofia greca assume il significato di un irruzione di pluralismo estremo nel panorama di una fisica e di una metafisica dominate dalla pervicace ricerca di un origine “unica” per tutte le cose esistenti [48]. Un operazione di questo tipo deve aver generato all’epoca uno sconcerto non facilmente assorbibile, soprattutto nell’originaria versione leucippea basata su un casualismo ontologico che doveva apparire intollerabile. Non meno intollerabile di quanto non appaia anche nei tempi moderni, a giudicare dal pervicace e ripetuto tentativo di “addomesticare” l’atomismo leucippeo sostenendo, un impossibile e surrettizia derivazione dall’eleatismo, sulla base, come si è visto, di inconsistenti notizie circa un alunnato di Leucippo presso Zenone di Elea.

    Ma non soltanto di questo si tratta, infatti il problema non è tanto biografico quanto filosofico, e sotto due aspetti entrambi fondamentali: quello del metodo e quello del merito. Per quanto riguarda il primo aspetto va detto che la filosofia di Zenone si costituisce attraverso un procedere logico-dialettico che farà scuola e rimarrà esempio procedurale per tutta la logica successiva. Ma ciò è del tutto estraneo a Leucippo, e non soltanto perché dai documenti che ci informano sulla sua filosofia (e che verosimilmente ne riprendono l’argomentazione) è del tutto assente questo modo di argomentare, ma perché probabilmente per esporre la fisica degli atomi sarebbe del tutto inefficace. È infatti il discorso zenoniano un tipo di discorso su base confutativa prima che affermativa e quindi del tutto inutile per proporre e descrivere una nuova teoria fisica. Si aggiunga che sulla base dei testi a nostra disposizione appare in Zenone mancare completamente gli argomenti fisico o cosmogonico e che persino quello ontologico è reso pochissimo e con poche tracce del tutto insignificanti e tributarie di Parmenide [49]. La filosofia di Zenone, d’altra parte,  si costituisce attraverso “ragionamenti” logico-dialettici astratti (che anticipano molti posteriori procedimenti matematici), mentre quella leucippea è fatta di descrizioni fisico-cosmologiche concrete; perciò esse si muovono in direzioni completamente differenti e sul piano ontologico del tutto opposte. Ma vi è poi un problema specifico di merito, in quanto l’obbiettivo che si pone Zenone è quello di dimostrare l’inesistenza dell’infinito e della molteplicità, mentre quella di Leucippo è quella di porre un infinito (il vuoto) come condizione dell’esistenza della molteplicità degli atomi. C’è veramente da domandarsi in virtu di quali stravaganti supposizioni sia stato possibile collegare tra loro posizioni filosofiche così puntualmente contrarie ed oppositive.

    Tolto di mezzo ogni riferimento all’eleatismo, in quanto inconsistente e contraddittorio, la domanda che ci si può porre è però se la filosofia leucippea sia lo straordinario frutto di un pensiero rivoluzionario e innovativo oppure non abbia trovato dei precedenti a cui appoggiarsi od agganciarsi, e in tal caso quali siano questi precedenti e come abbiano potuto porsi come prodromi dell’atomismo leucippeo. Ma se teniamo presente che Leucippo è uno ionio (probabilmente di Mileto) diventa immediatamente chiaro come la sua filosofia non sia che il coronamento di un lungo processo evolutivo del pensiero greco-ionio [50]. 

    Della vita di Leucippo si conosce poco o nulla (ne è stata persino messa in dubbio la reale esistenza) e non vi è nulla di certo per poterne tracciare adeguatamente la figura, la sua patria e le sue vere ascendenze culturali. Le opere di lui sono poi, come si è visto, spesso confuse (o fatte confluire) con quelle del suo allievo Democrito [51]. Le fonti alle quali attingere sono pertanto costituite dalla tarda biografia di Diogene Laerzio e da un numero abbastanza limitato di testimonianze che coprono un arco di nove secoli. Sentiamo subito che cosa dice Diogene (IX, 30 sgg., Vors. 67.A.1):

 

    Leucippo nacque ad Elea; secondo certuni, ad Abdera; secondo altri, a Mileto. Fu scolaro di Zenone. Egli affema che le cose sono infinite di numero e si trasformano le une nelle altre; e che l’universo consta di vuoto e di pieno. […] [52]

 

Abbiamo fatto qui parlare per primo il biografo per eccellenza, in quanto estensore del testo più corposo su Leucippo, ma non dobbiamo dimenticare che Diogene scrive nel III secolo; quindi non possiamo esimerci dal chiederci quali elementi di certezza egli potesse possedere per affermare che Leucippo fosse di Elea (ed in più allievo di Zenone) dal momento che, per quanto ci risulti,  prima di lui soltanto lo Pseudo-Galeno (Historia philosopha, 3) e Clemente Alessandrino (Stromata, I, 64) avevano affermato essere Leucippo scolaro di Zenone; affermazione ripetuta poi da Sant’Ippolito (Refutatio I,12) che verosimilmente lo desumeva dal testo di Clemente di cui era certamente a conoscenza. Quali elementi potessero avere i sopra-citati per definire Leucippo scolaro di Zenone non lo sappiamo, ma è certo che questo alunnato di Leucippo sotto il famoso eleate compare molto tardi e paiono quindi legittimi seri dubbi circa l’attendibilità di tale asserzione, tra l’altro maturata in ambiti piuttosto estranei alla fisica e alla cosmologia. Infatti è solo nello scritto psudo-galenico (verosimilmente nato in ambito medico-filosofico e più tardo rispetto agli autentici scritti di Galeno) che compare questa assoluta novità. Ciò poiché, in ordine di tempo, la testimonianza più antica che possediamo su Leucippo rimane ancora sempre quella di Aristotele, il quale non cita mai la patria d’origine di Leucippo né fa alcun accenno a Zenone come suo maestro. Piuttosto, nel considerarlo il fondatore della scuola di Abdera (e nell’accostarlo costantemente a Democrito) se non ci lascia pensare che lo ritenga abderita neppure ce lo fa escludere. Nell’ordine temporale della documentazione di cui disponiamo lo Stagirita è seguito poi da Aezio (I sec.), il quale invece sembra avere un idea molto precisa di dove sia nato Leucippo, laddove afferma (I, 3, 15, Dox.285, Vors. 67.A.12):

 

Leucippo di Mileto poneva quali principi ed elementi del reale il pieno e il vuoto. [53]

 

Ovviamente non è detto che Aezio, quattro secoli dopo Aristotele, avesse maggiori elementi per definire la patria di Leucippo, ma è importante notare che comunque, sino a questo momento, né di un suo alunnato presso Zenone e tanto meno di una sua provenienza da Elea si parla.

    Ma torniamo alla già ricordata Historia philosopha (Hist. Philos., 3, Dox.601, Vors. 67.A.5), uno scritto già attribuito a Galeno e poi rivelatosi da studi novecenteschi non di lui, nel quale (parlando di Zenone) si afferma:

 

Leucippo di Abdera, scolaro di costui [Zenone d’Elea], per primo arrivò alla scoperta degli atomi. [54]

 

Quali elementi poteva avere questo misterioso Pseudo-Galeno per rendere una simile affermazione? Non possiamo saperlo come è ignoto il personaggio, ma il fatto che nessuno prima di lui ne avesse accennato appare certamente molto significativo. Quel che è certo è che tale affermazione, ritenuta di Galeno e complice il grande prestigio di lui (ricordiamo che fu medico personale degli imperatori Marco Aurelio e Commodo) ha dato inizio a tutta una serie di deduzioni circa Elea come luogo di nascita di Leucippo che alla luce delle precedenti testimonianze (verosimilmente più attendibili) appaiono del tutto arbitrarie. La notizia di un presunto alunnato di Leucippo sotto Zenone nasce dunque in ambito romano intorno al II-III sec. e quindi almeno sei secoli più tardi dell’esistenza reale di Leucippo.

    Ma torniamo a Diogene Laerzio per rilevare un particolare non privo di significato, ovvero che Diogene aggiunge quel «secondo certuni, ad Abdera; secondo altri, a Mileto».Ciò significa che egli sente il dovere di citare anche l’esistenza di voci difformi sulla patria di Leucippo e si deve presumere che, se lo fa, è perché ha qualche dubbio sulla veridicità della sua affermazione, anche (e se non altro) in relazione sia all’omissione di Aristotele e sia alla precisazione di Aezio. Se vogliamo poi completare il quadro delle nostre testimonianze abbiamo Sant’Epifanio che nel IV sec. (Adversus haereses, III, 2, 9, Dox.590, Vors.67.A.33) parla di un «Leucippo di Mileto, o di Elea» [55] e ancora più tardi (VI sec.) Simplicio, che ci riferisce di un «[…] Leucippo, di Elea o di Mileto (perché su di lui c’è l’una e l’altra tradizione), parteggiando per la filosofia di Parmenide non seguì però la stessa via di Parmenide e di Senofane […]» [56]

    Dalle osservazioni e dalle citazioni sopra fatte ne emerge che non vi è nessuna buona ragione storiografica per affermare che Leucippo sia stato scolaro di Zenone, poiché le testimonianze in tal senso sono tutte molto tarde, essendo la più recente in tal senso quella già citata dello Pseudo-Galeno, che non sembra poter risalire ad un epoca precedente la seconda metà del II secolo o l’inizio del III. In quanto a Diogene Laerzio, si sa come egli sia uno straordinario “raccoglitore” di notizie assai preziose, ma che non pare sufficientemnte critico nel selezionare le sue fonti di informazione, le quali sono poi, ricordiamolo, quelle del mondo greco-romano in un pieno III secolo ormai caratterizzato dalla forte presenza della cultura cristiana e di quella neoplatonica (ideologicamente nemiche e contrapposte, ma, ovviamente, entrambe del tutto aliene dall’occuparsi di un misterioso filosofo ateo del V sec.a.C. se non per condannarlo).      

    Ma ammettiamo che lo Pseudo-Galeno sia personaggio credibile e che abbia qualche buona ragione per indicare Zenone come maestro di Leucippo, occorrerà allora anche sottolineare il fatto che egli definisce Leucippo come nativo di Abdera. Dunque, secondo l’autore dell’Historia philosopha Leucippo dovrebbe essere un abderita che per qualche ragione si sarebbe trasferito ad Elea, oppure che avesse avuto qualche occasione di prendere lezioni da Zenone in qualche altro luogo. Ricordiamo che sino a questo Pseudo-Galeno nessuno aveva mai parlato di Zenone come maestro di Leucippo e tanto meno che egli potesse essere nativo di Elea; il ché avverà soltanto più tardi con Diogene Laerzio. Ora, se ci vediamo deduttivamente indotti ad escludere ogni riferimento ad Elea come luogo d’origine di Leucippo ci si deve chiedere  “come” e “dove” egli avrebbe potuto prendere lezioni da Zenone fuori di Elea. Abbiamo appreso nel Parmenide (127 a-b) platonico che Zenone, al seguito di Parmenide, avrebbe soggiornato ad Atene in occasione di una ricorrenza quadriennale delle Grandi Panatenee [57]. Questa visita, in base ai dati biografici e storici, avrebbe potuto avvenire intorno alla metà del V sec.a.C. Bisognerebbe allora presumere che: 1)  Leucippo si trovasse ad Atene in quel frangente e 2) Zenone vi tenesse lezioni di filosofia. Supposizioni, entrambe, assai problematiche; la prima perché non abbiamo notizia alcuna di un soggiorno di Leucippo ad Atene, la seconda perché sappiamo che Parmenide e Zenone sarebbero stati nella città attica per ragioni eminentemente politiche e non certo culturali. 

