CAPITOLO PRIMO

                                           Religiosità e socialità.

                                    

 

 

                                               Introduzione.

 

    Questo primo capitolo ed il successivo potrebbero essere ritenuti estranei al tema di questo saggio, essi però non lo sono nella prospettiva che abbiamo assunto, quella che intende “storicizzare” il fenomeno religioso piuttosto che svalutarlo; da qui l’opportunità, in quanto preliminari allo sviluppo della nostra ricerca. Infatti, come sarebbe possibile storicizzare le religioni se non venissero preliminarmente indagate le motivazioni che le determinano, le loro origini e i loro sviluppi? E come farlo senza far riferimento ai pochi o molti dati etnologici e antropologici a nostra disposizione concernenti le forme religiose arcaiche o primitive che dir si voglia, se è vero che il fatto religioso è patrimonio comune di tutte le culture e di tutte le civiltà apparse sul pianeta, indipendentemente dalle loro evoluzioni e dai loro esiti? Si pone quindi innanzitutto il problema di cercare di delineare se sia esistita una forma religiosa primordiale, “madre” di tutte le altre forme, oppure se il panorama religioso si sia costituito attraverso una pluralità di forme differenti che hanno determinato le varie culture religiose e, in questo caso, l’indagine deve concernere ciò che le accomuna. Ciò, ben sapendo (e ben ammettendo) che la nostra ricerca e la nostra analisi non potranno che essere “di parte”, nel senso che dal nostro punto di vista non possiamo riconoscere validità alcuna alle pretese rivelative o veritative delle ideologie religiose in genere. Nella prospettiva in cui ci collochiamo le religioni non possono quindi che essere considerate sotto il profilo storico-antropologico, in quanto aspetti correlativi, necessari e strumentali, di ogni socialità organizzata ed istituita nel passato che abbia dovuto darsi un mito fondativo, delle regole di convivenza, una struttura organizzativa, e soltanto più tardi assumere forti connotazione ideologiche ed entrare in concorrenza alla caccia di consenso e di adepti.

    L’argomento che ci accingiamo ad affrontare (sia pure in termini sintetici ed approssimativi) è d’altra parte preliminare non solo ad ogni indagine sulla religione ma anche ad ogni indagine sull’ateismo originario, poiché è solo cercando di delineare a priori il significato storico e concettuale che si deve attribuire a termini come “sacro” o “divino” (coi loro derivati e correlati) che diventa possibile avviare un’analisi su ciò che vi si oppone o che vi si pone come alternativo. Solo uno studio comparato del fenomeno religioso, sui vari significati e modalità da esso assunti nel tempo e nello spazio, può consentire di cogliere gli aspetti profondi e fondanti della “religiosità”, la quale rimane (indipendentemente dal punto di vista di chi scrive e di chi legge queste pagine) uno dei più interessanti fenomeni antropologici che ci sia dato cogliere e studiare, sia dal punto di vista storico che da quello culturale [1]. Il nostro studio si svilupperà a partire da una distinzione terminologica che qualora non venisse precisata potrebbe generare confusioni ed equivoci. Noi useremo l’aggettivo “arcaico” per indicare società costituite, forme del pensare e comportamenti, che si sono perpetrati nei millenni in società fortemente conservatrici, le quali sono giunte all’era moderna senza sostanziali evoluzioni [2].  Riserveremo invece l’aggettivo “antico”  alle società del mondo mediterraneo ed orientale che in maggiore o minor misura hanno abbandonato la condizione arcaica evolvendosi verso forme differenziate di religiosità e di socialità [3]. 

    Un importante contributo allo studio della religiosità ci viene, in generale, dalla sociologia del XX secolo, ma particolare interesse assume l’indagine compiuta dalla sociobiologia, una nuova branca dell’antropologia dei gruppi umani inaugurata dal sociologo E.O.Wilson col saggio Sociobiologia: la nuova sintesi, apparso nel 1975. Wilson, convinto neodarwiniano, apriva così una nuova frontiera della ricerca, eleggendo la selezione genica a fattore determinante dell’evoluzione umana e delle sue forme di aggregazione. Partendo da tale tesi Walter Burkert ha cercato di portare una nuova linea d’indagine nel cuore del fenomeno religioso, analizzandone le forme più significative di esso apparse nel tempo e nei diversi contesti storici ed etnologici, ricavandone alcune interessanti conclusioni alle quali ci riferiremo, rilevando tuttaviail fatto che, in realtà, la sua ricerca appare più filologica che sociobiologica [4]. 

    A conclusione di questa nostra introduzione ai primi tre capitoli desideriamo preliminarmente precisare che, essendo la nostra ricerca specificamente orientata a una messa a fuoco delle teoresi ateistiche dell’antichità, l’indagine sulla religione e sui suoi annessi verrà limitata a queste prime due parti del saggio, cercando di fornire un quadro sufficiente a introdurre l’argomento principale del nostro lavoro, che si svilupperà nei quattro capitoli successivi. Ci limiteremo pertanto a fornire alcune linee essenziali, sia storiche che interpretative, della ricerca etnologica e antropologica sulla religiosità, attingendo ai lavori che a partire dall’Ottocento hanno caratterizzato il panorama scientifico di tale indagine.      

    Dovendo per ragioni di chiarezza espositiva schematizzare l’argomento a cui intendiamo accennare, abbiamo definito alcune linee guida che ci hanno portato all’identificazione di tre argomenti-chiave che abbiamo trasferito nei titoli dei paragrafi che costituiranno questo capitolo. Essi sono: 1.1) Teorie sul fenomeno religioso, 1.2) La religiosità delle culture arcaiche, 1.3) Genitori divini per un “appartenenza”.

    Alcuni paragrafi hanno un carattere più citazionale, altri più descrittivo e altri piuttosto interpretativo; nell’insieme abbiamo cercato di fornire una base informativa quale propedeutica alla lettura dei capitoli 2 e 3 e nello stesso tempo quale stimolo al lettore per approfondire l’argomento mediante l’utilizzazione degli strumenti più adeguati e specifici che la vastissima letteratura etnologica, antropologica e della storia delle religioni mette a disposizione. 

 

 

 

 

                                  1.1 Teorie sul fenomeno religioso.   

 

    Non sarebbe peregrino domandarsi se dal punto di vista storico non sarebbe più corretto parlare di ateismi, al plurale, anziché di ateismo, al singolare. Storicamente non vi è stato infatti un unico genere di ateismo; ciò in relazione alle diverse divinità di volta in volta da esso negate e alle quali esso si è posto come alternativa teorica, etica ed esistenziale. In un orizzonte più ampio potremmo addirittura chiederci se ogni religione comparsa sulla Terra non abbia potuto avere il “suo” ateismo o perlomeno una sua connessa e conseguente “incredulità”, riconosciuta o no, che le si è contrapposta, determinando un atteggiamento di “empietà” implicito od esplicito, chiuso nel privato della coscienza o reso pubblico. Ciò non solo rappresenterebbe un’estensione dell’argomento che ci siamo proposti ma esulerebbe del tutto dalla presente ricerca, risultando in definiva un’operazione del tutto sterile, poiché l’incredulità è un fenomeno che rimane del tutto interno alla credenza e che, in quanto tale, non apre ancora le porte all’ateismo. In realtà, la presenza di un ateismo vero e proprio, pur non avendo mai assunto caratteristiche di organizzazione [5] filosofica ma sempre e soltanto di “opinione”  irreligiosa, è limitata a quei contesti in cui vi è stata sufficiente tolleranza da renderlo possibile. Gli ateismi storici, quelli di cui è possibile parlare, sono pochissimi e abbastanza noti, sempre relativi a società nelle quali sono state presenti e consentite culture filosofiche, per lo più filo-scientifiche, che potevano avere elementi ed argomenti in base ai quali condurre un confronto più o meno oppositivo colle dottrine religiose. Espressioni ateistiche sono infatti possibili esclusivamente in contesti sociali cui afferiscano due requisiti indispensabili: un elevato livello culturale generale e una sufficiente libertà di pensiero.

    Il nostro soffermarci sull’analisi del fenomeno religioso non è solo “per contrasto” rispetto al tema che ci siamo proposti, ma è giustificato dalla consapevolezza che la religione è fenomeno storico universale e strettamente connesso alla cultura, al costume, all’organizzazione e ai comportamenti di tutte le comunità umane. Ciò non solo rafforza la validità di una sempre più approfondita indagine socio-biologica del fenomeno religioso, ma pone noi, studiosi della filosofia atea, di fronte alla realtà, storica ed innegabile, che la religione è un aspetto fondamentale di tutta la storia dell’uomo, e che con essa noi ci confrontiamo, consapevoli del rispetto dovuto a ciò che nel passato ha costiuito il legante fondamentale di ogni società umana [6].    

    Nelle culture arcaiche, dove la religione ha rappresentato e rappresenta una cultura “totalizzante” ed esclusiva, è probabilmente del tutto inutile cercarvi forme di antitesi o di opposizione, in quanto esse non possono che essere del tutto assenti, per la semplice ragione che non sono possibili a fronte della “sacralizzazione” del concetto stesso di comunità umana che le caratterizza [7]. Per parte nostra, considerando l’ateismo un tardo elemento dell’evoluzione antropica, quindi secondario allo sviluppo del pensiero scientifico dell’antico mondo greco, non possiamo che rilevare che esso è sempre e solo apparso in contesti religiosi nei quali la sacralità generale consentiva qualche spazio per un’indagine sulla natura di tipo oggettivo e non soltanto mitico-ideologico. Detto questo, sarebbe importante capire (domanda che ci consta che l’antropologia non si sia ancora posta seriamente) “perché”, a partire da una presumibile base antropica comune (l’homo nella versione sapiens), alcune aree culturali abbiano sviluppato un pensiero scientifico e altre no. Problema a cui sarà difficile fornire una risposta, poiché (rimanendo in ambito mediterraneo) la dissociazione che ha portato, da un lato, a società basate su una teocrazia totalitaria (come quella egiziana e mesopotamica) e, da un altro, a società basate su un politeismo antropomorfo e tollerante (come quella ellenica) è avvenuta in epoche preistoriche, sulle quali manca ogni tipo di documento scritto significativo che ci permetta di inferirne.   

    In termini generali, ed in riferimento al mondo occidentale, quello in cui gli ateismi hanno assunto connotazioni materialistiche più o meno marcate (nel mondo orientale sono perlopiù spiritualistici), noi possiamo distinguere sostanzialmente due fasi ben delineate; quella dell’ateismo antico, riferibile al politeismo greco, e quella dell’ateismo moderno, in riferimento al Cristianesimo; con la ulteriore precisazione che questo secondo comincia a delinearsi, in modo chiaro e percepibile, non prima del XVI secolo. Anche in ambito orientale noi troviamo atteggiamenti atei abbastanza definiti ed è proprio l’epoca più antica a fornirci gli esempi più interessanti. Ciò è specialmente rilevabile nell’India del periodo pre-islamico, poiché in seguito la ricerca filosofica nel mondo indiano ha subito una sorta di eclissi, assumendo caratteri sempre più specificamente religiosi, i quali si sono andati radicalizzando via via in vere e proprie religioni fideistiche dotate di culti e rituali. Ciò è presumibilmente accaduto allo scopo di rinsaldare e difendere una millenaria identità culturale e spirituale, meglio esprimibile sicuramente con una “forte” religiosità autoctona e alternativa, da contrapporre, su base popolare, all’Islam dei conquistatori, piuttosto che con una speculazione filosofica elitaria e di scarsa presa sociale.   

