CAPITOLO PRIMO
Religiosità e socialità.
Introduzione.
Questo primo
capitolo ed il successivo potrebbero essere
ritenuti estranei al tema di questo
saggio, essi però non lo sono nella prospettiva
che abbiamo assunto, quella che
intende “storicizzare” il fenomeno religioso
piuttosto che svalutarlo; da qui
l’opportunità, in quanto preliminari allo
sviluppo della nostra ricerca.
Infatti, come sarebbe possibile storicizzare
le religioni se non venissero
preliminarmente indagate le motivazioni che
le determinano, le loro origini e i
loro sviluppi? E come farlo senza far riferimento
ai pochi o molti dati
etnologici e antropologici a nostra disposizione
concernenti le forme religiose
arcaiche o primitive che dir si voglia, se
è vero che il fatto religioso è
patrimonio comune di tutte le culture e di
tutte le civiltà apparse sul
pianeta, indipendentemente dalle loro evoluzioni
e dai loro esiti? Si pone
quindi innanzitutto il problema di cercare
di delineare se sia esistita una
forma religiosa primordiale, “madre” di tutte
le altre forme, oppure se il
panorama religioso si sia costituito attraverso
una pluralità di forme
differenti che hanno determinato le varie
culture religiose e, in questo caso,
l’indagine deve concernere ciò che le accomuna.
Ciò, ben sapendo (e ben
ammettendo) che la nostra ricerca e la nostra
analisi non potranno che essere
“di parte”, nel senso che dal nostro punto
di vista non possiamo riconoscere
validità alcuna alle pretese rivelative o
veritative delle ideologie religiose
in genere. Nella prospettiva in cui ci collochiamo
le religioni non possono
quindi che essere considerate sotto il profilo
storico-antropologico, in quanto
aspetti correlativi, necessari e strumentali,
di ogni socialità organizzata ed
istituita nel passato che abbia dovuto darsi
un mito fondativo, delle regole di
convivenza, una struttura organizzativa,
e soltanto più tardi assumere forti
connotazione ideologiche ed entrare in concorrenza
alla caccia di consenso e di
adepti.
L’argomento che
ci accingiamo ad affrontare (sia pure in
termini sintetici ed approssimativi) è
d’altra parte preliminare non solo ad ogni
indagine sulla religione ma anche ad
ogni indagine sull’ateismo originario, poiché
è solo cercando di delineare a
priori il significato storico e concettuale
che si deve attribuire a termini
come “sacro” o “divino” (coi loro derivati
e correlati) che diventa possibile
avviare un’analisi su ciò che vi si oppone
o che vi si pone come alternativo.
Solo uno studio comparato del fenomeno religioso,
sui vari significati e
modalità da esso assunti nel tempo e nello
spazio, può consentire di cogliere
gli aspetti profondi e fondanti della “religiosità”,
la quale rimane
(indipendentemente dal punto di vista di
chi scrive e di chi legge queste
pagine) uno dei più interessanti fenomeni
antropologici che ci sia dato
cogliere e studiare, sia dal punto di vista
storico che da quello culturale [1].
Il nostro studio si svilupperà a partire
da una distinzione terminologica che
qualora non venisse precisata potrebbe generare
confusioni ed equivoci. Noi
useremo l’aggettivo “arcaico” per indicare
società costituite, forme del
pensare e comportamenti, che si sono perpetrati
nei millenni in società
fortemente conservatrici, le quali sono giunte
all’era moderna senza
sostanziali evoluzioni [2]. Riserveremo invece l’aggettivo “antico” alle società del mondo mediterraneo ed
orientale che in maggiore o minor misura
hanno abbandonato la condizione
arcaica evolvendosi verso forme differenziate
di religiosità e di socialità [3].
Un importante
contributo allo studio della religiosità
ci viene, in generale, dalla
sociologia del XX secolo, ma particolare
interesse assume l’indagine compiuta
dalla sociobiologia, una nuova branca dell’antropologia
dei gruppi umani
inaugurata dal sociologo E.O.Wilson col saggio
Sociobiologia: la nuova
sintesi, apparso nel 1975. Wilson, convinto neodarwiniano,
apriva così una
nuova frontiera della ricerca, eleggendo
la selezione genica a fattore
determinante dell’evoluzione umana e delle
sue forme di aggregazione. Partendo
da tale tesi Walter Burkert ha cercato di
portare una nuova linea d’indagine
nel cuore del fenomeno religioso, analizzandone
le forme più significative di
esso apparse nel tempo e nei diversi contesti
storici ed etnologici,
ricavandone alcune interessanti conclusioni
alle quali ci riferiremo, rilevando
tuttaviail fatto che, in realtà, la sua ricerca
appare più filologica che
sociobiologica [4].
A conclusione
di questa nostra introduzione ai primi tre
capitoli desideriamo preliminarmente
precisare che, essendo la nostra ricerca
specificamente orientata a una messa a
fuoco delle teoresi ateistiche dell’antichità,
l’indagine sulla religione e sui
suoi annessi verrà limitata a queste prime
due parti del saggio, cercando di
fornire un quadro sufficiente a introdurre
l’argomento principale del nostro
lavoro, che si svilupperà nei quattro capitoli
successivi. Ci limiteremo pertanto
a fornire alcune linee essenziali, sia storiche
che interpretative, della
ricerca etnologica e antropologica sulla
religiosità, attingendo ai lavori che
a partire dall’Ottocento hanno caratterizzato
il panorama scientifico di tale
indagine.
Dovendo per
ragioni di chiarezza espositiva schematizzare
l’argomento a cui intendiamo
accennare, abbiamo definito alcune linee
guida che ci hanno portato
all’identificazione di tre argomenti-chiave
che abbiamo trasferito nei titoli
dei paragrafi che costituiranno questo capitolo.
Essi sono: 1.1) Teorie sul
fenomeno religioso, 1.2) La religiosità delle
culture arcaiche, 1.3) Genitori
divini per un “appartenenza”.
Alcuni
paragrafi hanno un carattere più citazionale,
altri più descrittivo e altri
piuttosto interpretativo; nell’insieme abbiamo
cercato di fornire una base
informativa quale propedeutica alla lettura
dei capitoli 2 e 3 e nello stesso
tempo quale stimolo al lettore per approfondire
l’argomento mediante
l’utilizzazione degli strumenti più adeguati
e specifici che la vastissima
letteratura etnologica, antropologica e della
storia delle religioni mette a
disposizione.
1.1 Teorie sul fenomeno
religioso.
Non sarebbe
peregrino domandarsi se dal punto di vista
storico non sarebbe più corretto
parlare di ateismi, al plurale, anziché di
ateismo, al singolare. Storicamente
non vi è stato infatti un unico genere di
ateismo; ciò in relazione alle
diverse divinità di volta in volta da esso
negate e alle quali esso si è posto
come alternativa teorica, etica ed esistenziale.
In un orizzonte più ampio
potremmo addirittura chiederci se ogni religione
comparsa sulla Terra non abbia
potuto avere il “suo” ateismo o perlomeno
una sua connessa e conseguente
“incredulità”, riconosciuta o no, che le
si è contrapposta, determinando un
atteggiamento di “empietà” implicito od esplicito,
chiuso nel privato della
coscienza o reso pubblico. Ciò non solo rappresenterebbe
un’estensione
dell’argomento che ci siamo proposti ma esulerebbe
del tutto dalla presente
ricerca, risultando in definiva un’operazione
del tutto sterile, poiché
l’incredulità è un fenomeno che rimane del
tutto interno alla credenza e che,
in quanto tale, non apre ancora le porte
all’ateismo. In realtà, la presenza di
un ateismo vero e proprio, pur non avendo
mai assunto caratteristiche di
organizzazione [5] filosofica
ma sempre e soltanto di “opinione”
irreligiosa, è limitata a quei contesti in
cui vi è stata sufficiente
tolleranza da renderlo possibile. Gli ateismi
storici, quelli di cui è
possibile parlare, sono pochissimi e abbastanza
noti, sempre relativi a società
nelle quali sono state presenti e consentite
culture filosofiche, per lo più
filo-scientifiche, che potevano avere elementi
ed argomenti in base ai quali
condurre un confronto più o meno oppositivo
colle dottrine religiose.
Espressioni ateistiche sono infatti possibili
esclusivamente in contesti
sociali cui afferiscano due requisiti indispensabili:
un elevato livello
culturale generale e una sufficiente libertà
di pensiero.