    Nella nostra ricerca volta a definire con caratteri di sufficiente probabilità la patria di Leucippo ci restano ancora tre possibilità di indagine che non lasceremo cadere: a) quella storica, b) quella geografica e c) quella antroponimica. Relativamente alla a) noteremo allora che Abdera sarebbe stata fondata, secondo il mito, da Ercole, mentre in realtà è colonia fondata e costituita da emigrati di Clazomene verso la metà del VII sec.a.C. Successivamente distrutta dai Traci venne poi ricostruita da abitanti di Teo (località poco a sud di Clazomene) in fuga dall’avanzata dell’impero persiano; sotto il cui dominio, comunque, Abdera cadde nel 515, rimanendovi poi sino al 478 a.C., data alla quale entrò a far parte della Lega delio-attica (rimanendovi sino al 411). Sono proprio questi gli anni, a cavallo della metà del V sec., in cui Leucippo, sempre che di Abdera non sia nativo, è arrivato in questa città, poiché Democrito (che vi nasce nel 460 circa) potrebbe essere diventato suo allievo dopo il 445. 

    L’insieme delle circostanze storiche sopra ricordate ci lascia pensare che Leucippo potrebbe aver fatto parte della seconda ondata migratoria dalle coste ioniche verso aree della Grecia più lontane dal centro del dominio persiano, ma comunque raggiungibili abbastanza facilmente. Clazomene e Teo sono città della Lidia, che è regione confinante con la Caria, e si trovano rispettivamente tra gli ottanta e i settanta chilometri circa da Mileto, che è una delle città più citate come possibile patria di Leucippo, sia pure soltanto da Aezio in poi. Il quale, in ogni caso, precede di almeno due secoli Diogene Laerzio che la indica invece in Elea (sulla scorta dello Pseudo-Galeno), ma che non va dimenticato l’associa comunque anche ad Abdera («secondo alcuni») e a Mileto («secondo altri»). Ne consegue che Mileto assume un grado di probabilità di essere patria di Leucippo non molto inferiore a quella di Abdera, in considerazione del fatto che Aristotele, almeno in un caso (De caelo, III, Γ, 4, 303 a 4), si preoccupa di aggiungere l’aggettivo “abderita” al solo Democrito (οϊον Λεύιππος τε καί Δημόκριτος ό Άβδηρίτης) lasciandoci in sospeso reltivamente a Leucippo. Non è inprobabile che lo Stagirita fosse a conoscenza di voci che non davano Leucippo come nativo di Abdera e che in tale occasione abbia voluto precisare il luogo di nascita di Democrito, astenendosi motivatamente dall’attribuire la stessa provenienza al primo, in quanto non era in possesso di elementi sicuri.

    Per quanto riguarda l’elemento b) geografico della nostra analisi va notato che Abdera era facilmente raggiungibile dalle località dell’Asia Minore sia via mare sia via terra in un tempo relativamente breve. E d’altra parte la temperie storica in cui si colloca la vicenda della nascita della filosofia atomistica rende possibile anche un eventuale trasferimento di emergenza, senza grandi difficoltà e in tempi abbastanza ristretti. Si aggiunga che essendo Abdera fondata da popolazioni ioniche, sia con la prima ondata (da Clazomene) sia con la seconda (da Teo), l’origine etnica della popolazione ne faceva un contesto in cui non solo si parlava lo stesso dialetto delle città della Caria e delle zone limitrofe, ma in cui anche relativamente ad ascendenze storiche e culturali, nonché usi e costumi, essa poteva rappresentare un contesto sociale relativamente famigliare sia per un lidio che per un cario. All’opposto, l’ipotesi di una provenienza italica di Leucippo pare del tutto improbabile, sia perché l’unica possibilità di trasferimento era quella via mare, sia per la grande distanza esistente tra la costa tirrenica e le coste settentrionali dell’Egeo e sia, infine, poiché non si vede la ragione per cui un greco di Elea avrebbe dovuto lasciare una patria che stava attraversando un periodo di grande prosperità (in seguito alla caduta di Sibari e alle lotte con con Poseidonia e Lao, nonché all’apertura dei commerci con gli Etruschi (antichi nemici) per cercare fortuna così lontano e in un area funestata di recente dalle guerre persiane.

   Rimane l’elemento c) antroponimico, di per se stesso di importanza non trascurabile, ma che correlato agli elementi sopra esaminati risulta rafforzativo delle nostre tesi e per alcuni versi dirimente.  L’antroponimia è branca dell’onomastica che stabilisce in termini storici, contestuali e topologici, come un nome proprio di persona sia nato, si sia diffuso in una certa area e sia stato usato in quella o in altre aree. Leucippo è il nome proprio di molti personaggi mitici appartenenti ad un areale abbastanza vasto che copre il mondo ellenico attorno al Mar Egeo, concentrandosi tuttavia specialmente nell’area peloponnesiaca meridionale e sulle coste dell’Asia Minore. Va aggiunto che, al femminile, il nome Leucippo veniva declinato in Leucippe e che vi sono numerose eroine mitiche con questo nome, la prima delle quali (in una certa tradizione) sarebbe stata moglie di Laomedonte (uno dei primi re di Troia) e quindi madre di Priamo. In altre tradizioni Leucippe è moglie di Testio (eroe etolo) e madre di Ificlo (protagonista di leggende tessali), in altre va riferita a Micene, in quanto figlia di Testore e sorella di Calcante (il mitico indovino omerico), in altre ancora è madre di Euristeo (re di Tirinto, Micene e Midea in Argolide). Emergono qui una linea mitica principale, quella del Peloponneso meridionale, ed in subordine quella troiana e quella tessala. In ogni caso nulla che possa riferirsi al mondo tirrenico. Per quanto riguarda il nome maschile Leucippo abbiamo almeno nove linee mitologiche derivate da altrettanti personaggi mitici differenti. Li elenchiamo in successione:    

 

  1. E’ figlio di Enomao (re dell’Elide) in una variante laconica del mito di Dafne. Innamorato della ninfa (e quindi concorrente di Apollo) si travestì da ragazza per avvicinarla, ma l’inganno gliela fece perdere definitivamente. In un’altra versione più cruenta Artemide venne a sapere dell’inganno e lo uccise. In un’altra variante ancora è un Apollo geloso che trova il modo di toglierlo di mezzo provocando l’ira delle compagne di Dafne. 

  2.  Nipote di Eolo (re di Messene), figlio di Periere e fratellastro di Tindaro. Fu padre di Febe e Ilera, che andarono spose a Castore e Polluce. La leggenda era diffusa in ambito peloponnesiaco (Laconia e Messenia) e collegata alle imprese dei Dioscuri.

  3.  Figlio di Turimaco, re di Sicione (Argolide settentrionale). La sua figlia Calchinia venne ingravidata da Poseidone. Il figlio che ne nacque (Perato) venne adottato da Leucippo, che ne fece il suo successore.   

  4. Figlio dell’eroe cario Nasso (eponimo dell’isola di Nasso), di cui Leucippo fu re. Sotto il regno di suo figlio Smerdio si verifica l’episodio dell’abbandono di Arianna da parte di Teseo. E’ leggenda tipica dell’ambito cario-egeo.

  5. Figlio di Xantio (discendente di Bellerofonte). Per una maledizione di Afrodite si innamorò della propria sorella e ne diventò l’amante. In seguito a vicende drammatiche legate al suo incesto passò in Tessaglia e con dei tessali fondò poi una colonia a Creta. Cacciato dai compagni ritornò in Asia Minore e fondò la città di Cretineone, nella regione di Mileto. In una variante di questa leggenda Leucofrine, figlia di Mandrolito di Magnesia sul Menandro, aveva tradito la propria patria per amore di Leucippo (che era a capo di un esercito nemico).

  6. Uno dei figli avuti da Eracle con una delle figlie di Tespio (eroe eponimo della città beota di Tespi). Eracle, come è noto, è capostipite della stirpe dorica e quindi appartenente ad una mitologia micenea e forse pre-micenea. Tuttavia la sua diffusione ne fa un personaggio mitologico quasi ubiquitario di tutto il mondo ellenico e quindi difficilmente riferibile ad una regione in particolare.

  7. Figlio di Euripilo, personaggio mitico le cui leggende si dispiegano tra la Tessaglia e il Golfo di Patrasso. In altre varianti Euripilo è un figlio di Posidone che regnò su Cirene in Libia.

  8. Figlio di Pimandro, eroe beota fondatore della città di Pimandria (poi Tanagra). Leucippo venne ucciso involontariamente dal padre con un sasso che era stato lanciato contro il muratore Policrito che l’aveva insultato durante la costruzione delle mura della città. In seguito all’involontario delitto Pimandro dovette abbandonare la Beozia. Fu ospitato da Achille che lo mandò in missione presso Elefenore di Calcide, nell’isola di Eubea. 

  9. Leucippo è figlia di Galatea [58], una donna di Festo (Creta), sposata ad un certo Lampro. Scopertasi incinta il marito le esprime l’auspicio che ella partorisca un maschio, nel caso di una femmina avrebbe dovuto esporla e lasciarla morire. Quando le nasce una bambina Galatea la veste da maschio e le dà il nome di Leucippo. Crescendo Leucippo diventò però una bellissima ragazza, la quale, timorosa del padre, si recò al santuario di Latona, chiedendole di poter cambiare sesso. Desiderio che venne esaudito dalla dea [59].

 

    Come si noterà il nome Leucippo (così come nella versione femminile Leucippe) ricorre in un’area intorno al mar Egeo piuttosto vasta e tuttavia circoscrivibile, che si estende dall’Elide e dalla Messenia (a ovest) alla Tessaglia (a nord) a Nasso e alla Caria (a est) e a Creta (a sud). Non esiste nessun riferimento al mondo tirrenico né a quello più genericamente italico. Noi riteniamo quindi che anche questo elemento antroponimico possa costituire l’ultimo tassello della nostra analisi e ci permetta, insieme con gli altri elementi emersi più sopra, di giungere alla conclusione che con buona probabilità Leucippo potrebbe essere stato nativo della stessa Abdera o ivi trasferito al seguito di correnti migratorie, più o meno connesse alle guerre persiane, provenienti da città sulle coste dell’Asia Minore. Disponendo però di alcune indicazioni (in primis quella di Aezio) che indicano in Mileto la sua città natale (cfr. anche le leggende 4, 5 e soprattutto la 9) ci sembra di poter ragionevolmente concludere che Mileto potrebbe essere stata la città natale di Leucippo o che da essa potesse provenire la sua famiglia. Se la nostra analisi è corretta la provenienza da Elea va quindi recisamente esclusa e con essa il suo non meno improbabile alunnato presso Zenone.

 

 

 

                                              4.3) Leucippo.