    Vi è stato peraltro chi ha osato avanzare la possibilità di un ateismo “naturale” primitivo, al quale sarebbero succedute le credenze religiose storicamente documentate, in quanto indotte da strutture di potere (le classi sacerdotali e regali) interessate all’assoggettamento dei componenti il gruppo sociale. Questa ipotesi, avanzata in passato e perlopiù correlata al marxismo [8] viene oggi ritenuta dagli studiosi poco fondata, e si propende piuttosto a ritenere la religione come un elemento basilare ed “aggregante” di ogni comunità umana primitiva, ove naturalmente si abbia l’avvertenza di conferire al termine “religione” il significato più ampio possibile, comprendendo quindi anche le sue forme più elementari (totemismo, animismo, manismo, ecc.).

    Operando una forte semplificazione del corpus scientifico concernente l’argomento di questo paragrafo forniamo subito una prima schematizzazione di alcuni indirizzi più significativi nell’interpretazione del fenomeno religioso e li accompagneremo con l’indicazione degli esponenti più importanti per ognuno di essi. Tali indirizzi sono i seguenti: a) razionalistico-evoluzionistico (più spesso definito dagli specialisti anche come “intellettualistico”) con Tylor e Frazer, b) sentimentale-emozionale con Marett, Lévy-Bruhl, Otto ed Eliade, c) sociologistico con Robertson-Smith, Durkheim, e Mauss, d) simbolistico con Evans-Prithard, e) funzionalistico con Radcliffe-Brown e Malinowski, f) strutturalista con Lévi-Strauss e g) storicistico con Pettazzoni, De Martino e Brelich. Ovviamente tale schema non rende ragione della complessità della materia, delle interazioni tra i vari indirizzi e delle specificità concettuali dei singoli studiosi, tuttavia ci serve per introdurre il breve excursus verso cui ci avviamo, che ammettiamo incompleto e sommario [9].

    Passeremo ora in rapida rassegna alcune tra le più significative posizioni concernenti il fenomeno religioso, la sua origine, il suo significato, le sue forme primarie, la sua essenza. Cominceremo con l’antropologo inglese Edward Burnett Tylor, vero pioniere dell’etnologia, il quale, nel 1871, dopo numerose ricerche sul campo presso comunità indigene dell’America Centrale e del Messico, con il saggio Cultura primitiva identificò col termine di “animismo” la forma primordiale di religiosità. Essa sarebbe consistita nell’attribuire ad ogni entità del mondo percepibile un “anima”, quale seconda realtà vitale relativamente indipendente dalla sostanza solido-corporea visibile e percepibile. Una sorta di “doppio” spirituale, ora benefico ora malefico, da blandire con offerte o da controllare con pratiche magiche. Ciò sarebbe derivato, secondo lo studioso inglese, soprattutto dall’esperienza del sogno, che viene percepito dal primitivo come l’esperienza di un “doppio” (un alter ego) che riguarda ogni essere umano e per estensione ogni animale, ogni vegetale, ogni oggetto. Tale nozione, in uno stadio evolutivo in cui non sono ancora concettualizzate le differenze tra cose, esseri viventi, animali e uomini, porterebbe ad immaginare che in ogni realtà del mondo sia presente un entità spirituale che esiste separatamente da quella materiale che lo ospita. Questa teoria ha perso oggi molto del credito che le venne attribuita al suo apparire e tuttavia, anche se dal punto di vista scientifico essa risulta abbastanza inconsistente, accenna, sia pure in modo vago, ad alcuni aspetti antropologici da noi analizzati in altra sede e a cui abbiamo dato una risposta filosofica non convenzionale [10].  

 

    L’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt, nonché missionario cattolico, fu invece il sostenitore di un presunto monoteismo primordiale (quale credenza in un “Essere Supremo”) che avrebbe preceduto ogni altra forma religiosa. A questa tesi, evidentemente non priva di presupposti ideologici, che venne avanzata nell’opera L’origine dell’idea di Dio e che sollevò già notevoli perplessità al suo apparire, si affiancava anche quella dei cicli cultuali, secondo la quale vi sono vari gradi evolutivi di cultura, e quindi di religione, dipendenti dalle forme di vita e dalle attività di sussistenza. Lo Schmidt fu anche sostenitore dell’esistenza, nella preistoria, di un periodo “matriarcale”, coincidente con l’avvento dell’agricoltura, il quale avrebbe favorito la nascita  dei culti della “Madre Terra” e della Luna, quali ipostasi divine al “femminile”.

 

    Il terzo studioso che vogliamo citare è l’antropologo inglese James Georges Frazer, che si riconnette in qualche modo al Tylor in un’interpretazione comparativo-evoluzionistica del fenomeno religioso. Frazer, del quale si può apprezzare (se non sempre un rigoroso intento scientifico) certamente uno straordinario talento letterario, lavorando egli su una vasta mole di materiale sia storico che etnologico, ne Il ramo d’oro (III volume - 1911) vede nel comportamento magico (di cui ne distingue vari tipi) l’origine di ogni forma di religiosità, nei termini seguenti: 

 

    Nella magia l’uomo dipende dalle sue sole forze per affrontare le difficoltà e i pericoli che stanno in agguato da ogni parte; egli crede in un certo ordine stabilito dalla natura su cui può sicuramente contare e che può governare a proprio vantaggio. Quando scopre il suo errore, quando tristemente si accorge che tanto l’ordine dalla natura che egli ha supposto, quanto il potere che egli aveva creduto di esercitare sopra di esso, non sono che fantasia, cessa di fidarsi della sua intelligenza e delle sue sole forze e si getta umilmente in balia di certi grandi e invisibili esseri dietro il velo della natura, a cui ora attribuisce tutti quei vasti poteri che arrogava una volta a se stesso. Così nelle menti più acute la magia viene gradualmente sostituita dalla religione che spiega il succedersi dei fenomeni naturali come se fossero regolati dalla volontà, dalle passioni o dal capriccio di esseri spirituali simili all’uomo in specie, ma infinitamente a lui superiori in potenza. [11]

 

    Come non cogliere (attraverso l’inversione potenza/impotenza) in questo supposto arcaico fenomeno di conversione alla religione di un uomo deluso dalla magia (per difetto di potenza) un analogo della contemporanea rinascita della religione in un uomo deluso dalla scienza (per eccesso di potenza), la quale minaccia di sfuggire al suo controllo, rimanendo tuttavia incapace di conferire “senso” alla sua esistenza? 

    Sia Tylor che Frazer vengono storicamente classificati come etnologi “intellettualisti” o “evoluzionisti”, in quanto la loro interpretazione del fatto religioso arcaico considera la mente umana con caratteristiche identiche in tempi e luoghi differenti. Quindi la mentalità primitiva come un analogo primordiale e imperfetto di quella moderna, da cui sarebbero derivati errori e sviamenti di lettura della realtà poi corretti automaticamente con l’evoluzione culturale umana successiva. Questo tipo di interpretazione, al quale si riconosce un innegabile valore storico quale aurorale prodromo dell’etnologia scientifica, ha però una scarsa corrispondenza nella reale mentalità arcaica e viene quindi oggi perlopiù rigettata dagli indirizzi interpretativi più moderni che le si contrappongono (emozionalistico, sociologistico, simbolistico, strutturalistico e storicistico) con visioni ed interpretazioni del mondo arcaico più articolate e dotate di maggiori requisiti scientifici.

   Va qui rilevato che già il Marett [12], basandosi sulle testimonianze del sacerdote e antropologo Robert Codrington,  si era opposto a tali interpretazioni intellettualistiche (razionalistico-evoluzionistiche), contestando al Tylor la priorità dell’animismo come forma primordiale di religiosità, a favore di un “preanimismo” nel quale sarebbe prevalsa la credenza in una “forza” impersonale diffusa e permeante tutte le cose esistenti, anche se con diversi gradi di presenza e concentrazione. Questa forza soprannaturale, rappresentata molto bene dal mana melanesiano, ma simile al wakanda degli Sioux, all’orenda degli irochesi o al manitu degli algonchini, secondo il Marett avrebbe costituito la base generale di tutte le credenze religiose e di tutte le pratiche magiche delle società preistoriche.

 

    Una posizione diametralmente opposta a quella intellettualistica, che come abbiamo visto interpretava il pensiero arcaico come una forma aurorale e imperfetta della razionalità moderna, è stata sostenuta dal filosofo ed etnologo francese Lucien Lévy-Bruhl, che in La mentalità primitiva del 1922 ha identificato come mistico e pre-logico [13], ovvero  spontaneo, totalizzante, irrazionale, ecc. e quindi precedente ogni forma di razionalizzazione in senso moderno, il modo di pensare dell’uomo arcaico. Tale posizione è stata contestata da più parti per ragioni talvolta opposte, ma mantiene tuttavia una sua forza concettuale e una notevole aderenza alla realtà in quanto caratterizza (e nello stesso tempo legittima) visioni del mondo e comportamenti alternativi a quelli della tradizione occidentale (e per molti versi altrettanto “funzionanti”). L’elemento base della mentalità primitiva è, secondo Lévy-Bruhl, la “preconnessione” mistica, come si evince da questo passo:

 

    Per questa mentalità, in linea generale, il caso non esiste, e non può esistere. Non che essa sia persuasa del determinismo rigoroso dei fenomeni; tutt’altro, non avendo la più pallida idea di questo determinismo, resta indifferente alla connessione causale, e a ogni evento che la colpisce, attribuisce un’origine mistica. Dato che le forze occulte sono sempre sentite come presenti, più un evento ci sembra fortuito, più sarà significativo per la mentalità primitiva. Non c’è bisogno di spiegarlo: esso si spiega da sé, è una rivelazione. Anzi, il più delle volte, serve a spiegare altre cose, almeno nella forma in cui questa mentalità si dà pensiero di trovare spiegazioni. Ma può essere necessario interpretarlo, quando una preconnessione definitiva non vi ha già provveduto [14].

 

Quasi un paradigma della religiosità arcaica che viene ripreso più avanti:

 

    Preconnessioni, che non hanno meno forza del nostro bisogno di collegare ogni fenomeno alle sue cause, stabiliscono, per la mentalità primitiva, senza possibile esitazione, il passaggio immediato da una data percezione sensibile a una forza invisibile. Per dir meglio, non è neppure un passaggio. Questo termine conviene alle nostre operazioni discorsive; non esprime esattamente il modo di attività della mentalità primitiva, che assomiglia piuttosto a un’apprensione diretta o a un’intuizione. Al momento stesso in cui percepisce quel che è dato ai suoi sensi, il primitivo si rappresenta la forza mistica che vi si manifesta [15].

 

Levy-Bruhl [16] vede il nocciolo della questione nel concetto di causa:

 

    Per la mentalità prelogica, la connessione causale si presenta sotto due forme, del resto vicine. A volte una preconnessione definita è imposta dalle rappresentazioni collettive […] Oppure il fatto che appare è riferito in modo generico a una causa mistica […] In un caso come nell’altro, la connessione tra la causa e l’effetto è immediata [17].      