Il nostro
soffermarci sull’analisi del fenomeno religioso
non è solo “per contrasto”
rispetto al tema che ci siamo proposti, ma
è giustificato dalla consapevolezza
che la religione è fenomeno storico universale
e strettamente connesso alla
cultura, al costume, all’organizzazione e
ai comportamenti di tutte le comunità
umane. Ciò non solo rafforza la validità
di una sempre più approfondita
indagine socio-biologica del fenomeno religioso,
ma pone noi, studiosi della
filosofia atea, di fronte alla realtà, storica
ed innegabile, che la religione
è un aspetto fondamentale di tutta la storia
dell’uomo, e che con essa noi ci
confrontiamo, consapevoli del rispetto dovuto
a ciò che nel passato ha
costiuito il legante fondamentale di ogni
società umana [6].
Nelle culture
arcaiche, dove la religione ha rappresentato
e rappresenta una cultura
“totalizzante” ed esclusiva, è probabilmente
del tutto inutile cercarvi forme
di antitesi o di opposizione, in quanto esse
non possono che essere del tutto
assenti, per la semplice ragione che non
sono possibili a fronte della
“sacralizzazione” del concetto stesso di
comunità umana che le caratterizza [7].
Per parte nostra, considerando l’ateismo
un tardo elemento dell’evoluzione
antropica, quindi secondario allo sviluppo
del pensiero scientifico dell’antico
mondo greco, non possiamo che rilevare che
esso è sempre e solo apparso in
contesti religiosi nei quali la sacralità
generale consentiva qualche spazio
per un’indagine sulla natura di tipo oggettivo
e non soltanto
mitico-ideologico. Detto questo, sarebbe
importante capire (domanda che ci
consta che l’antropologia non si sia ancora
posta seriamente) “perché”, a
partire da una presumibile base antropica
comune (l’homo nella versione sapiens),
alcune aree culturali abbiano sviluppato
un pensiero scientifico e altre no.
Problema a cui sarà difficile fornire una
risposta, poiché (rimanendo in ambito
mediterraneo) la dissociazione che ha portato,
da un lato, a società basate su
una teocrazia totalitaria (come quella egiziana
e mesopotamica) e, da un altro,
a società basate su un politeismo antropomorfo
e tollerante (come quella
ellenica) è avvenuta in epoche preistoriche,
sulle quali manca ogni tipo di
documento scritto significativo che ci permetta
di inferirne.
In termini
generali, ed in riferimento al mondo occidentale,
quello in cui gli ateismi
hanno assunto connotazioni materialistiche
più o meno marcate (nel mondo
orientale sono perlopiù spiritualistici),
noi possiamo distinguere
sostanzialmente due fasi ben delineate; quella
dell’ateismo antico, riferibile
al politeismo greco, e quella dell’ateismo
moderno, in riferimento al
Cristianesimo; con la ulteriore precisazione
che questo secondo comincia a
delinearsi, in modo chiaro e percepibile,
non prima del XVI secolo. Anche in
ambito orientale noi troviamo atteggiamenti
atei abbastanza definiti ed è
proprio l’epoca più antica a fornirci gli
esempi più interessanti. Ciò è
specialmente rilevabile nell’India del periodo
pre-islamico, poiché in seguito la
ricerca filosofica nel mondo indiano ha subito
una sorta di eclissi, assumendo
caratteri sempre più specificamente religiosi,
i quali si sono andati
radicalizzando via via in vere e proprie
religioni fideistiche dotate di culti
e rituali. Ciò è presumibilmente accaduto
allo scopo di rinsaldare e difendere
una millenaria identità culturale e spirituale,
meglio esprimibile sicuramente
con una “forte” religiosità autoctona e alternativa,
da contrapporre, su base
popolare, all’Islam dei conquistatori, piuttosto
che con una speculazione
filosofica elitaria e di scarsa presa sociale.
Vi è stato
peraltro chi ha osato avanzare la possibilità
di un ateismo “naturale”
primitivo, al quale sarebbero succedute le
credenze religiose storicamente
documentate, in quanto indotte da strutture
di potere (le classi sacerdotali e
regali) interessate all’assoggettamento dei
componenti il gruppo sociale.
Questa ipotesi, avanzata in passato e perlopiù
correlata al marxismo [8]
viene oggi ritenuta dagli studiosi poco fondata,
e si propende piuttosto a
ritenere la religione come un elemento basilare
ed “aggregante” di ogni
comunità umana primitiva, ove naturalmente
si abbia l’avvertenza di conferire
al termine “religione” il significato più
ampio possibile, comprendendo quindi
anche le sue forme più elementari (totemismo,
animismo, manismo, ecc.).
Operando una
forte semplificazione del corpus scientifico concernente l’argomento di
questo paragrafo forniamo subito una prima
schematizzazione di alcuni indirizzi
più significativi nell’interpretazione del
fenomeno religioso e li
accompagneremo con l’indicazione degli esponenti
più importanti per ognuno di
essi. Tali indirizzi sono i seguenti: a)
razionalistico-evoluzionistico (più
spesso definito dagli specialisti anche come
“intellettualistico”) con Tylor e
Frazer, b) sentimentale-emozionale con Marett,
Lévy-Bruhl, Otto ed Eliade, c)
sociologistico con Robertson-Smith, Durkheim,
e Mauss, d) simbolistico con
Evans-Prithard, e) funzionalistico con Radcliffe-Brown
e Malinowski, f)
strutturalista con Lévi-Strauss e g) storicistico
con Pettazzoni, De Martino e
Brelich. Ovviamente tale schema non rende
ragione della complessità della
materia, delle interazioni tra i vari indirizzi
e delle specificità concettuali
dei singoli studiosi, tuttavia ci serve per
introdurre il breve excursus verso
cui ci avviamo, che ammettiamo incompleto
e sommario [9].
Passeremo ora
in rapida rassegna alcune tra le più significative
posizioni concernenti il
fenomeno religioso, la sua origine, il suo
significato, le sue forme primarie,
la sua essenza. Cominceremo con l’antropologo
inglese Edward Burnett Tylor,
vero pioniere dell’etnologia, il quale, nel
1871, dopo numerose ricerche sul
campo presso comunità indigene dell’America
Centrale e del Messico, con il
saggio Cultura primitiva identificò col termine di “animismo” la forma
primordiale di religiosità. Essa sarebbe
consistita nell’attribuire ad ogni
entità del mondo percepibile un “anima”,
quale seconda realtà vitale
relativamente indipendente dalla sostanza
solido-corporea visibile e
percepibile. Una sorta di “doppio” spirituale,
ora benefico ora malefico, da
blandire con offerte o da controllare con
pratiche magiche. Ciò sarebbe
derivato, secondo lo studioso inglese, soprattutto
dall’esperienza del sogno,
che viene percepito dal primitivo come l’esperienza
di un “doppio” (un alter
ego) che riguarda ogni essere umano e per estensione
ogni animale,
ogni vegetale, ogni oggetto. Tale nozione, in uno stadio evolutivo in
cui non sono ancora concettualizzate le differenze
tra cose, esseri viventi,
animali e uomini, porterebbe ad immaginare
che in ogni realtà del mondo sia
presente un entità spirituale che esiste
separatamente da quella materiale che
lo ospita. Questa teoria ha perso oggi molto
del credito che le venne
attribuita al suo apparire e tuttavia, anche
se dal punto di vista scientifico
essa risulta abbastanza inconsistente, accenna,
sia pure in modo vago, ad
alcuni aspetti antropologici da noi analizzati
in altra sede e a cui abbiamo
dato una risposta filosofica non convenzionale
[10].
L’etnologo
tedesco Wilhelm Schmidt, nonché missionario
cattolico, fu invece il sostenitore
di un presunto monoteismo primordiale (quale
credenza in un “Essere Supremo”)
che avrebbe preceduto ogni altra forma religiosa.
A questa tesi, evidentemente
non priva di presupposti ideologici, che
venne avanzata nell’opera L’origine
dell’idea di Dio e che sollevò già notevoli perplessità al
suo apparire, si
affiancava anche quella dei cicli cultuali, secondo la quale vi sono vari
gradi evolutivi di cultura, e quindi di religione,
dipendenti dalle forme di
vita e dalle attività di sussistenza. Lo Schmidt fu anche sostenitore
dell’esistenza, nella preistoria, di un periodo
“matriarcale”, coincidente con
l’avvento dell’agricoltura, il quale avrebbe
favorito la nascita dei culti della “Madre Terra” e della Luna,
quali ipostasi divine al “femminile”.