 

    Ci è ora possibile affrontare l’analisi della filosofia leucippea in modo corretto, avendo preliminarmente chiarito che si deve escludere dal suo orizzonte il fumoso e improbabile alunnato di Leucippo presso Zenone di Elea, poiché non vi è, a dispetto di tutte le forzature ermeneutiche di cui ha sofferto, alcun punto di contatto col pensiero parmenideo e ancora meno con quello zenoniano, che è incentrato su questioni logico-dialettiche completamente estranee al mondo ionico a cui Leucippo appartiene, nonché all’indagine fisico-naturalistica che lo guida. Siccome però è difficile pensare Leucippo come un fungo che spunta improvvisamente nel bosco del pensiero greco, occorre vedere se sia possibile individuare qualche ascendenza della sua filosofia che risulti più plausibile. Noi pensiamo che non possano esserci dubbi sul fatto che la filosofia leucippea si colleghi “direttamente” a quella di Anassagora (che la precede di non moti anni), della quale costituisce una sorta di affinamento speculativo, ma con la quale mantiene molti punti di contatto, individuabili nell’analogia nous/movimento e in quella omeomerìe/atomi. D’altra parte è solo il caso di ricordare che entrambi i filosofi provengonono dallo stesso contesto culturale, quello dell Ionia [60], che era già stata la culla del pensiero fisico-naturalistico del VII e VI sec.a.C.      

    E tuttavia vi è in Leucippo una novità fondamentale rispetto ad Anassagora ed è la teorizzazione di un nuovo concetto fisico, il vuoto [61], in cui accade tutto ciò che di reale può accadere e senza il quale non accadrebbe nulla. Già i pitagorici avevano parlato in qualche modo di vuoto, ma esso era in un certo qual senso “incoerente” con la teoria dei numeri e quindi improprio in quel contesto. Per gli Eleati poi, com’è noto, il vuoto era concetto fuori causa, semmai relegabile nell’impossibilità del non-essere. Leucippo, invece, elegge proprio il vuoto a fondamento della propria fisica, mettendo con ciò in mora quel concetto di non-essere eleatico fino a convertirlo (semmai ne avesse tenuto conto) in origine e culla dell’essere (quindi esso stesso elemento d’essere in quanto lo rende possible). Ma, ed è novità rivoluzionaria, il Nostro sostituisce l’unità del cosmo con una dualità strutturale, che è a sua volta origine di una pluralità di costituenti elementari indivisibili [62]. Una filosofia che quindi non può, come sostiene qualcuno, partire dall’unità eleatica per “salvare” la molteplicità dei fenomeni, ma che parte da questa per teorizzare il rapporto cosmogonico vuoto-movimento-atomi, in modo completamente avulso ed estraneo all’“essere” parmenideo.

    Ma a ben vedere il concetto di vuoto posto da Leucippo corrisponde esattamente a quello di spazio-vuoto in senso moderno, da ciò il modo completamente nuovo con cui questo ionio del V sec.a.C. concepiscela realtà, con importantissime ricadute anche nel campo scientifico. Aristotele (che nega il vuoto sia perché esso sarebbe infinito e sia perché in esso non ci sarebbero “luoghi” reali e quindi sarebbe impossibile il movimento) rimane invece concettualmente “aldiquà” del vuoto leucippeo [63], che mostra di non comprendere, sostituendovi il suo concetto di spazio, come sede del moto dei corpi fisici in un universo statico ed immutabile.

    Il più importante scritto di Leucippo, l’opera in cui risultava esposta la sua teoria fisico-cosmogonica è, come si è già visto [64], la Grande Cosmologia, che deve essere sempre tenuta ben distinta dalla Piccola Cosmologia, invece di Democrito. A causa di oscure vicende, a cui si è già accennato, quest’opera fondamentale della filosofia greca è andata in gran parte dispersa, venendo inoltre in seguito perlopiù assegnata al più famoso e assai meglio documentato allievo [65].  Fortunatamente una parte di essa ci è pervenuta attraverso Aezio, dossografo non sempre attendibile, ma che in questo caso, per la coerenza discorsiva del frammento, sembra doversi riferire a una descrizione che potrebbe non scostarsi troppo dall’originale. Si tratta del frammento 289 dal Doxographi Graeci di Diels (più tardi 67.A.24 [66] dei Vorsokratiker), che ci offre verosimilmente un passo importante della Grande cosmologia, ma che si colloca sicuramente (si noti l’inciso “allora”) dopo un’esposizione preliminare andata perduta nella quale dovevano esser teorizzati il vuoto, gli atomi e l’infinità dei mondi [67] :

 

    (1) Il cosmo, allora, si costituì configurandosi secondo una figura ricurva in questo modo: essendo gli atomi soggetti a un moto casuale e imprevedibile e muovendosi senza sosta e velocemente, molti corpi si radunarono in uno stesso luogo [e] per questo hanno una tale varietà di configurazioni e di grandezze. (2) Raccoltisi in un identico luogo, quanti di loro erano più grandi e più pesanti si collocarono nel punto assolutamente più basso; quanti di loro, invece, erano piccoli, rotondi, lisci e scorrevoli, venivano espulsi in corrispondenza del sopraggiungere degli altri atomi e venivano sospinti in alto, nella regione superiore. Allora, al venire meno della potenza che li sospingeva, sollevandoli verso l’alto, l’impulso non li conduceva più verso la regione superiore e per l’impedimento degli atomi sottostanti non potevano venir condotti neanche verso il basso, sicché si piegarono a comprimersi nei luoghi dove c’era possibilità di essere accolti. Questi erano i luoghi circostanti e in essi si dispose la moltitudine degli atomi. Essendosi intrecciati a vicenda lungo tutta la curvatura di quei luoghi generarono il cielo. [68]

 

Fin qui si possono evidenziare i seguenti punti: a) l’universo ha un “inizio”, b) ha una forma “curva”, c) gli atomi si muovono di “moto veloce e intermittente” [69], d) questo moto è “casuale” [70], e) gli atomi si stratificano nel vuoto in base al loro “peso”. Ma proseguiamo:

 

(3) Essendo svariati gli atomi della stessa natura, come sopra si è detto, fuoriuscendo verso la regione più alta, diedero compimento alla natura degli astri. La quantità di atomi fuoriusciti per evaporazione percosse l’aria comprimendola. Quest’ultima allora prese a soffiare secondo il movimento e trascinò nel suo moto ventoso gli astri, girando circolarmente con loro, e tuttora ne custodisce il movimento. In seguito, dagli atomi rimasti nella sede inferiore fu generata la terra, mentre dagli atomi presenti nella regione superiore furono formati il cielo, il fuoco e l’aria. (4) Essendo rimasta ancora molta materia nella terra, materia che si condensava sotto lo sferzare dei venti e sotto l’influsso delle auree astrali, si compresse tutta la configurazione delle sue parti più piccole, generando la natura umida: questa, per il suo carattere fluido, fu portata verso il basso, verso i luoghi cavernosi e idonei a recepirla e a conservarla, oppure l’acqua stessa rese certi luoghi cavi e idonei a farle da recipiente. Le principali parti del cosmo furono generate in questo modo. [71]

 

Prosegue il criterio “densimetrico” di stratificazione dei corpi e la formazione del moto ventoso circolare (il “vortice”), dove il vento generatore è la forza che in un certo senso ordina la struttura cosmica e custodisce il movimento [72]. L’acqua si genera dalla terra “per compressione” e va a riempire i bacini naturali che l’accolgono mentre altri ne genera con la sua erosione. Si noterà che fin qui la moltitudine degli atomi pare andare a costituire i classici quattro elementi già visti in Empedocle; il fuoco, l’aria, la terra e l’acqua.  Ma mentre nel filosofo di Agrigento questi erano originari ed eterni, in Leucippo non lo sono; essi sono già infatti natura “secondaria”, di grado derivato da quella originaria (gli atomi) di cui sono soltanto aspetti macroscopici percepibili.

    Nei suoi repertori documentali il Diels (Doxographi Greci del 1879 e Die Fragmente der Vorsokratiker del 1903 e seguenti) ha posposto al frammento da cui sono tratti i due passi che abbiamo citato (e con lo stesso numero di catalogo) un brano di provenienza completamente diversa, che egli ha tratto dall’Epistola a Pitocle di Epicuro resaci da Diogene Laerzio. Ancorché tale associazione verrebbe a confermare la nostra tesi, in quanto nella penultima frase si esprime chiaramente contro la necessità, affermando:

 

[…] Infatti non deve solo generarsi un coacervo atomico né un vortice nel cui vuoto venga per necessità ricevuto il cosmo, affinché questo si generi, come si opina comunemente, un cosmo che poi si crescerebbe sino a venire in urto con un altro, come sostengono alcuni dei cosiddetti “fisici”. Ciò, infatti, è in contrasto coi fenomeni. [73]

 

ci sembra corretto non accettare questo “incollaggio”, in quanto si tratta di un testo epicureo e soltanto in via induttiva riferibile ad un precedente testo leucippeo. Anche se sembra assai probabile la mala fede di Epicuro nel negare l’esistenza di Leucippo ciò non significa che egli, in questo brano dell’Epistola a Pitocle, “ripeta” un passo della Grande cosmologia, mentre è assai più probabile che egli faccia riferimento alla Piccola cosmologia di Democrito, certamente più nota all’epoca e probabilmente ancora in circolazione e di cui contesta però la necessità causale a fronte di un «come si opina comunemente» e di un «come sostengono alcuni dei cosiddetti “fisici”». Com’è noto Epicuro, infatti, col concetto di “declinazione” della caduta degli atomi (parenklisis-clinamen), re-introduce il caso nella fisica atomistica. Proprio quel caso che Democrito aveva espunto e sostituito con la necessità.

    Riteniamo qui opportuna una breve digressione di carattere scientifico, per sottolineare come la teoria atomistica leucippea riveli sì delle straordinarie intuizioni, ma come rimanga comunque assai lontana dalla realtà fisica che la scienza moderna va evidenziando. L’atomo reale è, in effetti, costituito di un minuscolo “pieno” dotato di peso (il nucleo) e di un (proporzionalmente) enorme “vuoto”, che lo circonda e in cui si muovono gli elettroni (che hanno peso quasi nullo). L’atomo è quindi una struttura costituita nella massima parte dal vuoto e con al centro un nucleo infinitamente piccolo, ma che può pesare anche relativamente molto. C’è di più, il peso è realmente un “pieno”; infatti un atomo di piombo è più pieno di uno di ferro, poiché il suo peso, ovvero la sua massa, è 207 contro 56 circa, dove questa massa è data dal numero di protoni e neutroni che costituiscono il nucleo. Quanto maggiore è il numero di queste particelle pesanti tanto meno l’atomo è vuoto. Presi due corpi standard di eguale volume (per es. 1 dm) dei due metalli, quello di piombo è realmente “più pieno” di protoni e neutroni rispetto a uno di ferro, ed inversamente “meno vuoto”. Se prendiamo un atomo leggerissimo come quello dell’idrogeno (che ha massa 1) potremo dire che esso è 56 volte più vuoto di quello del ferro e 207 volte più vuoto di quello del piombo. Riteniamo pertanto che un enunciazione della teoria di Leucippo che non tenesse conto di queste nostre precisazioni (e venisse gabellata tout court per “anticipazione” della fisica moderna) potrebbe generare equivoci gnoseologici assai gravi. Infatti, gli atomi leucippei (a differenza di quelli reali) sono “tutti pieni” e per di più “forme” e non masse.

