CAPITOLO TERZO

 

                                 I prodromi dell’ateismo nel mondo greco.

 

 

 

                                                 INTRODUZIONE

 

    Una ricognizione sull’ateismo più antico è resa difficile dal fatto che l’affermarsi (con Platone) del pensiero idealistico, in opposizione a quello naturalistico, ha determinato una graduale eclissi di questo ed in molti casi la perdita dei testi originali relativi, dei commenti ed in parte anche delle testimonianze su di esso. Va rilevato comunque che in epoche molto antiche la trasmissione dello scibile è avvenuta prevalentemente per via orale, e che ciò avveniva ancora in una buona misura anche in pieno V sec.a.C. (si pensi al caso di Socrate). Per quanto riguarda poi il nostro specifico tema d’indagine si aggiunga che la corrente di pensiero di maggior interesse, quella atomistica, è assai male documentata, poiché gli scritti originali degli atomisti sono tutti andati perduti. Ora, se su su Democrito risulta ancora disponibile una relativamente vasta messe di frammenti e testimonianze, per quanto riguarda Leucippo (il fondatore della teoria degli atomi) i documenti sono scarsissimi e a volte (come vedremo) anche piuttosto contraddittori. Con l’avvento del Cristianesimo vi è poi stata, verosimilmente, una sistematica distruzione fisica di tutti quei testi che in qualche modo contrastavano la dottrina cristiana. Tra questo tipo di operazioni si ricordi il caso esemplare della scomparsa dell’Alethès lògos (Discorso vero) del neoplatonico Celso, uno dei più accesi critici della religione cristiana, il cui pensiero siamo oggi costretti a desumere dal Contra Celsum del suo implacabile avversario Origene. Noi abbiamo pertanto soltanto la possibilità di lavorare su un corpus di documenti perlopiù indiretti, talvolta approssimativi o ripetitivi e spesso stilati molti secoli dopo. 

    Il politeismo ellenico, alle sue origini, si è presentato da subito come una religione ricca di elementi naturalistici, basata su di un pluralismo di divinità perfettamente integrate entro la totalità di una natura onnicomprensiva, e perlopiù esse stesse espressione di aspetti e forze di essa [1]. Le pratiche afferenti l’eusebeia ellenica (ma ciò vale anche per la pietas romana) rispondono prevalentemente a schemi appartenenti più al costume civile che alle esigenze della coscienza, pertanto hanno un carattere legalistico-sociale che ha ben poco a vedere con quello religioso vero e proprio. Non essendo facile definire, in quel contesto, il limite al di là del quale una posizione intellettuale ha assunto caratteri riferibili all’ateismo ci vediamo costretti a procedere per linee esterne e a considerare prodromi dell’ateismo quelle posizioni e quelle tesi che si sono allontanate dagli schemi del mito religioso, con l’elaborazione di interpretazioni del mondo più spiccatamente naturalistiche e tendenzialmente “pluralistiche”. Noi pensiamo che soprattutto queste ultime mantengano la teoresi atea al riparo da più o meno criptate entità mistico-metafisiche, alla cui deriva sono invece sempre esposti i monismi materialistico-deterministici, nei quali la necessità è un’entità metafisica generante, unificante e totalizzante che porta sempre i caratteri (espliciti o criptati) della divinità.

    Arriveremo all’esame delle tesi filosofiche dei pensatori che, nei termini sopra enunciati, possono considerarsi legittimamente atee, ma dobbiamo prima soffermarci sul pensiero filosofico che le prepara ed è la prima pietra miliare di questo percorso. Ci riferiamo allo straordinario fenomeno culturale del naturalismo milesio, una sorta di koiné filosofica che per la prima volta nella storia umana ha osato mettere da parte ogni principio divino nell’interpretazione del mondo [2]. Questa sorta di “miracolo” culturale, anticipatore di uno svincolo dalla religiosità, che è stato fondamentale nella storia di tutta la successiva filosofia, è stato il prodromo diretto dell’ateismo ellenico e il lontano precedente di ogni ateismo fiorito nella cultura occidentale fino ai giorni nostri.

 

 

 

                                     3.1) Il naturalismo milesio.

 

    Tutta la storia della filosofia greca è segnata da un dualismo di fondo, costituito da una tendenza naturalistica e da un’altra idealistica che le si contrappone. Tale dualismo troverà una qualche conciliazione in Aristotele, ma l’indirizzo idealistico (sulle orme del grande successo del platonismo) finirà per prevalere [3], mentre l’incipiente pensiero scientifico dell’epoca ellenistica ingloberà in gran parte quello naturalistico. Tuttavia, la straordinaria stagione del naturalismo milesio rimarrà sullo sfondo, a testimonianza di un epoca irripetibile, che si caratterizza per una nuova visione del mondo e per il temporaneo allentamento dei vincoli mitico-religiosi nell’interpretazione della realtà, ancorché non si pervenga a un deciso abbandono del concetto di “divino” in senso trascendentlistico e sacrale. E tuttavia l’importanza della filosofia naturalistica milesia sta anche nell’aver creato un nuovo clima culturale nel quale diventava possibile una visione del mondo ateistica.

    Talete ed Anassimandro, entrambi di Mileto, pongono un principio (arché) originario e materiale dell’universo. Tale principio è l’acqua per il primo e un più astratto “infinito-indefinito” (intermedio tra aria, fuoco ed acqua) per il secondo; con questa nuova teorizzazione materialistica delle origini del mondo viene messa da parte d’un sol colpo ogni entità divina quale causa, nonché origine, dell’essere del cosmo. La straordinarietà di tale teorizzazione non sta tanto nei termini ingenui (specialmente nel caso di Talete) coi quali venne formulata, ma col fatto in se stesso, che fu per l’epoca decisamente rivoluzionario in riferimento a tutte le cosmogonie mitiche che lo precedono. Si trattava sicuramente di un materialismo che era nel contempo un ilozoismo, ma non dobbiamo perdere di vista il fatto che era impensabile per l’epoca concepire una base materiale dell’universo priva di una sua “anima” che la vivificasse; l’importante è che quest’anima sia ontologicamente omogenea col suo “corpo”, ovvero la “materia”, e non più tributaria di alcuna ipostasi immateriale e divina. Ma per capire come sia stata possibile la “trovata” di Talete [4] e Anassimandro bisogna inquadrare adeguatamente i singoli protagonisti, nonché il clima culturale della Mileto della fine del VII secolo a.C., che ha rappresentato la “culla” in cui essa ha potuto sorgere.

    Come abbiamo già visto, lo storico Georges Minois ci fa rilevare come nel naturalismo religioso greco ci sia già un’interna propensione all’ateismo e come le dottrine dei filosofi ionici costituiscano un vero e proprio materialismo ante litteram [5]. Da questa asserzione ci sembra di poter partire per una rapida analisi del pensiero naturalistico dei filosofi di Mileto, con una considerazione aggiuntiva; secondo noi, se pure Talete risulta cronologicamente il primo ad aver posto un elemento fisico a fondamento del cosmo, ma l’esiguo scarto di età tra lui e Anassimandro non ci consente di sostenere una netta successione storica Talete-Anassimandro quale evoluzione diacronica del naturalismo milesio; quindi ci pare più appropriato parlare di contemporaneità. Si tratta, in realtà, di due interpretazioni del mondo che si sviluppano nella stessa temperie in due direzioni simili, e delle quali è sicuramente quella anassimandrea a possedere maggiore ricchezza teorica e spessore filosofico.

 

    Talete, assai più viaggiatore, geografo ed astronomo, che filosofo, contrariamente a quanto risulterebbe dal noto aneddoto riportato da Platone nel Teeteto [6], era tutt’altro che appartenente allo stereotipo del pensatore “con la testa tra le nuvole”, tanto è vero che fu uomo anche di interessi eminentemente pratici, essendosi occupato di politica e di affari e non senza qualche successo.  Uomo pragmatico quindi, di vasti orizzonti culturali, che ha viaggiato a lungo nei paesi del Mediterraneo e che ha probabilmente tratto la sua famosa tesi reinterpretando cosmogonie mesopotamiche od egiziane, nate in contesti agricoli dove l’acqua è alla base dell’esistenza [7]. Egli pensava che ciò che esiste si presenti in tre forme, vapore, acqua e terra (ovvero negli stati gassoso, liquido e solido) e che quest’ultima fosse soltanto una forma più concreta dell’acqua. Com’è noto, Talete venne più tardi considerato uno dei sette savi dell’antica Grecia e avrebbe acquistato grande fama e prestigio per aver previsto l’eclisse di sole del 585 a.C. Importantissimo fu anche il suo apporto nel campo della matematica e della geometria, e tuttavia, come abbiamo già rilevato, è assai probabile che le sue conoscenze derivassero da nozioni acquisite fuori del contesto greco e fossero state apprese durante i suoi viaggi in area mesopotamica ed egiziana.

    La straordinarietà di Talete sta allora nel fatto di aver dato il via, sia pure in modo approssimativo, ad un nuovo approccio all’interpretazione del mondo, che è quello filosofico. E tuttavia possiamo rilevare come Talete si limiti ad aprire una porta che Anassimandro spalanca, nel senso che la riflessione filosofica di questi va molto oltre l’intuizione di Talete, risultando foriera di sviluppi più specificamente teorici. D’altra parte, Talete aveva probabilmente troppi impegni e interessi per sviluppare la sua intuizione. Dice di lui Diogene Laerzio (I, 22-44): 

 

    Prima si dedicò alla vita politica, poi alla contemplazione della natura e, secondo aluni, non lasciò scritti. La Astrologia nautica che gli è attribuita si dice sia stata scritta da Foco di Samo. Callimaco lo conosce come scopritore dell’Orsa Minore […] Secondo altri scrisse due sole opere, Del solstizio e Dell’equinozio, ritenendo inintelleggiili tutti gli altri fenomeni. Altri ancora attestano che egli fu il primo coltivare l’astonomia ed a predire le eclissi del sole ed a fissare i solstizi d’inverno […] Primo pure scoprì il passaggio del sole da solstizio a solstizio e primo, secondo altri, mostrò che la grandezza del sole è la settecentoventesima parte <dell’orbita del sole e che la grandezza della luna> è la settecentoventesima parte dell’orbita lunare. Primo chiamò «trigesima» l’ultimo giorno del mese. Secondo altri fu il primo a trattare della natura [8].

 

Come si vede quelle del biografo-dossografo sono notizie che affondano quasi nel mito, ed il frequente “alcuni dicono” rivela le sue incertezze. Né molto più precisi sono i dati specificamente biografici, che però, se autentici, mettono in evidenza una certa sapida furbizia popolaresca del milesio: 

 

    Alcuni dicono che egli abbia avuto moglie ed un figlio, Cibisto; altri che sia rimasto celibe ed abbia adottato il figlio della sorella. Interrogato perché non procreasse, dicono che abbia risposto: «Per amore dei figli». Dicono pure che, incitandolo la madre a prendere moglie, abbia risposto:«Non è ancora tempo»; insistendo ancora, quando egli aveva oltrepassato la giovinezza: «Non è più tempo» [9].

 

Aristotele invece ci trasmette una notizia che mette in luce il senso pratico del Nostro e nello stesso tempo il suo senso etico e la sua dedizione alla filosofia (Politica, 1259 a 6) :

 

    Tutti questi racconti sul modo di arricchire sono utili per chi ne apprezza l’arte, e tra essi anche la storia che si narra a proposito di Talete di Mileto. […] Raccontano dunque che qualcuno, rinfacciandogli la sua povertà, asserisse che la filosofia non era di alcuna utilità pratica; allora Talete che, grazie alle sue conoscenze astronomiche, prevedeva una grossa raccolta di olive, prese in affitto fin dall’inverno i frantoi di Mileto e di Chio a condizioni vantaggiose perché nessuno ne offriva di più, dando come caparra un po’ di denaro di cui disponeva. Al momento opportuno, quando la richiesta divenne forte ed urgente, li cedette di nuovo al prezzo che voleva e ne trasse molto denaro, per dimostrare che ai filosofi, se volessero, sarebbe facile arricchire, ma che questo non è lo scopo a cui tendono. [10]

 

Ed è ancora Aristotele a fornirci la più antica e compiuta descrizione della filosofia di Talete (Metafisica, 983 b 6-24):

 

    La maggior parte dei filosofi più antichi ritenne che fossero principi di tutte le cose soltanto quelli che rientrano in una specie materiale. Infatti essi affermano che è elemento e principio delle cose esistenti appunto ciò di cui tutte quante le cose esistenti sono costituite e da cui primamente provengono e in cui alla fine vanno a corrompersi, anche perché la sostanza permane pur cangiando nelle sue affezioni, e per questo motivo essi sono dl parere che nulla nasca e nulla perisca […]

    Non tutti, però, sono d’accordo sul numero e sulla natura specifica di tale principio, ma Talete, iniziatore di tale tipo di indagine filosofica, sostiene che esso è l’acqua (perciò egli asseriva che anche la terra galleggia sull’acqua, e forse questa sua opinione gli fu suggerita dall’osservazione che è umido ciò di cui ogni cosa si alimenta e che anche il caldo nasce dall’umidità e sopravvive per mezzo di essa […] [11]

 

 

    Anassimandro, di poco più giovane di Talete, come si è detto è filosofo di maggior spessore, ma è anch’egli dedito ad attività pratiche, uomo di mondo che viaggia  e che si occupa di politica cittadina. Geometra e geografo (avrebbe secondo Erastotene tentato di realizzare una prima carta della Terra (che poco più tardi Ecateo avrebbe perfezionato) acquisì fama specialmente come astronomo e naturalista, inventando (o almeno introducendo in Grecia) lo gnomone e altri strumenti per il calcolo del tempo. Mentre Talete era stato piuttosto vago nelle sue teorizzazioni Anassimandro cercò costantemente di definirne i termini, introducendo in modo più chiaro il concetto di arché, quale principio e causa prima del mondo visibile e percepibile soltanto nella sua pluralità che identificò nell’àpeiron, una sostanza materiale ma invisibile che precede la differenziazione in molteplici entità derivate [12]. Viene così posto da Anassimandro un concetto ante-litteram di materia elementare in senso moderno, quale sostrato ed origine del tutto [13]. L’indeterminatezza dell’arché materiale ha dato luogo a svianti e arbitrarie interpretazioni, in senso metafisico e spiritualistico, del sostrato materiale anassimandreo, in aperto contrasto con tutte le testimonianze e interpretazioni antiche del pensiero del milesio. L’àpeiron, in realtà, ha soprattutto caratteri spaziali, ed oltre che un principio è anche un “estensione”, che nella sua totalità abbraccia il mondo, lo regge e lo regola. Da ciò l’inferenza aristotelica che l’àpeiron di Anassimandro abbia buoni titoli per venir definito “divino”, ma sappiamo come lo Stagirita tenda ad adattare alla propria filosofia l’interpretazione del pensiero di quelli che lo hanno preceduto, quando lo ritiene (in qualche modo) conciliabile con le proprie teorie.

    A partire dal principio cosmico che tutto comprende ed abbraccia gli enti, nella loro pluralità, secondo Anassimandro si generano per “separazione” di sotto-principi intermedi, come il caldo e il freddo, il secco e l’umido. Questa separazione genera un’infinità di mondi (concetto che verrà poi ripreso anche da Leucippo e dagli Atomisti successivi) e la realtà assume peraltro la configurazione di una rottura generativa di un’unità primordiale ed omogenea. Da ciò una sorta di fenomenologia circolare della materia, nella quale viene a determinarsi il processo nascita-morte degli essenti finiti (molteplici, differenti e contrastanti) come una loro uscita dall’origine ed un successivo ritorno ad essa.

    Dagli elementi di cui sopra si evince come Anassimandro abbia potuto tuttalpiù fare propria l’intuizione di di Talete, ma nello stesso tempo scostarsene per un maggiore approfondimento del problema ontologico, da cui deriva una visione filosofica più specificamente teoretica. Egli capisce che l’acqua non può essere il principio primo del tutto, poiché la sua fisicità (sia pure nella forma di vapore) è troppo definita per poter costituire il principio di ogni altra sostanza della realtà; quindi immagina un principio più generale, che nei termini in cui è espresso potrebbe essere considerato (come già notato) una delle prime definizioni di “materia”. Sentiamo in proposito Diogene Laerzio:  

 

    Anassimandro, figlio di Prassiade, naque a Mileto. Egli affermava che principio e elemento è l’infinito, ma non lo definì né aria né acqua né altro; le sue parti sono mutabili, ma il tutto è immutabile; la terra giace nel mezzo, tiene il posto centrale ed ha la forma di sfera […] Per primo scoprì anche lo gnomone e lo pose in Sparta come un quadrante solare […] Egli per primo disegnò la circonferenza della terra e del mare ed inoltre costruì anche una sfera [14].