Il terzo
studioso che vogliamo citare è l’antropologo
inglese James Georges Frazer, che
si riconnette in qualche modo al Tylor in
un’interpretazione
comparativo-evoluzionistica del fenomeno
religioso. Frazer, del quale si può
apprezzare (se non sempre un rigoroso intento
scientifico) certamente uno
straordinario talento letterario, lavorando
egli su una vasta mole di materiale
sia storico che etnologico, ne Il ramo d’oro (III volume - 1911) vede
nel comportamento magico (di cui ne distingue
vari tipi) l’origine di ogni
forma di religiosità, nei termini seguenti:
Nella magia l’uomo dipende dalle sue sole
forze per
affrontare le difficoltà e i pericoli che
stanno in agguato da ogni parte; egli
crede in un certo ordine stabilito dalla
natura su cui può sicuramente contare
e che può governare a proprio vantaggio.
Quando scopre il suo errore, quando
tristemente si accorge che tanto l’ordine
dalla natura che egli ha supposto,
quanto il potere che egli aveva creduto di
esercitare sopra di esso, non sono
che fantasia, cessa di fidarsi della sua
intelligenza e delle sue sole forze e
si getta umilmente in balia di certi grandi
e invisibili esseri dietro il velo
della natura, a cui ora attribuisce tutti
quei vasti poteri che arrogava una
volta a se stesso. Così nelle menti più acute
la magia viene gradualmente
sostituita dalla religione che spiega il
succedersi dei fenomeni naturali come se
fossero regolati dalla volontà, dalle passioni
o dal capriccio di esseri
spirituali simili all’uomo in specie, ma
infinitamente a lui superiori in
potenza. [11]
Come non
cogliere (attraverso l’inversione potenza/impotenza)
in questo supposto arcaico
fenomeno di conversione alla religione di
un uomo deluso dalla magia (per
difetto di potenza) un analogo della contemporanea
rinascita della religione in
un uomo deluso dalla scienza (per eccesso
di potenza), la quale minaccia di
sfuggire al suo controllo, rimanendo tuttavia
incapace di conferire “senso”
alla sua esistenza?
Sia Tylor che
Frazer vengono storicamente classificati
come etnologi “intellettualisti” o
“evoluzionisti”, in quanto la loro interpretazione
del fatto religioso arcaico
considera la mente umana con caratteristiche
identiche in tempi e luoghi
differenti. Quindi la mentalità primitiva
come un analogo primordiale e
imperfetto di quella moderna, da cui sarebbero
derivati errori e sviamenti di
lettura della realtà poi corretti automaticamente
con l’evoluzione culturale
umana successiva. Questo tipo di interpretazione,
al quale si riconosce un
innegabile valore storico quale aurorale
prodromo dell’etnologia scientifica,
ha però una scarsa corrispondenza nella reale
mentalità arcaica e viene quindi
oggi perlopiù rigettata dagli indirizzi interpretativi
più moderni che le si
contrappongono (emozionalistico, sociologistico,
simbolistico, strutturalistico
e storicistico) con visioni ed interpretazioni
del mondo arcaico più articolate
e dotate di maggiori requisiti scientifici.
Va qui rilevato
che già il Marett [12],
basandosi sulle testimonianze del sacerdote
e antropologo Robert
Codrington, si era opposto a tali
interpretazioni intellettualistiche (razionalistico-evoluzionistiche),
contestando al Tylor la priorità dell’animismo
come forma primordiale di
religiosità, a favore di un “preanimismo”
nel quale sarebbe prevalsa la
credenza in una “forza” impersonale diffusa
e permeante tutte le cose
esistenti, anche se con diversi gradi di
presenza e concentrazione. Questa
forza soprannaturale, rappresentata molto
bene dal mana melanesiano, ma
simile al wakanda degli Sioux, all’orenda degli irochesi o
al manitu degli algonchini, secondo il Marett avrebbe
costituito la base
generale di tutte le credenze religiose e
di tutte le pratiche magiche delle
società preistoriche.
Una posizione
diametralmente opposta a quella intellettualistica,
che come abbiamo visto
interpretava il pensiero arcaico come una
forma aurorale e imperfetta della
razionalità moderna, è stata sostenuta dal
filosofo ed etnologo francese Lucien
Lévy-Bruhl, che in La mentalità primitiva del 1922 ha identificato come
mistico e pre-logico [13],
ovvero spontaneo, totalizzante,
irrazionale, ecc. e quindi precedente ogni
forma di razionalizzazione in senso
moderno, il modo di pensare dell’uomo arcaico.
Tale posizione è stata
contestata da più parti per ragioni talvolta
opposte, ma mantiene tuttavia una
sua forza concettuale e una notevole aderenza
alla realtà in quanto
caratterizza (e nello stesso tempo legittima)
visioni del mondo e comportamenti
alternativi a quelli della tradizione occidentale
(e per molti versi
altrettanto “funzionanti”). L’elemento base
della mentalità primitiva è,
secondo Lévy-Bruhl, la “preconnessione” mistica,
come si evince da questo
passo:
Per questa mentalità, in linea generale,
il caso non esiste, e
non può esistere. Non che essa sia persuasa
del determinismo rigoroso dei
fenomeni; tutt’altro, non avendo la più pallida
idea di questo determinismo,
resta indifferente alla connessione causale,
e a ogni evento che la colpisce,
attribuisce un’origine mistica. Dato che
le forze occulte sono sempre sentite
come presenti, più un evento ci sembra fortuito,
più sarà significativo per la
mentalità primitiva. Non c’è bisogno di spiegarlo:
esso si spiega da sé, è una
rivelazione. Anzi, il più delle volte, serve
a spiegare altre cose, almeno
nella forma in cui questa mentalità si dà
pensiero di trovare spiegazioni. Ma
può essere necessario interpretarlo, quando
una preconnessione definitiva non
vi ha già provveduto [14].
Quasi un paradigma della religiosità arcaica
che viene
ripreso più avanti:
Preconnessioni, che non hanno meno forza
del nostro bisogno di
collegare ogni fenomeno alle sue cause, stabiliscono,
per la mentalità
primitiva, senza possibile esitazione, il
passaggio immediato da una data
percezione sensibile a una forza invisibile.
Per dir meglio, non è neppure un
passaggio. Questo termine conviene alle nostre
operazioni discorsive; non
esprime esattamente il modo di attività della
mentalità primitiva, che
assomiglia piuttosto a un’apprensione diretta
o a un’intuizione. Al momento
stesso in cui percepisce quel che è dato
ai suoi sensi, il primitivo si
rappresenta la forza mistica che vi si manifesta
[15].
Levy-Bruhl [16]
vede il nocciolo della questione nel concetto
di causa:
Per la mentalità prelogica, la connessione
causale si presenta
sotto due forme, del resto vicine. A volte
una preconnessione definita è
imposta dalle rappresentazioni collettive
[…] Oppure il fatto che appare è
riferito in modo generico a una causa mistica
[…] In un caso come nell’altro,
la connessione tra la causa e l’effetto è
immediata [17].
E dopo aver fornito qualche esempio ne precisa
il senso:
Si vede ora la ragione profonda che rende
la mentalità
primitiva indifferente alla ricerca delle
cause seconde. È abituata a un tipo
di causalità che nasconde, per così dire,
il concatenamento di queste cause.