    Concludiamo l’analisi del frammento Dox. 289 della Grande Cosmologia per ribadire (reperita juvant) come Democrito, introducendo e legando assieme i due concetti di necessità e di vortice, per un verso abbia effettuato una sostituzione della causa cosmogonica “prima”, ma nello stesso tempo, pur mettendo così in ombra il caso, non si sia poi peritato di negarlo chiaramente, lasciandolo così sussistere “sullo sfondo”. Da ciò il già citato equivoco aristotelico, che imputava agli atomisti le contraddizioni ben evidenziate nella Fisica (II, 4, 196 a 25-35) e da ciò la sviante identificazione dell’atomismo democriteo con quello del suo maestro, le cui disastrose conseguenze cognitive già abbiamo evidenziato al paragrafo 3.1. Ovviamente potrebbe anche risultare legittima la tesi che le modificazioni portate da Democrito all’interno dell’impianto leucippeo debbano essere considerate come una evoluzione di esso, nel senso che l’allievo abbia cercato di delineare un passaggio dal caos originario al relativo ordine del mondo reale attraverso l’ “inserimento” della necessità in termini di cogenza (per salvaguardare il relativo ordine del mondo reale). Ma anche ammettendo ciò, in ogni caso, le due versioni dell’atomismo differiscono per un punto di partenza assai rilevante, che non può essere omesso (come abbiamo già sostenuto) in quanto concettualmente dirimente. [74]

    Come abbiamo visto Aristotele mette insieme il caso leucippeo e la necessità democritea come l’aspetto biunivoco di una teoria sì interessante, ma fondamentalmente incoerente:

 

    Vi sono alcuni, al contrario che considerano il caso come causa di questo cielo e di tutti i mondi: ché dal caso deriverebbero il vortice e il movimento che separa e dispone il tutto secondo quest’ordine. [75]

 

Ma ciò che è ancora più interessante è il fatto che egli ritenga qui che dal caso derivi, attraverso il vortice e il movimento, l’ordine. In altre parole, lo Stagirita ha perfettamente tematizzato l’evidente contraddizione caso/necessità insita nel “pasticcio” di cui è vittima l’atomismo e la compone riconoscendo il caso come origine del vortice e del movimento che crea l’ordine. Gli sfugge però che l’ordine per Democrito è diventato “necessitato” e che per una sortas di feed back concettuale la necessità va a sostiture il caso, contraddicendo con ciò Leucippo. Aristotele evidentemente non possedeva elementi storiografici che gli lasciassero intravvedere la la dicotomia esistente tra l’originaria cosmogonia leucippea e le varianti democritee, ma non era giunto al punto di mistificare i dati al punto di minimizzare la teorizzazione del caso, come una sorta di appendice della necessità.   

    Gli atomi per Leucippo erano delle pure “forme” della materia e ad avere peso erano unicamente i corpi da essi formati per aggregazione. Tali elementi “primi” si differenziano per “figura”, per “ordine” e per “posizione”. L’importanza delle teorizzazioni di Leucippo sono testimoniate dalla presenza (più o meno esplicita) di esse nelle trattazioni filosofiche posteriori, specialmente in quella di Aristotele. Si noti che persino l’idealista e anti-atomista Platone sembra quasi riprendere involontariamente il concetto di vuoto leucippeo là dove afferma (Timeo, 51 a, b):

 

[…] e v’è poi una specie sempre esistente, quella dello spazio, la quale è immune da distruzione, e dà sede a tutte le cose che hanno nascimento, e si può percepire senza il senso, per mezzo d’un ragionamento bastardo [intermedio tra ragione e percezione], ed è appena credibile, guardando alla quale noi sogniamo e diciamo esser necessario che tutto quello che è e si trovi in qualche luogo e che occupi qualche spazio, e che quello che non è né in  terra né in qualche luogo del cielo, non è niente. [76]

 

E poco più avanti (52 d, 53 e):

 

    Ecco dunque in breve il mio ragionamento secondo che io penso. V’erano anche prima che esistesse il cielo tre principi distinti, l’essere, lo spazio e la generazione […] [77]

 

Ma che cosa sono questo “essere”, questo “spazio” e questa “generazione” se non dei corrispondenti del “pieno”, del “vuoto” e del “movimento” di Leucippo? E tuttavia, è in Aristotele che noi ritroviamo maggiore attenzione ai principi dell’atomismo. Scrive egli nella Fisica (IV, 6, 213 b 31 - 213 b 1-4):

 

Ora [parla di Anassagora e dei suoi seguaci], non è questo che si deve mostrare, ossia che l’aria è qualcosa, ma che non vi è un intervallo diverso dai corpi, né come separabile né come esistente in atto, il quale separi ogni corpo così da non essere continuo, come affermano Democrito, Leucippo e molti altri tra i fisiologi, o anche se sia alcunché d’esterno a ogni corpo continuo. Ebbene, costoro [Anassagora, ecc.] non giungono neppure alle porte rispetto al problema, ma [vi giungono] piuttosto coloro che sostengono che [il vuoto] esiste. [78]

 

Veniamo ora al passo della Metafisica (I, A, 4, 985 b, 4-10) dove egli afferma: 

 

[…] Leucippo, invece, e il suo compagno Democrito affermano che sono elementi il pieno e il vuoto, [considerando l’uno come essere, l’altro come non-essere], identificando il pieno e il solido con l’essere, il vuoto col non-essere (perciò essi sostengono anche che l’essere non esiste affatto più del non-essere, giacché il vuoto è reale come il corpo), e secondo loro queste sono le cause della realtà, e cause in senso materiale. [79]

 

Il passo è chiarissimo; se il vuoto e il pieno hanno pari dignità ontologica non si vede come il non-essere parmenideo (ciò che non c’è, ovvero ciò che è impossibile) possa diventare il non-essere leucippeo (cio che c’è, ed è reale). Eppure vi sono a tuttoggi degli storici della filosofia che (come abbiamo già sottolineato) osano ancora sostenere che gli atomi leucippei deriverebbero da un sorta di “frantumazione” dell’essere eleatico; per cui Leucippo non negherebbe il primato ontologico dell’essere di Parmenide (il tutto “pieno”) ma si muoverebbe ancora sempre “all’interno” della sua ontologia [80]. Come abbiamo già rilevato, la patente arbitrarietà di una simile tesi è evidente: non solo Leucippo si oppone all’ontologia di Parmenide, ma la rovescia completamente. Il vuoto leucippeo (il non-essere) può essere infatti inteso anche quale realtà primaria che “rende possibile” qualcosa come l’essere in atto; infatti, può esistere un “pieno” poiché il vuoto genera (o almeno consente) il movimento che lo crea; perciò senza il vuoto il pieno semplicemente non esisterebbe. Mentre, in teoria, il vuoto (l’abisso di Esiodo o anche il “nulla”) potrebbe esistere indipendentemente dal pieno. Se la nostra analisi è corretta l’essere (il pieno) non è più “origine”, poiché è il vuoto (il non-essere) a diventarlo, assumendo questo pertanto una priorità ontologica che risulta del tutto opposta rispetto alla filosofia eleatica.

   Ma è il caso di soffermarci anche su un passo che incontriamo poco dopo (I, A, 4, 985 b, 13-20) in cui Aristotele muove agli Atomisti il rimprovero di non aver approfondito l’origine del moto:

 

[…] Essi riducono, tuttavia, queste differenze a tre, ossia alla figura, all’ordine e alla posizione, giacché affermano che l’oggetto si distingue per proporzione, per contatto e per direzione; ma tra queste tre cose, la proporzione si identifica con la figura, il contatto con l’ordine, la direzione on la posizione: difatti A differisce da N per figura, AN da NA per ordine, Z da N per posizione. Ma per quel che concerne il movimento, ossia quale sia la sua origine e quale sia il modo in cui esso è presente nella realtà delle cose, anche questi filosofi, presso a poco come gli altri, hanno lasciato correre per negligenza. [81]

 

Questo rimprovero non ci sembra giustificato, poiché allo Stagirita, in un eccesso di rigore analitico, sembra sfuggire che il movimento è intrinseco agli atomi e non una causa che agisce su di essi. Gli atomi di Leucippo sono tali in quanto dotati, come abbiamo visto, di un movimento intrinseco, continuo, casuale e imprevedibile. Sarebbe come se noi volessimo separare uno spin dallo spinning della particella elementare cui afferisce. Se pure Democrito, come vedremo, sembra ritenere questo moto intrinseco non attribuibile al caso (ma ad una necessità interna agli atomi stessi) rimane il fatto che questo movimento primario degli atomi (che Aristotele sembra confondere col moto secondario dei corpi) non può venire considerato a parte, essendo un attributo “proprio” degli atomi, inscindibile dal fatto stesso di “essere atomi”.  

    Ma Aristotele coglie poi molto bene, e rende con chiarezza, il pensiero atomistico relativamente alla formazione e alle modificazioni degli enti (Della generazione e della corruzione I (A), 8, 324 b 35, passim sino a: 325 a 28) :

 

[…] Ma sono stati Leucippo e Democrito quei pensatori che, partendo da un principio conforme alla realtà naturale, hanno dato le loro spiegazioni con la massima correttezza metodologica e mediante un unico procedimento razionale che abbraccia tutti i problemi.

    Alcuni filosofi antichi [gli Eleati] reputarono, invero, che l’essere è necessariamente uno e immobile; difatti, secondo loro, il vuoto non esiste e il movimento non può, dal canto suo, svilupparsi per il fatto che il vuoto non ha esistenza separata, e neppure esiste una pluralità di cose, perché non esiste ciò che terrebbe disgiunta una cosa dall’altra; […]

    Leucippo, invece, credeva di essere in possesso di argomentazioni le quali, svolgendosi in accordo con la percezione sensibile, non avrebbe eliminato né la generazione né la corruzione, e neppure il movimento e la pluralità delle cose esistenti […] egli afferma che il vuoto è non-essere e che nulla di ciò-che-è si identifica col non-essere: difatti l’essere nella sua più autentica accezione, si identifica con ciò-che-è-tutto-quanto-pieno. [82]

 

       

                                           

 

 

                                       

 

                                              4.4) Democrito

 

    Prima di parlare specificamente di Democrito dobbiamo fare una considerazione preliminare, in relazione al suo maestro, poiché, come è già stato sufficientemente rilevato ed evidenziato, Democrito è autore della Piccola cosmologia, la quale, nel riprendere le tesi esposte nella Grande da Leucippo, vi apporta alcune modifiche assai importanti. Sarebbe storiograficamente fondamentale poter effettuare qualche confronto tra le due, ma per fare ciò dovremmo disporre di frammenti omogenei, il ché non si dà, purtroppo. Della Grande abbiamo quel frammento resoci da Aezio che è abbastanza significativo, ma largamente incompleto, ed i frammenti di cui disponiamo relativi alla Piccola non permettono un confronto diretto, e tuttavia ci pare rendano bene la misura degli sviluppi democritei. Su Democrito i dati biografici sono abbastanza precisi (nato ad Abdera nel 460 circa e morto nel 370 a.C.circa) e le testimonianze sulla sua vita e sul suo pensiero piuttosto copiose (anche se largamente sofferenti della confusione/sovrapposizione già ricordata). Un’esposizione esauriente delle sue teorie ce la offre la vita di Diogene Laerzio, la quale, quantunque assai tarda, è sostanzialmente coerente con le testimonianze più antiche. Diogene afferma:

 

    (44) I punti fondamentali della sua dottrina sono i seguenti: i principi originari dell’universo sono gli atomi e il vuoto, tutte le altre cose sono mera opinione. I mondi sono infiniti, soggetti alla generazione e alla corruttibilità. Nulla diviene dal non essere e nulla perisce nel non essere. Gli atomi sono infiniti per grandezza e per numero; si muovono vorticosamente nell’universo e generano così tutte le cose composte, fuoco, acqua, aria e terra; perché anche queste sono unioni di determinati atomi, che per la loro solidità sono impassibili e incambiabili. Il sole e la luna sono costituiti di tali masse atomiche levigare e sferiche e così egualmente l’anima, che è identica alla mente. La nostra vista è una conseguenza della incidenza delle immagini sui nostri occhi. Tutto accade secondo necessità; egli chiama necessità il vortice che è la causa della genesi di tute le cose. [83]