 

E dopo aver fornito qualche esempio ne precisa il senso:

 

    Si vede ora la ragione profonda che rende la mentalità primitiva indifferente alla ricerca delle cause seconde. È abituata a un tipo di causalità che nasconde, per così dire, il concatenamento di queste cause. Mentre queste costituiscono nessi e complessi che si svolgono nel tempo e nello spazio, le cause mistiche verso le quali si rivolge quasi sempre la mentalità primitiva, essendo extraspaziali e anche talvolta extratemporali, escludono l’idea stessa di questi nessi e di questi complessi. La loro azione non può esser che immediata. [18]

      

    Soffermiamoci ora su una tesi di genere differente da quelle suesposte, basata sulla storia anziché sull’etnologia, e che ha per proponente il tedesco Rudolf Otto, storico delle religioni e teologo (nonché primo esponente della corrente interpretativa che va sotto il nome di emozionalismo), il quale, col saggio Il sacro, del 1917, ha teorizzato l’essenza della sacralità, in tutte le sue forme,  in ciò che ha chiamato il sentimento del “numinoso” (ovvero di un misterioso “totalmente altro”), cercando di confermarlo anche attraverso l’analisi semantica di vari termini corrispondenti a quello di “sacro” nelle varie culture (il sacer dei romani, lo haghios dei greci, il qadosh degli ebrei). Il numinoso, secondo Otto, si caratterizza per una serie di ambivalenze; infatti esso è ciò che incute paura e nello stesso tempo venerazione, repulsione, fascino, attrazione. Attraverso esso l’uomo entra direttamente in rapporto con la divinità mediante l’atto cultuale, che non è altro che il mito tradotto in azione, dove il discorso mitico, traducendosi in culto, mette l’uomo in relazione diretta con Dio. Prendendo le distanze da ogni interpretazione scientifica o allegorico-filosofica del sacro Otto vuole accentuarne l’aspetto emozionale, rivelativo ed esistenziale, come esperienza diretta del divino ed in quanto tale assolutamente veritativa ed autentica proprio in virtù della sua sua totale irrazionalità.  

    La tesi di Otto (da un punto di vista cristiano) viene ripresa e radicalizzata dall’antropologo e filosofo rumeno Mircea Eliade (da un punto di vista mistico che giudica il monoteismo giudeo-cristiano pervertitore dell’autentica religione naturale). Alla base di tutta la sua speculazione sulla sacralità e sulla religiosità primitiva sta il saggio Il mito dell’eterno ritorno del 1945 (più tardi ripreso e affinato ne Il sacro e il profano del 1965) , dove vengono posti due concetti basilari: quello di “archetipo” mitico, come modello trascendentale ed originario di “creazione del mondo”, e quello di “ierofania”, come rivelazione veritativa ed estatica della divinità. L’archetipo è tutt’uno con l’estrinsecazione del mito, il quale dà luogo ad un culto ripetitivo (per lo più annuale) che segna l’azzeramento del passato e la rinascita del presente, come rivitalizzazione del cosmo, della comunità di appartenenza (il centro del mondo) e dell’“essere” autentico (che proprio nel “sacro” si rivelerebbe e non già nella precarietà insostanziale del mondo fenomenico). La sacralità primitiva (e autentica, secondo Eliade) prescinde dalla storia, ovvero dal divenire storico, e si appoggia al mito quale ripetizione e realizzazione dell’autentico reale antropico (l’uomo è autenticamente tale soltanto come homo religiosus). Come atei possiamo non condividere le tesi di Eliade, ma non ne possiamo disconoscere originalità e importanza culturale. Leggiamone perciò almeno un passo:

 

   Il carattere anistorico della memoria popolare, l’impotenza della memoria collettiva a conservare gli avvenimenti e le individualità storiche, se non nella misura in cui essa le trasforma in archetipi, cioè nella misura in cui essa annulla tutte le loro particolarità “storiche” e “personali”, pongono una serie di nuovi problemi che siamo costretti per ora a tralasciare. Ma abbiamo fin da ora il diritto di domandarci se l’importanza degli archetipi per la coscienza dell’uomo arcaico e l’incapacità per la memoria popolare di conservare cose diverse dagli archetipi, ci rivelino qualche cosa di più della resistenza della spiritualità tradizionale nei confronti della storia; a meno che questa incapacità non ci riveli la caducità o in ogni caso il carattere secondario dell’individualità umana in quanto tale, individualità la cui spontaneità creatrice [mitizzante] costituisce, in ultima analisi, l’autenticità e l’irreversibilità della storia. [19]        

 

Con l’incipit della premessa alla vasta e complessa Storia delle credenze e delle idee religiose Eliade ci conferma il suo punto di vista in maniera esemplare:

 

    Per lo storico delle religioni ogni manifestazione del sacro è importante; ogni rito, ogni mito, ogni credenza, ogni figura divina riflette l’esperienza del sacro, e di conseguenza implica le nozioni di essere, di significato, di verità. «È difficile immaginare – facevo già notare in altra occasione - come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato» (La Nostalgie des Origines, 1969, p.7 e ss.). Il “sacro” è insomma un elemento nella struttura della coscienza, e non è uno stadio nella storia della coscienza stessa. Ai livelli più arcaici di cultura vivere da essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro hanno valore sacrale. In altre parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere “religioso” (ibidem p.9). [20]

 

 

    Cambiamo ora completamente registro introducendo Emile Durkheim, il fondatore della scuola sociologica francese. In Le forme elementari della vita religiosa del 1912 egli dichiara innanzi tutto che le religioni primitive sono le più adeguate a fornirci gli elementi autentici e non corrotti della religiosità in generale:

 

    Se prendiamo dunque in esame le religioni primitive, non è con il fine recondito di disprezzare la religione in generale: infatti quelle religioni non sono meno rispettabili delle altre: esse rispondono alle stesse necessità, assolvono la stessa funzione, dipendono dalle stesse cause; e perciò possono anch’esse manifestare la natura della vita religiosa e, di conseguenza, risolvere il problema che vogliamo trattare. [21]

 

L’autore passa poi ad esporre preliminarmente la sua tesi, la cui dimostrazione sarà oggetto delle quasi cinquecento pagine successive: 

 

    La conclusione generale di questo libro è che la religione è cosa eminentemente sociale. Le rappresentazioni religiose costituiscono rappresentazioni collettive che esprimono realtà collettive; i riti costituiscono modi di agire che sorgono in mezzo a gruppi costituiti e sono destinati a suscitare, a mantenere e a riprodurre certi stati mentali di questi gruppi.  [22] 

 

E giunge alla definizione della fondamentale dicotomia che regola la vita sociale dell’uomo arcaico: 

 

    Tutte le credenze religiose conosciute, siano esse semplici o complesse, hanno uno stesso carattere comune: esse presuppongono una classificazione delle cose reali o ideali che si rappresentano gli uomini, in due classi o in due generi opposti, definiti generalmente con due termini distinti – tradotti abbastanza bene dalle designazioni di “profano” e di “sacro”.  La divisione del mondo in due domini, che comprendono l’uno tutto ciò che è sacro e l’altro tutto ciò che è profano, è il carattere distintivo del pensiero religioso. [23]

 

Durkheim (che era verosimilmente ateo) esamina poi le principali teorie sul sacro, le concezioni sulla religione elementare, le credenze, le nozioni di anima, spiriti e dèi, gli atteggiamenti rituali e le loro varie forme per giungere a una definizione funzionale della religione in generale:

                                                                                                                                               

[..] la vera funzione della religione non è quella di farci pensare, di arricchire la nostra conoscenza, di aggiungere alle rappresentazioni che dobbiamo alla scienza altre rappresentazioni di diversa origine e di diverso carattere, ma è quella di farci agire e di aiutarci a vivere. Il fedele che ha comunicato col suo dio non è soltanto un uomo che vede verità nuove, ignorate dal non-credente; egli è un uomo che “può” di più. Egli sente in sé una forza maggiore per sopportare le difficoltà dell’esistenza e per vincerle. Egli è sollevato al di sopra della miseria umana, perché è sollevato al di sopra della sua condizione di uomo; si crede salvo dal male, sotto qualsiasi forma concepisca il male. [24]  

 

Ma questa funzione, o per dir meglio questa finalità, è in conclusione quella di conferire un “ordine” al mondo in una “totalità” compiuta, in cui ogni elemento della realtà abbia la sua giusta collocazione a prescindere dalle proprie percezioni individuali. E ciò significa anche esorcizzare la complessità attraverso una sua riduzione allo schematico, rendendo un quadro semplice e chiaro della realtà del cosmo [25]. Infatti: 

 

[…] le regolarità che posso percepire nel modo in cui le mie sensazioni si succedono possono ben aver valore per me; esse spiegano come, essendomi dato l’antecedente di una coppia  di fenomeni di cui ho sperimentato la sostanza, io tenda ad aspettarmi il conseguente. Ma questo stato di attesa personale non può esser confuso con la concezione di un ordine universale di successione, che si impone alla totalità degli spiriti e degli avvenimenti.

    Poiché il mondo espresso dal sistema totale dei concetti è quello che si rappresenta la società, soltanto la società può fornirci le nozioni più generali secondo cui esso deve venir rappresentato. Soltanto un soggetto che comprenda tutti i soggetti particolari è capace di abbracciare un tale oggetto. Poiché l’universo esiste in quanto è pensato, ed è pensato totalmente soltanto dalla società, esso prende posto in questa; diventa un elemento della sua vita interiore, e così anch’essa diviene il genere totale al di fuori del quale il nulla esiste. Il concetto di totalità non è che una forma astratta del concetto di società: essa è il tutto che comprende tutte le cose, la classe suprema che comprende tutte le altre classi. [26]

 

Questa totalità-unità onnicomprensiva espressa dalla società, ma trasfigurata e fissata nella sacralità, è ciò che garantisce e protegge, che tranquillizza e rassicura la psiche dei singoli. Alla società umana, che con la sua immanenza e contingenza non possiede i requisiti per imporre una concezione del mondo autorevole, si sostituisce la divinità della trascendenza, non così mutevole e non così soggetta agli arbitri dei singoli uomini o dei gruppi di potere. La religione non è allora un’inutile sovrastruttura sociale, come qualcuno ha potuto pensare, bensì un’utilissima costruzione mentale istituzionalizzata, nella quale l’individuo si può riconoscere fuori dalle contingenze spaziali o temporali. È per questa ragione che le religioni, tutte, indipendentemente dalle differenze, escludono dai loro orizzonti il caso, il caos e la pluralità delle cause.  