 

Però si badi, Anassimandro va oltre Talete nel non riconoscere nell’acqua l’arché, ma l’acqua rimane comunque la culla del vivente. Riferisce Aezio [15](III, 16, 1, Dox.381):  

 

    Anassimandro dice che il mare è il resto dell’umidità originaria di cui la maggior parte ha disseccato il fuoco, mentre la parte rimasta s’è mutata per l’ebollizione [in acqua salata]. [16]

 

E altrove aggiunge (V, 19, 4, Dox.430):  

 

    Anassimandro sostiene che i primi viventi furono generati nell’umido, avvolti in membrane spinose e che col passare del tempo approdarono all’asciutto e, spezzatasi la membrana, poco dopo mutarono genere di vita. [17]

 

Ma è Plutarco a renderci una testimonianza (che trae da Teofrasto) secondo la quale Anassimandro avrebbe imaginificamente anticipato di venticinque secoli la teoria darwiniana e tematizzato la neotenìa con un argomento non privo di rigore logico. Leggiamo infatti (Stromata, 2, Dox.579):  

 

[…] Dice pure [Anassimandro] che da principio l’uomo fu generato da animali di altra specie perché, mentre gli alri viventi si nutrono subito da sé, solo l’uomo ha bisogno per molto tempo delle cure della nutrice: ora se all’inizio fosse stato tale [com’è adesso] non avrebbe potuto sopravvivere. [18]

 

   Ma torniamo ancora all’àpeiron per rilevare che varie testimonianze relative a questo originario illimitato-infinito di Anassimandro che ci pervengono da autori più tardi (perlopiù commentatori di Aristotele), come Alessandro di Afrodisia, Temistio, Filopono e Simplicio, sembrano indicare il principio da lui posto come un “intermedio” tra due o più elementi materiali originari. Va tuttavia osservato che in greco apeiron ha sì il significato di indefinitezza e caoticità, ma su esso prevale tuttavia quello, peraltro simile e per molti versi complementare, di infinitezza. Si comprende allora come l’infinitezza, attribuita ad un principio unico, possa prestarsi anche ad una forzatura interpretativa, con la quale si potrebbe ipotizzare che l’unità del principio degradi la molteplicità a pura forma, negandole ogni materialità. E’ questa un’interpretazione misticheggiante della filosofia di Anassimandro, affacciatasi nel XX secolo con Heidegger, che ha stravolto, e del tutto arbitrariamente, i termini reali della tesi ontologica anassimandrea.  L’autore di Essere e tempo opera una fantasiosa analisi testuale di un brevissimo frammento assai lacunoso, che sarebbe stato riferibile ad un supposto testo originale di Anassimandro scoperto da Teofrasto tre secoli dopo (nessuno risulta averne parlato prima) e ripreso da Simplicio (un neoplatonico del VI secolo) nove secoli più tardi. Vale la pena di riportarlo per rendersi conto di come la filosofia possa abdicare ad ogni obbiettività quando si tratta di produrre dell’ermeneutica mistica. Il frammento di Simplicio (Physica, 24, 13; A, 9), che è gravato, tra l’altro, da evidenti integrazioni, recita:

 

Anssimandro… diceva che inizio [arché] e elemento primordiale delle cose è l’illimitato….E donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo [19]

 

Dedurre da un passo così scarno i segni di una presunta teoresi spiritualistica anassimandrea, e quindi anti-materialistica, stravolgendone pertanto l’autentico significato naturalistico originario (e farne un’espressione ontologico-mistica) è un evidente e pesante arbitrio. Ma si possono avanzare persino seri dubbi circa la sua aderenza ad un’affermazione originale di Teofrasto, così come potrebbe trattarsi di nulla più che una parafrasi in gran parte metaforica della tesi anassimandrea [20]. Va precisato che l’interpretazione a cui abbiamo accennato è quella dello Heidegger post-kehre (1946) e che egli si rifà alla traduzione del frammento di Simplicio datane da Nietzsche per cogliervi un’enunciazione ante litteram della propria tesi dell’apparire della verità in quanto “non-nascondimento” dell’essere. Ma vediamo come emergerebbe tale straordinario (ed occulto-occultato) segno dell’alétheia pevenutoci da un Anassimandro “in estasi”. Dice Heidegger:

 

    In ogni caso, se vogliamo pensare il detto di Anassimandro, è necessario, prima di tutto e sempre di nuovo, compiere quel semplice passo in virtù del quale ci traduciamo in ciò che dice la parola ovunque inespressa έόν, έόντα, εϊναι. Essa sta a dire: esser-presente nel non esser nascosto. Nel che si cela: l’esser-presente stesso porta con sé il non-esser-nascosto. Il non-esser-nascosto stesso è esser-presente. [21]

 

Ci asterremo da ogni commento del passo heideggeriano, ma non possiamo esimerci dal rilevare che né in Aristotele, né in Teofrasto né in Simplicio vi è assolutamente nulla che possa far pensare a un annuncio mistico della “verità originaria e nascosta”, come pensa Heidegger, e che, anzi, le testimonianze (comprese quelle di Simplicio, che è un neoplatonico) sembrano escludere tassativamente l’attribuzione di un senso spiritualistico al frammento stesso.

    Vediamo però che cosa dice Aristotele dell’infinito (Fisica, 202 b 36) :

 

    Ma un segno che la considerazione dell’infinito è propria della scienza della natura è il fatto che tutti quelli che sembrano aver trattato tale filosofia in modo degno hanno preso in esame l’infinito e tutti lo hanno posto come principio delle cose; gli uni come i Pitagorici e Platone, in sé e per sé, non come predicato di un’altra cosa, ma l’infinito come sostanza…Tutti quanti i fisici, invece, danno sempre come sostrato all’infinito un’altra natura, prendendola dai cosidetti elementi, come l’acqua, l’aria o qualcosa di mezzo tra i due. […] [22] 

 

Qui Aristotele, con l’espressione “in modo degno”, manifesta chiaramente la sua malcelata ascendenza idealistica, e nello stesso tempo enuncia chiaramente quello che pensa dell’infinito posto dalla categoria di pensatori a cui appartiene Anassimandro (i “fisici”). Altrove [23] lo Stagirita, entrando più nel dettaglio, ci fa notare che l’infinito di Anassimandro è la “mescolanza” e non la “pluralità delle cose in atto dell’unità originaria (poiché come tale sarebbe una sorta di infinito spurio). E a nostro parere proprio qui sta il nocciolo della questione; se l’infinito di Anassimandro è principio e nel contempo mescolanza (o “insieme”) di elementi fisici esso è materia “fisica”, ma se viene considerato “unità originaria” (e quindi aristotelicamente precedente la pluralità in atto) se ne fa un’entità primaria ed originaria che potrebbe teoricamente avere denotazioni immaterialistiche. Va rilevato tuttavia che il neoplatonico Simplicio (Physica, 24, 13) sembra mantenersi abbastanza neutrale sull’argomento, senza che vi siano forzature in senso spiritualistico. Infatti l’àpeiron non è principio immobile, bensì “mobile” e quindi implicitamente materiale:

 

Tra quelli che pongono un unico principio mobile e illimitato, Anassimandro di Mileto, figlio di Prassiade, successore e discepolo di Talete, affermava che principio e elemento primordiale delle cose è l’illimitato, introducendo per primo il termine di “principio”. [24]

 

E proseguendo ci precisa:

 

e diceva che esso non era né l’acqua né un’altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita da cui provengono tutti quanti i cieli e i cosmi che sono in essi. 

[…] Evidentemente Anassimandro, avendo osservato la trasformazione dei quattro elementi l’uno nell’altro, non volle porre uno di essi come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi [25].

 

Anche a voler pensare che Simplicio abbia in mente l’Uno-Tutto plotiniano ci sembra veramente difficile affermare che Simplicio con “altra natura infinita” e “oltre questi” possa alludere a qualche cosa  di spirituale nell’àpeiron anassimandreo.

    Appare dunque inevitabile e quasi d’obbligo opporsi nettamente all’interpretazione di Heidegger ed assumere per certa la sostanziale materialità del principio cosmico anassimandreo, sottraendolo così ad ogni arbitrario suo stravolgimento attraverso l’interpretazione arbitraria di un testo di per sé ambiguo. Ciò anche perché, verosimilmente, quel “detto” di Anassimandro riferito da Simplicio dodici secoli dopo la sua enunciazione può essere stato ampiamente corrotto dalla reiterata trasmissione verbale.

    Ma l’interpretazione heideggeriana del frammento di Simplicio ci induce anche ad un’ulteriore considerazione, che va oltre le conclusioni che abbiamo appena tratto. Il fatto che l’intepretazione sopra citata abbia potuto essere posta e accettata da larghi strati della critica filosofica dimostra come in filosofia sia possibile stravolgere i significati dei testi frammentari o poco chiari in direzioni del tutto impensabili, soprattutto quando si parte da posizioni che sono estranee a quelle che si intende interpretare. Infatti, il caso considerato nasce dall’interpretazione idealistico-mistica di un pensiero che è, all’opposto, naturalistico-materialistico e che non può essere, pertanto, che fondamentalmente anti-idealistico e anti-mistico. È quindi a partire dalla consapevolezza che il dominio della filosofia idealistica, in tutte le sue varie forme e derivazioni, ha permeato a tal punto (e permea tuttoggi) la cultura occidentale dal V sec.a.C in poi che dobbiamo assumere il sospetto come nostro pre-criterio interpretativo quando ci accostiamo alla filosofia antica. Soltanto una “rilettura” di essa che riparta quindi da zero ci può mettere al riparo sia dalle manipolazioni teologiche, sia dalle interpretazioni mistiche e non meno  da quelle idealistiche.

    Per una rilettura della storia della filosofia con criteri di neutralità extra-idealistica risulta quindi indispensabile mettere dei punti fermi per salvaguardarci dai molteplici equivoci che circondano il termine “materia”. Perciò ci concederemo qui una digressione, proponendo un ulteriore passo avanti nelle nostre riflessioni che esula dal tema della filosofia antica. E lo faremo al fine di assumere un criterio guida, che a noi pare indispensabile, qualora si persegua il tentativo di delineare una teoresi atea moderna che sia in grado di evitare equivoci ontologici e ogni (sempre incombente) deriva metafisica. Infatti, se noi attribuiamo alla materia una sostanziale e intrinseca pluralità conserveremo la “materialità” nella sua autenticità, ma se noi cederemo alla tentazione di teorizzare una materia “unitaria”, come potevano fare i pensatori del passato (ma non certo noi che disponiamo delle nozioni acquisite dalla fisica teorica sub-atomica) non soltanto negheremo la pluralità ontologica di essa, ma ne faremo un puro e monistico principio astratto, passibile di ogni intepretazione metafisico-mistica. Per evitare esiziali ambiguità di questo tipo l’ateismo teoretico non può quindi esimersi dallo stare alla larga da ogni unitario “principio” materiale, come originario rispetto al dispiegarsi della pluralità reale fenomenica ed anche evidenziare, ove si verifichi, questo esiziale errore teorico.

    Il pensiero ontologico di Talete ed Anassimandro quindi, in base al criterio testé esposto, parrebbe non poter essere considerato quale antecedente di un’ontologia atea moderna e tuttavia i due milesii debbono essere considerati i veri precursori dell’ateismo, per il solo fatto di aver posto un principio materiale a base dell’universo; e ciò in aperto contrasto con ogni precedente interpretazione dell’origine e della sostanza del mondo. Per contro non possiamo considerare ateo Eraclito, il quale fa sì riferimento ad un elemento materiale, il fuoco, ma per assegnargli connotazioni puramente metaforiche e farlo coincidere con un logos divino che è netta ipostasi mistica.

 

    Completiamo ora la triade dei naturalisti milesii con Anassimene, il quale, forse allievo di Anassimandro e almeno di trent’anni più giovane, non condivide l’indeterminazione dell’àpeiron e identifica decisamente l’arché con l’aria [26]. Tale definizione gli consente di teorizzare il formarsi e l’estinguersi degli enti come un processo alternato di “rarefazione” e di “condensazione” del principio materiale originario. Entra così in gioco la pluralità degli “elementi” (su cui Empedocle fonderà la sua teoria), ma solo come “stati” provvisori del sostrato primario unico. Ci informa su di lui il già citato Diogene Laerzio:

 

    Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu uditore di Anassimandro; secondo altri fu anche uditore di Parmenide. Ammise come principio l’aria e l’infinito; gli astri si muovono non sotto terra, ma intorno ad essa. […] [27]

 

Più interessanti elementi teorici ci offre Simplicio quantunque si tratti di un interprete di tre secoli più tardo di Diogene (Physica, 24, 26):

 

[…] Essa si differenzia nelle varie circostanze a seconda del grado di rarefazione e di condensazione: e così dilatandosi dà origine al fuoco, mentre condensandosi dà origine al vento e poi alla nube; ad un grado maggiore di densità forma l’acqua, poi la terra e quindi le pietre ; le altre cose derivano poi da queste. Anche Anassimene ammette l’eternità del movimento, per opera del quale avviene la trasformazione. [28]

 

Dunque, rarefacendosi o condensandosi, l’aria dà sostanza ai vari elementi del mondo. Ma il vero motore di tutte le sue metamorfosi è l’eterno movimento. Poiché è la connessione tra esso e la sostanza che più di ogni altra si presta ad essere soggetta a movimento in ogni direzione ontica, l’aria appunto, che si generano i vari aspetti del cosmo. Come nota infatti ancora Simplicio (De caelo,  273 b 45):

 

    Anassimene …diceva che il principio era l’aria, pensando che la facilità alle variazioni propria dell’aria la rendesse adatta al cambiamento. [29]

 

I sotto-principi che Anassimandro aveva già identificato nelle coppie del caldo-freddo e dell’umido-secco soggiacevano anch’essi all’eterno divenire del processo rarefattivo-condensativo, ma è proprio con Anassimene che tale tesi trova una sua evoluzione attraverso il concetto di moto, il quale risulterà fondamentale per la nascità della teoria atomistica di Leucippo. Una particolare ed originale spiegazione dell’arcobaleno avanzata da Anassimene ci viene riferita da Aezio (III, 5, 10) ed essa rivela, tra l’altro, le sue eccellenti capacità di osservazione, poiché la definizione di “nube spessa” non è poi così lontana da quella di una massa di gocce d’acqua che per un processo di rifrazione-riflessione della luce solare dà luogo al fenomeno:

 

Anassimene sostiene che l’arcobaleno è prodotto dal riflesso del sole su una nube spessa, densa e scura, poiché i suoi raggi, posatisi su di essa, non possono traversarla.

 

L’originalità di alcune teorizzazioni di Anassimene è fuori discussione e gli va riconosciuta specialmente la capacità di osservazione ed indagine che lo porta ad operare una riduzione delle differenze apparentemente qualitative del reale fenomenico a differenze quantitative, in quanto ciò che muta la sostanza del reale è soltanto il grado di rarefazione-condensazione. E tuttavia, anche se la filosofia anassimenea consiste in un’acuto approfondimento delle tesi di Anassimandro, non vi è in essa la portata rivoluzionaria del pensiero del suo precedessore-maestro. Da esso Anassimene desume anche la concezione di un divenire ciclico del mondo, con un suo periodico dissolversi nel principio originario e un suo successivo rigenerarsi a partire da esso. Una teoria palingenetica che verrà più tardi ripresa dagli Stoici. 

 

    Un ultimo accenno ad un personaggio del mondo ionico vissuto nella prima metà del V se.a.C., il quale, in base alle testimonianze, si è richiamato in modo esplicito al naturalismo milesio (e specialmente a Talete) e che da parte di molti suoi contemporanei veniva giudicato ateo. Si tratta di Ippone, filosofo e medico di Samo (o di Crotone) che viene considerato uno dei più importanti esponenti della cosiddetta “seconda filosofia ionica”. Uno degli aspetti notevoli della filosofia di Ippone deriva dalla sua attività osservativa, imposta anche dalla sua professione di medico e naturalista, che lo conduce a teorizzare come fondamento del vivente un “principio vitale freddo” presente nell’umidità e in tutto ciò che ha come base costitutiva l’acqua. Ciò in netta contrapposizione ad Eraclito, il quale, come è noto, sulla base del fuoco-logos come origine e generazione del tutto, aveva sostenuto essere il fondamento del mondo un divino “principio vitale caldo” insito nel fuoco. A questo proposito non sarà peregrino notare come, già a metà del primo millennio a.C., il mondo ellenico rivelasse in filosofia una netta contrapposizione tra i sostenitori di una filosofia metafisico-mistica del tutto astratta e coloro che, attraverso l’osservazione della natura e la riflessione su di essa, pervenivano a delle definizioni le quali, per quanto ancora lontane dalla scientificità più tarda, mostravano già una netta intuizione dei termini oggettivi in cui si pone la realtà fisica e biologica. 