 

Le “immagini sui nostri occhi” sono quegli eidola di cui Democrito è importante teorizzatore (ripresi poi da Epicuro) e che vanno a costituire l’elemento primo della teoria della conoscenza dell’Abderita.  Rispetto ad Aristotele che, come abbiamo visto, vedeva l’insanabile contraddizione tra la teorizzazione del caso come causa del cielo e della necessità come causa del mondo vivente, Diogene sembrerebbe (sei secoli dopo) non registrarla più. E in effetti (lo abbiamo visti al § 4.1) da un certo momento in poi il fattore “caso” in riferimento a Democrito viene perlopiù abbandonato e si parla soltanto più di necessità. Ma non si deve pensare che ciò dipenda da una sedimentazione conoscitiva, ma semmai proprio dal fatto che il caso, nel suo significato ontologico, viene proprio “espulso” dall’ambito della filosofia e confinato nell’oblìo. Ma sull’argomento fisico-cosmogonico non torneremo, concentrando invece la nostra attenzione sugli aspetti più originali della filosofia democritea, costituiti dalle sue teorie di carattere astronomico, biologico, fisiologico, antropologico, cognitivo ed etico. Aristotele che pure non è stato tenero con Democrito (ma assai più severo sarà Teofrasto in De sensu [49 e ss.]) doveva avere una certa stima di lui (almeno in campo biologico) quando scrive (Della generazione e corruzione, I (A), 2, 315 a 30-35): 

 

    A dirla in breve, nessun filosofo si è occupato di alcuna di queste questioni se non in modo superficiale, ove si eccettui Democrito; […] [84]

 

    Un resoconto sufficientemente ampio della Piccola cosmologia è quello resoci da Diodoro Siculo (che lo riprende da Ecateo di Abdera), il cui inizio ricalca un po’ quello leucippeo visto a suo tempo (Dox.289) ma senza alcun accenno al moto cosmogonico originario, per cui gli argomenti sembrano svilupparsi “a valle” di esso. Ma è proprio tale sviluppo a darci un’idea precisa dello spessore teorico della ricerca filosofica democritea, che appare il più grande naturalista teorico precedente Aristotele. Riferisce Diodoro (Bibliotheca historica I, 7, 1):

 

    (1) Conformemente alla mescolanza originaria di tutto il reale, la terra e il cielo condividevano un’unica forma, essendo mescolate le loro nature; in seguito, invece, con la separazione reciproca dei corpi, il cosmo venne ad abbacciare la struttura che lo configura e che è visibile attualmente in esso […] [85]   

 

Abbiamo qui una chiara esposizione di come il cosmo all’inizio si presentasse come una sorta di chàos esiodeo (che nel frammento leucippeo manca), un regno dell’indistinto dove tutto era mescolato. Ma in seguito le analogie si fanno stringenti:

 

    […] avvenne che l’aria assunse un moto continuo e le sue componenti ignee furono condotte nella sede atmosferica suprema, giacché la sua natura tendeva verso l’alto a motivo della propria intrinseca leggerezza [86]

 

Sono dal più al meno gli stessi termini del frammento riferito a Leucippo, ma dove la “leggerezza” viene da democrito riferita al fuoco. Il seguito, rispetto al maestro, non presenta importanti novità sino al punto in cui viene detto:

 

    (3) […] in molteplici luoghi si rigonfiarono bolle di umidità, intorno alle quali sorsero putredini circoscritte da sottili membrane, il ché è tutt’ora visibile nei luoghi melmosi e paludosi quando si verifichi simultaneamente il rafreddarsi della regione in questione e l’infuocarsi repentino dell’aria, anziché un suo mutamento progressivo e graduale di temperatura. [87]

 

Qui il distacco dal frammento leucippeo appare evidente, si parla di “putredini” e di “temperatura”, concetti non più puramente cosmogonici ma decisamente “biologici” e rivelativi di un’attenta attività osservativa a base della teoria. Ma occorre qui definire ciò che è all’origine della vita, che per Democrito è l’anima. Un concetto molto importante per l’abderita, per il quale però l’anima è principio vitale rigorosamente materiale (in quanto “soffio vitale” del corpo) secondo la miglior tradizione greca, ma anche centro della sensibilità e della nobiltà umana. Vediamo come Aristotele ci delinea l’anima democritea (De anima, I (A), 2, 404 a, 1-9):

 

    Onde Democrito afferma che essa è una sorta di fuoco o di calore: essendo infinite le “figure” o atomi, quelli sferoidali li chiama fuoco e anima (paragonabili a ciò che noi diciamo corpuscoli sospesi nel pulviscolo e che appaiono nei raggi di sole penetranti attraverso le imposte). L’intera riserva di tali semi dice che costituiscono gli elementi di tutta la natura (e lo stesso pensa Leucippo) e che gli atomi sferoidali costituiscono l’anima per la grandissima facilità di siffatte forme a penetrare dovunque e a muovere tutto il resto, essendo esse in movimento, giacché questi filosofi suppongono che l’anima imprime agli esseri il movimento. Perciò riguardano la respirazione come il criterio della vita. [88]

 

E segue un’ulteriore precisazione, dove Aristotele coglie un altro aspetto assai importante dell’anima democritea, ossia la sua coincidenza con l’attività pensante. Essa infatti non è più soltanto ciò che col suo soffio dà vita a un corpo, ma è il centro delle attività intellettive (la mente) (I (A), 2 405 a, 8-13):

 

[…] Ancor più sottilmente si è espresso Democrito dimostrando il perché di ciascuno di questi due caratteri: l’anima è lo stesso che intelletto, e consiste di corpi primi e indivisibili e può imprimere il movimento per la piccolezza e la forma delle parti: aggiunge che la forma più suscettibile di movimento è la sferoidale e che di atomi siffatti consistono l’intelletto e il fuoco. [89]

 

Veniamo ora ad un’altro aspetto estremamente interessante del pensiero di Democrito, che traiamo dal già citato frammento di Diodoro Siculo, quello concernente le sue considerazioni antropologiche:

 

    (8,1) […] riguardo agli uomini originari, si dice che conducevano una vita disordinata e selvaggia, disperdendosi a pascolare e a procurarsi le piante ritenute più confacente al proprio e i frutti che spuntavano spontaneamente sugli alberi. (8,2) Essendo sempre in lotta con le fiere, l’amor proprio fece loro imparare a soccorrersi a vicenda, mentre la paura li portò ad associarsi, e così col tempo appresero a riconoscersi tra loro tramite particolari dell’aspetto. (8,3) A poco a poco la loro voce smise di emettere suoni inarticolati e privi di significato e imparò ad articolare vere e proprie parole sino a che convenirono tra loro parole atte a simbolizzare ciascuna cosa da loro conosciuta e alla loro portata, determinando, così, il sorgere di una interpretazione globale del mondo. (8,4) Siccome siffatte comunità sorsero in ogni luogo abitato, la lingua o il dialetto non potevano essere per tutti identici, poiché accadeva che ciascuna comunità coniasse proprie parole. Conseguentemente, svariati e molteplici furono i caratteri di quei dialetti e le prime comunità sorte divennero le capostipiti di tutte le etnie. [90]

 

Abbiamo qui una chiara interpretazione dei primitivi problemi dell’uomo, della nascita delle prime comunità, dei differenti linguaggi e, sulla base di questi, dei primi gruppi etnici. Per Democrito è quindi il linguaggio a determinare l’identità sociale e non le ragioni razziali. Ma ecco il seguito:

 

(8,5) I primi uomini conducevano una vita faticosa, poiché non era stato scoperto ancora nulla di quanto giova al vivere; pertanto, erano nudi e privi di vesti, non abituati a vivere in abitazioni e a servisri del fuoco, e ignoravano anche che potesse esserci una forma non selvatica di nutrimento. (8,6)Infatti, ignorando che esistesse un modo per conservare il nutrimento che traevano dai campi, non si preoccupavano affatto di fare provviste di frutti in vista di momenti di indigenza e, così, in inverno molti di loro morivano a causa del freddo e della mancanza di cibo. [91]

 

Un’analisi antropologica ante-litteram, basata sulla pura riflessione filosofica, che doveva fare scuola, attraverso Epicuro e Lucrezio, fino a Giambattista Vico [92]. Così si chiude il brano:

 

(8,7) Non trascorse molto tempo, però, che questi uomini, giovandosi dell’insegnamento ricevuto dalle prove sperimentate, iniziarono a ripararsi in caverne durante l’inverno e a riporvi i frutti che potevano essere in esse conservati: Una volta che, poi, conobbero il fuoco e le altre cose che giovano al vivere, non passò lungo tempo che scoprirono le arti e tutte le altre cose utili al vivere comune. In generale, pertanto, per gli uomini fu maestra la necessità, che rese familiari tali tecniche a questo essere che è ben notato in sé di ausilii per tutti i suoi atti grazie al possesso delle mani, della ragione e di un’anima versatile. [93]

 

Qui la necessità assume il significato di “esperienza”, un’esperienza determinata “necessariamente” dalle condizione dell’uomo in un contesto dato; una necessità che attraverso l’esperienza forma la cultura. In questa evoluzione il fuoco occupa una posizione centrale, ma da un punto di vista zoologico le mani sono (insieme alla ragione e all’anima) un fattore determinante dell’evoluzione. L’esperienza è legata alle “sensazioni”, che non rivelano l’essenza della natura (gli atomi e il vuoto che li accoglie) ma il “modo” antropico di coglierli, di prenderne conoscenza e di trarne esperienza pratica.