 

    Claude Lévi-Strauss  introduce nell’ambito degli studi etnologici ed antropologici l’interpretazione strutturalistica, sulle orme di quanto aveva fatto Jakobson nella linguistica. In realtà le sue ascendenze culturali sono assai varie e a tal proposito si possono ricordare, oltre a quello del linguista russo-americano, almeno i nomi di Durkheim, di Mauss e di Boas.  Il criterio di partenza è quello di assumere il mondo arcaico come modello ideale, per rinvenire le strutture antropologiche costanti e invarianti che si nascondono sotto le variabili fenomenologiche e storiche. Da ciò la sua opposizione ad ogni interpretazione evoluzionistica e storicistica della religione.  A cavallo tra le generalizzazioni di Durkheim e le particolarizzazioni di Boas la lettura strutturalista di Lévi-Strauss non cerca gli “aspetti”, bensì le “relazioni” strutturali che li determinano. Le azioni del primitivo non sono mai casuali o slegate, ma sempre organizzate in una struttura di rapporti a carattere sistemico:

 

[…] la struttura è sempre sostenuta da un asse (che per comodità immaginiamo verticale) che unisce il generale allo speciale, l’astratto al concreto: ma indipendentemente dalla direzione in cui ciò avviene, l’intenzione classificatrice può sempre arrivare fino al limite estremo. [27]

 

Le esigenze antropiche si estrinsecano in aspetti esistenziali molteplici e tutti essenziali, come le cosiddette “sovranature”, iper-mediazioni tra l’immanente e il trascendente, tra le quali emergono la magia e la religione:

 

 

[…] Poiché, se in un certo senso si può dire che la religione consiste in una umanizzazione delle leggi naturali e la magia in una naturalizzazione delle azioni umane – ossia nel considerare certe azioni umane come se fossero parte integrante del determinismo fisico – non si tratta però, in questo caso, dei termini di un’alternativa o delle tappe di un’evoluzione. L’antropomorfismo della natura (in cui consiste la religione) e il fisiomorfismo dell’uomo (mediante cui definiamo la magia) costituiscono due componenti sempre date, di cui vediamo soltanto le proporzioni. Come abbiamo già osservato prima, ognuna implica l’altra. Non esiste religione senza magia, come non esiste magia che non contenga almeno un briciolo di religione. La nozione di una sopranatura esiste solo per un’umanità che attribuisce a se stessa poteri soprannaturali e che conferisce a sua volta alla natura i poteri della sua superumanità. [28] 

 

 

    Dallo strutturalismo spostiamoci al funzionalismo. Bronislav Malinowski, etnologo inglese di origine polacca, in Magia, scienza e religione del 1925 considera il fatto religioso come una risposta “funzionale” all’esigenza psichica fondamentale (già evidenziata peraltro da Durkheim) di esorcizzare le paure e le ansie generate da situazioni di stress esistenziale. Tutta la speculazione di Malinowski consiste nell’evitare ogni generalizzazione e nel riconoscere nel comportamento del primitivo gli analoghi del comportamento dell’uomo moderno, non tanto sotto il profilo cognitivo (come pensavano Tylor e Frazer) quanto sotto quello pragmatico-funzionale, nel senso che l’obbiettivo principale di ogni comportamento umano è “sempre” quello di risolvere qualche problema esistenziale. In altre parole, il primitivo riflette sulla realtà e mette in opera attività magiche, religiose o proto-tecnologiche a seconda del problema che deve affrontare. Così come, sempre secondo Malinowski, non è affatto vero che nel mondo arcaico sia completamente assente la dimensione privata ed individuale (nonché una certa differenza nell’intensità delle credenze e nei comportamenti socio-cultuali) poiché in alcune sfere operative l’individuo può agire in modo discrezionale e arbitrario.

    Un punto-chiave dell’analisi di Malinowski è la netta distinzione che viene operata tra magia e religione:

 

[…] Mentre nell’atto magico l’idea e l’obbiettivo sottostanti sono sempre chiari, espliciti e precisi, nella cerimonia religiosa non vi è un proposito diretto verso un evento successivo. È solo possibile per il sociologo stabilire la funzione, la raison d’être sociologica dell’atto. L’indigeno può sempre spiegare il fine di un rito magico, ma di una cerimonia religiosa dirà che si fa perché questa è l’usanza o perché così è stabilito, o narrerà un mito esplicativo. [29]

 

D’altra parte:

 

    Dobbiamo renderci conto che nelle condizioni primitive la tradizione è di sommo valore per la comunità e niente importa tanto quanto il conformismo e il conservatorismo dei suoi membri. L’ordine e la civiltà possono esser mantenuti solo mediante una stretta adesione all’insieme delle tradizioni e delle conoscenze ricevute dalle generazioni precedenti. 

 

   

    Chiudiamo con la scuola storicistica (Pettazzoni, De Martino, Brelich) questa nostra sommaria e parziale esemplificazione di punti di vista sulla religione primaria, se non altro perché l’indirizzo storicistico rappresenta una specificità italiana che vale la pena di evidenziare.  Raffaele Pettazzoni è stato il primo studioso italiano ad occupare una cattedra di storia delle religioni, una disciplina che nell’Italia di inizio ‘900 era considerata tabù, per i rischi comparativi che poteva indurre col cristianesimo. Il suo approccio è fortemente influenzato dallo storicismo idealistico e per questa ragione esso nasce con intenzioni correttive rispetto alle posizioni positivistiche ed evoluzionistiche. Sono particolarmente importanti i suoi studi sull’ “Essere supremo”, che viene visto non nella sua generalità, ma come il frutto di specifiche situazioni storiche ed inoltre con caratteristiche da esse dipendenti, pur appartenendo invariabilmente alla categoria degli dèi uranici [30]. L’appartenenza al cielo è infatti un dato naturistico fondamentale e primario, in quanto al cielo sono legati i più importanti fenomeni della natura a base della sopravvivenza dell’uomo e delle sue più importanti emozioni. Il sole e la pioggia, il tuono e il fulmine, la luna e le stelle, il vento e la neve, ecc. costituiscono accadimenti ed aspetti del mondo che sono fondamentali nella vita dell’uomo, sia per quanto riguarda gli aspetti materiali dell’esistenza sia per quanto riguarda la sfera affettivo-emozionale.

    Ernesto De Martino pur partendo, come Pettazzoni, dalle posizioni dello storicismo idealistico lo piegò a una visione antropologica molto personale e complessa, coniugandolo sia con un certo emozionalismo solidaristico di ascendenza marxiana sia coll’esistenzialismo di Heidegger. Secondo De Martino l’uomo che vive nel mondo dominato dalla magia è protagonista di un perpetuo dramma storico, dove si trova sempre sul filo del rasoio della perdita di sé e della sua riconquista. Lo sciamano, che attraverso la trance si mette in contatto con lo spirito per conto della comunità e mette in gioco se stesso, è una sorta di “Cristo magico”, che si offre come vittima per la salvezza degli altri. Leggiamo un passo significativo de Il mondo magico:

 

    L’analisi delle tecniche magiche per produrre la condizione di trance sembra dunque porre come fine l’indebolimento e l’attenuazione dell’esserci, la dissoluzione della coscienza come presenza. Ma si tratta solo di un’apparenza, di un inganno dell’astrazione propria della nostra analisi. Ancora una volta, il rischio a cui si espone il “ci sono” non è che un momento del dramma esistenziale magico: l’altro momento è il riscatto dell’esserci, il porsi della presenza, l’articolazione di un mondo significativo a cui si è presenti. Se è vero che le tecniche analizzate sono volte a combattere in varia guisa l’oltre che condiziona la presenza, è anche vero che queste tecniche sono semplicemente un mezzo per entrare in rapporto col rischio della propria angosciosa labilità, per ordinare e plasmare il caos psichico insorgente, per leggere in questo caos le forme o figure di “spiriti”, per evocare questi spiriti padroneggiandoli, per entrare nel mondo con questi spiriti, iniziando con essi un’attività storica definita, culturalmente significativa, socialmente vantaggiosa. [31] 

 

Dunque lo stregone, evocando la divinità, conduce un gioco in cui rischia di perdere tutto e nello stesso di guadagnare tutto a favore della comunità. La sua è un’operazione sostanzialmente caotica assai rischiosa, ma il premio è far emergere il “sacro” che porta l’ordine. Quando il “profano” invade col suo disordine e la sua casualità il mondo ogni uomo rischia di perdere la sua anima, ma lo stregone mette in atto la sua operazione salvifica e insieme con le anime di coloro che avvertono il rischio e a lui ricorrono recupera il mondo:

 

    Necessariamente connesso al rischio magico di perdere l’anima sta l’altro rischio magico di perdere il mondo. Correlativamente alla rappresentazione e all’esperienza di un’anima che fugge dalla sua sede, che è insidiata, vulnerata, sottratta, rubata e simili, sta la rappresentazione e l’esperienza di oggetti che vanno oltre il loro orizzonte sensibile, che si sottraggono ai loro limiti, e che precipitano nel caos. Quando un certo orizzonte sensibile entra in crisi, il rischio è infatti costituito dal franamento di ogni limite: tutto può diventare tutto, che è quanto dire: il nulla avanza. Ma la magia, per un verso segnalatrice del rischio, interviene al tempo stesso ad arrestare il caos insorgente, riscattarlo in un ordine. [32]

 

La prospettiva religiosa dell’uomo arcaico è la stessa della religiosità di tutti i tempi. La sua finalità, a dispetto dell’elementarità degli strumenti, è ancora sempre quella di restaurare un ordine cosmico ed esistenziale, il quale rischia sempre di venir compromesso dal flusso anarchico della contingenza. Ma nel mondo magico di De Martino, dove domina la magia e la religione non è ancora istituzione, non “una volta per tutte” ma “ogni volta” il Cristo magico deve salvare il suo popolo. 

 

    Per quanto riguarda Angelo Brelich, riporteremo il suo punto di vista sulla credenza religiosa e sul mito. Relativamente alla credenza egli osserva:

 

  […] Dal punto di vista storico è irrilevante se una credenza sia ‘giusta’ o ‘sbagliata’; anche se noi riteniamo che una determinata religione sia quella ‘giusta’ e le altre erronee, restiamo sempre davanti al compito storico di spiegare come in una civiltà si sia costituita o diffusa la ‘giusta’ religione, e come nelle altre – e in ciascuna differenti – religioni ‘false’; a questa questione storica non risponde – dal punto di vista scientifico – neppure la tesi della ‘rivelazione’, perché rimarrebbe sempre da chiedersi perché la rivelazione sia stata accolta da una parte dell’umanità e non da altre parti di essa. La ragion d’essere di una credenza, inoltre, non può essere psicologica, se noi consideriamo la psicologia come una scienza naturale valida per tutta la specie umana; se, infatti, le credenze si spiegassero con le leggi della psiche umana, tutta l’umanità avrebbe le stesse credenze. Ciò che crea le differenze tra le singole civiltà, è la loro storia; perciò anche la diversità delle credenze ha ragioni storiche [33].

 

Coerentemente con le premesse già poste da Pettazzoni, Brelich ribadisce che solo l’approccio storicistico rende ragione delle differenze tra le varie credenze. Il ché significa che la specificità di ogni religione resta un unicum, difficilmente interpretabile con categorie di carattere extra-storico. Per quanto riguarda il mito egli osserva:

 

[…] Una definizione cronologica del tempo del mito può variare da milioni di anni (come in certe civiltà ‘superiori’ orientali) a poche generazioni fa (per es. ‘prima dell’arrivo dei bianchi’, presso molti popoli coloniali), sebbene la forma più diffusa di questa definizione sia il vago ‘molto tempo fa’ […] Ogni mito narra di un evento (o di una serie di eventi, in ‘cicli’ mitici) che si sarebbe verificato in quel tempo diverso, per opera di personaggi diversi da quelli attuali, in seguito al quale qualcosa che prima non c’era stato avrebbe preso origine o qualcosa che prima era stato diverso sarebbe diventato come è attualmente. […] La mitologia di un popolo non consiste semplicemente in un certo numero di miti messi l’uno accanto all’altro, ma costituisce un insieme organico, di modo che normalmente è difficile o impossibile capire un mito isolato, senza conoscere l’intera mitologia in cui è inserito [34].