    Partiamo con una dichiarazione di Simplicio (Phis., 23, 22) in cui Ippone viene associato a Talete e dove si fa cenno del suo presunto ateismo:

 

[A proposito dei veri “fisici” per i quali il principio è uno e mobile] così Talete… e Ippone, il quale sembra sia stato anche ateo, dicevano che il principio è l’acqua, spinti a tale conclusione dall’esame sensoriale di fenomeni, etc. [30]    

    

Tramite Clemente Alessandrino (Protr., 2, 24) apprendiamo che un certo Philoponus, in una sua Aristotelis de generatione animalium (88, 239 , avrebbe dichiarato:

 

Costui fu denominato ateo per questo motivo, che la causa di tutto a nient’altro riportò se non all’acqua. [31]

 

Conferma di ciò ci viene da Alessandro di Afrodisia, che nel suo Metaphysica (462, 29) afferma:

 

Ippone dapprima fu detto l’ateo, perché riteneva che non ci fosse niente oltre le cose dei sensi. [32]

 

Ed è ancora il cristiano Clemente (Protr. 2, 55) che nota, tra il serio e il faceto, in riferimento ai “falsi” dèi pagani:

 

E non è giusto prendersela neppure con Ippone che immortala la sua morte. Egli fece incidere sul suo monumento questo distico: «È questa la tomba di Ippone che dopo la morte pari agli dèi immortali rese la Moira.» [33]

 

 

    Per chiudere questo paragrafo dedicato al naturalismo ionio dobbiamo ancora soffermarci un istante a definire le ragioni del “perché a Mileto”, e in quel preciso momento storico, abbia avuto nascita un percorso filosofico che darà luogo più tardi, in epoca ellenistica, alla nascita del pensiero scientifico (ponendo implicitamente le premesse per la nascita di una concezione ateistica del mondo). Occorrerà allora sottolineare che si è trattato di una particolare e felice situazione storica, che ha potuto determinare il fondamentale accadimento filosofico di cui Talete, Anassimandro ed Anassimene sono stati protagonisti, ma che ha dato luogo, più in generale, ad un clima culturale nel quale si inseriscono personaggi collaterali (come Ecateo [34]) che hanno alimentato una ricerca su base razionale e critica che era stata del tutto assente nelle epoche precedenti.

    Mileto era infatti, all’epoca, la culla del pensiero filosofico, delle scienze naturali, degli studi geografici e storiografici [35], nonché luogo di raccolta di varie tradizioni culturali presenti nell’area circum-mediterranea. E d’altra parte, era anche stato in area ionica che l’epica omerica aveva reso, in termini di grande poesia, un primo e definito compendio della multiforme mitologia precedente, fornendo così un primo esauriente quadro fenomenologico delle divinità della religione greca. Religione che (come si è visto), in maggior misura di altre religioni antiche, si caratterizzava per una molteplicità di entità super-umane che coprivano, a vari livelli gerarchici, tutti gli aspetti e tutte le forze della natura. La pluralità delle ipostasi divine che ne era derivata, insieme coi caratteri antropomorfi o antropo-zoomorfi ad esse attribuiti, si inseriva nella rappresentazione mitica di una vicenda storica più o meno recente e con essa veniva creato un palcoscenico di situazioni e personaggi, i quali, nel bene e nel male, rappresentavano lo scenario poetizzato di una umanità polimorfa e complessa. Ed è ancora al contesto ionico che appartengono due dei capostipiti della poesia lirica greca, Alceo e Saffo, che sono contemporanei dei filosofi naturalisti di cui ci siamo occupati.

    Ma se le città sulle coste della Ionia, e le isole che vi si affacciavano, erano in quel momento il crogiolo della cultura ellenica vi era anche una ragione extra-culturale, identificabile col felice momento economico che l’area viveva, in un fervore di attività commerciali ed artigiane basate specialmente sulla navigazione. La contiguità territoriale colla potente e ricca Lidia, essendo in quegli anni regnante il famoso e ormai mitico Creso, determinava una situazione economica particolarmente favorevole (sia pure con qualche elemento di dipendenza politica) agli sviluppi della cultura in tutte le direzioni. Mileto era infatti un tramite indispensabile per i rapporti che quel regno intratteneva con tutte le altre civiltà contemporanee del mediterraneo. Dalle quali, la Ionia, dopo averne raccolto gli apporti conoscitivi e tecnologici, si avviava ora a irradiare un nuovo tipo di cultura, basata essenzialmente su una razionalità che non mortificava l’immaginazione e che nello stesso tempo metteva in ombra la religiosità del mito e con essa la sacralità che aveva permeato le società dei secoli precedenti [36].

    L’area ionica, e in particolare la polis di Mileto, almeno fino al disastro militare che seguì la sua sfortunata rivolta contro lo strapotere dell’impero persiano (nel 494 a.C.), per mezzo del commercio e delle comunicazioni aveva aperto i propri orizzonti in ogni direzione e si era avviata a prendere la guida culturale di tutto il mondo antico. Attraverso un coacervo di conoscenze pre-scientifiche e di capacità tecniche, di internazionalismo e di nuovi rapporti sociali, si gettavano nel contempo le basi di una società urbana mediamente agiata e culturalmente aperta. È al centro di tale contesto che una comunità sociale ben organizzata, costituita principalmente da artigiani e da commercianti, poteva vedere la fioritura dell’architettura e della medicina, dell’astronomia e della geografia, della poesia epica e lirica, ed infine (per ciò che concerne la nostra ricerca) di un’ontologia laica e post-mitologica che avrebbe aperto i nuovi orizzonti della filosofia.

 

                                            3.2) Empedocle

 

    Parlerò ancor più chiaramente. Essi ritengono che il fuoco, l’acqua, la terra e l’aria sono tutti elementi naturali o frutto del caso, […] [37]

 

Con queste parole Platone, nel Libro X de le Leggi (888 b), inizia una lunga requisitoria contro quel complesso di concezioni foriere di empietà che devono incorrere nei rigori delle sue virtuose “leggi”. Qui il riferimento va ad un pensatore che certo ateo non è, ma che agli occhi del Sommo ha comunque il peccato imperdonabile di essere un casualista, mentre Aristotele, con motivazioni non inconsistenti (ma probabilmente pro domo sua), dubita che egli sia invece un necessitarista (Physica, Θ, 1, 252 a 7). Ma ciò che, in aggiunta, indigna Platone ai limiti dell’intollerabilità, è il fatto che anche Empedocle possa teorizzare un ontologia pluralistica e una causazione “fisica” dell’essere del mondo (sia pure, nel suo caso, in termini mitico-metaforici). Così, in nome della monistica “nostra famiglia eleatica”, ne fa un fascio con altri (secondo lui) “fisici” pluralisti (Sofista, 242 c-d) nei termini seguenti :

 

    Mi sembra che ciascuno ci racconti una specie di favola, come se fossimo dei ragazzini. […] Uno [Ferecide di Siro o Ione di Chio] dice che gli enti sono tre […] Un altro [Archelao?] afferma che gli enti sono due, l’umido e il secco […] La nostra famiglia eleatica, invece, che comincia da Senofane, ed anche da prima, ritenendo che sia una cosa sola quelle che sono chiamate “tutte le cose”, è in questo senso che ne tratta nei suoi miti. Ma alcune Muse della Ionia [Eraclito] e in seguito di Sicilia, ritennero che fosse più sicuro intrecciare le due concezioni e dire che l’essere è insieme molteplice e uno, e che è abbracciato da Odio e Amicizia.

 

E meno male che, secondo lui, Empedocle opererebbe una sorta di “compromesso” con la divina unità eleatica, altrimenti lo avrebbe trattato probabilmente già qui (ma si scatenerà poi nelle Leggi) molto peggio. In realtà invece (e lo vedremo) Empedocle è un pluralista puro, che pensa il mondo come costituito dai quattro elementi-base e da due forze che li separano e li connettono in un divenire cosmico continuo.  

    Il Nostro, che nasce ad Agrigento intorno al 492 e muore nel 432 a.C., pone per primo la struttura plurale dell’essenza del mondo, ed è da esso che possiamo far partire la storia del pluralismo ontologico che porterà all’ateismo teoretico, ancorché Empedocle non possa definirsi ateo. Ma tale lo considerava certamente Platone, sia per la sua cosmogonia pluralistica e sia per il suo uso del concetto di Tyche come sinonimo di caso, concetto fisico-ontologico che Platone non poteva certo tollerare. Leggiamo così, ancora, nelle Leggi (X, 891, c-d):

 

« […] V’è pericolo infatti che colui che dice queste cose ritenga il fuoco, l’acqua e la terra e l’aria come principi di tutte le cose e proprio queste cose chiami “natura” e ne derivi successivamente l’anima. Anzi mi sembra non che ci sia pericolo ma che proprio questo ci indichi in realtà col discorso. […] Ebbene, per Zeus, non abbiamo forse trovato una fonte, in certo modo, della stolta opinione di tutti gli uomini che mai abbiano messo mano alle indagini sulla natura? Esamina anche tu, analizzando [d] ogni discorso loro; perché sarebbe molto importante se a noi risultasse che coloro che si sono attaccati a dottrine empie, nelle quali guidano anche altri seguaci, neppur del discorso sanno usar bene, ma commettono degli errori.» [38]

 

Di Empedocle (che scrive in versi secondo l’uso dell’epoca) ci sono pervenute fortunatamente due opere (sia pure incomplete), il Poema fisico e il Poema lustrale, dalle quali è possibile desumere il suo pensiero con una certa chiarezza, anche se su di esso non sono mancati equivoci da parte di chi ha voluto vedere in lui un “mistico”, ben aldilà di quanto alcune sue posizioni (nel Poema lustrale) possano far pensare.  Anche nella lettura del Poema fisico occorre non cadere in quegli equivoci che talvolta possono sorgere dalla traduzione letterale; non va infatti mai dimenticato che si tratta di un poema appartenente ad un genere filosofico-letterario che doveva osservare regole formali abbastanza codificate, riferibili alla retorica mitologica e poetica dell’epoca. Ma fin dal proemio, Empedocle, nel porre chiaramente i sei fattori fondamentali dell’universo, i quattro elementi e le due forze antagoniste, che sono alla base di tutta la dinamica dell’essere, ci rivela il contenuto filosofico dell’opera. Essi sono ingenerati ed “eterni” (ma anche “eternamente instabili, come si vedrà), mentre tutte le cose inanimate e gli esseri viventi presenti nell’universo, che da essi derivano, sono “mortali” (1, 1-4):

 

Se mai per qualcuno degli effimeri tu, musa immortale

Hai voluto visitare le umane prove  del pensiero,

allorché ti pregarono, anche ora sii presente, o Calliopea,

mentre espongo il mio probo ragionamento sopra gli dei felici;

 

dove gli “dei felici” non sono evidentemente quelli olimpici, bensì i sei fattori dell’universo, che vengono specificati subito dopo (1, 5-13): [39]

 

e in mezzo porterò questo tema degli elementi non generati,

il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria,

che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno,

e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice.

Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono:

<gli uomini e le fiere ed i pesci ed i virgulti>;

perché, quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai,

per causa di uno solo

di entrambi, il tempo infinito resterà deserto. [40]

 

    Dato l’uso poetico del tempo, dopo aver invocato Calliope (quale musa della poesia epica e didattica) e dopo aver poeticamente chiamato “dei felici” gli eterni fattori dell’universo (anche Lucrezio chiamerà talvolta “dei” gli atomi democritei ed epicurei) nel ribadire il rapporto metaforico degli elementi (chiamati anche radici) Empedocle delinea il suo criterio di conoscenza col quale “il simile conosce il simile” (un criterio presente anche in Leucippo e Democrito). Così prosegue l’agrigentino (1, 53-62):

 

Senti prima i quattro nomi che sono le radici di tutto:

lo smagliante Zeus ed Hera altrice, ed Aidoneo

e Nestide, che inonda di lacrime la vasca umana.

Con la terra, infatti, noi vediamo la terra, e con l’acqua l’acqua,

e on l’etere l’etere celeste, e con il fuoco il fuoco tremendo;

e l’amore vediamo con l’amore, e così l’astio con l’astio luttuoso;

perché con i mezzi che compongono in armonia tutte le cose del mondo

con quelli pensano gli uomini, e si rallegrano e si angustiano;

e poi, quanto diversi cangiamenti hanno subito, tanto diverse immagini

ogni volta anche il pensiero suggerisce a loro nel sonno. [41]

 

Troviamo più avanti un nuovo accostamento metaforico elemento/dio nell’elogio della concordia (4, 20-24):

 

Ma la concordia tu mirala con la mente; non rimanere stupefatto con gli occhi.

Anche in mortali membra si ritiene ch’essa si generi,

ed è così che la gente nutre pensieri affettuosi, e compie azioni amorose,

chiamandola coi nomi di Gioia e di Afrodite; ma nessuno degli uomini mortali

ha imparato che turbina con tanta massa degli elementi. 

 

passa quindi a precisare meglio la natura dei quattro elementi nei termini seguenti (4, 26-39):

 

Questi fattori si equivalgono tutti, ed hanno uguale l’età,

ma ognuno possiede il proprio rango, ognuno ha l’indole propria

ed a vicenda comandano durante il tempo trascorrente,

Oltre a questi, poi, non si aggiunge nulla, e nulla neppure finisce.

Se infatti perissero nella successione del tempo, già più non ci sarebbero.

Oppure questo che è il tutto sarebbe aumentato: ma con che cosa, che pure arrivi da qualche parte?

Nel tutto non c’è un posto che sia vuoto: da dove, dunque, qualcosa può sopraggiungere?

Né poi c’è nulla di vuoto, quando sussiste l’uno, né nulla di soverchio.

E allora, come può qualcosa anche venire a mancare, quando al di là di tutto questo non c’è nulla abbandonato?

Invece esistono solo questi elementi, e gli uni trascorrendo attraverso gli altri

si presentano via via in corpi diversi, ma sempre uguali a sé permangono perpetuamente.

Infatti tutti gli elementi, l’elettro e la terra ed il cielo ed il mare,

sono bene disposti verso quelle parti di loro stessi,

che, staccate da loro, si sono prodotte in corpi mortali. [42]

 

  Ma vediamo ora come si formano le singole cose (i corpi mortali) in questa fenomenologia dell’universo empedocleo (6, 8-13):

 

Da quella materia mescolantesi alla rinfusa, molti elementi permangono distinti:

tutti quelli che l’astio, sollevato in alto, ancora tratteneva; e strenuamente giacché

non è rimasto, verso gli estremi confini dell’orbita, al di fuori del tutto,

ma dentro rimaneva in una parte dei componenti, e dall’altra era uscito;

e di quanto volta a volta gli avvenisse di cedere, di tanto subentrava, volta a volta,

il benigno slancio inestinguibile della stregua concordia. [43]

 

    I quattro elementi-base dell’universo danno luogo alla pluralità del reale percepibile in virtù della concordia-amore-amicizia e queste si disgregano a causa dell’astio-odio. Le azioni di questi due principi “dinamici” si avvicendano e con ciò determinano il ciclo cosmico, che si estrinseca nelle fasi dello sfero (quando prevale l’amore) e del caos (quando prevale l’odio). Come si noterà non si può pensare all’opera empedoclea come ad un capolavoro di coerenza; non mancano infatti dei punti del Poema fisico in cui l’autore sembra tirare in ballo una natura divina dello sfero, quale principio di tutto ciò che esiste (una specie di intelletto che muove il mondo), ma tralasciando tali sporadici elementi di incoerenza si può ragionevolmente ascrivere alla concezione del mondo di Empedocle una sostanziale coerenza materialistica. Né questa lettura può ritenersi intaccata dal successivo Poema lustrale (letteralmente Purificazioni), in realtà un’epistola di argomento etico, dove egli espone una teoria della metempsicosi [44] ed implicitamente dell’anima. [45]

    Un aspetto molto importante della fisica empedoclea è la totale assenza di una legge cosmica universale (come sono il logos in Eraclito e, in qualche misura, il noùs di Anassagora), così come manca un principio di necessità nell’esistenza dei sei fattori fondamentali dell’universo, che nella loro continua dinamica mutazionale creano la realtà. La fenomenologia formativa e distruttiva pare avvenire assolutamente “a caso” e ciò è testimoniato dai ricorrenti “a volte….a volte” (4, 7 ed 8; 4, 47 e 49; 22, 5 e 6; 44 1-3) [46]. Lo Zeller mette in rilievo che: «In realtà Empedocle spiega diversi fenomeni con un non meglio chiarito e perciò casuale moto degli elementi. Egli non ha ancora teorizzato la presenza di una legge costante in tutti i fenomeni naturali». Estremamente interessante questo “non ha ancora”, che rivela come il grande studioso della filosofia greca colga ciò come un “mancanza” e gli sfugga il fatto fondamentale che il divenire di Empedocle è del tutto differente da quello mistico che Eraclito aveva precedentemente posto, essendone un superamento che lo Zeller, nella sua intepretazione platonico-aristotelica, non riconosce. Noi riteniamo, infatti, che si potrebbe ragionevolmente ribaltare il giudizio e affermare che era Eraclito a “non aver ancora” superato il principio di necessità, come d’altra parte Parmenide, che addirittura la considerava come “perfezione dell’essere”. In realtà lo Zeller è, probabilmente, ancorato all’opinione di Aristotele, che ovviamente non poteva che  rimproverare ad Empedocle questa “indeterminazione” [47].  Ma d’altra parte lo Stagirita non poteva sapere che i fisici e i biologi di 25 secoli dopo sarebbero stati costretti a riabilitare il caso per una questione di gnoseologica “necessità” scientifica.