 

Un’osservazione di Sesto Empirico (Contro i matematici IX, 24) completa il panorama dell’antropologia democritea:

 

    Vi sono taluni i quali ipotizzano che la nostra intuizione degli dèi sia sorta dallo stupore provato dinanzi a quanto avviene nel cosmo, e di questa opinione pare essere stato anche Democrito, il quale asserisce che gli antichi, osservando quegli eventi delle regioni celesti che l’uomo subisce, come i tuoni, i fulmini che lampeggiano, le congiunzioni astrali e le eclissi soli e lunari, terrorizzati credettero che fossero dèi le cause di questi fenomeni. [94]

 

Ci sia concessa una breve digressione (facendo un salto temporale di circa quindici secoli) per notare che questi “antichi” sembrano una pre-evocazione dei possessori di quelle “menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie[95] in cui Giambattista Vico pone l’alba dell’umanità, i quali:

 

[…] così, raminghi e soli, dovettero produrre i figliuoli, con una ferina educazione, nudi d’ogni umano costume e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali. E tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la terra, disseccata dall’umidore dell’universale diluvio, potesse mandare in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli uomini storditi e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi […] [96]

 

Passiamo ora ad occuparci della teoria gnoseologica democritea sulla quale le maggiori informazioni ci vengono ancora da Sesto Empirico (Adv. Math. VII, 135, Д):

 

    Talora Democrito riconduce ciò che appare alle sensazioni, nelle quali afferma che non si manifesta alcunché di conforme al vero, bensì solo di conforme all’opinione, mentre la verità appartiene agli enti in quanto partecipano degli atomi e del vuoto. Infatti, Democrito sostiene che “ convenzionale è il dolce, convenzionale l’amaro, convenzionale il caldo, convenzionale il freddo, convenzionale il colore, mentre veri sono gli atomi e il vuoto». […] [97]

 

Il concetto di “convenzionalità” [98]delle sensazioni in Democrito era già stato messo in rilievo da Galeno (De elementis secundum Hippocratem, I, 2, e De medica empiria 1259, 8) ed è elemento definitorio di una conoscenza di grado inferiore. E poco dopo Sesto precisa (Ivi, VII, 138, B 8):

 

    Nei Canoni Democrito afferma che vi sono due forme di conoscenza, l’una che si compie grazie alle sensazioni e l’altra che si realizza tramite il pensiero razionale, e chiama quest’ultima “autentica”, riconoscendo che in essa si può confidare per giudicare della verità delle cose, mentre qualifica la prima come “inautentica”, negandole affidabilità nella conoscenza della verità. [99]

 

Eppure sarà proprio questa conoscenza inautentica ad avere fortuna negli sviluppi dell’atomismo ed a passare praticamente immutata nella filosofia di Epicuro come fonte unica del sapere. Ma qual è il processo fisico attraverso il quale si determinano le sensazioni? La soluzione è piuttosto originale: la sensazione è un fenomeno di “contatto” e si basa sulla dinamica degli “effluvi” [100]. Tali effluvi sono i veri agenti del contatto tra il soggetto percipiente e l’oggetto percepito ed essi vengono chiamati da Democrito eidola.  L’eidolon (lett: immagine) è un flusso di atomi che costituisce una sorta di simulacro dell’oggetto, che effluisce da esso e giunge agli organi di senso del percipiente, dando così luogo a quel tipo di conoscenza che riguarda i sensi. Tuttavia Democrito conduce la sua analisi gnoseologica distinguendo il fenomeno concernente i sensi dal processo intellettivo e razionale che eventualmente ne fa seguito. Il pensiero razionale va allora tenuto nettamente distinto dalla sensazione: l’esercizio della ragione, ponendo principi teorici e su di essi sviluppando l’approccio alla realtà, integra e supera il mondo dell’esperienza sensibile ed empirica verso una conoscenza “autentica”.

 

    Lasciamo ora il campo gnoseologico e passiamo ad occuparci delle concezioni etiche di Democrito, che non sono meno interessanti di quelle fisiche, cosmologiche, biologiche ed antropologiche appena esaminate e che ci rendono bene lo spessore interiore del personaggio. Cominciamo col vedere una testimonianza che ci riporta in qualche misura all’utilizzo di Empedocle degli dèi come metafora degli elementi (Etymologium Orionis 153, 5):

 

    Secondo Democrito la saggezza è denominata Atena tritogenia, poiché dal ragionare con saggezza derivano tre conseguenze: il retto volere, il retto parlare e il retto agire. [101] 

 

Aggiungiamo che qua e là Democrito usa l’aggettivo “divino” col significato di “igneo”. Atomi di fuoco sono infatti quelli che costituiscono i corpi più leggeri e sfuggenti, e tra questi l’anima. Un nemico del materialismo come Clemente Alessandrino (Stromateis II, 130) ci dà un parere interessante su Democrito, attribuendogli l’aver posto un principio etico fondamentale, che verrà poi ripreso da Epicuro in senso più spiccatamente edonistico: quello di felicità. Ma qui l’accento è messo sulla “disposizione d’animo” che la genera, piuttosto che sull’esperienza di essa:

 

    Anche gli Abderiti insegnano a proporsi un fine nella vita: Democrito, nel libro Sui fini, lo identifica con buona disposizione d’animo, che denomina anche felicità, soggiungendo spesso queste parole:«il diletto e il suo contrario costituiscono il discrimine di ciò che è da accogliere e di ciò che è da respingere». Questo fine, pertanto, è proposto come valido tanto per la vita dei giovani quanto per quella di chi è già vissuto a lungo.

 

Ci addentreremo ora nel campo che più specificamente sembra aver caratterizzato l’etica dell’Abderita, quello dell’aforistica. Ci troveremo a scegliere tra quasi trecento aforismi a lui attribuiti (alcuni simili) e riportati da vari autori; ci sofferemeremo però solamente su quelli che ci paiono più significativi od originali [102]. Cominciamo con quelli citati da un certo Democrate [103]:

 

38 - È cosa buona ostacolare coloro che compiono ingiustizie; se non si riesce nell’intento, è cosa buona non compiere ingiustizie con loro.

 

40 - Gli uomini non divengono felici né con i beni corporei né con il denaro, bensì con la rettitudine e una cospicua saggezza.

 

45 – È ben più infelice chi commette ingiustizia rispetto a chi la subisce.

 

50 – Non potrà mai essere retto chi si lascia completamente sopraffare dalle ricchezze.

 

60 – È meglio biasimare i propri errori che quelli altrui.

 

64 – Molte persone, pur essendo molto erudite, non hanno intelligenza.

 

65 – Si deve coltivare la ricchezza del pensiero e non l’erudizione. [104]

 

86 – È segno di arroganza mettere lingua in ogni questione e non volersi porre mai in ascolto degli altri.

 

98 – L’amicizia di una sola persona, che, però, sia intelligente, è migliore di quella di tutti gli uomini non intelligenti.

 

105 – La bellezza corporea è animalesca, se non è accompagnata dall’intelligenza.

 

Proseguiamo con Plutarco (De pueri educandis 14, 9, F):

 

145 – Infatti, secondo Democrito, la parola è ombra dell’azione.

 

Ed ora Porfirio (De abstinentia, 4, 21):

 

160 – Democrito ha detto che il vivere male, dissennatamente, senza temperanza e in modo empio «Non è tanto un vivere male, quanto un morire diluito ampiamente nel tempo».

 

Numerose sono le massime riportate da Giovanni Stobeo (Eclogae ethicae, II, 1, 12):

 

169 – un detto di Democrito: «Non bramare di saper tutto, affinché non ti succeda di trovarti a esser ignaro di tutto».

 

172 – Sentenza di Democrito: «La fonte da cui ci derivano i beni è la stessa da cui ci potrebbero provenire anche i mali, ma possiamo evitare questi ultimi senza rinunciare anche ai beni. Allo stesso modo, le acque profonde sono di grande utilità e, nel contempo, sono fonte di possibile danno: infatti, vi è il rischio concreto di affogare in esse: eppure esiste un mezzo per sfruttarne i benefici tutelandosi dal pericolo: imparare a nuotare»

 

176 – La sorte è magnanima nel donare, ma è incerta, mentre la natura è autosufficiente. Perciò, la natura vince, con il poco, ma certo, sul molto promesso dalla speranza nella sorte. [105]

 

179 – Sentenza di Democrito: «La cultura è un ornamento per coloro che godono di sorte favorevole, mentre è un rifugio per chi sopporta una sorte infausta».

 

181 - Sentenza di Democrito: «Appare più opportuno esortare alla virtù servendosi di ragionamenti persuasivi piuttosto che di costrizioni legali. È verosimile, infatti, che si lasci andare a compiere ingiustizia di nascosto chi è fermato, in pubblico, solo dalla legge, mentre non è verosimile che compia azioni che deroghino ai propri doveri né di nascosto né in pubblico chi sia persuaso a ben agire. Pertanto, chi agisce rettamente grazie al proprio giudizio e alla propria conoscenza diviene simultaneamente virtuoso e schietto».

 

187 - Sentenza di Democrito: «Per gli uomini conviene tenere in considerazione più l’anima che il corpo, poiché la perfezione della prima pone rimedio al cattivo stato del secondo, mentre la forza del corpo non apporta alcun miglioramento all’anima se non è accompagnata dalla capacità di ragionare».

 

190 - Sentenza di Democrito: «Non si devono spendere parole intorno alle azioni» [106]

 

191 - Sentenza di Democrito: «La buona disposizione d’animo si ingenera, negli uomini, dalla misura imposta al godimento e dall’armonia di vita: l’eccesso e il difetto, invece, amano l’instabilità e inducono grandi turbamenti nell’anima. Le anime perturbate dall’alterno prevalere di stati fra loro grandemente opposti non possono essere né equilibrate e stabili né ben disposte. Pertanto si deve indirizzare la propria attenzione alle cose possibili e ci si deve accontentare di ciò che è alla nostra portata, dandosi poco pensiero per gli uomini che vengono invidiati e ammirati e tanto meno ossessionandosi per la loro condizione. Al contrario, si deve osservare la vita di chi è afflitto da tribolazioni, riflettendo su ciò che questi patisce in forte misura, in modo che ti sembrino grandi e invidiabili le cose che sono alla tua portata e che possiedi e in modo che non ti accada di soffrire nell’anima, desiderandone di ulteriori. Infatti, chi ammira i facoltosi e le persone ritenute felici da gli altri uomini e si dà costantemente pensiero per loro sarà necessariamente spinto a intraprendere imprese sempre nuove, non escluso l’essere indotti dal desiderio a compiere azioni irreparabili e vietate dalla legge. Allora è opportuno non bramare di conseguire qualunque cosa, bensì ben disporsi nell’animo accontentandosi di ciò che si possiede, confrontando la propria vita con quella di chi ha una sorte peggiore, ritenendosi felici in rapporto ai patimenti sofferti da costoro e constatando quanto sia migliore la vita che si conduce. Divenendo consapevole di tutto questo, trascorrerai la vita con animo disposto in modo ancor più buono e respingerai con poche cause di rovina della vita, quali l’invidia, la malevolenza e l’animosità». [107]

 

201 - Sentenza di Democrito: «Gli stolti desiderano vivere a lungo, ma non sanno godere una lunga vita».

 

202 - Sentenza di Democrito: «Gli stolti aspirano ai beni che non sono presenti e, nel contempo, sperperano quelli presenti, anche se risultano più vantaggiosi di quelli passati»

 

203 - Sentenza di Democrito: «Gli uomini, fuggendo la morte, finiscono per inseguirla».[108]

 

219 - Ancora di Democrito: «Un desiderio di ricchezza che non venga mai limitato dalla sazietà è molto più difficilmente tollerabile della povertà estrema. Infatti i desideri più grandi rendono l’indigenza altrettanto grande».

 

221 - Sentenza di Democrito: «La speranza di un guadagno, anche se si sa che è il frutto di cattive azioni, è l’inizio di una perdita».

 

226 - Sentenza di Democrito: «La libertà di parola è parte della libertà personale, ma il rischio più reale concerne la capacità di individuare il momento giusto per parlare».

 

231 - Sentenza di Democrito: «Ricco di comprendonio è colui che non si doglie di ciò che non ha, ma che si contenta di ciò che ha».

 

234 - Sentenza di Democrito: «Gli uomini cercano di procacciarsi la salute dagli dèi con gli auspici, ignorando di avere in se stessi questa potenza; anzi, facendo, per intemperanza, le cose opposte a quelli che favorirebbero tale potenza, finiscono per tradire essi stessi la propria salute, a causa dei propri desideri». [109]

 

235 - Sentenza di Democrito: «A coloro che si volgono ai piaceri del ventre, avendo superato la misura conveniente sia nei cibi sia nelle bevande sia nei piaceri d’amore, i piaceri vengono decurtati in intensità e di breve durata, nel senso che durano soltanto finché banchettano e devono, mentre i dolori sono molti. Infatti, il desiderio di tali cose permane sempre e anche quando ottengono ciò che desiderano il piacere s’invola velocemente e non reca loro alcun giovamento, anzi, il godimento si abbrevia e hanno di nuovo spasmodico bisogno di quegli oggetti di piacere».