 

Le mitologie quindi, fondamento di tutte le religioni (anche di quelle che chiamano le proprie: “storia sacra”), non sono un mero insieme di racconti, ma piuttosto dei “sistemi” ideologico-narrativi che dicono sempre molto più di quanto raccontino, visto che riescono sempre a determinare la credenza nei loro elementi fondamentali, accompagnandoli spesso con elementi di netta “cogenza”. Brelich infatti precisa:

 

[…] i miti fondano le cose che non solo sono come sono, ma devono essere come sono, perché così sono diventate in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso; il mito rende accettabile ciò che è necessario accettare […] e assicura stabilità alle istituzioni; provvede inoltre a modelli di comportamento […]. Il mito dunque, non spiega, per un bisogno intellettuale, le cose […] ma le fonda, conferendo loro valore [35].

 

E il valore, all’interno di un sistema di riferimenti univoci, dove il bene e il male, diventano delle realtà definite e fissate una volta per tutte, può considerarsi veramente l’elemento dirimente e caratterizzante di ogni religione. Si tratta di un organismo sistemico che il mito crea attraverso una narrazione rigorosamente “orientata” e definita, che mantiene il suo valore e le sue implicite promesse a condizione di non venire mai alterata nei suoi fondamenti. 

 

 

 

                                   

      1.2 La religiosità delle culture arcaiche (e l’impossibilità dell’ateismo).

 

    Essendo il tema del presente saggio l’ateismo, ci si potrà chiedere quale pertinenza con esso abbia il tema di questo paragrafo; infatti, se è vero che ogni credenza religiosa ha la sua miscredenza, nelle società arcaiche la miscredenza non solo non è tollerata e rigorosamente proibita, ma praticamente impossibile per la natura del tipo stesso di contesto culturale. Infatti, se il soggetto vuole continuare a rimanere “integrato” nel corpo sociale (e non rischiare la “morte civile”) non ha altra scelta (ammettendo che egli si ponga il problema) che “credere” alle verità che la società gli inculca e gli impone fin dalla nascita. L’ateismo, d’altra parte, in quanto contestazione su base razionalistica di una credenza irrazionale, può sorgere soltanto in una società dove la ragione (o almeno la facoltà che noi identifichiamo con questo nome) abbia diritto all’esistenza e al suo esercizio, che deve essere virtualmente esteso anche a tutto ciò che riguarda la religione. Ma nelle culture arcaiche, dove tutto viene stabilito dallo “schema” del mito e dalle regole che esso impone, si può dire semplicemente (senza tema di apparire paradossali) che la ragione, relativamente a ciò che è veramente importante e fondamentale, “non serve assolutamente a nulla”. Le capacità intellettuali del singolo individuo si esercitano esclusivamente nella memorizzazione del sistema e delle regole di vita che esso comporta e nella loro applicazione secondo schemi esistenziali prefissati e condivisi. Infatti, il sistema mitico risolve a priori tutti i problemi esistenziali possibili ed immaginabili, in quanto fornisce già tutte le risposte metafisiche ed esistenziali che il fedele può esigere (il ché, peraltro, si verifica anche nei contesti pervasi e dominati da religioni fortemente ideologiche come i monoteismi abramitici). Il soggetto non necessita (e per alcuni versi non deve) porsi domande e formulare problemi di carattere metafisico, in quanto essi rappresentano un’attività mentale del tutto oziosa, se non molto pericolosa e disgregante per l’individuo stesso, prima ancora che turbativa per la comunità di cui fa parte.

    Con la premessa di cui sopra, apparentemente, l’ateismo non c’entrerebbe allora nulla con le religioni arcaiche! Se non ché la mentalità arcaica (che noi riscontriamo ancora “oggi” in poche comunità superstiti) rappresenta verosimilmente uno stadio che in un più o meno lontano “ieri”  tutti i gruppi umani (a tutte le latitudini, quote e contesti ambientali) devono aver attraversato. Il discrimine si pone infatti esclusivamente tra i gruppi umani che in quel modo di vivere hanno trovato il loro miglior modo di stare insieme nel mondo e quelli che invece non hanno ritenuto utile o soddisfacente quel sistema e ne hanno cercato un altro in cui il pensiero filosofico e quello scientifico hanno potuto, in seguito, totalmente dissociarsi da quello religioso. Rimane tuttavia il fatto che le società arcaiche (giuste le premesse teoriche di Durkheim), molto meglio di quelle avanzate, ci permettono di capire “come è fatto l’uomo” nella sua struttura mentale più fondamentale ed autentica. Una struttura mentale in cui prevale l’elemento psichico a scapito di quello razionale e dove la psiche (come vedremo oltre) “pretende” in modo cogente e ineludibile la conservazione della sua omeostasi [36]. Questa è d’altra parte facilmente ottenibile attraverso concezioni del mondo e dell’esistenza che garantiscano uno scenario cosmologico chiaro, prefissato e ordinato insieme a concezioni biologiche garantite dal mito, a un ordinamento cultuale fisso, a un’etica precettistica definita e inviolabile. E tutti questi elementi determinanti si basano quasi esclusivamente su una concezione del mondo basata sulla fantasia, che conferisce realtà (talvolta con esiti di grande poesia) ad un mondo perlopiù illusorio [37].

    A differenza delle società antiche (che esamineremo nel paragrafo seguente) quelle arcaiche sono caratterizzate da visioni del mondo unitarie, “fisse” e perlopiù “statiche”, basate su miti, culti e rituali ancorati a una religiosità cogente e totalizzante in termini ontologici, dove la visione del mondo (che è anche ciclica ricreazione e rinascita del mondo) impone una replicazione puntuale e rigorosa di rituali ed usanze.  Mentre nelle società antiche il mito ha rappresentato la fase iniziale di una religiosità che potremmo definire in un certo senso “contingente” e relativizzata ad una fase antropologica “di passaggio”, in quelle che abbiamo definito arcaiche il mito non rappresenta mai una fase di passaggio, ma la immutabile e ripetitiva base di rifondazione della comunità stessa nel suo stesso “essere”, che è pertanto sempre definitivo e ritualmente ripetuto a scadenze fisse e secondo modalità immutabili. In altre parole, mentre la religiosità antica è stata un fenomeno “storico” e quindi evolutosi in forme diverse (perlopiù monoteistiche), più o meno tolleranti del pensiero scientifico e di una filosofia irreligiosa, quella arcaica resta (secondo la definizione di Mircea Eliade) “anistorica” e quindi totalmente immobilistica.  Per questa ragione il “mondo” arcaico, come realtà contestuale e sociale, può soltanto essere di volta in volta ripristinato, ma mai mutato. Alla scadenza dell’anno solare, molto spesso in corrispondenza dei solstizi, il cosmo primitivo muore e rinasce attraverso i rituali che evocano la sua nascita, il sorgere della vita, del gruppo sociale e delle sue istituzioni. In questo modo non soltanto il mondo arcaico rende impossibile l’avvento dell’incredulità nelle divinità istituite, ma rende impossibile anche qualsiasi forma di mutamento della weltanschauung acquisita, che è stata istituzionalizzata e ritualizzata in modo definitivo.

    Da un punto di vista che potremmo definire criticamente “ateo-individualistico” per noi è pertanto legittimo ritenere che soltanto le società “aperte” siano antropologicamente auspicabili, ma se noi adottassimo invece un punto di vista opposto, vale a dire quello che non privilegia la specificità del singolo (nella sua libertà di realizzarsi individualmente) ma il gruppo sociale in cui l’individuo stesso (non perseguendo la propria “individualità” bensì la sua “appartenenza” a una totalità) cerca stabilità, unità, omogeneità e coesione, allora il nostro punto di vista può venire ribaltato. In tale concezione diventa infatti auspicabile non già una società culturalmente pluralistica e libera, ma piuttosto una società “stabile”, ovvero rigorosamente ancorata e stabilizzata nella tradizione, chiusa pertanto ad ogni novità perturbativa dell’insieme sociale, e nello stesso tempo protettiva di ogni singolo soggetto che lo costituisca e che in esso si riconosca e si identifichi. L’identità personale di un soggetto arcaico (ma anche di un moderno soggetto con tendenze filo-arcaiche) non è già garantita dalla libertà ideale e culturale,  che consente una libera realizzazione delle singole individualità nella loro specificità antropica, ma piuttosto da una identità globale, solida e immobile, nella quale riconoscersi e fondersi. Che poi tale identità globale si realizzi nella staticità dei rapporti sociali e nella monoliticità della cultura e che ciò conduca all’immobilità, al conformismo e ad una relativa arretratezza rispetto a società più dinamiche e libere, rappresenta un problema soltanto per chi “estraneamente” non consideri tutto ciò come il massimo valore antropologico da realizzare.  Poiché, come è stato ben messo in luce da Durkheim, se la monoliticità e la coesione sociale rappresentano il valore supremo da perseguire è evidente che tutto ciò che vi si oppone o la mette in discussione deve essere considerato un disvalore.  

    La “divinità” nelle culture arcaiche, sotto qualsiasi forma e organizzazione si presenti, è pertanto l’unico elemento culturale che, identificato colla socialità, ne diventa pilastro portante. Infatti esso si pone ad un livello ontologico super-umano, intoccabile e immutabile, che mai nessun uomo potrà permettersi di disconoscere o di mettere in discussione, e su questo si fonda infatti la solidità, la coesione e (in molti casi) la perpetuità dell’identità di un gruppo umano sempre uguale a se stesso, anche se cambia il numero e la tipologia dei suoi membri.

    Nei contesti arcaici l’ateismo non è possibile perché nessuna forma di divinità ivi presente è assoggettabile a negazione e quindi la divinità arcaica non può diventare oggetto dell “a” privativo che precede “teismo”. E d’altra parte essa costituisce il paradigma ideale di ogni condizione umana in cui l’ateismo non è stato possibile e in cui la libertà metafisica che esso determina è totalmente fuori di ogni possibile orizzonte presente e futuro. In termini antropologici, le società arcaiche (in quanto custodi di una forma immutabile di religione assoluta) oltre che pre-filosofiche e pre-scientifiche devono anche ritenersi “pre-atee”, in quanto l’ateismo costituisce un orizzonte antropico possibile soltanto dove gli venga lasciato spazio di nascere, sussistere ed esprimersi esercitando eventualmente la sua critica e la sua opposizione concettuale. Come è potuto allora succedere che il Cristianesimo, che con ogni evidenza è la religione che più ha reso possibile (o tollerato) un pensiero filosofico e un pensiero scientifico abbia potuto covarsi “la serpe in seno” dell’ateismo?  Ne accenneremo nel secondo patragrearo del IV capitolo. 