     Ci prendiamo qui nuovamente la libertà di astrarre per un’istante dall’ateismo antico, di cui ci stiamo occupando, per concederci un inciso. E lo facciamo cogliendo l’occasione che proprio Empedocle ci offre (in quanto primo sostenitore, accanto ad Anassagora, del pluralismo ontologico) per confermare qui il nostro punto di vista sull’essenza della teoresi atea di cui stiamo cercando le origini. Noi riteniamo che essa possa dirsi autentica soltanto ove si tenga lontana da ogni forma di metafisica, poiché questa è sempre il Cavallo di Troia del divino, e il divino messo fuori dalla porta dal naturalismo riesce sempre a rientrare dalla finestra attraverso la metafisica dell’idealismo. Un filosofia atea degna di questo nome si realizza concretamente non soltanto quando ci si liberi da ogni evidente ipostasi divina, ma quando la si basi su due fondamenti teorici irrinunciabili, che sono: la già citata pluralità delle sostanze ed il caso. Questo va ammesso (accanto alla necessità) come fattore ontologico a pieno titolo, e ciò in base al sostanziale indeterminismo del divenire macro-cosmico, a cui si accompagna quello micro-cosmico della materia elementare. Ogni sedicente filosofia atea che abbia esplicitamente o accarezzi tendenze monistiche e/o ponga la necessità come assoluta, ovvero il determinismo, a fondamento dell’essere, diventa, a nostro parere, irrimediabilmente autocontraddittoria e potenzialmente soggetta ad una sua “metafisicizzazione” che nasconde sempre una forma criptata di “teologizzazione”. Il determinismo, ponendo l’unità-totalità di un essere necessitato, non fa che ri-vincolarsi ad una metafisica che non riesce né a rinunciare alla compulsiva ipostasi dell’unitarietà dell’essere né alla soggiacenza a una qualche legge divina o pseudo-divina che elimini la casualità. Il caso, in quanto risultante di cause sconnesse [48], è secondo noi il vero “motore fisico” di ogni cambiamento macroscopico dell’universo e dei comportamenti delle particelle elementari subnucleari; come lo è anche di tutte le mutazioni genetiche che hanno determinato, determinano e determineranno l’evoluzione biologica del pianeta, in ogni suo aspetto.

    Dopo aver enucleato , sia pur sinteticamente, il pensiero empedocleo in base ai suoi scritti, seguiremo ora alcuni commenti posteriori, laddove essi assumano un particolare interesse. E tra questi vi sono certamente quelli di Aristotele, che ha considerato attentamente il suo pensiero in modo analitico, cogliendone gli aspetti (secondo lui) positivi ed altri negativi, ma, probabilmente, con qualche equivoco.  Nella Metafisica (I, A, 4, 985 a 21 – 28) si dice:

 

[…]; ed Empedocle più di Anassagora fa uso delle cause, ma neanche lui in modo sufficiente, né riesce a mettersi d’accordo con se stesso. Non poche volte pertanto secondo lui l’Amicizia disgrega e la Contesa è causa di aggregazione. Difatti, quando l’universo vien ridotto ai suoi elementi differenziali per opera della Contesa, allora si riscontra una riduzione all’unità del fuoco e di ciascuno degli altri elementi; quando, poi, questi vanno a ricomporsi in un’unità per opera del’amicizia, allora inevitabilmente le particelle di ciascun elemento vengono di nuovo separate tra loro. [49]  

 

Quello che sfugge qui allo Stagirita, che ragiona dal punto di vista di un’ontologia eminentemente “statica”, è che quella di Empedocle (aldilà dei suoi aspetti metaforici) è invece un’ontologia “dinamica” (all’incirca, un panta rei meno mistico e più intermittente di quello eracliteo). Cosa che sembrava aver meglio colto Platone, laddove nel Sofista l’aveva accostato ad Eraclito. Mentre invece Aristotele ha abbastanza ragione là dove osserva che i quattro elementi non sono del tutto equivalenti, poiché il fuoco pare assumere un ruolo “speciale”. Così egli osserva poco dopo (I, A, 4, 985 a 29 – 985 b 2):  

 

    Empedocle, comunque, introducendo questa causa, seppe operare, a differenza dei suoi predecessori, una distinzione col porre non un unico principio di movimento, bensì due che fossero anche contrari tra loro e, oltre a ciò, egli fu il primo ad affemare che sono quattro i cosiddetti elementi di specie materiale (quantunque egli non si serva di tutti e quattro, ma li riduca in realtà solo a due, ossia da una parte si serve solamente del fuoco e, dall’altra aprte, degli opposti di questo – terra, aria e acqua -, come se costituissero un’unica natura; e ciò si può evincere dall’esame dei suoi versi. [50]   

 

    Chiudiamo con Aezio, il quale (non sappiamo su quel base e col dubbio di qualche confusione con altri pensatori), ci rilascia su Empedocle alcune informazioni che suonano un po’ difformi da quelle consuete e che potrebbero essere forse (ma il dubbio è d’obbligo viste anche altre sue arbitrarietà) riferite a ciò che degli scritti dell’agrigentino non ci è pervenuto. Abbiamo così (I, 13, 1, Dox.312, Vors.31.A.43a) una nota circa il fatto che i quattro elementi sarebbero stati a loro volta costituiti da sub-elementi “minimi” della materia:

 

Empedocle parlava di frammenti minimi, anteriori ai quattro elementi, come dire, cioè, di elementi similari anteriori agli elementi. [51]

 

Se la notizia fosse attendibile Empedocle potrebbe aver anticipato Leucippo nel teorizzare gli “indivisibili”, ma non meno i “semi” di Anassagora; oppure, e sembrerebbe più plausibile, che gli fossero giunte notizie sulla filosofia di quei due suoi colleghi e che egli le avesse ritenute non inconciliabili con la propria. Ma a complicare le nostre ipotesi ci pensa lo stesso Aezio là dove accosta Empedocle a Senocrate (un post-platonico che succedette a Speusippo nella guida dell’Accademia dal 339 al 315 a.C.) in un frammento successivo (I, 17, 3, Dox.315, Vors.31.A.43b)) dove afferma:

 

Empedocle e Senocrate compongono gli elementi da masse più piccole, le quali sono minime e quasi elementi degli elementi. [52]

 

Ma Senocrate non avrebbe certo pensato tali “elementi degli elementi” in termini fisici, ma semmai puramente matematici (qualcuno ha parlato di un suo para-atomismo misticheggiante che avrebbe potuto influenzare persino Epicuro). E tuttavia Aezio insiste ancora (I, 24,2, Dox. 320, Vors. 31.A.44) accostando questa volta Empedocle ad Anassagora, a Democrito e ad Epicuro sostenendo che:

 

Empedocle, Anassagora, Democrito, Epuro e tutti coloro che costituisono l’universo per aggregazione di minuscole particelle corporee, introducono la mescolanza e la disgregazione, ma non propriamente la generazione e la corruzione; giacché queste cose [secondo loro] si hanno non per mutazione secondo qualità, ma per aggregazione secondo quantità. [53]   

 

E qui emerge il peripatetico che probabilmente eccheggia lo Stagirita, il quale, nel De cielo (III, (Γ), 5, 3 b e ss.) aveva affrontato diffusamente questo argomento. Chiudiamo con un’ultima affermazione di Aezio, anch’essa del tutto insolita in riferimento ad Empedole (I, 24,2, Dox. 320, Vors. 31.A.44):

 

Empedocle dice che vi è un solo mondo, ma che tuttavia questo mondo non costituisce il tutto, bensì solo una piccola parte del tutto. [54]

                                              

Se Empedocle avesse veramente pensato questo avrebbe anticipato (ancora una volta) di venticinque secoli quei fisici contemporanei che teorizzano essere il nostro universo soltanto uno dei moltissimi universi esistenti. [55]

                                                 3.3 Anassagora

 

    Relativamente ad Anassagora ci troviamo di fronte ad un pensiero che non ha ancora i caratteri dell’ateismo, ma che ne è tuttavia propedeutico in quanto possiede quel carattere naturalistico e antimitico che già rilevavamo nei milesii, con in più un elemento nuovo (già posto da Empedocle in forma mitica), foriero di grandi sviluppi ontologici, che potremmo indicare, appunto, come “ontologia pluralistica”. Nel caso di Anassagora ci troviamo di fronte ad una fase estremamente interessante del processo evolutivo che porterà all’atomismo, costituito dal fatto che egli per primo introduce una concezione pluralistica del cosmo in termini di infinità di “semi” elementari nel costituirsi dei corpi estesi e non come Empedocle in termini di “elementi” del cosmo in quanto espressioni fondamentali del suo mostrarsi [56]. È pur vero che poi Anassagora introduce con il nous (l’intelligenza della materia) un concetto per molti versi equivoco e che può esser facilemente identificato con un principio divino, ma occorre poi considerare attentamente quanto di originario vi possa essere in questa presunta “divinità” del nous anassagoreo (traducibile con intelligenza o intelletto) e quanto di interpretativamente sovrapposto a posteriori. 

    Fatte salve le considerazioni di cui sopra rimane comunque il fatto (quale viatico alla nostra analisi) che Platone vedeva in Anassagora un ateo a tutti gli effetti e che a lui si riferisce nelle Leggi quando fa dire all’Ateniese (886 d-e,):

 

    Ora piuttosto, è il momento di mettere sul banco dgli accusati i nostri moderni sapienti pe veder come facciano ad esser causa di mali. Ed ecco i bei risultati dei loro ragionamenti. Quand’anche noi due esibissimo le prove dell’esistenza degli dèi, e citassimo ad esempio di realtà divine il sole, la luna, gli astri e la terra, i seguaci di quei tali sapientoni ci ribatterebbero che tutte queste cose non sino altro che terra e pietra e non hanno quindi alcuna possibilità di pensare alle faccende umane; [e] e queste tesi le saprebbero guarnire con bei discorsi fino a renderli credibili. [57]

 

Come è noto è di Anassagora la tesi che gli astri non siano altro che “pietre infuocate” e questo agli occhi di Platone è un peccato imperdonabile, che poco dopo gli fa dire (887 a):

 

[…] ci sarebbe da dimostrare come si conviene a questi pervicaci peccatori quanto loro pretendono che si dimostri, e poi da incutere loro paura, e infine da suscitare repulsione per certi vizi. Solo dopo aver fatto tutto ciò ci potremmo disporre a fissar quelle leggi che sono necessarie [b]. [58]

 

Ma ciò che l’Ateniese pensa di Anassagora lo si ritrova anche in numerosi luoghi dei dialoghi precedenti, a cominciare dall’Apologia di Socrate dove mette in bocca a questo (26 d):

 

    Ritieni. Caro Meleto, di accusare Anassagora? E hai tanto disprezzo di costoro, e li ritieni così privi di istruzione da non sapere che i libri di Anassagora di Clazomene sono pieni di tali affermazioni? E i giovani apprendono proprio da me queste cose, mentre possono, al prezzo di una dracma a dir tanto, comprarsele talvolta dall’orchestra e ridersi di Socrate […]  [59]

 

    Tuttavia è nel Fedone (96-99) che ci è dato ritrovare la prima descrizione delle tesi anassagoree, assumendo così questo dialogo un notevole valore testimoniale sul Nostro, poiché si tratta di un giudizio sul concetto di nous che possiamo ritenere piuttosto attendibile, forse proprio per il fatto che la filosofia anassagorea è combattuta da Platone. Una lunga esposizione abbastanzaa esaustiva, della quale prenderemo qui in considerazione i punti che ci paiono principali e la conclusione che ne segue. Socrate comincia col raccontare all’allievo come si fosse inizialmente dedicato alle scienze natrurali e come ne fosse rimasto deluso (96 a – 97 b):

 

    Io, o Cebete, da giovane nutrii un desiderio vivissimo di possedere quella scienza che chiamano “indagine sulla natura”. Infatti mi sembrava una cosa straordinaria sapere perché ciascuna cosa si genera, perché si corrompe e perché esiste.  […] E procedendo di questo passo finii col convincermi che a tale ricerca io ero meno idoneo che a qualunque altra cosa. Te ne darò ora una prova convincente. Tutto quello che io sapevo con chiarezza, almeno come pareva a me e agli altri, allora, da questa ricerca mi si fece a tal punto oscuro che disimparai perfino quello che prima ero convinto di sapere […] E cerco di mettere insieme alla meglio un altro tipo di indagine, e non accetto più questa in alcuna maniera . [60]

 

E a questo punto entra in gioco Anassagora (97 c – 98 b):

 

    Ma, un giorno, io udii un tale leggere un libro, che affemava essere di [c] Anassagora, il quale diceva che è l’Intelligenza che ordina e che causa tutte le cose. Io mi compiacqui di questa causa e mi parve che, in un certo senso, andasse bene porre l’Intelligenza come causa di tutto, e dentro di me pensai che, se questo fosse stato vero, l’Intelligenza ordinatrice avrebbe dovuto ordinare tutte quante le cose e disporre ciascuna di esse in quella maniera che per esse è la migliore […] Sulla base di questo ragionamento, io pensavo, che all’uomo non convenisse considerare, intorno a se stesso e intorno alle altre cose, se non quello che è l’eccellente e l’ottimo. […] e ragionando in questo modo, tutto contento, credevo di aver trovato in Anassagora il maestro che mi avrebbe insegnato la causa delle cose che sono […] In effetti io non avrei mai creduto che uno che sosteneva che queste cose furono ordinate dall’Intelligenza, attribuisse loro altra causa che non fosse questa, ossia che il loro meglio era di essere così [b] come sono.  [61]

 

Le cose “così come sono” è il punto focale dell’argomentazione del Socrate “platonico”, il quale, dopo aver affermato di essersi dedicato in gioventù al naturalismo rimanendone deluso, afferma poi di aver creduto di trovare nell’intelligenza anassagorea la concettualizzazione di un’intelligenza sovra-materiale ed “etica” in grado di causare “il miglior bene” delle cose. Un “bene” divino e trascendentale che naturalmente non sarebbe altro che il Dio supremo dlle Idee Super-uranie, quel Sommo Bene teorizzato dallo stesso Platone come causa del “bello e buono”, al quale (sia detto per inciso) con tutta probabilità il “vero” Socrate storico non ha mai pensato, occupato com’era a fare l’educatore e non l’ontologo metafisico (ma per ora non è questo ad interessarci). Argomentazione, quella platonica, assai efficace e nel contempo puramente retorica e strumentale, poiché, com’è sempre nei dialoghi, tale preparazione convoglia e concentra l’attenzione del lettore verso il sempre prevedibile finale, che qui però viene ancora un po’ ritardato (98 b – c):

 

    Ma da questa meravigliosa speranza, o amico, venivo portato via, perché, mentre procedevo nella lettura del libro, vedevo che il nostro uomo non si serviva affatto dell’Intelligenza e non le attribuiva alcun ruolo di causa nella spiegazione [c] dell’ordinamento delle cose e attribuiva, invece, il ruolo di causa all’aria, all’etere, all’acqua e a molte altre cose estranee all’Intelligenza. [62]

 