 

244 - Sentenza di Democrito: «Anche quando sei solo, non essere malvagio né nelle parole né nelle opere: impara, invece, a vergognarti molto più innanzi a te stesso che agli altri». [110]

 

247 - Ancora di Democrito: «Al sapiente ogni terra è accessibile, poiché tutto il cosmo funge da patria dell’anima che è buona». [111]

 

251 - Sentenza di Democrito: «La povertà in democrazia è ancora più auspicabile della cosiddetta felicità sotto il dispotismo, almeno quanto la libertà è più degna di scelta della schiavitù». [112]

 

255 – Quando coloro che non sono privi di mezzi ardiscono di mettere a disposizione degli indigenti le proprie sostanze, assistendoli e aiutandoli, già in questa scelta si palesano la compassione, la solidarietà e l’amicizia, nonché il soccorso vicendevole, la concordia cittadina e altri beni che nessuno riuscirebbe a elencare completamente. [113]

 

269 - Sentenza di Democrito: «L’audacia è principio di azione, la sorte è signora dell’esito dell’azione».

 

290 - Sentenza di Democrito: «Scaccia, con la riflessione, il dolore dell’anima, poiché quello, essendo libero da vincoli, finisce per addormentarla».

 

    Contrariamente a ciò che avviene nella convenzionale storicitica passata e corrente, con la quale si enfatizza il contenuto della fisica e della cosmologia democritee (in realtà sostanzialmente dipendenti da quelle di Leucippo e con sviluppi modesti rispetto ad esse), noi pensiamo sia venuto il momento di rivedere questo giudizio. Gli aforismi succitati ci dicono che l’etica atea di Democrito si lega direttamente alla sua cosmologia e al suo naturalismo, con quel tocco di saggia umanità ed ironia (in tal senso va intesa la sua fama di “philosophus ridens”) che gli permette di realizzare l’ideale dell’eutimìa. Essa è un’etica profonda, assai lontana dagli schematismi ideologici platonici e le scienze della natura si sposano coerentemente con criteri comportamentali assai avanzati (si pensi solo al cosmopolitismo) [114]. D’altra parte, la sua cultura era così enciclopedica (si dice abbia scritto settanta opere sui più vari argomenti), essendosi occupato persino di grammatica e di estetica, che ce n’è quanto basta per farne uno dei più grandi pensatori dell’antichità, senza dovergli attribuire quel che non gli compete [115].

    Se si considera che egli è contemporaneo di Socrate, altra straordinaria figura dell’epoca in campo etico (e attraverso Platone imposta come dominante alla cultura greca dell’epoca successiva) si può cogliere la sostanziale originalità “pragmatica” dell’etica democritea rispetto a quella più “idealistica” di Socrate (ma probabilmente assai “platonizzata” dal suo famoso allievo). Alla perentorietà del socratico “conosci te stesso”, a prescindere da ogni indagine che rapporti l’uomo alla natura in cui è inserito e di cui fa parte (come ci testimonia Senofonte), l’Abderita contrappone implicitamente un più cauto “conosci la natura per conoscere te stesso”, e come ci testimonia il frammento n° 176 di Stobeo (vedi sopra) l “autosufficienza della natura” va letta come l’orizzonte razionalmente corretto e pragmaticamente esauriente in cui inserire la riflessione sull’uomo, che in essa va compreso e non estratto come un’entità superiore, avulsa e indipendente. Agli stati mentali indotti dal divino demone socratico Democrito contrappone l’eutimia (εύθυμία)[116], la tranquillità d’animo che viene dalla riflessione sulla natura e sull’’uomo, al riparo dai turbamenti psichici. Va tuttavia notato che, sul piano degli atteggiamenti intimi e interpersonali, l’ironia del “non sapere”, tipica di Socrate, sembra appartenere anche al Nostro e renderli più vicini (vedi Gnomologium Vaticanum, 743  e  Greco-Syriaca dicta, 42). 

    Ci pare allora di poter dire, al di fuori dei vieti schemi consueti, che l’etica “laica” del V e del IV sec.a.C. nel mondo greco (fino alle scuole ellenistiche) sia largamente tributaria del pensiero democriteo. I concetti di felicità, di misura (o del giusto mezzo), della temperanza, dell’onestà morale, della ricerca psicologica, sono già tutti presenti in Democrito. Per di più l’immagine di filosofo enciclopedico che Aristotele incarnerà ha proprio nell’Abderita il più significativo precedente. Il dominio culturale di quel magnifico “pifferaio magico” che è stato Platone, di cui tutti abbiamo subito più o meno il fascino dialogico e mitico-letterario, forse andrebbe contemperato con una maggiore attenzione ad un pensiero un po’ più “secco”, meno sgargiante e affascinante, ma che, al contrario, cela assai più di quanto esibisca.

    Con Leucippo e Democrito non solo il materialismo atomistico riceve formulazione, ma anche l’ateismo teoretico in esso implicito acquista dignità filosofica. Ed esso viene delineato in un modo sufficientemente esauriente, tale da porsi come una vera e propria weltanschauung atea, comprendente una concezione generale del mondo fisico e biologico forse incompleta (e ovviamente dipendente delle scarse conoscenze del tempo) ma concettualmente significativa, unita ad un etica della ragionevolezza, dell’equilibrio, della modestia e del senso della libertà. A partire da queste premesse Epicuro porterà innovazioni importanti, sia sul terreno gnoseologico che su quello etico, ma ciò che sta alla base della sua fisica è tributario di Leucippo ed elementi importanti della sua leticagli derivano da Democrito.

 

 

 



NOTE: Capitolo IV - Parte seconda

[48] Su questa nostra tesi non saranno ovviamente d’accordo gli studiosi della filosofia antica che definiremo genericamente “platonici”, come Giovanni Reale e molti altri prestigiosi esegeti (tra i quali includerei anche grandi studiosi del passato come lo Zeller, il Mondolfo e Vittorio Enzo Alfieri), che vedono nell’Atomismo, all’opposto di noi, una confema (o una semplice variante) del monismo eleatico.  

[49] Diogene Laerzio è l’unico ad accennarne, in termini semplicistici, con le parole (IX, 29) «I punti fondamentli della sua dottrina sono i seguenti: i mondi sono molteplici, il vuoto non esiste.»  proseguendo poi con: «La natura di tutte le cose deriva dal caldo e dal freddo e dal secco e dall’umido, che si mutano l’uno nell’altro. Gli uomini sono costituiti da terra e l’anima è una mescolanza degli elementi sopra detti, senza che nessuno di essi prevalga sugli altri.» (Diogene Laerzio  Vite di filosofi, Laterza 1983, vol.II, p.363.)  

[50] Siamo confortati nella nostra tesi dall’opinione di Theodor Gomperz, che nel suo Pensatori greci (La Nuova italia 1967, p.74) così si esprime sull’argomento: «Poiché qui come in altri punti, la loro teoria è, per così dire, la somma di tutto il lavoro compiuto dai loro prdecessori; l’atomistica è stata il frutto ormai venuto a maturazione dell’albero dell’antica dottrina della materia quale era stata concepita e sviluppata dai filosofi naturalisti della Jonia».

[51] Hermann Diels, nel Vorsokratiker (II, 80), avendo raccolto testimonianze nettamente divergenti su Leucippo, ne aveva già concluso che la causa era da imputarsi alla creazione nel IV sec. a.C. del Corpus Democriteum, in cui erano stati acriticamente messi insieme scritti di Democrito e di Leucippo.

[52] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.643.

[53] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.105.

[54] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.646.

[55] Ivi, p.660.

[56] Ivi, p.650.

[57] Diogene Laerzio afferma invece: « […] Egli infatti amò la sua patria […] e la preferì all’inutile orgoglio degli Ateniesi, presso i quali non volle mai recarsi, rimanendo in patriaspe tutta la vita.».

[58] Esiste anche un’altra (e più nota) eroina mitica di nome Galatea (figlia di Nereo e amata da Polifemo) che appartiene alla mitologia della Sicilia. In questo caso però non appare nessun personaggio di nome Leucippo.  

[59] Si ricorda che Latona (o Leto) è divinità originaria dell’Asia Minore e che secondo la leggenda si è unita con Zeus a Didima (località presso Mileto) e che da quel momento fu vittima della gelosia di Era. Da ciò il suo vagare in cerca di un posto sicuro (che sarà l’isola cicladica di Delo) dove partorirà Apollo e Artemide).  Didima (16 km da Mileto) col suo santuario dedicato ad Apollo fu uno dei complessi cultuali più importanti della Grecia. Già attivo in epoca arcaica subì distruzioni e ricostruzioni fino all’erezione el grandioso tempio diptero in epoca ellenistica. 

[60] Tra Clazomene e Mileto vi erano circa cento chilometri.

[61] Osserva l’Alfieri: «La premessa logica fondamentale dell’atomismo, per mettere il pensiero in accordo con l’esperienza, è l’affermazione della realtà, e quindi della pensabilità, del non-essere. E, posta l’identificazione eleatica, conforme all’indistinzione verità-realtà, tra essere e pieno, non-essere e vuoto, è così conquistata l’effettiva ed effettivamente pensabile esistenza del vuoto: che è il fondamento necessario per ammettere la molteplicità.» (E.V.Alfieri Atomos idea – Le Monnier 1953 – p.50).

[62] Nota il Farrington: «La logica richiedeva che alla base del mondo della mutabilità ci fosse qualche sostanza permanente. Il buon senso richiedeva che la chiara testimonianza dei nostri sensi relativa all’esistenza di un mondo molteplice e mutevole, non venisse sacrificata alle pretese della logica. La dottrina di Leucippo soddisfaceva entrambe le esigenze.» (Op.cit. p.48).

[63] Va notato che il concetto di vuoto in Leucippo è molto significativo per intuire l’assoluta grandezza di questo poco conosciuto, trascurato ed “equivocato” filosofo. Ma si equivocherebbe ancor più se lo si considerasse un’anticipazione del vuoto fisico reale (cosmico e quantistico) quale ci viene reso noto dalla scienza contemporanea. In effetti questo è un “quasi–pieno” di particelle “virtuali” (ma sperimentalmente rilevabili) che, in un certo senso, sono “in lista d’attesa” per divenire realtà. Ciò che ha preceduto il big-bang è proprio questa pseudo-realtà “non-ancora-reale”: un vuoto quantistico in attesa di dar vita a particelle elementari di materia “reale”. 

[64] Cfr. § 3.1 pp.98-99.

[65] Va comunque notato che gli esegeti moderni tendono a riattribuire la Grande Cosmologia a Leucippo. Anche lo Zeller era di questo avviso e sull’argomento ha scritto: «Il fondatore della dottrina atomistica è Leucippo. Le idee di questo filosofo ci sono tramandate però in modo incompleto, che tra esse e le opinioni del suo discepolo Democrito non potremo operare una distinzione nel corso della nostra esposizione. Da questa comunque risulterà che tutti i fondamenti del sistema sono già contenuti nelle teorie del maestro e che il suo famoso discepolo, come indagatore della natura, non fa che costruire le sue tesi su di essi, senza modificarli in alcun punto essenziale.» (E. Zeller – R. Mondolfo  La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – pp. 137-140).

[66] Il Diels ha associato a questa prima parte della testimonianza una seconda parte, tratta dall’Epicurea dell’Usener, che noi riteniamo non riferibile a Leucippo e verosimilmente (ne ha tutti gli elementi) concernente ivece la fisica epicurea.