Mentre queste costituiscono nessi e complessi
che si svolgono nel tempo e nello
spazio, le cause mistiche verso le quali
si rivolge quasi sempre la mentalità
primitiva, essendo extraspaziali e anche
talvolta extratemporali, escludono
l’idea stessa di questi nessi e di questi
complessi. La loro azione non può
esser che immediata. [18]
Soffermiamoci
ora su una tesi di genere differente da quelle
suesposte, basata sulla storia
anziché sull’etnologia, e che ha per proponente
il tedesco Rudolf Otto, storico
delle religioni e teologo (nonché primo esponente
della corrente interpretativa
che va sotto il nome di emozionalismo), il quale, col saggio Il sacro,
del 1917, ha teorizzato l’essenza della sacralità,
in tutte le sue
forme, in ciò che ha chiamato il
sentimento del “numinoso” (ovvero di un misterioso
“totalmente altro”),
cercando di confermarlo anche attraverso
l’analisi semantica di vari termini
corrispondenti a quello di “sacro” nelle
varie culture (il sacer dei
romani, lo haghios dei greci, il qadosh degli ebrei). Il numinoso,
secondo Otto, si caratterizza per una serie
di ambivalenze; infatti esso è
ciò che incute paura e nello stesso tempo
venerazione, repulsione, fascino,
attrazione. Attraverso esso l’uomo entra
direttamente in rapporto con la
divinità mediante l’atto cultuale, che non
è altro che il mito tradotto in
azione, dove il discorso mitico, traducendosi
in culto, mette l’uomo in
relazione diretta con Dio. Prendendo le distanze
da ogni interpretazione
scientifica o allegorico-filosofica del sacro
Otto vuole accentuarne l’aspetto
emozionale, rivelativo ed esistenziale, come
esperienza diretta del divino ed
in quanto tale assolutamente veritativa ed
autentica proprio in virtù della sua
sua totale irrazionalità.
La tesi di Otto
(da un punto di vista cristiano) viene ripresa
e radicalizzata dall’antropologo
e filosofo rumeno Mircea Eliade (da un punto
di vista mistico che giudica il
monoteismo giudeo-cristiano pervertitore
dell’autentica religione naturale).
Alla base di tutta la sua speculazione sulla
sacralità e sulla religiosità
primitiva sta il saggio Il mito dell’eterno ritorno del 1945 (più
tardi ripreso e affinato ne Il sacro e il profano del 1965) , dove
vengono posti due concetti basilari: quello
di “archetipo” mitico, come modello
trascendentale ed originario di “creazione
del mondo”, e quello di “ierofania”,
come rivelazione veritativa ed estatica della
divinità. L’archetipo è
tutt’uno con l’estrinsecazione del mito,
il quale dà luogo ad un culto
ripetitivo (per lo più annuale) che segna
l’azzeramento del passato e la
rinascita del presente, come rivitalizzazione
del cosmo, della comunità di
appartenenza (il centro del mondo) e dell’“essere”
autentico (che proprio nel
“sacro” si rivelerebbe e non già nella precarietà
insostanziale del mondo
fenomenico). La sacralità primitiva (e autentica,
secondo Eliade) prescinde
dalla storia, ovvero dal divenire storico, e si appoggia al mito quale
ripetizione e realizzazione dell’autentico
reale antropico (l’uomo è
autenticamente tale soltanto come homo religiosus). Come atei possiamo
non condividere le tesi di Eliade, ma non
ne possiamo disconoscere originalità
e importanza culturale. Leggiamone perciò
almeno un passo:
Il carattere anistorico della memoria popolare,
l’impotenza della memoria collettiva a conservare
gli avvenimenti e le
individualità storiche, se non nella misura
in cui essa le trasforma in
archetipi, cioè nella misura in cui essa
annulla tutte le loro particolarità
“storiche” e “personali”, pongono una serie
di nuovi problemi che siamo
costretti per ora a tralasciare. Ma abbiamo
fin da ora il diritto di domandarci
se l’importanza degli archetipi per la coscienza
dell’uomo arcaico e
l’incapacità per la memoria popolare di conservare
cose diverse dagli
archetipi, ci rivelino qualche cosa di più
della resistenza della spiritualità
tradizionale nei confronti della storia;
a meno che questa incapacità non ci
riveli la caducità o in ogni caso il carattere
secondario dell’individualità
umana in quanto tale, individualità la cui
spontaneità creatrice [mitizzante]
costituisce, in ultima analisi, l’autenticità
e l’irreversibilità della storia.
[19]
Con l’incipit della premessa alla vasta e
complessa Storia delle credenze e delle idee religiose
Eliade ci
conferma il suo punto di vista in maniera
esemplare:
Per lo storico delle religioni ogni manifestazione
del sacro è importante; ogni rito, ogni mito,
ogni credenza, ogni figura divina
riflette l’esperienza del sacro, e di conseguenza
implica le nozioni di essere,
di significato, di verità. «È difficile immaginare – facevo
già notare in altra occasione - come lo spirito
umano potrebbe funzionare senza
la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa
di irriducibilmente reale;
ed è impossibile immaginare come la coscienza
potrebbe manifestarsi senza
conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo.
La
coscienza di un mondo reale e dotato di significato
è legata intimamente alla
scoperta del sacro. Mediante l’esperienza
del sacro lo spirito umano ha colto
la differenza tra ciò che si rivela reale,
potente, ricco e dotato di
significato, e ciò che è privo di queste
qualità: il flusso caotico e
pericoloso delle cose, le loro apparizioni
e le loro scomparse fortuite e vuote
di significato» (La Nostalgie des Origines, 1969, p.7 e ss.). Il “sacro”
è insomma un elemento nella struttura della
coscienza, e non è uno stadio nella
storia della coscienza stessa. Ai livelli
più arcaici di cultura vivere da
essere umano è in sé e per sé un atto religioso, poiché
l’alimentazione, la vita sessuale e il lavoro
hanno valore sacrale. In altre
parole, essere – o piuttosto divenire – un uomo significa essere
“religioso” (ibidem p.9). [20]
Cambiamo ora
completamente registro introducendo Emile
Durkheim, il fondatore della scuola
sociologica francese. In Le forme elementari della vita religiosa
del
1912 egli dichiara innanzi tutto che le religioni
primitive sono le più
adeguate a fornirci gli elementi autentici
e non corrotti della religiosità in
generale:
Se prendiamo dunque in esame le religioni
primitive, non è con
il fine recondito di disprezzare la religione
in generale: infatti quelle
religioni non sono meno rispettabili delle
altre: esse rispondono alle stesse
necessità, assolvono la stessa funzione,
dipendono dalle stesse cause; e perciò
possono anch’esse manifestare la natura della
vita religiosa e, di conseguenza,
risolvere il problema che vogliamo trattare.
[21]
L’autore passa poi ad esporre preliminarmente
la sua tesi,
la cui dimostrazione sarà oggetto delle quasi
cinquecento pagine
successive:
La conclusione generale di questo libro è
che la religione è
cosa eminentemente sociale. Le rappresentazioni
religiose costituiscono
rappresentazioni collettive che esprimono
realtà collettive; i riti
costituiscono modi di agire che sorgono in
mezzo a gruppi costituiti e sono
destinati a suscitare, a mantenere e a riprodurre
certi stati mentali di questi
gruppi. [22]
E giunge alla definizione della fondamentale
dicotomia che
regola la vita sociale dell’uomo arcaico:
Tutte le credenze religiose conosciute, siano
esse semplici o
complesse, hanno uno stesso carattere comune:
esse presuppongono una
classificazione delle cose reali o ideali
che si rappresentano gli uomini, in
due classi o in due generi opposti, definiti
generalmente con due termini
distinti – tradotti abbastanza bene dalle
designazioni di “profano” e di
“sacro”. La divisione del mondo in due
domini, che comprendono l’uno tutto ciò che
è sacro e l’altro tutto ciò che è
profano, è il carattere distintivo del pensiero
religioso. [23]
Durkheim (che era verosimilmente ateo) esamina
poi le
principali teorie sul sacro, le concezioni
sulla religione elementare, le
credenze, le nozioni di anima, spiriti e
dèi, gli atteggiamenti rituali e le
loro varie forme per giungere a una definizione
funzionale della religione in
generale:
[..] la vera funzione della
religione non è quella di farci pensare,
di arricchire la nostra conoscenza, di
aggiungere alle rappresentazioni che dobbiamo
alla scienza altre
rappresentazioni di diversa origine e di
diverso carattere, ma è quella di
farci agire e di aiutarci a vivere. Il fedele
che ha comunicato col suo dio non
è soltanto un uomo che vede verità nuove,
ignorate dal non-credente; egli è un
uomo che “può” di più. Egli sente in sé una
forza maggiore per sopportare le
difficoltà dell’esistenza e per vincerle.
Egli è sollevato al di sopra della
miseria umana, perché è sollevato al di sopra
della sua condizione di uomo; si
crede salvo dal male, sotto qualsiasi forma
concepisca il male. [24]
Ma questa funzione, o per dir meglio questa
finalità, è in
conclusione quella di conferire un “ordine”
al mondo in una “totalità”
compiuta, in cui ogni elemento della realtà
abbia la sua giusta collocazione a
prescindere dalle proprie percezioni individuali.