Se dovessimo dar retta alla provocazione platonica dovremmo dedurre che Anassagora pecca di incoerenza, il ché risulta poco credibile, anche a dedurre dal successo delle sue teorie nell’ambiente culturale pericleo. E tuttavia, secondo noi, c’è una parte dell’argomentazione platonica che risponde al vero, ed è quella concernente il fatto che l’Intelligenza di Anassagora sembra non quella che lascia intendere Aristotele in un passo della Fisica (ma smentita poco dopo) poi largamente ripreso dai suoi seguaci, ma invece un’intelligenza molto più legata alle “cose” materiali nel loro formarsi e disporsi nel cosmo, ed in quanto tale “immanente” al mondo fisico come sua proprietà di generare i corpi estesi. Se così non fosse stato, Platone, per quanto al vertice del suo successo e personaggio dominante della cultura ateniese nella seconda metà dl IV sec., non si sarebbe mai permesso di mistificare il pensiero, del tutto noto, di un naturalista-filosofo la cui autorevolezza, a dispetto del bando del 432, doveva esser ancora molto viva nella città attica.  Ed a farci pensare che in realtà il nous fosse concepito da Anassagora come una forza ordinatrice intrinseca al mondo fisico, piuttosto che ad esso sovrapposto, ci induce il passo che segue (98 c – e):

 

    E mi pareva che egli cadesse nel medesimo equivoco di colui che dicesse che Socrate fa tutto ciò che fa con l’Intelligenza, ma poi, quando venisse a dire in particolare le cause di ciascuna delle cose che io faccio dicesse, prima, che io sto seduto qui, perché il mio corpo è fatto di ossa e di nervi, e perché le ossa sono solide e hanno giunture che le separano le une dalle altre e i nervi sono capaci [d] di distendersi e di allentarsi e avvolgono le ossa insieme con la carne e la pelle che li ricopre; e, poiché le ossa sono mobili nelle loro giunture, fanno sì che io sia ora capace di piegare le membra e per questa causa appunto io ho piegato le membra e per conseguenza me ne sto ora qui a sedere; e così pure se, volendo spiegare il mio conversare con voi, egli indicasse cause di questo genere, come la voce, l’aria e l’udito, e adducesse altre infinite cause di questo tipo, [e] trascurando di dire le vere cause […]. [63]

 

La lunga esposizione didascalica concernente elementi del corpo e loro meccanismi ha probabillemte proprio lo scopo di richiamare due dei “semi” posti da Anassagora (la carne e le ossa) e nel contempo, accentuandone il carattere materiale e meccanicistico [64], di renderli incompatibili col concetto di intelligenza da lui avanzata. Ed in effetti, se così stessero le cose, non si potrebbe che approvare la conclusione impietosa (99 b):

 

    Questo vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se, fosse la causa stessa. [65]

                                            

    Il problema posto da Platone è degno di attenzione, poiché (si consideri che egli è il testimone più vicino per luogo e tempo all’insegnamento anassagoreo) potrebbe mettere in evidenza, se non un’argomentazione incoerente, certo un’improprietà di linguaggio nell’aver chiamato nous una sorta di “super-physis” che avrebbe dovuto essere indicata con una nome più appropriato. Eppure Platone avrebbe persino potuto scorgere nel nous una prefigurazione del suo demiurgo, e che non l’abbia fatto ci sembra non irrilevante ai fini delle nostre interpretazioni.  Noi stiamo qui citando la posizione di Platone proprio per sottolineare l’arbitrarietà (da parte dei suoi epigoni) di una lettura “platonica” del nous anassagoreo. Lettura distorta, che dapprima ne farà una causa metafisica, poi divina ed infine “spirituale” [66].

    Dopo Platone Aristotele è il più vicino in ordine di tempo ad occuparsi di Anassagora e lo fa in diversi luoghi della sua opera, fornendoci ogni volta, e relativamente ad argomenti differenti, una serie di tasselli che alla fine ci permettono di avere un’idea abbastanza precisa del pensiero anassagoreo, col quale perlopiù lo Stagirita dissente. Cominceremo con quel passo del primo libro della Metafisica che ha dato origine a tutte le posteriori interpretazioni metafisiche (e secondo noi improprie) del nous anassagoreo, laddove afferma (Metafisica, I, A, 3, 984 b 15-19):

 

[…] Ecco perché, quando qualcuno disse che proprio come negli animali, così anche nella natura la causa del mondo e tutto quanto il suo ordinamento è un Intelletto, egli apparve come una persona sobria rispetto ai più antichi che parlavano a casaccio. [67]

 

Ma appena poco oltre (A, 4, 985 a, 18-22) lo spirito critico dello Stagirita emerge con un giudizio implacabile, che si riallaccia anche al parere platonico visto sopra, e ne esce la seguente puntualizzazione:     

 

    […] Anassagora, infatti, usa l’Intelletto come un meccanismo per la produzione dell’ordine universale, e, quando non sa spiegarsi per qual motivo un ordine è necessario, allora tira in ballo l’Intelletto, mentre nei rimanenti casi egli considera come causa degli accadimenti qualsiasi altra cosa tranne che l’Intelletto. [68]

 

Aristotele ci dice qui come il nous anassagoreo si presenti, in pratica, come un “espediente” teoricamente poco consistente, ma nel contempo con l’espressione “qualsiasi altra cosa” non ci precisa che cosa intenda. Possiamo ritenere che il grande metafisico intenda dire che Anassagora non sapesse bene “per qual motivo un ordine è necessario” e da ciò le sue imprecisioni e il suo ricorre a una sorta di “deus ex machina” [69]  del tutto strumentale e immotivato. Questo ci induce a pensare che il giudizio severo dello Stagiìrita possa essere colto qui (ed in contrasto con quanto precedentemente affermato) come un rimprovero di scarsa “metafisicità” del nous anassagoreo. Ma da ciò ne deriva che da Aristotele stesso ci viene la maggiore condanna dell’identificazione del nous con un principio divino; identificazione relativa ad esegesi molto posteriori (come quella di Plutarco) e che tuttavia imperversano in gran parte dell’enciclopedistica e della manualistica corrente.

    Veniamo ora al passo in cui Aristotele conia il termine di όμοιομέρειαι (omeomerìe od omeomeri = parti simili) per indicare gli σπέρματα (semi) di Anassagora (Metafisica, I, A, 3, 984 a 11-17):     

 

[…] Anassagora di Clazomene, invece, che è più anziano di Empedocle, ma che ha prodotto la sua opera dopo di lui, afferma che i principi sono infiniti; infatti egli dice che quasi tutte le cose formate da parti simili, come sono appunto l’acqua o il fuoco, nascono e periscono in questo modo, cioè soltanto per aggregazione e separazione, mentre sotto altri aspetti esse né nascono né periscono ma permangono eterne. [70]

 

Lo Stagirita ci offre qui con grande chiarezza tre dati molto importanti: a) l’”infinitezza dei principi” fisici, b) le cose “formate da parti simili” (le omeomerìe), c) la nascita e la morte di esse “per aggregazione o separazione” insieme ad aspetti “eterni” di esse. È evidente che tale eternità debba in qualche modo concernere l’attività del nous, ma, in effetti, non ci sarebbe neppure bisogno di tirarlo in ballo, qualora si ricordasse che il naturalismo milesio, a cui indubbiamente  Anassagora si lega, era caratterizzato anche da un sostanziale ilozoismo. Quindi l’intelletto potrebbe anche essere stato concepito dal Nostro come “vita” della materia amorfa, più o meno nei termini sottintesi dai milesii. Come abbiamo già osservato, allora, il nous non si presenterebbe come una “causa esterna” del divenire e dell’essere, ma come una “causa interna”, immanente alle omeomerìe e ai corpi che da esse derivano. Se ciò è plausibile noi ci troviamo di fronte ad un materialismo pluralistico ancora mal definito e non privo di incoerenze, ma dal quale Leucippo avrebbe potuto trarre spunto per formulare il suo atomismo materialistico.

    Che Anassagora possa essere stato allievo di Anassimene (come aveva sostenuto per primo Strabone) è evidentemente impossibile per ragion cronologiche, ma possiamo ragionevolmente ritenere che l’ultimo della triade dei proto-fisici milesii (morto intorno al 528-525) abbia lasciato dietro di sé un’eredità che, associata a quella di Talete e Anassimandro, doveva permettere alla filosofia “ionica” di proseguire quella tradizione naturalistica che per strade assai differenti da quella astratto-mistica “italica (pitagorica ed eleatica), doveva condurre all’avvento della scienza ellenica. Una scienza già abbastanza avanzata [71] che doveva trovare espressione compiuta nella straordinaria esperienza, in epoca ellenistica, della comunità del Museo di Alessandria. Si deve pertanto dedurre che Clazomene, come la non lontana Mileto e altri centri culturali della costa orientale egea, dovesse continuare ad esser luogo di cultura naturalistica, con relative ricerche e riflessioni sul mondo fisico e su quello biologico. In tale contesto un pensatore come Anassagora, se pure si fosse trasferito molto giovane ad Atene (come sostiene Diogene Laerzio), avrebbe certamente portato con sé il patrimonio di un back-ground naturalistico che avrebbe, comunque, fortemente indirizzato il suo pensiero. Ed un’importante base di partenza del pensiero anassagoreo, per quanto ci risulti dalle testimonianze, sta proprio nella filosofia di Anassimene, poiché alcune tesi di questo (concernenti l’aria, il sole, le nuvole, ecc.) si ritrovano puntualmente anche nel Nostro.

    La grande novità risiede tuttavia nel fatto che mentre Anassimene rimane un monista alla ricerca di un’arché (pur nella tematizzazione della varietà dei fenomeni) Anassagora (se si tralascia per un momento quella tesi del nous che appare un poco “appiccicata”) è certamente un iniziatore del pluralismo ontologico, sia pure in una forma piuttosto approssimativa e per alcuni versi contraddittoria [72]. Il suo pluralismo infatti non assume ancora un chiaro carattere ontologico (come sarà quello di Leucippo) ma si mantiene entro una dinamica dell’essere di tipo puramente fenomenico, dove ad assumere carattere ontologico è semmai proprio il nous come “ordinatore” del cosmo, il quale, però (come abbiamo visto anche nella critica platonica e aristotelica) è concetto filosofico piuttosto debole. Ciò che allora emerge (ed è una novità nel panorama della filosofia del tempo) è proprio questo porre non già un astratto infinito ma un’”infinità” di semi reali, che vanno a determinare  la realtà-base del mondo fisico. Una realtà che per un verso risulta assolutamente dinamica (attraverso aggregazione e separazione) ma che per altro verso teorizza gli elementi-base di essa come eterni ed immutabili.

    In un altro luogo dell’opera aristotelica (De cielo, III, Г, 3, 302 a 28 – b 4) si dice:    

 

    Anassagora, per ciò che riguarda gli elementi, sostiene una dottrina contraria a quella di Empedocle. Quest’ultimo dice che elementi costitutivi dei corpi sono il fuoco e la terra e gli altri elementi del medesimo gruppo, e che tutti i corpi sono formati di questi. Anassagora invece afferma il contrario: dice infatti che elementi sono gli omeomeri (dico ad esempio la carne, l’osso, ed ogni altro corpo dl genere), mentre l’aria e il fuoco sono mescolanze di questi e di tutti gli altri ‘semi’: ciascuno di essi è infatti un’aggregazione di tutti gli invisibili omeomeri. Perciò tutto si genera da questi – ed egli dà i nomi di ‘fuoco’ e di ‘etere’ alla stessa sostanza. [73]

 

Se l’interpretazione aristotelica del pensiero anassagoreo è corretta si pone il problema del “perché” aspetti della realtà concernenti la materia biologica dovrebbero esser espressione di una “primarietà” rispetto ai quattro tradizionali elementi che parrebbero assume una “secondarietà”. L’unica spiegazione possibile sembrerebbe quella di attribuire ad Anassagora una visione ilozoistica, in base alla quale egli possa ritenere che quella sfera del reale, la materia vivente, in cui il divenire del mondo raggiunge la massima perfezione possa essere considerata “esemplare” sede primaria delle omeomerìe e che funga quindi da modello anche per il mondo inorganico.

    Ma Aristotele poco dopo rende una considerazione ulteriore, che misura il suo distacco dal Nostro anche sul concetto di “infinità” degli elementi e nel contempo mette in evidenza la debolezza della tesi anassagorea (De cielo, III, Г, 4, 302 b 10-19):    

 

    Se poi gli elementi siano finiti o infiniti, e se sono infiniti, in che numero siano, è da ricercare ora facendo seguito a quanto esposto. In primo luogo, vediamo come non siano infiniti, secondo che ritengono alcuni, e innanzi tutto trattiamo di coloro che di tutti gli omeomeri fanno degli elementi, come lo stesso Anassagora. Nessuno di quelli che sostengono questa teoria ha dell’elemento un concetto esatto: noi vediamo infatti che anche molti corpi composti si lasciano dividere in omeomeri, ad esempio la carne, l’osso, il legno, la pietra. Cosicché, se è vero che il composto non ha natura d’elemento, non tutti gli omeomeri saranno elementi, ma sostanzialmente quelli che non si lasciano dividere in parti diverse quanto alla specie, come s’è detto prima. [74]

 

    Non si può dar torto ad Aristotele, la tesi di Anassagora è quella per cui il reale non viene visto da un punto di vista “strutturale” (per cui il più semplice è base ontologica del più complesso) ma “categoriale”. Data una certa categoria di cose reali esistenti i loro costituenti elementari debbono appartenere per Anassagora alla stessa categoria; quindi a base dell’osso dev’esserci un “seme” già di per se stesso osseo, a base della carne già un seme carnoso, a base della pietra già un seme petroso. Ma siccome le omeomerìe son infinite e distribuite in tutti i corpi reali, a determinare in questi la loro realtà di corpi determinati non è la presenza di semi diversi (che sono in “tutti” i corpi ma in quantità differente) ma la “prevalenza” di una certa categoria di essi. Così è carnoso il corpo in cui prevalgono gli omeomeri della carne ed è pietra quello in cui prevalgono quelli petrosi. Ne nasce un’ontologia un po’ grossolana, ma di carattere realistico-pragmatico, dove le basi elementari di un corpo sono già portatrici delle caratteristiche funzionali del corpo stesso. 

    Non è meno critico Lucrezio, che ci offre della tesi anassagorea una sintesi efficace  e chiara nel primo libro di De rerum natura (830 e ssg.):

 

    Ora scrutiamo l’omeomerìa di Anassagora, come la chiamano i Greci, la povertà del patrio linguaggio non ci consente di assegnarle un nome che sia parola latina, ma è facile spiegare il concetto con un breve discorso. Anzitutto ciò che egli chiama omeomerìa delle cose pensa sia questo: le ossa si producono da piccoli ossi minuti, da piccoli visceri minuti si crea un viscere, il sangue trae origine da molte gocce di sangue che si uniscono tra loro, e similmente l’oro può trovar consistenza in virtù di briciole d’oro, e la terra riesce ad aggregarsi da piccole parti di terra, il fuoco da fuochi, l’acqua da stille d’acqua; in simile modo ritiene ed immagina che si generi ogni altra sostanza. Tuttavia non ammette l’esistenza del vuoto in alcuna parte delle cose, né che abbia un termine fisso il suddividersi dei corpi. Perciò in ambedue i concetti mi sembra che erri, al pari di coloro di cui ho parlato prima [Empedocle]. Aggiungi che egli immagina i germi troppo deboli, se germi possono dirsi questi che sono forniti di natura simile alle sostanze stesse, al pari di loro periscono e muoiono, e nulla li preserva dalla distruzione. Infatti quale di essi resisterà a una stretta violenta, così da sfuggire alla morte fra i denti stessi della morte? [75] 

   

Il poeta pone anche un problema non da poco, che potrebbe essere espresso dalla domanda: «ma che ne è delle omeomerìe quando il corpo che esse costituiscono va completamente distrutto?» se, evidentemente, quel corpo non diviene un “nulla”, che cosa ne rimane? A tale domanda Anassagora non sappiamo se avrebbe risposto, quello che sappiamo è che ad essa si può dare una risposta semplicistica, al limite del banale, ovvero che un corpo, poiché è il frutto di un nous che presiede alla generazione e alla corruzione, ciò che rimane dopo la morte è proprio soltanto questo. Ma nella sua banalità questa è una risposta para-teologica che ci sembra difficilmente attribuibile al “naturalista” Anassagora. Ve n’è invece un altra di tipo osservativo, che (mancando di conoscenze scientifiche adeguate) avrebbe potuto fare un uomo di quell’epoca, basandola sul seguente ragionamento: se il fuoco rende un residuo carbonioso “caotico” di tutte le sostanze combuste (ma ciò vale anche per la putrefazione, la dissoluzione o la vaporizzione) ciò significa che “prima” della loro morte le costanze combustibili, ognuna per suo conto, possedevano dei caratteri che dopo si perdono. Oppure (ed è ciò che verosimilmente pensava Anassagora) non se ne perde nessuna ma “tutte” entrano nel regno dell’indistinto, in attesa che la generazione operi “di nuovo” qualche distinzione. Ed allora tutto si estrinsecherebbe in un gioco tra “indistinzione” e “distinzione” del reale, dove le forme della materia “elementare” possono rimanere nell’indistinzione, che è “in potenza” in tutti in corpi (e alla quale essi di converso possono concorrere), ma possono anche dare invece, attraverso la generazione, luogo ai corpi composti “in atto”. Ogni materia indistinta allora (terra, acqua, aria, fuoco) non è già un elemento-base, un “da cui” (come pensano Empedole ed Aristotele), bensì un “in cui” sono contenute allo stato confuso e indeterminato tutte le “sostanze” (le omeomerìe), dalle quali, attraverso la generazione, possono formarsi quegli stessi corpi che si perdono nell’indistinto allorché si distruggono      

    Quello che a noi pare sia completamente sfuggito ad Aristotele ed anche agli esegeti moderni del pensiero di Anassagora (evidentemente troppo impegnati a tematizzare un concetto così inconsistente e “additivo” come quello di nous) è che l’aspetto più interessante di esso sta nell’aver posto, per la prima volta nella storia della filosofia, un concetto aurorale di “sostanza”. E ciò proprio nel senso fissato poi da Aristotele coll suo “τό τί ήν εϊναι”; infatti che cos’è l’omeomerìa se non l’essenza di “ciò che l’essere era“? Il problema è che, evidentemente, era troppo difficile sganciarsi dal concetto di ousìa com’era stato posto da Platone e ripreso da Aristotele (Metafisica, V, Δ, 8, 1017 b) quale primo predicabile di sostanza (causa immanente di un ente “come l’anima è la causa dell’esistenza dell’animale”) ed assumere invece il secondo predicabile, l’hypokéimenon (il ciò che “sta sotto”), ovvero ciò che sussiste prima e dopo l’esistenza dell’ente in quanto tale. Il discrimine a noi pare che stia ancora sempre tra un modo di pensare il mondo di tipo “idealistico” ed un altro, ad esso contrapposto, che è quello “naturalistico”. E siccome non si può dire (con tutta evidenza) che le l’omeomerie siano delle idee, appena ci sbarazzassimo della ”sostanza delle idee”, ovvero dell’intelletto, avremmo forse la possibilità di intravvedere nell’omeomerìe anassagoree la prima teorizzazione dei caratteri della sostanza “concreta” (e non “ideale”) delle cose che costituiscono la realtà del mondo.