 

 

 

 

 

                      1.3 Genitori divini per un “appartenenza”.

 

    Tra le evidenze antropologiche ve n’è una che emerge su tutte le altre: ciò che la psiche umana riesce più difficilmente a sopportare è l’isolamento e l’emarginazione sociale ed è indubitabile che la religione costituisca (col suo riferimento ad un entità trascendente comune a tutti) un formidabile sistema di aggregazione e per ciò stesso di “legame” e quindi di “dipendenza” dalla divinità [38]. Da ciò la tendenza ineluttabile di ogni individuo a cercare in qualche modo di “appartenere” a una “famiglia” ideale all’infuori dei vincoli parentali, che determini e protegga una solida identità attraverso l’autorità di un capobranco reale o immaginario di carattere extra biologico. La società, come totalità statuale (Hegel), come comunità sacrale (Durkheim) o come sacralità socializzata (Eliade) è la “casa” in cui il singolo individuo può trovare chiarezza ideologica, precettistica definita e omeostasi psichica quasi garantita. L’individualità, la specificità, la irriducibilità del soggetto alla totalità sociale, in termini antropologici, costituiscono sempre delle inopportune derive cariche di rischi. La religione ha sempre svolto un ruolo primario nel creare, determinare e conservare la tranquilla, sicura e tonificante “dimora” ontologico-metafisica che accoglie e protegge l’individuo. Si scopre in ciò il ruolo fondamentale che l’ipostasi della divinità, che è sempre protettrice “di tutti”, consegue nella società organizzata, andando oltre la arbitraria magia “di qualcuno”.

    Come ha giustamente osservato Mauss (e prima di lui Durkheim) mentre la religione è un fatto sociale la magia è un fatto eminentemente privato, al limite persino antireligioso e ciò viene percepito con grande evidenza nelle più moderne religioni ideologiche e istituzionalizzate [39]. Ma se la religione è fondamentale per determinare la totalità (la “casa”) dove può rifugiarsi la singolarità che cerca “appartenenza” nelle diverse epoche, al comando di questa casa non vi è stato sempre un'unica categoria tipo di “entità supreme” e protettrici, e la storia e l’archeologia ci riservano sotto questo aspetto interessanti sorprese. Non vogliamo qui insistere sugli aspetti della divinità presenti nelle società arcaiche, le quali, tutto sommato (pur possedendo come contesti testimoniali un elevato valore antropologico ed etnologico) hanno oggi una sostanziale irrilevanza sociale, ma prendere in considerazione le moltitudini approdate a forme di sostanziale monoteismo, sia che la divinità designata si chiami Shiva, Jahvé, Dio, Allah o altro. È quindi sugli “esseri supremi” dell’antichità, immediati precursori del “dio unico” (più tardi affermatosi), che  ci soffermeremo in questo paragrafo.

    Proseguendo nella nostra indagine-confronto tra storia sacra e mito ci imbattiamo in una questione collaterale, ma non priva di significato per l’argomento che stiamo qui trattando: quella del sesso della divinità e della sua collocazione o identificazione. Una questione piuttosto interessante questa, che riguarda la natura e le caratteristiche delle figure mitico-religiose, poiché ne mette in evidenza gli aspetti ideologici, e quindi specificamente “artificiali”, rispetto a una certa “naturalità” politeistica come era quella espressa dal paganesimo greco-romano. Le figure divine al vertice del potere (o quintessenza unica di esso) sono sempre anche quelle che giudicano, che puniscono o che gratificano; una sorta di padri-padroni siti generalmente nel cielo, dispensatori di grazie o di punizioni meteoriche, adorati, blanditi e temuti.

    L’affermarsi dell’androcrazia divina è stato un fenomeno così netto, a partire da un certo momento della storia umana, che in molte religioni la casta sacerdotale e quella regale hanno finito per determinarsi come esclusivamente maschili. Ma non sembra esser stato sempre così. Se nei tempi storici, quelli posteriori alla comparsa della scrittura, è indubitabile che la divinità sia per lo più al maschile, vi sono alcune buone ragioni archeologiche per ritenere che, in epoca preistorica e per periodi abbastanza lunghi, la Grande Madre (o Grande Dea) fosse stata la divinità di riferimento per l’intera area mediterranea fino al Nord Europa e alla Siberia. Le statuette cosidette “stereatopigie” (dai fianchi larghi) sono state rinvenute in un areale vastissimo e ormai se ne contano nei musei diverse migliaia, a testimonianza di un culto che verosimilmente era assai lontano dalla “personalizzazione” degli dei olimpici, ma ancor più da quella estrema dell’onnipotente Jahvé semitico (ereditato poi da Cristianesimo e Islam), di una vendicatività e di una violenza che sembrano essere prerogative esclusive della più spiccata virilità, e che può dare al suo popolo ordini del seguente tipo:

 

    Quando ti avvicinerai ad una città per assalirla, proponile prima la pace. Se l’accetta e ti apre le porte, tutto il suo popolo ti sia tributario e soggetto. Ma se essa rifiuta la pace e comincia a farti la guerra assediala. Il Signore, Iddio tuo, te la darà nelle mani e allora metti a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e tutto ciò che sarà nella città, tutto quanto il suo bottino, portalo via con te e goditi del bottino dei tuoi nemici, che il Signore, Iddio tuo, ti avrà dato

    Tratta così tutte le città, che sono molto lontane da te e che non appartengono a queste genti. Però nella città di questi popoli, che il Signore, Iddio tuo, ti dà in possesso, non ci lascerai anima viva; ma voterai alla distruzione questi Etei, questi Amorrei, questi Cananei, questi Ferezei, questi Evei e questi Gebusei, come il Signore, Iddio tuo ti ha comandato […] [40]

 

    La questione non è così inessenziale come potrebbe sembrare, e ciò anche ai fini della nostra ricerca sull’ateismo concettuale; poiché, se esso si pone come negatore della divinità in generale, diventa più difficile definirlo nei confronti di una religione che non potrebbe essere altro che un naturalistico e affettivo culto (molti di noi ne hanno uno simile per la “propria” madre) nei confronti di una “grande” Madre, ovvero della natura, genitrice e nutrice di tutto ciò che vive. Le statuette steatopigie, per quello che può valere una considerazione estetica moderna, fanno propriamente pensare alla “terra”, quella pesante, umida e grassa che fa nascere, crescere e fiorire la vegetazione e dissolve i cadaveri per ricreare altra vita. È questa una connotazione della divinità che non possiede alcuna delle caratteristiche del terribile dio celeste, a cui bisogna ubbidire o comunque rendere ragione dei propri atti. Che cosa può avere di temibile e che cosa può pretendere una madre che dà tutto di sé e nulla può chiedere, se non di immergersi nella sua fenomenologia ciclica della vita e della morte, dove tutto si trasforma e si evolve mantenendosi, nella sua essenza materiale, uguale a se stessa? Quale materialista (e quale ateo) potrebbero rifiutare un tale atteggiamento “religioso” ? Una religione di tal genere ci mostra un volto della divinità che non possiede alcuna delle caratteristiche delle religioni ideologiche in seguito affermatesi come dominanti, all’interno delle quali ha potuto svilupparsi quell’incredulità evolventesi in negazione e rifiuto che conduce all’ateismo vero e proprio.

   L’affascinante tesi di un matriarcato preistorico legato al culto della Grande Madre inizia la sua avventura abbastanza di recente, con Johann Jakob Bachofen, il quale, nel 1861, pubblica il famoso saggio che ha dato origine a tutte le tesi sulla prevalenza del “femminile” nel mondo arcaico pre-storico [41]. L’autore, basandosi su una vastissima cultura classica non priva di influenze romantiche, stabilisce, a partire da un analisi della simbologia antica, un modello archetipico al femminile di divinità che sarebbe stato prevalente in epoca remota, trapassando poi nelle tarde figure della protosemitica  Ishtar o dell’ellenica Demetra. Questa tesi del matriarcato primitivo non ha mai trovato conferme scientifiche in campo etnologico (se non molto deboli nelle discendenze matrilineari ancora attuali) e tuttavia ha stimolato la riflessione su di un epoca lontana in cui verosimilmente i gruppi umani non erano dominati dalle logiche di potere che più tardi si sarebbero instaurate quasi ovunque col patriarcato. 

    Va tuttavia detto che in assenza di elementi storici veramente probanti sull’epoca di fioritura di questa religiosità naturalistica sotto il segno del “femminile” gli studiosi non riescono a trovare concordanze sulla cronologia. Il già citato Eliade (e con lui molti altri) fa coincidere l’inizio del periodo centrale del culto della Grande Madre con l’avvento delle attività agricole:  

 

    La prima e forse la più importante conseguenza della scoperta dell’agricoltura, suscita una crisi nei valori dei cacciatori paleolitici: le relazioni d’ordine religioso con il mondo animale sono sostituite da quella che possiamo chiamare solidarietà mistica tra uomo e vegetazione. Sino a quel momento l’essenza e la sacralità della vita erano state rappresentate dall’osso e dal sangue, ora lo saranno dallo sperma e dal sangue. Inoltre, la donna e la sacralità femminile vengono in primo piano. Avendo svolto una parte decisiva nella domesticazione delle piante, le donne divengono proprietarie dei campi coltivati: ciò eleva la loro posizione sociale e crea istituti caratteristici, come per esempio la matrilocazione: l’obbligo per il marito di abitare nella casa della moglie. [42]

 

    Di avviso completamente diverso è Pepe Rodriguez, un serio ricercatore spagnolo contemporaneo che ha dedicato un intero saggio al problema della divinità al femminile, e che ritiene il culto della Grande Madre tipico delle fasi che precedono l’introduzione dell’agricoltura (quelli della “caccia e raccolta” e della piccola orticultura) che segnerebbe invece l’inizio dell’instaurazione del patriarcato. La tesi di partenza è la seguente:

 

[…] Il potere è detenuto realmente da colui o coloro che, indipendentemente dal sesso, hanno il controllo della produzione e della distribuzione degli alimenti, nonché dalla ricchezza derivata dalla loro eccedenza [43].  

 

Rodriguez ritiene che nella fase antropica di “caccia e raccolta” fosse la seconda attività ad assicurare continuità alimentare e che quindi le comunità primitive dipendessero prevalentemente dal lavoro delle donne, e ciò anche nella successiva fase orticola:

 

    Appare ovvio che l’orticultura derivò direttamente dalle osservazioni fatte dalle donne durante le migliaia d’anni in cui lavorarono come raccoglitrici […] e che le donne dovettero esercitare un pieno controllo su quella fondamentale attività fino al momento in cui cambiamenti ambientali e/o l’incremento demografico – che costringevano all’aumento della produzione di alimenti – richiesero una progressiva partecipazione dell’uomo ai lavori agricoli. E la sua prima funzione, data la sua maggior forza muscolare, fu quella di ripulire dalle sterpaglie i futuri terreni di coltivazione per renderli accessibili alle donne, che continuavano ad essere incaricate della raccolta.

    Ma in quelle collettività una norma logica finì per imporsi: maggiore è la dipendenza di una comunità dagli alimenti coltivati, maggiore dovrà essere l’investimento in sforzi, tempo e soggetti da destinare al lavoro per produrli; quanto più aumenta la durezza del lavoro, tanto più appare probabile che tocchi agli uomini finire per assumerlo parzialmente o totalmente [44].