E ciò significa anche
esorcizzare la complessità attraverso una
sua riduzione allo schematico,
rendendo un quadro semplice e chiaro della
realtà del cosmo [25].
Infatti:
[…] le regolarità che posso
percepire nel modo in cui le mie sensazioni
si succedono possono ben aver
valore per me; esse spiegano come, essendomi
dato l’antecedente di una
coppia di fenomeni di cui ho
sperimentato la sostanza, io tenda ad aspettarmi
il conseguente. Ma questo stato
di attesa personale non può esser confuso
con la concezione di un ordine
universale di successione, che si impone
alla totalità degli spiriti e degli
avvenimenti.
Poiché il mondo espresso dal sistema totale
dei concetti è
quello che si rappresenta la società, soltanto
la società può fornirci le
nozioni più generali secondo cui esso deve
venir rappresentato. Soltanto un
soggetto che comprenda tutti i soggetti particolari
è capace di abbracciare un
tale oggetto. Poiché l’universo esiste in
quanto è pensato, ed è pensato
totalmente soltanto dalla società, esso prende
posto in questa; diventa un
elemento della sua vita interiore, e così
anch’essa diviene il genere totale al
di fuori del quale il nulla esiste. Il concetto
di totalità non è che una forma
astratta del concetto di società: essa è
il tutto che comprende tutte le cose,
la classe suprema che comprende tutte le
altre classi. [26]
Questa totalità-unità onnicomprensiva espressa
dalla
società, ma trasfigurata e fissata nella
sacralità, è ciò che garantisce e
protegge, che tranquillizza e rassicura la
psiche dei singoli. Alla società
umana, che con la sua immanenza e contingenza
non possiede i requisiti per
imporre una concezione del mondo autorevole, si sostituisce la divinità
della trascendenza, non così mutevole e non
così soggetta agli arbitri dei
singoli uomini o dei gruppi di potere. La
religione non è allora un’inutile
sovrastruttura sociale, come qualcuno ha
potuto pensare, bensì un’utilissima
costruzione mentale istituzionalizzata, nella
quale l’individuo si può
riconoscere fuori dalle contingenze spaziali
o temporali. È per questa ragione
che le religioni, tutte, indipendentemente
dalle differenze, escludono dai loro
orizzonti il caso, il caos e la pluralità
delle cause.
Claude
Lévi-Strauss introduce nell’ambito
degli studi etnologici ed antropologici l’interpretazione
strutturalistica,
sulle orme di quanto aveva fatto Jakobson
nella linguistica. In realtà le sue
ascendenze culturali sono assai varie e a
tal proposito si possono ricordare,
oltre a quello del linguista russo-americano,
almeno i nomi di Durkheim, di
Mauss e di Boas. Il criterio di
partenza è quello di assumere il mondo arcaico
come modello ideale, per
rinvenire le strutture antropologiche costanti
e invarianti che si nascondono
sotto le variabili fenomenologiche e storiche.
Da ciò la sua opposizione ad
ogni interpretazione evoluzionistica e storicistica
della religione. A cavallo tra le generalizzazioni di
Durkheim e le particolarizzazioni di Boas
la lettura strutturalista di
Lévi-Strauss non cerca gli “aspetti”, bensì
le “relazioni” strutturali che li
determinano. Le azioni del primitivo non
sono mai casuali o slegate, ma sempre
organizzate in una struttura di rapporti
a carattere sistemico:
[…] la struttura è sempre sostenuta
da un asse (che per comodità immaginiamo
verticale) che unisce il generale allo
speciale, l’astratto al concreto: ma indipendentemente
dalla direzione in cui
ciò avviene, l’intenzione classificatrice
può sempre arrivare fino al limite
estremo. [27]
Le esigenze antropiche si estrinsecano in
aspetti
esistenziali molteplici e tutti essenziali,
come le cosiddette “sovranature”,
iper-mediazioni tra l’immanente e il trascendente,
tra le quali emergono la
magia e la religione:
[…] Poiché, se in un certo senso
si può dire che la religione consiste in
una umanizzazione delle leggi
naturali e la magia in una naturalizzazione delle azioni umane –
ossia nel considerare certe azioni umane
come se fossero parte
integrante del determinismo fisico – non
si tratta però, in questo caso, dei
termini di un’alternativa o delle tappe di
un’evoluzione. L’antropomorfismo
della natura (in cui consiste la religione)
e il fisiomorfismo dell’uomo
(mediante cui definiamo la magia) costituiscono
due componenti sempre date, di
cui vediamo soltanto le proporzioni. Come
abbiamo già osservato prima, ognuna
implica l’altra. Non esiste religione senza
magia, come non esiste magia che
non contenga almeno un briciolo di religione.
La nozione di una sopranatura
esiste solo per un’umanità che attribuisce
a se stessa poteri soprannaturali e
che conferisce a sua volta alla natura i
poteri della sua superumanità. [28]
Dallo
strutturalismo spostiamoci al funzionalismo.
Bronislav Malinowski, etnologo
inglese di origine polacca, in Magia, scienza e religione del 1925
considera il fatto religioso come una risposta
“funzionale” all’esigenza
psichica fondamentale (già evidenziata peraltro
da Durkheim) di esorcizzare le
paure e le ansie generate da situazioni di
stress esistenziale. Tutta la
speculazione di Malinowski consiste nell’evitare
ogni generalizzazione e nel
riconoscere nel comportamento del primitivo
gli analoghi del comportamento
dell’uomo moderno, non tanto sotto il profilo
cognitivo (come pensavano Tylor e
Frazer) quanto sotto quello pragmatico-funzionale,
nel senso che l’obbiettivo
principale di ogni comportamento umano è
“sempre” quello di risolvere qualche
problema esistenziale. In altre parole, il
primitivo riflette sulla realtà e
mette in opera attività magiche, religiose
o proto-tecnologiche a seconda del
problema che deve affrontare. Così come,
sempre secondo Malinowski, non è
affatto vero che nel mondo arcaico sia completamente
assente la dimensione
privata ed individuale (nonché una certa
differenza nell’intensità delle
credenze e nei comportamenti socio-cultuali)
poiché in alcune sfere operative
l’individuo può agire in modo discrezionale
e arbitrario.
Un punto-chiave
dell’analisi di Malinowski è la netta distinzione
che viene operata tra magia e
religione:
[…] Mentre nell’atto magico
l’idea e l’obbiettivo sottostanti sono sempre
chiari, espliciti e precisi,
nella cerimonia religiosa non vi è un proposito
diretto verso un evento
successivo. È solo possibile per il sociologo
stabilire la funzione, la raison
d’être sociologica dell’atto. L’indigeno può sempre
spiegare il fine di un
rito magico, ma di una cerimonia religiosa
dirà che si fa perché questa è
l’usanza o perché così è stabilito, o narrerà
un mito esplicativo. [29]
D’altra parte:
Dobbiamo renderci conto che nelle condizioni
primitive la
tradizione è di sommo valore per la comunità
e niente importa tanto quanto il
conformismo e il conservatorismo dei suoi
membri. L’ordine e la civiltà possono
esser mantenuti solo mediante una stretta
adesione all’insieme delle tradizioni
e delle conoscenze ricevute dalle generazioni
precedenti.
Chiudiamo con
la scuola storicistica (Pettazzoni, De Martino,
Brelich) questa nostra sommaria
e parziale esemplificazione di punti di vista
sulla religione primaria, se non
altro perché l’indirizzo storicistico rappresenta
una specificità italiana che
vale la pena di evidenziare. Raffaele
Pettazzoni è stato il primo studioso italiano
ad occupare una cattedra di
storia delle religioni, una disciplina che
nell’Italia di inizio ‘900 era
considerata tabù, per i rischi comparativi che poteva indurre
col
cristianesimo. Il suo approccio è fortemente
influenzato dallo storicismo
idealistico e per questa ragione esso nasce
con intenzioni correttive rispetto
alle posizioni positivistiche ed evoluzionistiche.
Sono particolarmente
importanti i suoi studi sull’ “Essere supremo”,
che viene visto non nella sua
generalità, ma come il frutto di specifiche
situazioni storiche ed inoltre con
caratteristiche da esse dipendenti, pur appartenendo
invariabilmente alla
categoria degli dèi uranici [30].