    Una “sostanzialità” dell’omeomerìa che certo Anassagora ha posto in modo un pò vago e, soprattutto, diminuendone il carattere “fondativo” avendovi sovrapposto un concetto come quello di intelletto (sia pur “materiale”) quale “determinatore” del reale. Di questo deus ex machina, nell’interpretazione che stiamo tentando di dare, non se ne comprende il bisogno, poichè l’omeomerìa già di per se stessa “determina” l’essere del corpo che va a costituire, laddove assuma una “prevalenza maggioritaria” rispetto a tutte le altre omeomerìe che in quello stesso corpo sono soltanto “latenti”. A problemi non banali bisognerebbe cercare qualche volta di fornire risposte non banali, ma l’ossessione di metafisicizzare tutto il metafisicizzabile rende evidentemente ciò estremamente difficile!

    Ci tocca ora tematizzare meglio le interpretazioni post-aristoteliche del nous per renderci conto pienamente del loro danno storiografico e teorico. Sarà Cicerone a dare del nous anassagoreo una definizione che diventerà canonica per le interpretazioni successive e ciò avverrà in almeno due luoghi della sua opera. Una prima volta in Academica priora (II, 37, 118) con l’affermazione:

 

Anassagora [disse] che la materia è infinita, ma che da essa [derivano] particelle simili tra loro, piccolissime: queste dapprima erano confuse e poi furono ridotte all’ordine da un intelletto divino. [76]

 

La “divinizzazione” qui è compiuta; da naturalistico ordinatore del mondo il nous ha assunto perfette connotazioni teologiche. In una seconda (De natura deorum I, 11, 26), l’aggettivo “divino” si tramuta in “infinito”, ma il senso teologico non cambia, là dove si dice:

 

[…] Quindi Anassagora, che apprese la dottrina da Anassimene, primo tra tutti volle che la disposizione e l’ordinamenteo di tutte le cose fosse preparato e compiuto dall’attività intelligente d’un intelletto infinito. [77]

 

    Sarà poi un peripatetico eclettico del I secolo, Aezio, a confermare questa lettura dell’ontologia anassimandrea nei termini che seguono (I, 7, 5, Dox. 299, Vors. 59.A.48a):

 

Anassagora dice che dapprincipio i corpi stavano immobili e l’intelletto di dio li pose in ordine e produsse la generazione di tutte le cose. [78]

 

E poco più tardi (I, 7, 5, Dox. 302, Vors. 59.A.48b) egli ribadisce in modo lapidario:

 

Anassagora [definisce] dio l’intelletto. Facitore del cosmo. [79]

 

I successivi dossografi, sia pur da angolazioni un po’ differenti (Plutarco nel II secolo, Diogene Laerzio nel III, Simplicio nel VI) non faranno che confermare questa interpretazione del pensiero anassagoreo e tale è rimasta sino ai giorni nostri.

    Completiamo il presente paragrafo con alcune notizie al contorno tra quelle che appaiono abbastanza attendibili, in un quadro dossografico generale che presenta non pochi elementi di dubbia attendibilità. Per quanto riguarda le prese di posizione di Anassagora in termini di fisica astronomica emerge tra tutte l’opinione secondo la quale il sole è soltanto una “pietra infuocata” e non già una divinità. Quest’attacco all’astrolatria, ufficialmente riconosciuta (e difesa da Platone) gli costerà la condanna per empietà del 432 a.C. Ne troviamo traccia in un interessante scholium nel quale troviamo anche il riferimento all’amicizia con Euripide, un trageda classico che potremmo definire in qualche misura una sorta di poeta “illuminista” ante litteram. Lo scholium (Schol.Pind. Ol. 1, 91, p.38, 6 Dr) recita:

 

    Tantalo, datosi allo studio della natura, avendo detto che il sole è una massa infuocata, dovette pagare il fio di questo, sicché gli è tenuto sospeso in alto il sole dal quale è atterrito e spaventato. Intorno al sole i naturalisti sostengono che con sasso si indica il sole e che Euripide, diventato discepolo di Anassagora, chiamò pietra il sole in questi versi: «Perché il felice… Tantalo temendo la pietra che gl’incombe sul capo, nell’aria è librato e scontra e sconta questa pena.» [80]

 

 

 

 

 

3.4           I Sofisti.

 

    «Intorno agli dèi non ho alcuna possibilità di sapere né che sono né che non sono. Molti sono gli ostacoli che impediscono di sapere, sia l’oscurità dell’argomento sia la brevità della vita umana.» [81]     

                                            

Diogene Laerzio ripete questa celeberrima frase (IX, 51-52) con l’aggiunta:

 

    Per questo proemio dell’opera, fu bandito dagli Ateniesi; e i suoi libri furono bruciati nella piazza del mercato dopo che per mezzo di un araldo erano state requisite tutte le copie a coloro che le possedevano, uno per uno. [82]

 

Che il rogo dei libri di Protagora sia veramente avvenuto non sembra del tutto sicuro, ma non è improbabile, poiché quella frase (ricordata anche in numerosi luoghi dell’opera platonica) doveva essere stata indubbiamente pericolosa. E ciò senza giungere alle estreme conseguenze che riferisce Sesto Empirico (Adversus mathematicos, IX, 55-56) secondo il quale:

 

    S’accorda con costoro [gli atei Evemero, Diagora, Prodico, Crizia] anche Teodoro l’ateo e secondo alcuni anche Protagora di Abdera … per aver scritto testualmente così:«Riguardo agli dèi, non posso affermare né che sono né di che natura sono; perché molte sono le cose che me l’impediscono». A cagione di ciò gli ateniesi lo condannarono a morte; riuscito a fuggire, fece naufragio e morì per mare. [83]  

 

 A parte l’attendibilità di questi elementi biografici, appare straordinaria questa esemplare affermazione di Protagora circa l’impossibilità di decidere se la divinità sia o non sia, vuoi per la natura del problema e vuoi per le difficoltà che ciò comporta [84]. Un’affermazione che potrebbe venir assunta dagli agnostici contemporanei almeno quanto la definizione canonica che dell’agnosticismo diede Thomas H. Huxley verso la metà dell’800.  Protagora, infatti, da un punto di vista formale si presenta come un agnostico e non come un ateo, in quanto è solamente uno che “razionalmente” si rende conto dell’impossibilità di decidere se gli dèi esistano o no. Un atteggiamento di non facile equilibrismo concettuale, ma tuttavia (a parte le testimonianze sopra riportate) che avrebbe anche potuto “funzionare”, senza fargli correre eccessivi rischi, e consentirgli nello stesso tempo di difendere le sue posizioni. Tant’è che Platone, il quale aveva stigmatizzato in modo ben più severo i “fisici”, nei confronti di questo dialettico-erista mantiene un atteggiamento tutto sommato abbastanza rispettoso. Nel Cratilo egli mette in bocca a Socrate quella che può essere considerata la sintesi del pensiero protagoreo:

    Ebbene, vediamo Ermogene, se ti sembra che anche gli esseri stiano così: la loro essenza è relativa a ciascuno in particolare, come affermava Protagora, sostenendo che l’uomo è misura di tutte le cose [386 a], ossia che le cose quali appaiono a me, tali sono per me, quali appaiono a te, tali sono per te? Oppure ti sembra che abbiano una certa stabilità nell’essenza? [85]   

 

Posizione che verrà confutata nel Teeteto, dopo l’immaginaria autodifesa di Protagora (166 d – 168 c), nei seguenti termini (171 b ):

 

    Da parte di tutti, dunque, a cominciare da Protagora, ciò sarà messo in discussione. Da lui, però, verrà piuttosto un’ammissione: qualora riconosca, a chi dice il contrario di lui, che ha opinione vera, [c] allora anche lo stesso Protagora riconoscerà che né un cane né un uomo, quale che sia, è misura, neppure di una sola delle cose che non abbiamo appresa. Non è così? […] Dunque, poiché è messa in discussione da tutti, per nessuno la «verità» di Protagora sarà vera, né per un altro, né per lui stesso. [86]

 

    Protagora comunque, seppure confutato acutamente dal discorso logico-dialettico di Platone, appare, nelle lineee essenziali delle sue tesi, un razionalista assoluto che non si fa scrupoli di creare sconcerto in una società legata a convenzioni religiose istituzionalizzate, forse poco sentite a livello individuale, ma sicuramente cogenti a livello pubblico. Inoltre, a prescindere dai drammatici elementi biografici sopra ricordati, si potrebbe persino ipotizzare che egli avesse perfettamente calcolato i rischi delle sue affermazioni, ma che grazie al dominio della parola e degli astuti assemblaggi sintattici e grammaticali di essa (unitamente ad una perfetta conoscenza della linguistica greca) si fosse posto nelle condizioni di poter fare qualsiasi affermazione senza incorrere nei rigori della legge. Da tali performance gli sarebbe sicuramente derivato prestigio di abile erista, e nel contempo, probabilmente, anche la possibilità di render più cospicue le tariffe per le sue lezioni. D’altra parte, il successo e la fama che arrisero a Protagora sono testimoni di questa straordinaria padronanza del discorso, che ne fece uno dei prìncipi dell’argomentazione. Per il tema del nostro saggio, tuttavia, il Protagora noto e riconosciuto non è di grande interesse, poiché lo spessore teoretico dei suoi argomenti appare modesto.

    Ma tra le pieghe della dossografia qualcosa, ammesso che sia autentico, sembra emergere a rintuzzare il nostro interesse. E ciò ci viene ancora da Sesto Empirico (Schizzi pirroniani, I, 216-19) che dapprima ci sintetizza ciò che già sappiamo:

 

    (216) Anche Protagora vuole che di tutte le cose sia misura l’uomo: di quelle che sono, a quel modo che sono, di quelle che non sono, a quel modo che non sono; chiamando «misura», il criterio e «cose» i fatti; come se dicesse che di tutti i fatti criterio è l’uomo, di quelli che sono, al modo che sono, di quelli che non sono sono, a quel modo che non sono. Per tal modo egli ammette solo ciò che appare a ciascuno e così introduce la relatività. [87]

 

Ma appena dopo aggiunge qualcosa che non è dato trovare in altrie testimonianze:

 

(217) Dice, dunque, quest’uomo, che la materia è fluttuante, e, fluendo essa ininterrottamente, si verificano aggiunte al posto delle perdite, e le sensazioni mutano e variano secondo l’età e secondo le altre costituzioni dei corpi. (218) E dice pure che le ragioni di tutti i fenomeni sono contenute nella materia, talché la materia, quanto a se stessa, può essere tutto ciò che appare a tutti. Gli uomini, poi, ora percepiscono una cosa  ora un’altra, secondo le dfferenti disposizioni.[88]

 

Pare che Sesto ritenga oscura la relazione tra la “materia fluttuante” e il fatto che essa sia nel contempo la “ragione” dei fenomeni stessi, mentre (da empirista radicale) ritenga chiaro che “ciò che appare è e ciò che non appare non è”. A noi pare il contrario, ma forse le due asserzioni si possono connettere, nel senso che il fluire della materia e (di converso) il fluire delle sensazioni che da essa derivano ai sensi umani, sono le due facce della stessa medaglia: ovvero, ontologia, fisiologia e psicologia si corrispondono perfettamente. Se l’uomo ha la sensazione che una cosa “sia” ciò significa che essa realmente “è” , e ciò in base al fatto che la materia non è statica, bensì dinamica.

    La portata di tale conclusione teoretica farebbe sì che la filosofia di Protagora assuma un nuovo spessore, anche perché risulterebbe anticipatrice di ciò che Epicuro sosterrà quasi un secolo e mezzo più tardi. Siccome però essa implica un elemento, la “fluidità della materia”, che fa riferimento alla fisica (materia della quale non ci risulta che il Nostro si sia mai occupato) la nostra ipotesi ci fa porre la domanda: «Ma la “fluidità della materia” è concetto originale protagoreo o eccheggia un concetto di qualcun altro?». Di primo acchito il nome che viene in mente è quello di Eraclito, ma riesce difficile pensare che un pragmatico come Protagora si sentisse attratto da un concetto che, aldilà della mera enunciazione “tutto scorre”, è eminentemente mistico, come è mistica tutta la filosofia eraclitea. Viene allora da pensare ad Anassagora, oppure a Leucippo, o ad entrambi. Il primo sembrerebbe più probabile, perché è ad Atene negli anni in cui c’è anche Protagora ed entrambi fanno parte del gruppo di intellettuali che orbita intorno a Pericle. Ma per altro verso la sua patria, Abdera, è il luogo dove Leucippo (verosimilmente suo coetaneo o quasi) mette a fuoco la propria ontologia atomistica. Ci tocca però lasciare la domanda senza una risposta per l’assenza di altri elementi al riguardo. Vale a dire, “protagoramente”, poiché «molte sono le cose che l’impediscono».

 

    Gorgia è altro importante sofista, di poco più giovane di Protagora, che proviene da un altro capo del mondo greco (la Sicilia), ma che nel 427 sarà ad Atene per ragioni politiche e finirà poi la sua vita in Tessaglia. Secondo una certa tradizione sarebbe stato allievo di Empedocle, ma è difficile trovare tracce dirette ed evidenti della filosofia di questo. Tuttavia, in base ad alcune testimonianze egli avrebbe avuto interessi naturalistici ed astronomici che potrebbero ben conciliarsi con la filosofia empedoclea. In una dubbia testimonianza di Sopatro, un retore ateniese del IV sec. (dove il riferimento sarebbe piuttosto ad Anassagora) si legge (in Hermogenem ed. Waltz, Rhetores greci VIII, 23, Vors.82.B.31):

 

Gorgia diceva che il sole è una massa di ferro incandescente. [89]

 

A questa affermazione si accompagna solo la testimonianza di Plutarco (Vitae, X, Oratorum, 838 d) che riferisce una notizia resa dal periegeta Eliodoro, il quale, a proposito della tomba di Isocrate, avrebbe affermato:

 

C’era anche lì accanto una stele funebre a bassorilievo, rappresentante delle figure di poeti e di maestri di lui, fra i quali anche Gorgia, in atto di osservare una sfera celeste, e con lo stesso Isocrate accanto. [90]

 

Ed è proprio Isocrate, suo probabile allievo quando, gia molto anziano, si era rifugiato in Tessaglia, a darci una sintesi del suo nichilismo in questi termini (Isocrate Orazioni ed. Blass 10, 3):

 

E come sarebbe mai possibile superare Gorgia, colui che ha osato affermare che nulla c’è di esistente, o quel Zenone che ha cercato di dimostrare che una stessa cosa è possibile e impossibile! [91]

 

In questa testimonianza emergono tre elementi: l’elogio della bravura eristica di Gorgia, il suo nichilismo paradossale e l’accostamento a quell’ altro “principe del paradosso” che è Zenone di Elea. 