[67] È singolare come la tesi della pluralità dei mondi posta da Leucippo attraversi la storia della filosofia con numerosi ritorni (basti pensare a Giordano Bruno) per trovare conferma da parte di non pochi cosmologi moderni (Dennis Sciama, Andrei Linde, Lee Smolin e altri). La pluralità dei mondi è implicita anche nella cosiddetta Teoria delle Superstringhe ed è sottintesa nella teoria del Pre-big-bang che di essa è figlia, formulata all’inizio degli anni ’90 da Gabriele Veneziano (il “primo padre” della teoria delle stringhe). Secondo questo fisico teorico il big-bang che ha dato luogo al “nostro” universo non è che la fase esplosiva di un processo formativo nato da un buco nero di grandi dimensioni, a sua volta nato (insieme a molti altri) in un vuoto quantistico preesistente ed a causa di una perturbazione di esso (cfr. Le scienze - n°429 – maggio 2004 – pp.40-49).

[68] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.113.

[69] Vittorio Enzo Alfieri individua nel suo Atomos idea (Le Monnier 1953 – p.84-85) tre specie di movimento impliciti nella teoria atomistica: 1) il movimento pre-cosmico, 2) il movimento cosmogonico e 3) il movimento degli atomi nel cosmo.

[70] La casualità può essere qui intesa nel senso posto dallo Zeller (E.Zeller-R.Mondolfo  La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969 – p.189 e ssgg.), il quale però, stranamente, incorre, secondo noi, in qualche contraddizione, intendendo il “caso” come qualcosa di imputabile a cause non-naturali, ovvero come se si trattasse della divina Tyche: «Questo movimento si può chiamare casuale, solo se per casuale s’intende tutto ciò che non risulta da un’attività finalistica; ma se per casuale s’intende invece un evento che non procede da cause naturali, ciò non s’addice certo agli Atomisti, i quali invece affermano espressamente che nulla nel mondo avviene per caso e che tutto deriva necessariamente da cause precise;» e fin qui saremmo d’accordo anche noi, purché si sottolineasse che in tal caso (nella casualità) le cause “si sconnettono”, ovvero non sono linearmente conseguenti (cfr. Necessità e Libertà, § 3.3). Poi però lo Zeller aggiunge: «e del resto così anche Aristotele come i più recenti scrittori ammettono che gli Atomisti tengono fermo alla necessità di tutto ciò che accade senza eccezione, riconducendo anche ciò che sembra casuale alle sue cause naturali e riuscendo così a dare un’interpretazione rigorosamente fisica dei fenomeni naturali, con una coerenza sconosciuta ai loro predecessori.» e poi conclude con la frase più interessante (in cui noi cogliamo una patente contraddizione): « […]: la necessità naturale è per essi una forza che agisce ciecamente;». Infatti si dice proprio del caso che opera “ciecamente” e “senza necessità”; ma ci chiarisce poi appena dopo il suo punto di vista: «il loro sistema non conosce uno spirito creatore del mondo né una provvidenza nel senso più recente della parola;». Ma sia uno spirito creatore che la provvidenza non determinano forse “sempre” una “necessità” finalistica degli eventi naturali? E ciò non è forse messo in mora proprio dalla casualità?

[71] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.113.

[72] Si notino le forti analogie col nous anassagoreo.

[73] Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.115.

[74] È interessante notare come lo Zeller, che parrebbe un convinto negatore del caso e invece assertore della necessità come principio-base dell’atomismo, si esprima nel seguente passaggio: «Essi [gli Atomisti] escludevano, d’altra parte, ogni spiegazione dei fenomeni naturali sulla base di concetti finalistici: la necessità naturale è per essi una forza che agisce ciecamente; […]» (E.Zeller-R.Mondolfo  La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969 – p.191). Se non vi è finalismo e se una forza generatrice agisce “ciecamente” (al di là di come la si voglia chiamare) mi sembra difficile sostenere che tale forza non sia proprio… il caso. 

[75] Aristotele Opere – vol.III, Fisica – Laterza 1983, p.37.

[76] Platone  Opere complete, vol.6, Laterza p.406.

[77] Ivi p.407.

[78] Aristotele  Fisica (a cura di M.Zanatta) – UTET – Torino 1999 – p.225.

[79] Aristotele  Opere – vol.VI – Laterza 1973,  Metafisica, p.19.

[80] Tesi espressa ripetutamente dagli ermeneuti idealisti del passato ed in tempi più recenti da Giovanni Reale.

[81] Aristotele  Op. cit. ibidem

[82] Aristotele  Opere – vol.IV – Laterza 1983, Generazione e corruzione, pp.43-45 passim.

[83] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – Laterza 1983 – vol.II, p.369.  

[84] Aristotele  Opere, vol.IV – Laterza 1983, p.8.

[85] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.265.

[86] Ibidem.

[87] Ivi, p.267.

[88] Aristotele  Opere – vol. IV – Laterza 1983 – p.105.

[89] Ivi - p.108.

[90] Atomisti antichi (a cura M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p.267-269.

[91] Ivi,p.269.

[92] Dell’influenza dell’atomismo sulle opinioni del giovane ha parlato Fausto Nicolini nei Brevi cenni della vita e delle opere di Giambattista Vico, che fungeva da introduzione a La scienza nuova (vedi Laterza 1974, p. XII): «Dato tutto ciò [ovvero il suo rapporto e la sua frequentazione con gli esponenti della nuova cultura “anti-gesuitica napoletana della seconda metà del sec.XVII], è affatto naturale che anche il Vico fosse condotto a quel De rerum natura di Lucrezio, che allora faceva girare la testa a non pochi “jeunes fous” napoletani (come li chiamava Antonio Arnauld) non senza orientarne più di uno verso l’ateismo.». Il Vico nel 1693 aveva pubblicato una canzone dal titolo Gli affetti d’un disperato, di chiara ispirazione lucreziana.

[93] Atomisti antichi (cura M.Andolfo) – Rusconi 1999 - pp. 269.

[94] Ivi, pp.181.

[95] Giambattista Vico  La scienza nuova (Idea dell’opera) – Laterza 1974 - Vol.I - p.9.

[96] Ivi – (Libro I, 1, 9) – Vol.I - p.59

[97] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p. 277.

[98] Il Gomperz accosta Democrito a Galilei nella suddivisione del conoscibile tra ciò che appartiene alla natura e ciò che appartiene alla convenzione umana. (Th.Gomperz  Pensatori greci, vol II, La Nuova Italia 1967, pp.70-73).

[99] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p. 279.

[100] Secondo Platone (Menone 76 c) già Empedocle avrebbe teorizzato gli effluvi, ma sembra abbastanza probabile che egli accomunasse, generalizzando e indipendentemente dallo specifico, il pluralismo ontologico alla teoria degli effluvi.

[101] Atomisti antichi - (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 - p. 261.

[102] La numerazione è quella progressiva del già citato Atomisti antichi (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 – da p.303 a p.367.

[103] Secondo il Mondolfo il nome Democrate sarebbe una corruzione di “Democrito” (E. Zeller – R. Mondolfo  La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – p. 282) e in questo caso il dossografo non sarebbe altri che il filosofo stesso.

[104] In questo aforisma e in quello precedente è dato cogliere la distinzione tra erudizione (πολυμαθία) e sapienza (σοφία) [vedi 216 Stobeo]. Va comunque rilevato che Democrito usa poco il termine sapienza e gli preferisce quello di saggezza (Φρόνησις) e quello di intelletto o prudenza (πολυφροσύνη) come nell’aforisma n°40.

[105] Questo aforisma è stato letto da Vittorio Enzo Alfieri in Atomos idea… (vedi nota 120 dell’Andolfo a p.515 del citato Atomisti antichi […]) come una negazione del caso a favore alla necessità. A me pare che tale  costante ricerca degli aspetti gnoseologici in un filosofo che su questo terreno riprende quasi integralmente Leucippo, mettendoci assai poco di suo, possa essere sviante. Penso invece che se ne dovrebbe cogliere il soggiacente significato etico, confermato dai numerosi aforismi concernenti l’accettazione di ciò che “la natura dà” (per es. il n°289) piuttosto che sulla speranza di ciò che “dovrebbe dare” secondo le umane aspettative.

[106] In modo più esplicito risulta qui espresso lo stesso pensiero del n° 145 (Plutarco).

[107] Questa lunga citazione, non priva di qualche oscurità e di qualche ripetizione, ci rende una sintesi dell’etica democritea che potrebbe essere così delineata: 1) il principio della “misura”, peraltro tipico di tutta la cultura greca, 2) il perseguimento della prudenza e della temperanza ad evitare turbamenti eccessivi, 3) perseguire ciò che è alla propria “portata”, senza inseguire velleitariamente gloria e successo, 4) astenersi dall’invidia di coloro che appaiono più fortunati, 5) controllare l’ambizione che può condurre a imprese negative e dannose per sé e per la comunità, 6) confrontare la nostra vita con chi ne ha una più difficile e non con chi l’ha più facile. In estrema sintesi evitare “invidia, malevolenza e animosità”. 

[108] Mi sembra completamente ignorata da parte degli esegeti “letterari” la profondità “biologica” di questo aforisma nel quale lapidariamente viene colto il rapporto indissolubile vita/morte, rispetto al quale solo stoltamente si può separare “psichicamente” la morte dalla vita fuggendola, come se così facendo fosse possibile perpetuare la vita al di là delle leggi biologiche. 

[109] Una professione di pragmatismo umanistico di straordinaria modernità. Una stigmatizzazione del “desiderio” irrazionale a cui Epicuro non aggiungerà nulla di nuovo.

[110] Solo apparentemente banale questa massima. Nella realtà è un puntuale richiamo all’autocoscienza, come tribunale etico delle proprie aspirazioni e delle proprie azioni.

[111] Una professione di cosmopolitismo e una straordinaria intuizione antropologica sulla “natura” dell’uomo e sulla sua “essenza”, al di là della contingenza di culture e razze.

[112]  Vale la pena di riflettere sulla chiarezza e semplicità di questa enunciazione rispetto alla fumosa e ideologica auspicabilità del platonico “governo dei filosofi” (Repubblica, IV, passim).

[113] Non il “buonismo” moralistico, ma l’”opportunità” sociale della solidarietà e della generosità per la realizzazione di un contesto sociale “pragmaticamente” concorde e basato sulla “reciprocità” dei benefici.

[114] Unico elemento negativo (e non di poco conto) appare la sua misoginia, quale emerge dagli aforismi n° 110 e n° 111 dell’elenco del cosiddetto Democrate (Atomisti antichi - Testimonianze e frammenti secondo la raccolta di H.Diels e W.Kranz (a cura di M.Andolfo) – Rusconi 1999 – p.313 e 315).

[115] Che Epicuro ignori completamente Leucippo al punto di fare soltanto riferimento a Democrito per le teorie atomistiche e che Aristotele non faccia distinzione tra i due, parlando sempre del secondo, può significare che in circolazione vi erano soltanto opere di Democrito e testimonianze su di lui. Ciò potrebbe aver determinato una situazione culturale contingente, dovuta anche all’evanescenza della figura di Leucippo, di cui si hanno probabilmente si avevano, già allora, elementi biografici scarsi e contraddittori.

[116] L’eutimia democritea e l’aponia (assenza di dolore) di Epicuro confluiranno nell’ atarassia (assenza di turbamento) della filosofia ellenistica in generale (epicureismo, stoicismo, scetticismo).