L’appartenenza al cielo è infatti un dato
naturistico fondamentale e primario,
in quanto al cielo sono legati i più importanti
fenomeni della natura a base
della sopravvivenza dell’uomo e delle sue
più importanti emozioni. Il sole e la
pioggia, il tuono e il fulmine, la luna e
le stelle, il vento e la neve, ecc.
costituiscono accadimenti ed aspetti del
mondo che sono fondamentali nella vita
dell’uomo, sia per quanto riguarda gli aspetti
materiali dell’esistenza sia per
quanto riguarda la sfera affettivo-emozionale.
Ernesto De
Martino pur partendo, come Pettazzoni, dalle
posizioni dello storicismo
idealistico lo piegò a una visione antropologica
molto personale e complessa,
coniugandolo sia con un certo emozionalismo
solidaristico di ascendenza
marxiana sia coll’esistenzialismo di Heidegger.
Secondo De Martino l’uomo che
vive nel mondo dominato dalla magia è protagonista
di un perpetuo dramma
storico, dove si trova sempre sul filo del
rasoio della perdita di sé e della
sua riconquista. Lo sciamano, che attraverso
la trance si mette in
contatto con lo spirito per conto della comunità
e mette in gioco se stesso, è
una sorta di “Cristo magico”, che si offre
come vittima per la salvezza degli
altri. Leggiamo un passo significativo de
Il mondo magico:
L’analisi delle tecniche magiche per produrre
la
condizione di trance sembra dunque porre come fine l’indebolimento
e
l’attenuazione dell’esserci, la dissoluzione
della coscienza come presenza. Ma
si tratta solo di un’apparenza, di un inganno
dell’astrazione propria della
nostra analisi. Ancora una volta, il rischio
a cui si espone il “ci sono” non è
che un momento del dramma esistenziale magico:
l’altro momento è il
riscatto dell’esserci, il porsi della presenza, l’articolazione
di un mondo significativo a cui si è presenti.
Se è vero che le tecniche
analizzate sono volte a combattere in varia
guisa l’oltre che condiziona la
presenza, è anche vero che queste tecniche
sono semplicemente un mezzo per
entrare in rapporto col rischio della propria
angosciosa labilità, per ordinare
e plasmare il caos psichico insorgente, per
leggere in questo caos le forme o
figure di “spiriti”, per evocare questi spiriti
padroneggiandoli, per entrare
nel mondo con questi spiriti, iniziando con
essi un’attività storica definita,
culturalmente significativa, socialmente
vantaggiosa. [31]
Dunque lo stregone, evocando la divinità, conduce un gioco in cui rischia di perdere tutto e nello stesso di guadagnare tutto a favore della comunità. La sua è un’operazione sostanzialmente caotica assai rischiosa, ma il premio è far emergere il “sacro” che porta l’ordine. Quando il “profano” invade col suo disordine e la sua casualità il mondo ogni uomo rischia di perdere la sua anima, ma lo stregone mette in atto la sua operazione salvifica e insieme con le anime di coloro che avvertono il rischio e a lui ricorrono recupera il mondo:
Necessariamente connesso al rischio magico
di perdere l’anima sta
l’altro rischio magico di perdere il mondo.
Correlativamente alla
rappresentazione e all’esperienza di un’anima
che fugge dalla sua sede, che è
insidiata, vulnerata, sottratta, rubata e
simili, sta la rappresentazione e
l’esperienza di oggetti che vanno oltre il
loro orizzonte sensibile, che si
sottraggono ai loro limiti, e che precipitano
nel caos. Quando un certo
orizzonte sensibile entra in crisi, il rischio
è infatti costituito dal
franamento di ogni limite: tutto può diventare
tutto, che è quanto dire: il
nulla avanza. Ma la magia, per un verso segnalatrice
del rischio, interviene al
tempo stesso ad arrestare il caos insorgente,
riscattarlo in un ordine. [32]
La prospettiva religiosa dell’uomo arcaico è la stessa della religiosità di tutti i tempi. La sua finalità, a dispetto dell’elementarità degli strumenti, è ancora sempre quella di restaurare un ordine cosmico ed esistenziale, il quale rischia sempre di venir compromesso dal flusso anarchico della contingenza. Ma nel mondo magico di De Martino, dove domina la magia e la religione non è ancora istituzione, non “una volta per tutte” ma “ogni volta” il Cristo magico deve salvare il suo popolo.
Per quanto riguarda Angelo Brelich, riporteremo il suo punto di vista sulla credenza religiosa e sul mito. Relativamente alla credenza egli osserva:
[…] Dal punto
di vista storico è irrilevante se una credenza
sia ‘giusta’ o ‘sbagliata’; anche se noi riteniamo che
una determinata religione sia quella ‘giusta’
e le altre erronee, restiamo
sempre davanti al compito storico di spiegare
come in una civiltà si sia costituita
o diffusa la ‘giusta’ religione, e come nelle
altre – e in ciascuna differenti
– religioni ‘false’; a questa questione storica
non risponde – dal punto di
vista scientifico – neppure la tesi della
‘rivelazione’, perché rimarrebbe
sempre da chiedersi perché la rivelazione
sia stata accolta da una parte
dell’umanità e non da altre parti di essa.
La ragion d’essere di una credenza,
inoltre, non può essere psicologica, se noi consideriamo la psicologia
come una scienza naturale valida per tutta
la specie umana; se, infatti, le
credenze si spiegassero con le leggi della
psiche umana, tutta l’umanità
avrebbe le stesse credenze. Ciò che crea
le differenze tra le singole civiltà,
è la loro storia; perciò anche la diversità delle credenze
ha ragioni
storiche [33].
Coerentemente con le premesse già poste da Pettazzoni, Brelich ribadisce che solo l’approccio storicistico rende ragione delle differenze tra le varie credenze. Il ché significa che la specificità di ogni religione resta un unicum, difficilmente interpretabile con categorie di carattere extra-storico. Per quanto riguarda il mito egli osserva:
[…] Una definizione cronologica del tempo
del mito
può variare da milioni di anni (come in certe
civiltà ‘superiori’ orientali) a
poche generazioni fa (per es. ‘prima dell’arrivo
dei bianchi’, presso molti
popoli coloniali), sebbene la forma più diffusa
di questa definizione sia il
vago ‘molto tempo fa’ […] Ogni mito narra
di un evento (o di una serie di
eventi, in ‘cicli’ mitici) che si sarebbe
verificato in quel tempo diverso, per
opera di personaggi diversi da quelli attuali,
in seguito al quale qualcosa che
prima non c’era stato avrebbe preso origine
o qualcosa che prima era stato
diverso sarebbe diventato come è attualmente.
[…] La mitologia di un popolo non
consiste semplicemente in un certo numero
di miti messi l’uno accanto
all’altro, ma costituisce un insieme organico,
di modo che normalmente è
difficile o impossibile capire un mito isolato,
senza conoscere l’intera
mitologia in cui è inserito [34].
Le mitologie quindi, fondamento di tutte le religioni (anche di quelle che chiamano le proprie: “storia sacra”), non sono un mero insieme di racconti, ma piuttosto dei “sistemi” ideologico-narrativi che dicono sempre molto più di quanto raccontino, visto che riescono sempre a determinare la credenza nei loro elementi fondamentali, accompagnandoli spesso con elementi di netta “cogenza”. Brelich infatti precisa:
[…] i miti fondano le cose che non solo sono
come sono, ma devono essere come sono, perché così sono diventate
in quel lontano tempo in cui tutto si è deciso;
il mito rende accettabile ciò
che è necessario accettare […] e assicura
stabilità alle istituzioni; provvede
inoltre a modelli di comportamento […]. Il
mito dunque, non spiega, per
un bisogno intellettuale, le cose […] ma
le fonda, conferendo loro
valore [35].
E il valore, all’interno di un sistema di riferimenti univoci, dove il bene e il male, diventano delle realtà definite e fissate una volta per tutte, può considerarsi veramente l’elemento dirimente e caratterizzante di ogni religione. Si tratta di un organismo sistemico che il mito crea attraverso una narrazione rigorosamente “orientata” e definita, che mantiene il suo valore e le sue implicite promesse a condizione di non venire mai alterata nei suoi fondamenti.