    Ne L’elogio di Elena (Vors. 82.C.11) abbiamo un documento estremamente interessante,  poiché ci reca un’esemplificazione del modo di argomentare gorgiano. L’intento è quello di dimostrare che l’avvenente causa della guerra di Troia è stata incolpevole vittima, e quindi non responsabile, dell’abbandono del tetto coniugale e di ciò che ne è seguito. Vediamone lo sviluppo per sommi capi:

 

È decoro allo stato una balda gioventù; al corpo, bellezza; all’animo, sapienza; all’azione, virtù; alla parola, verità. Il contrario di questo, disdoro. […] (4) Da tali generata, ebbe bellezza di dea, e, avutala, non nascose d’averla. […] (5) Ma chi fu e per qual motivo, e in che modo, appagò l’amore colui che conquistò Elena non lo dirò: ché il dire, a chi sa, ciò che sa, aggiunge fiducia, ma non porta diletto. E però, varcato ora, col discorso, il tempo d’allora, mi rifarò dal principio del discorso propostomi, ed esporrò le cause per le quali era naturale avenisse la partena di Elena verso Troia. [92]

 

Dunque che Elena abbandonasse Menelao era “naturale”, come dire che la fuga con Paride era inevitabile. Segue un interessante passaggio in cui Gorgia elenca quattro possibili “cause” della fuga di Elena, non prive di qualche implicazione filosofica: 

 

(6) Infatti, ella fece quel che fece o per cieca volontà del Caso, e meditata decisione degli Dèi, e decreto di Necessità; oppure rapita per forza; o indotta con parole, <o presa da amore>. Se è per il primo motivo è giusto che s’incolpi chi ha colpa; poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire. Naturale è infatti non che il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; […] [93]

 

La prima causa addotta da Gorgia è in realtà un gruppo di cause trascendenti l’umano. Il blocco Caso/Dèi/Necessità” va a costituire un accorpamento omogeneo di ciò che è ineluttabile «poiché la provvidenza divina non si può con previdenza umana impedire». Ma Gorgia ci dice anche che ciò va accettato non in virtù del fatto che ciò che è divino è migliore, ma semplicemente poichè è giusto che il più forte prevalga. Sembra qui che Gorgia intenda dire che non è l’eccellenza divina ma unicamente la “forza” di cui dispone a fondare una sorta di “diritto naturale” a prevalere. E questa affermazione non è priva di blasfemità poiché né Omero né Esiodo (né nessuno dopo di loro) si sarebbe azzardato a fare della divinità una pura questione di forza. Ma Gorgia ci lascia capire che questo non sarebbe il suo pensiero quando subito dopo passa al rapimento “con forza”:

 

(7) E se per forza fu rapita [..] è chiaro che del rapitore è la colpa, in quanto l’oltraggiò, […] Merita dunque, colui che intraprese da barbaro una barbara impresa. D’esser colpito e verbalmente, e legalmene, e praticamente[…] [94]

 

Poi viene presa in considerazione una causa che il sofista conosce molto bene: la parola: 

 

(8) Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l’animo, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarrsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; […] [95]

Sarebbe allora il caso, per inciso, di chiedersi : «Ma se Gorgia pensa che la parola “che divinissime cose sa compiere” opera il raggiro, allora anche il raggiro è in qualche modo divino?» Poco dopo però viene ritirato in ballo il concetto di “forza” proprio in riferimento alla parola:

 

(12) […] Così si constaterebbe l’imperio della persuasione, la quale, pur non avendo l’apparenza dell’ineluttabilità, ne ha tuttavia la potenza. [96]

 

Avremmo qui (ma il testo originale greco risulta qui corrotto) una specie di divinizzazione della parola, in quanto dotata di tale potenza persuasiva da assumere carattere di ineluttabilità. Si passa quindi alla quarta causa possibile: l’amore: 

 

(19) […] il quale amore, se, in quanto dio, ha degli dèi la divina potenza, come un essere inferiore potrebbe respingerlo, o resistergli? [97] 

 

L’orgogliosa conclusione è la seguente: 

 

(21) Ho distrutto con la parola l’infamia di una donna, ho tenuto fede al principio propostomi all’inizio del discorso, ho tentato di annientare l’ingiustizia di un’onta e l’infondatezza di un opinione; ho voluto scrivere questo discorso, che fosse a Elena di encomio, a me di gioco dialettico. [98]  

 

    Se ci siamo soffermati su questa orazione retorica è perché volevamo evidenziare tre concetti gorgiani che ne emergono [99]. Partendo dal fondo: a) la dialettica come “gioco”, basata b) sulla “forza” della parola, a sua volta facente parte del più ampio concetto di “forza naturale”, come valore legittimante ciò che deve prevalere in base a quella che appare come una non negativa “legge del più forte”. Ma se l’unico valore è la forza il nichilismo ontologico allora diventa evidente ed inevitabile.

    Dal punto di vista filosofico il nichilismo rappresenta indubbiamente l’aspetto più interessante dell’atteggiamento di Gorgia, anche se non si può fare a meno di osservare che il modo con cui egli espone il suo pensiero nichilistico rivela qualcosa di artificioso, in quanto la veste retorica del discorso finisce per mettere un po’ in secondo piano il contenuto teoretico (che indubbiamente c’è) rispetto all’intento eristico. Della famosa argomentazione esposta nel trattato Del non essere o Della natura, possediamo due versioni complete, quella pseudo-aritotelica esposta in De Melisso Xenophane Gorgia e quella riportata da Sesto Empirico nell’Adversus mathematicos, che sul piano contenutistico praticamente si corrispondono. Citeremo alcuni passaggi di quest’ultima perché sembra riferirsi un poco di più ad un discorso originale, mentre la seconda ci pare più interpretativa. Riferisce Sesto (VII, 65-87): 

 

Gorgia da Leontini fu anche lui dl gruppo di coloro che escludono una norma assoluta di giudizio; non però con le stesse obbiezioni che muoveva Protagora e la sua scuola. Infatti nel suo libro intitolato Del non essere o Della natura egli pone tre capisaldi, l’uno conseguente all’altro: 1) nulla esiste; 2) se anche alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; 3) se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegaile agli altri .  [100]

 

Già da questi tre “capisaldi” anticipati da Sesto si comprende l’arbitrarietà delle premesse gorgiane e l’argomentazion che segue è un inanellamento di affermazioni che posseggono sì una certa loro logica interna, ma sempre sul filo del rasoio del paradosso:

 

(66) Che nulla esiste, lo argomenta in questo modo: ammesso che qualcosa esista, esiste soltanto o ciò che è o ciò che non è, ovvero esistono insieme ciò che è e ciò che non è.

 

Come ben si comprende argomento assurdo e privo di senso, a cui fa seguito:

 

Ma né esiste ciò che è, come dimostrerà, né ciò che non è, come ci confermerà; né infine, come anche ci spiegherà, l’essere e il non essere insieme. Dunque, nulla esiste (67)

 

Conclusione del tutto arbitraria, seguita da un argomentazione piuttosto inconsistente:

 

E invero, il non esser non è; perché supposto che il non essere sia, esso inisem sarà e non sarà; ché in quanto è concepito come non essere, non sarà, ma in qunto esoiste conme non esistene asua volta esisterà; ora è assolutamnente assurdo che una cosa insieme sia e no sia; e dunque il non esser non è.

 

La labirintica girandola verbale, dopo aver bordeggiato il non-senso approda a una proposizione sensata, ma per riprendere subito il largo con un procedimento parallelo (e così di seguito). Alla fine Sesto conclude (87): 

 

Di fronte a tali quesiti insolubili, sollevati da Gorgia, sparisce, per quanto li concerne, il criterio della verità; perché dell’inesistente, dell’inconoscibile, dell’inesprimibile non c’è possibilità di giudizio. [101]

 

    Chiudiamo questo paragrafo sui sofisti con Crizia, un personaggio complesso, che in qualche modo alla sofistica si richiama pur essendo la sua opera di carattere letterario piuttosto che filosofico.  Importante personaggio politico assai discusso, esponente del partito aristocratico che abbattè il governo democratico di Atene con l’appoggio degli Spartani, encomiato da alcuni e biasimato ferocemente da altri (per esempio da Senofonte) è ritenuto tradizionalmente allievo di Protagora, Socrate e Gorgia. A capo dei cosiddetti Trenta Tiranni venne variamente accusato di essersi comportato in modo feroce e di essersi macchiato di operazioni corruttelari. Scrisse opere in prosa e in versi e in questo campo gli vengono attribuite opere ritenute in antico di Euripide, col quale vi è un intreccio attribuzionale mai veramente chiarito. Infatti sarebbero di Crizia alcune tragedie (Tennes, Radamente, Piritoo) già ritenute di Euripide, come pure un dramma satiresco, intitolato Sisifo, che Aezio attribuisce ad Euripide (I, 7, 2, Dox. 298) e da cui è tratto un brano che sottintende che la divinità è stata inventata quale “spauracchio” contro la malvagità. Scrive Aezio:

 

    Euripide, il tragediografo, non volle manifestare direttamente le sue idee, per timore dell’Areopago, ma le fece capire nel modo seguente: mise in scena Sisifo rappresentante di questa opinione e gli fece dire: «Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sì che fosse Giustizia assoluta signora <egualmente di tutti> e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievano bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, <dapprima> un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timore <degli dèi> sicchè uno spauracchio ci fosse ai malvagi […] ». [102]

 

e che invece Sesto Empirico dà a Crizia affermando (Adversus mathematicos, IX, 54):

 

    Anche Crizia, uno dei tiranni di Atene, sembra appartenere al gruppo degli atei, per avere detto che gli antichi legislatori finsero dio come una specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, con lo scopo che nessuno recasse ingiuria a tradimento al suo prossimo per paura d’un castigo degli dèi. Dice testualmente così « Tempo ci fu,… ». [103]      

 

    La sofistica fu un movimento intellettuale anticonvenzionale e sovvertitore di un etica che, in generale, riteneva “reale” qualcosa come la “verità assoluta” (ovvero “divina”) avendo introdotto, contro di essa, il tarlo di un relativismo altrettanto assoluto. Certamente nei comportamenti dei sofisti vi sono state luci ed ombre (queste specialmente in relazione alla trasmissione del sapere “a pagamento”) ma non si può ignorare il loro apporto in termini di evoluzione dell’atteggiamento culturale, nel senso dell’abbandono di atteggiamenti retorici ed ipocriti. Ad esso non poteva ovviamente che opporsi aspramente sia l’idealismo di Platone sia il post-idealismo di Aristotele. Chiudiamo il paragrafo riportando il finale del Sofista, che è interessante per ciò che rivela dell’atteggiamento idealistico quanto per ciò che nasconde dell’atteggiamento sofistico (Sofista, 267-268d):  

 

    Ebbene, essa sarà l’imitare l’arte che produce contraddizioni, parte simulatrice dell’arte di produrre opinioni, del genere che produe apparenze sulla base della [d] capacità di produrre immagini, sezione non divina ma umana dell’attività produttiva. Cioè quella parte che fa meraviglie nei discorsi: chi dirà che «di questa stirpe e di questo sangue» è il vero sofista, dirà, come sembra la cosa più vera. [104]               

 

la sezione “divina” dell’attività produttiva essendo, naturalmente, la fabbricazione della “verità platonica”, che trova la più compiuta espressione ne le Leggi, dove il sommo Platone, dopo aver tratto l’uomo (nel VII libro del Repubblica, VII) dall’ignoranza della mitica “caverna” gli impone la sua divina e salvifica etica sapienziale da “caserma”. 

 

 



[1] Theodor Gomperz (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, vol. I, p.48) del politeismo greco dà la seguente interpretazione: «L’antropomorfizzzione della natura non ha soltanto offerto una materia pressoché inesauribile al gioco costruttivo della fantasia, che a poco a poco si andava elevando a senso artistico, ma ha dato altresì la prima soddisfazione alle tendenze scientifiche, al bisogno di un diradamento delle tenebre profonde in mezzo alle quali l’uomo è posto a vivere. In verità il presupposto non di carattere riflesso ma scaturiente  da una libera attività dell’associazione delle idee, secondo il quale gli avvenimenti del mondo esterno hanno la loro origine in un’azione di esseri dotati di volontà, è di per sé già una risposta alla domanda, per l’uomo inevitabile della, causa e del fine delle cose: una sorta di filosofia della natura che, in quanto l’osservazione sia rivolta ad un numero sempre maggior di fenomeni, ed in quanto sempre più determinatamente si precisino gli aspetti delle potenze naturali raffigurate come degli esseri viventi, è capace di uno sviluppo illimitato. L’uomo primitivo non è soltanto un poeta che crede alla verità delle sue creazioni, ma è, alla sua maniera, anche un investigatore; ed il complesso delle risposte che egli dà circa i problemi che senza tregua lo incalzano, finisce col formare un tessuto che tutto avvolge; i fili di questo tessuto, presi singolarmente, sono quelle costruzioni alle quali diamo il nome di miti.».

[2] La nostra posizione non è però condivisa da molti storici delle religioni, che vedono una certa continuità tra mitologia e filosofia. Jean Pierre Vernant fa proprie le tesi del Comford  (From religion to philosophy 1912) sostenendo che: «Le cosmologie dei filosofi [ionici] riprendono e prolungano i miti cosmogonici; dànno una risposta allo stesso tipo di domanda: come un mondo ordinato ha potuto emergere dal caos? Utilizzano un materiale concettuale analogo: dietro gli “elementi” degli Ioni, si profila la figura di antiche divinità della mitologia. Diventando “natura” gli elementi si sono spogliati dell’aspetto di dèi individualizzati; ma restano delle potenze attive, animate ed imperiture, ancora sentite come divine.» (J.P.Vernant  Mito e pensiero presso i Greci – Einaudi 1978, p.385).

[3] Occorre aggiungere che la filosofia idealistica non ha soltanto prevalso nel mondo antico, fornendo un apporto importante all’evoluzione dl Cristianesimo, ma permea tuttora e profondamente tutta la cultura occidentale. Whitehead ha affermato che tutta la filosofia dell’Occidente, in fondo, non è altro che una lunga parafrasi del pensiero di Platone. 

[4] Notava il Gomperz, relativamente al contesto in cui Talete si trovò ad operare, quanto segue (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.69): «Fu dunque, per il progresso spirituale del popolo greco, un caso straordinariamente benefico quello per cui, mentre i popoli che lo precedettero nell’incivilimento ebbero un ceto sacerdotale, esso, da parte  sua, ne fu invece sempre mancante. Così il futuro promotore dell’avanzamento scientifico dell’umanità godé insieme di tutti i vantaggi e fu sottratto a tutti gli svantaggi che derivano dall’esistenza di un dotto ceto sacerdotale. »

[5] Georges Minois  Storia dell’ateismo – Editori Riuniti 2000 – pp.37-38.

[6] Come è noto, secondo l’aneddoto, Talete sarebbe stato il tipico filosofo alle prese con le speculazioni e con scarsa attenzione alla realtà. Avrebbe infatti, un giorno, suscitato l’ilarità e l’irrisione di una servetta e di altri astanti poiché, passeggiando con la testa rivolta al cielo, sarebbe caduto in un pozzo.

[7] Secondo il Farrington (La scienza nell’antichità – Longanesi 1978, p.22) Talete avrebbe tratto spunto per la sua tesi da una tradizione egiziana, che considerava l’universo come un’enorme massa d’acqua all’interno della quale il nostro mondo era una bolla.  Un po’ diversa e più precisa è la versione del mito che ci rende il Gomperz (Th. Gomperz Pensatori greci, vol. I, La Nuova Italia 1950, pp. 1144-145) dove la bollasi prsenta come l’uovo primordiale (presente anche in altre culture): «In principio non c’era né il cielo né la terra; circondata da spesse tenebre, riempiva il tutto un’acqua primordiale illimitata (che gli  egiziani chiamavano Nun), la quale racchiudeva nel suo seno i germi maschili e femminili, ovvero i principi del mondo futuro. Lo spirito divino primordiale, inseparabile dalla materia dell’acqua originaria, sentì il desiderio dell’attività creatrice, e la sua parola chiamò il mondo alla vita…Il primo atto creativo s’iniziò con la formazione di un uovo che fu ricavato dall’acqua primordiale, e dal quale uscì la Luce del Giorno (Râ), causa immediata della vita nell’ambito del mondo terrestre.».          