 

Nella tesi di Rodriguez è implicita un'altra considerazione piuttosto interessante: gli uomini sarebbero diventati i maggiori operatori agricoli e i controllori delle risorse alimentari quasi involontariamente, godendo essi, nella fase precedente, di un relativamente scarso coinvolgimento lavorativo, poiché le attività di caccia e di difesa del territorio erano del tutto saltuarie. Infatti:

 

    Con l’introduzione dell’agricoltura non si smise di cacciare né di raccogliere alimenti selvatici, ma la pressione demografica rese più scarse queste ultime risorse e obbligò a dipendere sempre più dai propri raccolti di cereali e leguminose, come pure dal bestiame domestico. Lo sforzo necessario a poter alimentare una comunità in crescita richiese più culture e una maggior produzione, cosicché gli uomini, come già abbiamo detto, dovettero progressivamente lasciarsi alle spalle la comoda esistenza che condussero nella fase orticola e dovettero mettersi ad aiutare le donne nei lavori di coltivazione, anche se alla fine, dopo circa quattro millenni di vita agricola, spinti dalle nuove condizioni sociali e lavorative alle quali si sarebbe giunti, la rimpiazzarono del tutto. [45]

 

Con ciò, secondo Rodriguez, i maschi, avrebbero rimpiazzato le donne nell’attività agricola e nello stesso tempo esse, probabilmente sempre più impegnate ad accudire una numerosa prole, sarebbero state relegate alle attività domestiche (secondo uno scenario diffuso tutt’ora e a tutte le latitudini nelle società pre-tecnologiche). Ad un’iniziale situazione matriarcale (“forse” aggiungiamo noi) sarebbe succeduto il prevalere del maschio quale controllore delle risorse alimentari (e probabilmente della difesa degli accumuli di esse) e da ciò sarebbe dipeso in gran parte l’avvento del successivo patriarcato [46].

    Tuttavia, si “appartiene” alla divinità non soltanto perché consente la vita e il suo mantenimento attraverso le risorse alimentari, ma anche perché (e probabilmente soprattutto) legandosi ad essa ne deriva sicurezza di riferimenti e quindi omeostasi psichica. Dunque: appartenenza “al gruppo” nelle società arcaiche tuttora esistenti, appartenenza “alla terra” con il culto preistorico della Grande Madre, appartenenza “a Dio” nei monoteismi abramitici, e così via. L’uomo, in quanto animale sociale, sembrerebbe tendere nella sua storia a cercare costantemente e pervicacemente “appartenenze” sovra-individuali di qualche sorta. Anche certi gruppi giovanili del nostro tempo si presentano come il rifugio di individualità precarie ed incerte, che cercano una qualche appartenenza; ovvero una qualche integrazione, per formare un “insieme” in cui riconoscersi. Tutte queste realtà vanno indubbiamente riferite al fatto che l’homo sapiens è costitutivamente un mammifero sociale, ma l’approdo della socialità alla “dipendenza” sociale deve essere considerata una deriva legata ad esigenze psichiche che prescindono e superano la socialità in senso stretto e che sconfinano in un “bisogno del sacro” sovra-individuale.

    Questa realtà getta luce sulla millenaria tendenza istintiva dell’uomo a cercare “fuori di sé” la propria ragione di essere e di esistere. È rilevante il fatto che in tutto il mondo primitivo, e ancora oggi in buona parte delle culture asiatiche, l’individualità venga considerata un falso miraggio e molto spesso una colpa imperdonabile. La meta, sia essa il nirvana o la perfezione, presuppone sempre la rinuncia alla propria unicità e la salvifica fusione nella “totalità”. Anche se nell’Occidente industrializzato le esigenze individuali sembrano talvolta prevalere, non possiamo considerarci per nulla esclusi da nuovi sistemi (più o meno ideologici) di “totalizzazione”, che potrebbero garantire nuove appartenenze metafisiche (o semplicemente sovra-individuali) di qualche genere, ma che “funzionerebbero” allo stesso modo di quelle pregresse.

    Sul tema dell’appartenenza, riferito alle popolazioni arcaiche o primitive, gli etnologi si confrontano da tempo e con sostanziali criteri di convergenza, sia pure da angolazioni diverse. Un contributo assai interessante a questo tema ci viene dal già citato De Martino, su cui vogliamo qui tornare per l’aderenza delle sue tesi al problema di cui ci stiamo occupando (la ricerca costante di una salvifica integrazione del singolo nell’identità unitaria e totalizzante del gruppo), colta da lui secondo un’interpretazione che mescola idealismo, marxismo, esistenzialismo e psicanalisi. Per questo autore l’uomo (come si è già visto § 1.1), nella sua fase di appartenenza al primitivo mondo magico legato allo sciamanismo, deve far fronte ad un pericolo esiziale che sta sempre dietro l’angolo: quello di perdere il suo legame culturale/esistenziale col gruppo di appartenenza e con ciò “perdere” la sua anima.  A salvaguardia di tale devastante “crisi della presenza” l’heideggeriano “esserci” assume così una denotazione completamente nuova. Non è più un “essere gettati” nel mondo per costruirsi un esistenza, ma un fuggire dal caos del mondo che mette a repentaglio l’esistenza stessa; ne deriva pertanto un cercare protezione “dal mondo” nella nicchia culturale ed esistenziale di un’appartenenza sociale forte e sicura.

    De Martino rileva che la singolarizzazione individuale, come dato di coscienza della nostra unicità, permea la nostra cultura al punto da diventare un presupposto antropologico. Nelle società arcaiche, però, le cose stanno in modo ben diverso:

 

    Ma nel mondo magico ciò che qui è un presupposto sta ancora come “problema”. Nel mondo magico l’anima può essere perduta nel senso che nella realtà,  nella realtà e nell’esperienza essa non si è ancora data, ma è una fragile presenza che (per esprimerci con un immagine) il mondo rischia di inghiottire e di vanificare. Nel mondo magico l’individuazione non è un fatto, ma un compito storico, e l’esserci una realtà condenda. Di qui un complesso di esperienze e di rappresentazioni, di misure protettive e di pratiche, che esprimono ora il momento del rischio esistenziale magico, ora il riscatto culturale, e che formano, nella loro drammatica polarità, il mondo storico della magia. La propria presenza personale, l’esserci, l’anima, “fugge” dalla sua sede, può essere “rapita”, “rubata”, “mangiata” e simili; è un uccello, una farfalla, un soffio […] [47]

 

Il problema dell’anima viene qui posto come quello dell’individualità all’interno di una totalità e non come ricettacolo di una divinità esterna, infatti è la totalità-unità del gruppo il fulcro della sacralità; un’entità quasi iper-divina. Il mondo magico delineato da De Martino è quindi un mondo iper-divinizzato e coinvolgente che “costruisce” delle individualità integrate nella comunità; con ciò la comunità costituisce una “madre” culturale e sacrale assai più importante e vitale di madre-natura. Si comprende qui come non ci troviamo di fronte a delle “fasi” evolutive dell’homo sapiens, bensì a “sistemi” di individuazione e integrazione completamente differenti da quelli che hanno improntato le antiche società europee. E con ciò abbiamo forse qui colto il problema centrale dell’uomo delle origini, in rapporto al senso della sua esistenza, e insieme il rapporto dialettico tra individualità e totalità nella sua generalità. L’ateismo teorico, all’opposto, si presenta sempre come un tentativo di sottrarre l’uomo al suo annullamento in qualcosa che lo trascenda e quindi il suo obbiettivo non può essere che l’eliminazione del legame con la sacralità totalizzante in qualsiasi forma essa si presenti, dando corso ad un itinerario di libertà (talvolta psichicamente rischioso) che avvia il singolo verso la realizzazione di un’individualità che appartiene a se stessa. In questo senso l’ateismo non è soltanto una negazione di Dio, quanto una negazione di tutto ciò che “totalizza”, “lega” e “annulla” l’individuo in un’insieme che lo trascende. Esso quindi opera il taglio radicale di quel cordone ombelicale che lega spesso l’uomo ad una “appartenenza” metafisica o che gliela fa cercare inconsapevolmente, appena si sente più solo e indifeso, per un retaggio ancestrale di natura psichica.

 

 



[1] A questo nostro punto di vista si contrappone un atteggiamento ateo da cui intendiamo distinguerci, quello che vede come fondamenti di ogni fenomeno religioso intenti mistificatori, “oppiacei” e strumentali ,miranti al potere e al dominio delle coscienze. Interessante espressione recente di tale atteggiamento è la monumentale ed enciclopedica opera di Giovanni Grana (in quattro volumi e per un totale di oltre duemilacinquecento pagine) L’invenzione di Dio (Edizioni SETUP 2000-2002). Grana è, comunque, un colto e attento studioso delle religioni che meriterebbe maggiore attenzione, sia per l’acutezza dell’analisi e sia per la ricchezza dei riferimenti e delle citazioni.

[2] Con cultura “arcaica” intendiamo quella che in passato veniva chiamata, in generale, “primitiva”. I due aggettivi sono praticamente sinonimi, ma il primo ci consente di sottolineare il nostro distacco, ormai diffuso nella ricerca contemporanea, dall’etnocentrismo del passato, quando si usava l’aggettivo “primitivo” spesso per stigmatizzare (talvolta con implicito disprezzo) il selvaggio rozzo, involuto, ignorante  e irrazionale.  Lévi Strauss (il fondatore dell’anropologia strutturale) chiamava queste società arcaiche “fredde” e invece “calde” quelle a tecnologia avanzata, alludendo allo spreco di energie (entropia) espresso da queste rispetto al risparmio di quelle (sia in senso fisico che in senso psichico), con un chiaro apprezzamento per le prime e una certa presa di distanza dalle seconde. Questo atteggiamento, variamente riscontrabile in tutti gli studiosi del ‘900, intendeva contrapporsi all’etnologia sette-ottocentesca, che considerava i soggetti delle cosiddette società “primitive” pigri, neghittosi e incapaci di qualsiasi ragionamento logico-astratto.  In realtà la cultura delle popolazioni arcaiche è soltanto una cultura “altra”, legata a una weltanschauung mistico-irrazionalistica profondamente religiosa e totalmente differente da quella delle società pervase dal pensiero scientifico. Ciò resta vero anche se, a causa di tale base mistico-irrazionalistica, profondamente interiorizzata dall’uomo arcaico, in quelle società l’ateismo è impossibilitato a nascere e ad esprimersi.

[3] Con cultura “antica” intendiamo designare quelle culture (europee,  mediorientali, orientali) che si sono poi successivamente trasformate in maniera netta, adottando nuove religioni, producendo ricerca scientifica e assumendo connotazioni più o meno tecnologiche. Relativamente a queste società riferiamo l’aggettivo “antico” ad un periodo che a grandi linee precede la data (assunta del tutto convenzionalmente) della  nascita di Cristo (infatti l’espressione “a.C.” può esser intesa altrettanto correttamente come “avanti Convenzione”).

[4] Walter Burkhert La creazione del sacro (Orme biologiche nell’esperienza religiosa) Adelphi – 2003. Va però rilevato che Burkert precisa il suo atteggiamento rispetto alla sociobiologia nei termini seguenti (p.39). «La possibilità di una derivazione sociobiologia della religione resta quindi celata nella preistoria. L’idea è attraente. C’è una vasta distesa di tempo a disposizione del processo evolutivo, con decine di migliaia e anche centinaia di migliaia di generazioni a riempire lo iato tra scimpanzé e homo sapiens, mentre in altri casi studiati dalla sociobiologia il problema del periodo di tempo in questione è sembrato insuperabile. La religione, provenendo da tempi immemorabili e spesso caratterizzata  dal principio di una immutabile continuità, potrebbe fornire un paradigma per la “coevoluzione di geni e cultura”. Non c’è modo, però, di verificare questa ipotesi, si tratti di trentamila, trecentomila o tre milioni di anni, di mille, diecimila o centomila generazioni; alla stregua dei criteri scientifici, l’ipotesi perde utilità. Possiamo solo ricostruire vagamente le condizioni culturali decisive. Mentre col tempo le incertezze si moltiplicano, le evidenze si dileguano. La sociobiologia, che insiste su precisi parametri in modelli matematici, non può avere applicazioni appropriate in queste sfere. Probabilità, osservazioni selettive e intuizioni dovranno prenderne il posto.».