1.2 La
religiosità delle culture arcaiche (e l’impossibilità
dell’ateismo).
Essendo il tema
del presente saggio l’ateismo, ci si potrà
chiedere quale pertinenza con esso
abbia il tema di questo paragrafo; infatti,
se è vero che ogni credenza
religiosa ha la sua miscredenza, nelle società
arcaiche la miscredenza non solo
non è tollerata e rigorosamente proibita,
ma praticamente impossibile per la
natura del tipo stesso di contesto culturale.
Infatti, se il soggetto vuole
continuare a rimanere “integrato” nel corpo
sociale (e non rischiare la “morte
civile”) non ha altra scelta (ammettendo
che egli si ponga il problema) che
“credere” alle verità che la società gli
inculca e gli impone fin dalla nascita.
L’ateismo, d’altra parte, in quanto contestazione
su base razionalistica di una
credenza irrazionale, può sorgere soltanto
in una società dove la ragione (o
almeno la facoltà che noi identifichiamo
con questo nome) abbia diritto
all’esistenza e al suo esercizio, che deve
essere virtualmente esteso anche a
tutto ciò che riguarda la religione. Ma nelle
culture arcaiche, dove tutto
viene stabilito dallo “schema” del mito e
dalle regole che esso impone, si può
dire semplicemente (senza tema di apparire
paradossali) che la ragione,
relativamente a ciò che è veramente importante
e fondamentale, “non serve
assolutamente a nulla”. Le capacità intellettuali
del singolo individuo si
esercitano esclusivamente nella memorizzazione
del sistema e delle regole di vita
che esso comporta e nella loro applicazione
secondo schemi esistenziali
prefissati e condivisi. Infatti, il sistema
mitico risolve a priori tutti i
problemi esistenziali possibili ed immaginabili,
in quanto fornisce già tutte
le risposte metafisiche ed esistenziali che
il fedele può esigere (il ché,
peraltro, si verifica anche nei contesti
pervasi e dominati da religioni
fortemente ideologiche come i monoteismi
abramitici). Il soggetto non necessita
(e per alcuni versi non deve) porsi domande
e formulare problemi di carattere
metafisico, in quanto essi rappresentano
un’attività mentale del tutto oziosa,
se non molto pericolosa e disgregante per
l’individuo stesso, prima ancora che
turbativa per la comunità di cui fa parte.
Con la premessa
di cui sopra, apparentemente, l’ateismo non
c’entrerebbe allora nulla con le
religioni arcaiche! Se non ché la mentalità
arcaica (che noi riscontriamo
ancora “oggi” in poche comunità superstiti)
rappresenta verosimilmente uno
stadio che in un più o meno lontano “ieri”
tutti i gruppi umani (a tutte le latitudini,
quote e contesti
ambientali) devono aver attraversato. Il
discrimine si pone infatti
esclusivamente tra i gruppi umani che in
quel modo di vivere hanno trovato il
loro miglior modo di stare insieme nel mondo
e quelli che invece non hanno
ritenuto utile o soddisfacente quel sistema
e ne hanno cercato un altro in cui
il pensiero filosofico e quello scientifico
hanno potuto, in seguito,
totalmente dissociarsi da quello religioso.
Rimane tuttavia il fatto che le società
arcaiche (giuste le premesse teoriche di
Durkheim), molto meglio di quelle
avanzate, ci permettono di capire “come è
fatto l’uomo” nella sua struttura
mentale più fondamentale ed autentica. Una
struttura mentale in cui prevale
l’elemento psichico a scapito di quello razionale
e dove la psiche (come
vedremo oltre) “pretende” in modo cogente
e ineludibile la conservazione della
sua omeostasi [36].
Questa è d’altra parte facilmente ottenibile
attraverso concezioni del mondo e
dell’esistenza che garantiscano uno scenario cosmologico
chiaro,
prefissato e ordinato insieme a concezioni
biologiche garantite dal mito, a un
ordinamento cultuale fisso, a un’etica precettistica
definita e inviolabile. E
tutti questi elementi determinanti si basano
quasi esclusivamente su una
concezione del mondo basata sulla fantasia,
che conferisce realtà (talvolta con
esiti di grande poesia) ad un mondo perlopiù
illusorio [37].
A differenza
delle società antiche (che esamineremo nel
paragrafo seguente) quelle arcaiche
sono caratterizzate da visioni del mondo
unitarie, “fisse” e perlopiù
“statiche”, basate su miti, culti e rituali
ancorati a una religiosità cogente
e totalizzante in termini ontologici, dove
la visione del mondo (che è anche
ciclica ricreazione e rinascita del mondo)
impone una replicazione puntuale e
rigorosa di rituali ed usanze. Mentre
nelle società antiche il mito ha rappresentato
la fase iniziale di una
religiosità che potremmo definire in un certo
senso “contingente” e relativizzata
ad una fase antropologica “di passaggio”,
in quelle che abbiamo definito
arcaiche il mito non rappresenta mai una
fase di passaggio, ma la immutabile e
ripetitiva base di rifondazione della comunità
stessa nel suo stesso “essere”,
che è pertanto sempre definitivo e ritualmente
ripetuto a scadenze fisse e
secondo modalità immutabili. In altre parole,
mentre la religiosità antica è
stata un fenomeno “storico” e quindi evolutosi
in forme diverse (perlopiù
monoteistiche), più o meno tolleranti del
pensiero scientifico e di una
filosofia irreligiosa, quella arcaica resta
(secondo la definizione di Mircea
Eliade) “anistorica” e quindi totalmente
immobilistica. Per questa ragione il “mondo” arcaico, come
realtà contestuale e sociale, può soltanto
essere di volta in volta
ripristinato, ma mai mutato. Alla scadenza
dell’anno solare, molto spesso in
corrispondenza dei solstizi, il cosmo primitivo
muore e rinasce attraverso i
rituali che evocano la sua nascita, il sorgere
della vita, del gruppo sociale e
delle sue istituzioni. In questo modo non
soltanto il mondo arcaico rende
impossibile l’avvento dell’incredulità nelle
divinità istituite, ma rende
impossibile anche qualsiasi forma di mutamento
della weltanschauung acquisita,
che è stata istituzionalizzata e ritualizzata
in modo definitivo.
Da un punto di
vista che potremmo definire criticamente
“ateo-individualistico” per noi è
pertanto legittimo ritenere che soltanto
le società “aperte” siano
antropologicamente auspicabili, ma se noi
adottassimo invece un punto di vista
opposto, vale a dire quello che non privilegia
la specificità del singolo
(nella sua libertà di realizzarsi individualmente)
ma il gruppo sociale in cui
l’individuo stesso (non perseguendo la propria
“individualità” bensì la sua
“appartenenza” a una totalità) cerca stabilità,
unità, omogeneità e coesione,
allora il nostro punto di vista può venire
ribaltato. In tale concezione
diventa infatti auspicabile non già una società
culturalmente pluralistica e
libera, ma piuttosto una società “stabile”,
ovvero rigorosamente ancorata e
stabilizzata nella tradizione, chiusa pertanto
ad ogni novità perturbativa
dell’insieme sociale, e nello stesso tempo
protettiva di ogni singolo soggetto
che lo costituisca e che in esso si riconosca
e si identifichi. L’identità
personale di un soggetto arcaico (ma anche
di un moderno soggetto con tendenze
filo-arcaiche) non è già garantita dalla
libertà ideale e culturale, che consente una libera realizzazione delle
singole individualità nella loro specificità
antropica, ma piuttosto da una
identità globale, solida e immobile, nella
quale riconoscersi e fondersi. Che
poi tale identità globale si realizzi nella
staticità dei rapporti sociali e
nella monoliticità della cultura e che ciò
conduca all’immobilità, al
conformismo e ad una relativa arretratezza
rispetto a società più dinamiche e
libere, rappresenta un problema soltanto
per chi “estraneamente” non consideri
tutto ciò come il massimo valore antropologico
da realizzare. Poiché, come è stato ben messo in luce da
Durkheim, se la monoliticità e la coesione
sociale rappresentano il valore
supremo da perseguire è evidente che tutto
ciò che vi si oppone o la mette in
discussione deve essere considerato un disvalore.