[8] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – vol. I, Laterza 1983, p.10.

[9] Ivi p.11.

[10] I Presocratici (cura A.Pasquinelli), Einaudi 1980, p.15.

[11] Aristotele  Opere – Metafisica – Laterza 1973, p. 12-13.

[12] Pone il Gomperz la domanda retorica (Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.82-83): «Ma quale era questa materia originaria estendentesi all’infinito? Non era nessuna delle sostanze da noi conosciute. Poiché queste sostanze, che incessantemente trapassano l’una nell’altra e si originano l’una dall’altra, appariscono ad Anassimandro elementi, in certa guisa, tutti dello stesso valore e dello stesso grado, almeno dal punto di vista del non sembrare nessuna di esse materia tale da poter pretendere al titolo di progenitrice di tutte le altre.».

[13] Ricordiamo che, in realtà, in base alle più recenti acquisizioni della fisica teorica, se si dovesse stabilire una nuova arché del cosmo conosciuto, occorrerebbe precisare che essa non è per nulla unitaria, bensì plurale, per l’esatetzza esadecimale, in quanto costituita da sedici componenti-base. I “mattoncini” elementari dell’universo sono infatti dodici (sei quark, tre neutrini, il muone, il tauone e l’elettrone) ed i “cementi” che li assemblano e li tengono assieme (le forze) sono quattro (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare debole e nucleare forte). Parlare di materia in senso unitario è una convenzione linguistica discorsivamente utile, ma concettualmente impropria (cfr. Necessità e libertà - pp.18-24).

[14] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – vol. I, Laterza 1983, p.48.

[15] Aezio è un dossografo peripatetico-eclettico del I sec. i cui testi sono di fondamentale importanza quali documenti, a volte unici, sul pensiero dei filosofi antichi e specialmente presocratici.

[16] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo primo, Laterza 2004, p.105.

[17] Ivi, p.106.

[18] Ivi, p.99.

[19] I Presocratici (cura A.Pasquinelli), Einaudi 1980, p.44.

[20] Ivi, Nota 19, p.320-323.

[21] Martin Heidegger  Sentieri interrotti - La Nuova Italia 1986 – pp.345-346.

[22] Ivi– p. 29-30.

[23] Aristotele Opere Metafisica, XII, (Λ), 1069 b 20  – Laterza 1973 – p.343.

[24] I presocratici.  Frammenti e testimonianze  - vol.I (a cura di Angelo Pasquinelli) – Einaudi 1958 – p.27.

[25] Ivi p28.

[26] Nota Theodor Gomperz a proposito della scelta dell’aria come arché: «E poiché la materia, secondo la dottrina che tutti e tre questi pensatori – i cosiddetti fisici jonici – hanno in comune, porta in se stessa la ragione del proprio movimento, che cosa di più naturale dell’atribuire la parte preminente alla parte più nobile di essa, e proprio a quella che, in rapporto agli esseri organici, era considerata come l’elemento vitale stesso, come (si consideri che “Psiche” non significa che “respiro”) l’elemento dell’anima? Il nostro filosofo, infatti, ha paragonato quel soffio vitale che si supponeva essere il principio di esistenza e di coordinazione funzionale nei corpi degli animali e degli uomini a quell’aria che, circondando il mondo, lo compone in un tutto unico.» (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.89)

[27] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – vol. I, Laterza 1983, p.49.

[28] Ivi – p.46.

[29] Ibidem.

[30] I Presocratici, tomo primo, Laterza 2004, p.435-436.

[31] Ivi, p. 436.

[32] Ibidem.

[33] Ibidem.

[34] Ecateo di Mileto è il più importante storico e geografo greco del VI secolo a.C. Come cartografo egli si muove sulle orme di Anassimandro e come storico assume un atteggiamento critico nei confronti del mito che ha fatto pensare ad un suo atteggiamento tendenzialmente ateo.  

[35] Si noti ancora che verso la fine del V sec.a.C. l’alfabeto del dialetto ionico diventa comune a tutta la lingua greca.

[36] Così si esprime lo storico della scienza Benjamin Farrrington sull’argomento: «Fu proprio nell’epoca dei grandi poeti lirici (Talete era contemporaneo di Saffo) che ebbe inizio la scienza greca, nella quale si trova la stessa audacia di concezione e indipendenza di pensiero. La scienza è la creazione di un particolare tipo d’uomo e di un particolare tipo di società: non zampilla nel vuoto. La scienza greca sembrerà meno miracolosa se si considerano il tempo e il luogo della sua origine. Sorse nella città di Mileto, sulla striscia costiera greca dell’Asia minore. Questa città era in diretto contatto con le più antiche civiltà dell’Oriente; rientrava linguisticamente in quella cultura che vantava già una brillante letteratura poetica, epica e lirica; ed era al centro d’una larga attività mercantile e colonizzatrice. Quindi la scienza greca fu il prodotto di un ricco umanesimo, di una cultura cosmopolita e di un intraprendente movimento d’affari.» (B.Farrington  La scienza nell’antichità – Longanesi 1978 – pp.21-22). 

[37] Platone Tutti gli scritti – Leggi - Bompiani, 2004, p.1676

[38] Platone Opere complete – 7 – Leggi – Laterza 1992 - p.327-328.

[39]  È Sant’Ippolito, un apologeta cristiano del III sec. d.C., a rilasciarci la più chiara definizione di che cosa siano gli “dei” per E.: «Dice Empedocle che sono sei in tutto gli elementi, di cui il cosmo è composto: due sono materiali, terra e acqua, e due organici, fuoco e aria, con cui la materia si ordina e si modifica, e due agenti, astio e concordia, che lavorano con quei mezzi organici la materia e costruiscono; dice così: Zeus è il fuoco, l’alma Hera la Terra….Aidoneo è l’aria, perché per lui vediamo tutto, ma lui soltanto non vediamo; Nestis è l’acqua…[…]» (da Testimonianze in Empedocle  Poema fisico e lustrale (a cura di Carlo Gallavotti) – Mondadori 1993 – p.131.

[40] Empedocle  Poema fisico e lustrale (a cura di Carlo Gallavotti) – Mondadori 1993 – p.7

[41] I nomi divini degli elementi sono dati a coppie: una celeste, Zeus (il fuoco) ed Hera (l’aria) e una terrestre, Aidoneo (la terra) e Nesti (l’acqua). Il Gallavotti (op.cit. pp.173-174) pone il problema dell’identificazione della seconda coppia di teonimi, anche basandosi sulle testimonianze dossografiche e letterarie, ma senza pervenire a una chiarificazione della loro origine.

[42] Ivi pp.19-21.

[43] Ivi p.23.

[44] A questo proposito lo Zeller osserva: «Ma anche se un medesimo spirito anima le teorie religiose e fisiche di Empedocle, tuttavia il filosofo non s’è curato di stabilire tra esse un rapporto di tipo scientifico, né di dimostrarne la conciliabilità. Infatti se la vita spirituale è solo una conseguenza dell’unione di sostanze materiali, è condizionata, come vita individuale, da questa determinata combinazione di sostanze , per cui l’anima non può né esistere prima della formazione né sopravvivere alla sua distruzione […[ Bisogna dunque ammettere che E. abbia derivato la dottrina della metempsicosi e le connesse teorie dalla tradizione orfico-pitagorica, senza però stabilire un nesso scientifico tra questi articoli di fede e le convinzioni filosofiche da lui in altro luogo e in altro contesto espresse.» (E. Zeller – R. Mondolfo  La filosofia dei greci – vol.V – La Nuova Italia – Firenze 1969 – pp.87-88 ).

[45]  Carlo Gallavotti ritiene che non vi sia contraddizione tra la teoria fisica e la dottrina etica: «È questo, nel poema lustrale, l’altro aspetto da rilevare per lo sviluppo storico del pensiero greco. È uno scritto di etica: sta alle origini di questa nuova disciplina filosofica, e sorge nell’ambito sociologico, in armonia (e non in opposizione) con un sistema di filosofia naturalistica già costituito, e precedentemente elaborato. È il  primo segno, per noi, di quella svolta che segnerà il pensiero filosofico attraverso i sofisti e Socrate, spostando il proprio interesse dall’indagine fisica a quella morale. […] Quindi la dottrina etica di E., e la stessa teoria della palingenesi, derivano direttamente dalla sua teoria fisica, e concordano in maniera perfetta.» (Empedocle  Poema fisico e lustrale (a cura di C. Gallavotti) – Mondadori 1993 – pp. XIV e XV).

[46] Ciò riceve anche conferma dal frammento dell’ Aristotelis Physica (331, 10) di Simplicio (I Presocratici – tomo primo - Laterza 2004, p.405) in cui si afferma (103, [312 K., 125 St.]): «E ancora molti casi si potrebbero trovare nell’opera di Empedocle Sulla natura che offrono esempi di tal genere, come anche questo: “E per tale volere della Sorte [del Caso] tutte le cose son assennate.». Abbiamo inserito [del Caso] perché non condividiamo il termine “Sorte” con cui Gabriele Giannantoni traduce il termine greco τύχή. A noi pare infatti che se da un punto di vista antropologico “sorte” e “caso” possano essere equivalenti, ma che non altrettanto lo siano sul piano ontologico (relativamente, qui, a “tutte le cose”), per cui, in questo caso, riteniamo più corretto e significativo il secondo termine.    

[47] Il Mondolfo rileva questo rimprovero in De generatione et corrupt. II,6, in Phis. II,4 e in Phis. VIII, 1.

[48] Abbiamo esposto la nostra interpretazione del fenomeno “caso” nel § 4 (Le leggi e il caso) del capitolo III di Necessità e Libertà (Editrice Clinamen 2004) alle pp.77-79.

[49] Aristotele Opere, Metafisica – Laterza 1973, p.18.

[50] Ibidem.

[51] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo primo, Laterza 2004, p.347.

[52] Ibidem.

[53] Ibidem.

[54] Ibidem.

[55] Lo pensano il russo Andrei Linde e l’inglese Dennis Sciama. Ma la molteplicità dgli universi è anche implicato dalla Teoria delle Superstringhe.

[56] Registriamo qui il parere dello Zeller su una presunta relazione tra le teoresi degli ontologi pluralisti e il monismo eleatico. Relazione secondo noi inesistente, trattandosi di un luogo comune che ha attraversato i secoli sulla base di elementi storiografici inconsistenti (cfr. successivi § 4.1, 4.2, 4.3) e di analisi surrettizie. Relazione che purtroppo ha finito però per radicalizzarsi, diventando, da mera leggenda storico-ermeneutica qual’è, quasi un dato acquisito e riconosciuto (per quanto combattuto decisamente già dal Gomperz).  Sostiene lo Zeller: «Che da queste proposizioni [quelle parmenidee] essi [Anassagora, Empedocle e Leucippo] prendano le mosse, continuo a crederlo, nonostante le argomentazioni contrarie del Gomperz (Zu Heraklits Lehre, 1037). I precedenti filosofi avevano sì riconosciuto come ovvio che le sostanze originarie fossero eterne e indistruttibili, ma non avevano affermato ciò nella forma di un principio universale, né si erano curati di dimostrarlo, né avevano distinto tra fra nascita in senso assoluto e in senso relativo; Parmenide fu il primo ad affermare in forma di principio e a dimostrare con precisi argomenti l’impossibilità del nascere e del perire; […]» (E.Zeller - R.Mondolfo  La filosofia die greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969, p.361 testo e nota 15).

[57] Platone  Tutti gli scritti (a cura di Giovanni Reale) - Bompiani 2000, p.1674.

[58] Ivi, p.1674.

[59] Ivi, p.32.

[60] Ivi, p.104 – 105.

[61] Ivi, p.105–106.

[62] Ivi, p.106.

[63] Ibidem.

[64] Platone sembra aver scorto in Anassagora ciò che Theodor Gomperz esprimerà in questi termini: «I processi chimici sono ricondotti da lui al movimento; gli stessi fatti fisiologici sono spogliati di ogni specie di misticismo e guardati dal punto di vista della meccanica. Poiché sono delle associazion e delle separazioni, in una parola dei cambiamenti di posizione, che egli invoca a spiegare tutte le più misteriose trasformazioni della realtà. La dottrina della materia del pensatore di Clazomene è un tentativo, invero rozzo e prematuro, di concepire ogni realtà materiale come un resultato del movimento.» (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.321).

[65] Platone  Tutti gli scritti (a cura di Giovanni Reale) - Bompiani 2000, p.106-107.

[66] Un chiaro esempio di queste disastrose derive ermeneutiche di ispirazione idealistica ce lo offre lo Zeller, che in termini lapidari afferma: «Ma perché da queste sostanze [le omeomerìe] nasca un mondo, occorre l’intervento di una forza ordinatrice e motrice, che è “una”, perché il mondo da esse prodotto costituisce un sistema unitario; questa forza per il nostro filosofo può risiedere soltanto nell’essere pensante, nello Spirito.» (E.Zeller - R.Mondolfo  La filosofia die greci nel suo sviluppo storico – La Nuova Italia 1969, p.375).

[67] Aristotele Metafisica, Laterza 1973, p.16.

[68] Ivi, p.18.

[69] È l’espressione usata da Renato Laurenti nella traduzione del passo aristotelico citato (I Presocratici, Laterza 2004, p.576).

[70] Aristotele Metafisica, Laterza 1973, p.14.

[71] Un’importante ricerca su questo argomento è costituita dall’ottimo saggio di Lucio Russo La rivoluzione dimenticata (Il pensiero scientifico greco e la scienza modena) Feltrinelli 1996.

[72] Sull’ontologia cosmogonica anassagorea nota Theodor Gomperz: «La cosmogonia di Anassagora si muove, fino a un certo punto, sulla via aperta da Anassimandro, e che i suoi successori non si può dire che avessero abbandonata. Anche lui ammette come realtà originaria una specie di caos. Senonché al posto dell’unica materia primordiale infinitamente estesa, troviamo un numero indeterminato di materie originarie il cui insieme si estende, del pari, aldilà di ogni limite.»   (Th. Gomperz Pensatori greci, La Nuova Italia 1950, Libro I, p.323-324)

[73] Aristotele Opere, vol.III, Del cielo, Laterza 1983, p.331.

[74] Aristotele Opere, vol.III, Del cielo, Laterza 1983, p.332.

[75] Lucrezio La natura delle cose - Rizzoli 1994, p.135-137.

[76] I presocratici (Testimonianze e frammenti), tomo secondo, Laterza 2004, p.577.

[77] Ibidem.

[78] Ivi, p.576.

[79] Ibidem.

[80] Ivi, p.563.

[81] Diogene Laerzio  Vite dei filosofi – vol. II, Laterza 1983, p.374.

[82] Ibidem.

[83] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.881.

[84] In un recente studio di Stelio Zeppi, dal titolo L’ateismo ateistico di Protagora (in Il pensiero religioso dei Presocratici, Studium 2003, pp.221-229) questo autore ipotizza una posizione filo-senofanea di Protagora; tesi che ci sembra francamente piuttosto inconsistente. Scrive Zeppi (p.26): «Alludo al contenuto, od oggetto, all’agnosticismo in questione. Esso riguarda non già la conoscenza del Divino, di Dio, bensì soltanto quella degli dèi [si notino le iniziali maiuscole e minuscole!]. Protagora cioè prende le distanze dal politeismo della religione popolare, volgarmente intesa, e ciò facendo riprende la battaglia contro le credenze religiose in quanto stoltamente dogmatiche e risibili che era stata intrapresa da Senofane […]».

[85]  Platone Tutti gli scritti – Bompiani 2000, pp.136-137.

[86] Ibidem.

[87] Sesto Empirico  Schizzi pirroniani – Laterza 1926, p. 61-62.

[88] Ivi, p. 62.

[89] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.947.

[90] Ivi, p.911.

[91] Ivi, p.916

[92] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.927-929 passim.

[93] Ivi, p.929.

[94] Ibidem.

[95] Ibidem.

[96] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.930.

[97] Ivi, p.933.

[98] Ibidem.

[99] Un importante studio dell’Elogio di Elena è quello condotto da Mario Untersteiner nel suo I Sofisti (Einaudi 1949, p.129 e ss.) che lo porta ad individuare i tre elementi-guida seguenti: I) La previdenza umana non può impedire il volere di un dio, II) La violenza è espressione dl divino, III) La parola è persuasione ed inganno,

[100] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.916-917.

[101] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p. 920.

[102] I presocratici Laterza 2004, tomo secondo, p.1026.

[103] Ibidem.

[104] Platone Tutti gli scritti (cura Giovanni Reale), Il sofista, p.310.