[5] Salvo i casi in cui è stato “usato” a fini di potere e di sopraffazione.

[6] Burkert (Op.cit – p.17) all’inizio del primo capitolo di La creazione del sacro, che intitola Cultura in un paesaggio (Situare la religione) afferma: «All’ubiquità della religione si accompagna la sua persistenza attraverso i millenni. La religione è sopravvissuta ai più drastici cambiamenti sociali ed economici: alla rivoluzione neolitica, alla rivoluzione urbana, alla rivoluzione industriale. Se mai fu inventata, la religione è riuscita a permeare praticamente tutte le varietà della cultura umana; nel corso della storia, comunque, la religione non è mai stata reinventata, a quanto si può dimostrare, ma è sempre stata presente, tramandata di generazione in generazione da tempo immemorabile. Quanto ai fondatori di nuove religioni, come Zarathustra, Gesù o Maometto, la loro opera creativa è consistita nel trasformare, rovesciare o riordinare modelli ed elementi esistenti, che continuano ad aver innegabili somiglianze di famiglia con forme più antiche. ».

[7] Per un’analisi del fenomeno religioso da punto di vista esplicitamente ateistico si veda G.Grana Op.cit. vol.I pp.27-307

[8] Tesi di questo tipo sono rinvenibili in quasi tutta la cultura marxista a cominciare proprio da Marx ed Engels. Un testo abbastanza discutibile, ma comunque interessante, è quello di Ambrogio Donini (Lineamenti di storia delle religioni  Editori Riuniti 1959), nel quale viene sviluppato uno studio sulla nascita e sugli sviluppi del sacro rilanciando il punto di vista marxista. Alcune tesi sono condivisibili (p.68: «L’idea di creazione nasce con l’homo faber») ma vi è anche qualche asserzione piuttosto ideologica (p.124: «Zeus, Ares, Plutone, Posidone, con le loro divine consorti e amanti, con i loro paggi e cortigiani, erano gli dèi di padroni.»). Donini rilancia anche il nesso tra l’istituzione della religione nelle società del mondo antico e l’esercizio dello schiavismo.

[9] Ci è sembrato opportuno questo veloce passaggio informativo (pur essendo consapevoli della sua approssimazione ed insufficienza) quale indicazione orientativa da offrire a coloro che intendessero approfondire il tema della religione arcaica. Degli autori citati faremo ora seguire le coordinate cronologiche e le opere considerate più importanti relativamente al nostro argomento:

Edward Burnett Tylor (1832-1917)  Cultura primitiva (1971).

James George Frazer (1854-1941) Il ramo d’oro (1911-1915).

Robert Ranulph Marett (1866-1943) Nascita della religione (1909).

Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) La mentalità primitiva (1922).

Rudolf Otto (1869-1937) Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale (1917).

Mircea Eliade (1907-1986) Trattato di storia delle religioni 1949).

William Robertson Smith (1846-1894) Letture sulla religione dei Semiti (1889).

Emile Durkheim (1858-1917)  Le forme elementari della vita religiosa (1912).

Marcel Mauss (1872-1950) Teoria generale della magia (1950).

Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973)  Teorie sulla religione primitiva (1956).

Alfred Reginald Radcliffe-Brown (1881-1955) Una scienza naturale della società (1957).   

Bronislaw Caspar Malinowski (1884-1942)  Magia, scienza e religione (1925).

Claude Lévi-Strauss (1908)  Antropologia strutturale (1958), Il pensiero selvaggio (1962).

Raffaele Pettazzoni (1883-1950)  L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi (1922).

Ernesto De Martino (1908-1965)  Il mondo magico (1948).

Angelo Brelich (1913-1977) Introduzione alla storia delle religioni (1966).

[10] In Necessità e libertà (Editrice Clinamen 2004) abbiamo proposto (Prefazione e I.1) una filosofia pluralistica della realtà che si estrinseca in un sostanziale dualismo dell’esperienza antropica. La struttura mentale dell’homo sapiens è secondo noi in grado di percepire, oltre alla materia, una seconda realtà, che abbiamo chiamato aiteria e che concerne gli affetti, le emozioni estetiche e quelle etiche, gli entusiasmi della scoperta e della conoscenza.  

[11] James G. Frazer (1854-1941)  Il ramo d’oro – Bollati Boringhieri 1991 – p.824.

[12] Robert Ranulph Marett (1866-1943), allievo e successore di Tylor a Oxford, in “Folklore”, vol. XI, del 1900, esponeva la sua teoria, che identificava nel mana melanesiano il prototipo di tutte le entità trascendentali in cui l’uomo ha posto le sue credenze.

[13] Levy-Bruhl  (etnologo di formazione filosofica), utilizzando anche i precedenti studi sociologici di Durkheim, è stato uno dei primi antropologi a studiare (non direttamente ma documentalmente) il pensiero e il comportamento dei primitivi, attingendo a una larga messe di documenti etnologici relativi alle testimonianze di viaggiatori, missionari, pubblici funzionari, ecc. su comunità primitive sparse in vari continenti. Il suo saggio La mentalité primitive, pubblicato a Parigi nel 1922 è tradotto in italiano soltanto nel 1966, deve essere considerato uno dei testi fondamentali sul pensiero magico-religioso. 

[14] Lucien Levy-Bruhl  La mentalità primitiva  - Einaudi 1966 – p.29.

[15] Lucien Levy-Bruhl  La mentalità primitiva  - Einaudi 1966 – pp.45-46.

[16] A fronte dell’analisi un po’ drastica di Lévy-Bruhl sul fenomeno del “primitivismo” voglio citare il giudizio, piuttosto severo, espresso su di lui da Gianni Grana. Nel già citato L’invenzione di Dio – vol.I – (Setup Edizioni 2000) a p.79 egli afferma: «Ora uno degli abusi di astrazione teorica nei libri di Lévy-Bruhl, oltre alla generalizzazione uniforme sul “primitivo”, consiste nell’antitesi schematica fra “mentalità primitiva”, irrazionale “prelogica” tradizionale, e mentalità moderna tutta razionalità e consapevolezza individuale, critica distintiva dialettica ecc., sia pure come reazione giustificata alle ricorrenti sovra-impressioni di una mentalità e di un’ottica culturale moderna, nella interpretazione delle culture etnologiche.». (v.  pref. di E. De Martino a L’anima primitiva, p.15). Il divario di mentalità pare enorme proprio perché viene esasperato tipologicamente, come balzo abissale fra culture e quasi fra umanità diverse, remote l’una all’altra, anziché come fasi di una lunga-corta storia comune estremamente variegata negli esiti parziali, e di una evoluzione bio-genetica unica nelle enormi differenziazioni etniche della specie umana […] »

[17] Ivi p.78.

[18] Ivi p.79

[19] Mircea Eliade  Il mito dell’eterno ritorno – Borla Editore 1968 – p.68.

[20] Mircea Eliade  Storia delle credenze e delle idee religiose - vol. I – Sansoni 1999 – p.7.

[21] Émile Durkheim Le forme elementari della vita religiosa Edizioni di Comunità 1963 – p.5.

[22] Ivi p.11.

[23] Ivi p.39.  

[24] Ivi p.456.

[25] È una delle principali tesi esposte dal sociologo tedesco Niklas Luhmann nel suo Funzione della religione (Morcelliana – Brescia 1991). Luhmann sostiene che la religione, più di ogni altro elemento culturale antropico, determina un processo di creazione del “senso” dell’esistere nelle interazioni tra un sistema sociale e il proprio ambiente e ciò principalmente attraverso una “riduzione dlla complessità”. L’esito di questo processo di semplificazione è di rendere sensato ciò che nella sua incomprensibile complessità finisce per presentarsi come privo di senso, generando smarrimento e inquietudine.   

[26] Ivi p.482.

[27] Claude Lévi-Strauss  Il pensiero selvaggio - Il Saggiatore 1976 - p.238.

[28] Ivi p.242.

[29] Bronislav Malinowski  Magia, scienza e religione  Newton Compton Editori 1976 – p.47.

[30] Raffaele Pettazzoni  Saggi di storia delle religioni e di mitologia – Edizioni Italiane – Roma 1946 – p.23 passim.

[31] Ernesto De Martino  Il mondo magico Boringhieri 1973 – p.113-114.

[32] Ivi p.149.

[33] Angelo Brelich  Introduzione alla storia delle religioni – Edizioni dell’Ateneo 1966 – p.7.

[34] Ivi – pp.9-10.

[35] Ivi – p11.

[36] Il concetto di omeostasi psichica è tematizzato nel I capitolo del già citato Necessità e libertà (pp.38-39) e nel IV capitolo (pp. 85-87).

[37] Si domanda Burkert (Op. cit. p.31): «Ma l’illusione è disfunzionale? La scoperta delle endorfine, analgesici naturali presenti nel cervello, indica piuttosto una funzione biologica positiva della felicità illusoria per il superamento di crisi drammatiche di stress e di sofferenza. Si potrebbe sostenere che anche le illusioni religiose sono sociobiologicamente vantaggiose.» (cfr. Necessità e libertà, p.92). E qualche pagina dopo aggiunge (p.34): « Un’ultima congettura - che si avvicin all’ipotesi “endorfina” – è che il successo della religione sia attribuibile al fatto che essa aiuta a sopportare meglio le catastrofi, incoraggiando la procreazione anche in circostanze disperate.».

[38] La parola religione deriva etimologicamente, giusta la definizione di Lattanzio in Divinae institutiones (IV, 28) ripresa più tardi anche da Sant’Agostino (De Civitate Dei, X, 1 e Retractationes, I, 13), dal verbo religare (quale vincolo di pietas che unisce tra loro i fedeli e li “lega” a Dio). 

[39] Dice Mauss: «Questi diversi caratteri esprimono, in realtà, solo la irreligiosità del rito magico; che è e si vuole che sia antireligioso. In ogni caso esso non fa parte di uno di quei sistemi organizzati che chiamiamo culti.» (Teoria generale della magia – Einaudi 1991 – p.18.)

[40] La sacra bibbia – Edizioni Paoline 1965 – Deuteronomio, 20, 10-17.

[41] Si tratta de Il diritto matriarcale: un saggio sulla ginocrazia del mondo antico nella sua natura religiosa è giuridica che lo storico delle religioni svizzero propose tra l’indifferenza generale di un contesto permeato ormai di positivismo.

[42] Mircea Eliade  Storia delle credenze e delle idee religiose - vol. I – Sansoni 1999 – p.52 e ss..

[43] Pepe Rodriguez  Dio è nato donna – Editori Riuniti 2000 – p.143.

[44] Ivi – p.149-150.

[45] Ivi – p.205.

[46] Abbiamo dato spazio a questa tesi perché la riteniamo piuttosto originale e fuori dagli schemi interpretativi tradizionali. Rodriguez, pur non essendo un antropologo di professione, svolge la sua ricerca in modo analitico, con citazioni documentali copiose e con frequenti riferimenti all’archeologia, alla storia, all’etnologia e alla psicologia.

[47] Ernesto de Martino Il mondo magico – Boringhieri Torino 1973 – p.97.