La “divinità”
nelle culture arcaiche, sotto qualsiasi forma
e organizzazione si presenti, è
pertanto l’unico elemento culturale che,
identificato colla socialità, ne
diventa pilastro portante. Infatti esso si
pone ad un livello ontologico
super-umano, intoccabile e immutabile, che
mai nessun uomo potrà permettersi di
disconoscere o di mettere in discussione,
e su questo si fonda infatti la
solidità, la coesione e (in molti casi) la
perpetuità dell’identità di un
gruppo umano sempre uguale a se stesso, anche
se cambia il numero e la
tipologia dei suoi membri.
Nei contesti
arcaici l’ateismo non è possibile perché
nessuna forma di divinità ivi presente
è assoggettabile a negazione e quindi la
divinità arcaica non può diventare
oggetto dell “a” privativo che precede “teismo”.
E d’altra parte essa
costituisce il paradigma ideale di ogni condizione
umana in cui l’ateismo non è
stato possibile e in cui la libertà metafisica
che esso determina è totalmente
fuori di ogni possibile orizzonte presente
e futuro. In termini antropologici,
le società arcaiche (in quanto custodi di
una forma immutabile di religione
assoluta) oltre che pre-filosofiche e pre-scientifiche
devono anche ritenersi
“pre-atee”, in quanto l’ateismo costituisce
un orizzonte antropico possibile
soltanto dove gli venga lasciato spazio di
nascere, sussistere ed esprimersi
esercitando eventualmente la sua critica
e la sua opposizione concettuale. Come
è potuto allora succedere che il Cristianesimo,
che con ogni evidenza è la
religione che più ha reso possibile (o tollerato)
un pensiero filosofico e un
pensiero scientifico abbia potuto covarsi
“la serpe in seno” dell’ateismo? Ne accenneremo nel secondo patragrearo del
IV capitolo.
1.3 Genitori divini per un “appartenenza”.
Tra le evidenze
antropologiche ve n’è una che emerge su tutte
le altre: ciò che la psiche umana
riesce più difficilmente a sopportare è l’isolamento
e l’emarginazione sociale
ed è indubitabile che la religione costituisca
(col suo riferimento ad un
entità trascendente comune a tutti) un formidabile
sistema di aggregazione e
per ciò stesso di “legame” e quindi di “dipendenza”
dalla divinità [38].
Da ciò la tendenza ineluttabile di ogni individuo
a cercare in qualche modo di
“appartenere” a una “famiglia” ideale all’infuori
dei vincoli parentali, che
determini e protegga una solida identità
attraverso l’autorità di un capobranco
reale o immaginario di carattere extra biologico.
La società, come totalità
statuale (Hegel), come comunità sacrale (Durkheim)
o come sacralità
socializzata (Eliade) è la “casa” in cui
il singolo individuo può trovare
chiarezza ideologica, precettistica definita
e omeostasi psichica quasi
garantita. L’individualità, la specificità,
la irriducibilità del soggetto alla
totalità sociale, in termini antropologici,
costituiscono sempre delle
inopportune derive cariche di rischi. La
religione ha sempre svolto un ruolo
primario nel creare, determinare e conservare
la tranquilla, sicura e
tonificante “dimora” ontologico-metafisica
che accoglie e protegge l’individuo.
Si scopre in ciò il ruolo fondamentale che
l’ipostasi della divinità, che è
sempre protettrice “di tutti”, consegue nella
società organizzata, andando
oltre la arbitraria magia “di qualcuno”.
Come ha
giustamente osservato Mauss (e prima di lui
Durkheim) mentre la religione è un
fatto sociale la magia è un fatto eminentemente
privato, al limite persino
antireligioso e ciò viene percepito con grande
evidenza nelle più moderne
religioni ideologiche e istituzionalizzate
[39].
Ma se la religione è fondamentale per determinare
la totalità (la “casa”) dove
può rifugiarsi la singolarità che cerca “appartenenza”
nelle diverse epoche, al
comando di questa casa non vi è stato sempre
un'unica categoria tipo di “entità
supreme” e protettrici, e la storia e l’archeologia
ci riservano sotto questo
aspetto interessanti sorprese. Non vogliamo
qui insistere sugli aspetti della
divinità presenti nelle società arcaiche,
le quali, tutto sommato (pur
possedendo come contesti testimoniali un
elevato valore antropologico ed
etnologico) hanno oggi una sostanziale irrilevanza
sociale, ma prendere in
considerazione le moltitudini approdate a
forme di sostanziale monoteismo, sia
che la divinità designata si chiami Shiva,
Jahvé, Dio, Allah o altro. È quindi
sugli “esseri supremi” dell’antichità, immediati
precursori del “dio unico”
(più tardi affermatosi), che ci
soffermeremo in questo paragrafo.
Proseguendo
nella nostra indagine-confronto tra storia
sacra e mito ci imbattiamo in una
questione collaterale, ma non priva di significato
per l’argomento che stiamo
qui trattando: quella del sesso della divinità
e della sua collocazione o
identificazione. Una questione piuttosto
interessante questa, che riguarda la
natura e le caratteristiche delle figure
mitico-religiose, poiché ne mette in
evidenza gli aspetti ideologici, e quindi
specificamente “artificiali”,
rispetto a una certa “naturalità” politeistica
come era quella espressa dal
paganesimo greco-romano. Le figure divine
al vertice del potere (o quintessenza
unica di esso) sono sempre anche quelle che
giudicano, che puniscono o che
gratificano; una sorta di padri-padroni siti
generalmente nel cielo,
dispensatori di grazie o di punizioni meteoriche,
adorati, blanditi e temuti.
L’affermarsi
dell’androcrazia divina è stato un fenomeno
così netto, a partire da un certo
momento della storia umana, che in molte
religioni la casta sacerdotale e
quella regale hanno finito per determinarsi
come esclusivamente maschili. Ma
non sembra esser stato sempre così. Se nei
tempi storici, quelli posteriori
alla comparsa della scrittura, è indubitabile
che la divinità sia per lo più al
maschile, vi sono alcune buone ragioni archeologiche
per ritenere che, in epoca
preistorica e per periodi abbastanza lunghi,
la Grande Madre (o Grande Dea)
fosse stata la divinità di riferimento per
l’intera area mediterranea fino al
Nord Europa e alla Siberia. Le statuette
cosidette “stereatopigie” (dai fianchi
larghi) sono state rinvenute in un areale
vastissimo e ormai se ne contano nei
musei diverse migliaia, a testimonianza di
un culto che verosimilmente era
assai lontano dalla “personalizzazione” degli
dei olimpici, ma ancor più da
quella estrema dell’onnipotente Jahvé semitico
(ereditato poi da Cristianesimo
e Islam), di una vendicatività e di una violenza
che sembrano essere
prerogative esclusive della più spiccata
virilità, e che può dare al suo popolo
ordini del seguente tipo:
Quando ti
avvicinerai ad una città per assalirla, proponile
prima la pace. Se l’accetta e
ti apre le porte, tutto il suo popolo ti
sia tributario e soggetto. Ma se essa
rifiuta la pace e comincia a farti la guerra
assediala. Il Signore, Iddio tuo,
te la darà nelle mani e allora metti a fil
di spada tutti i maschi; ma le
donne, i bambini, il bestiame e tutto ciò
che sarà nella città, tutto quanto il
suo bottino, portalo via con te e goditi
del bottino dei tuoi nemici, che il
Signore, Iddio tuo, ti avrà dato
Tratta così tutte le città, che sono molto
lontane da te e che
non appartengono a queste genti. Però nella
città di questi popoli, che il
Signore, Iddio tuo, ti dà in possesso, non
ci lascerai anima viva; ma voterai
alla distruzione questi Etei, questi Amorrei,
questi Cananei, questi Ferezei,
questi Evei e questi Gebusei, come il Signore,
Iddio tuo ti ha comandato […] [40]
La questione
non è così inessenziale come potrebbe sembrare,
e ciò anche ai fini della
nostra ricerca sull’ateismo concettuale;
poiché, se esso si pone come negatore
della divinità in generale, diventa più difficile
definirlo nei confronti di
una religione che non potrebbe essere altro
che un naturalistico e affettivo culto
(molti di noi ne hanno uno simile per la
“propria” madre) nei confronti di una
“grande” Madre, ovvero della natura, genitrice
e nutrice di tutto ciò che vive.
Le statuette steatopigie, per quello che
può valere una considerazione estetica
moderna, fanno propriamente pensare alla
“terra”, quella pesante, umida e
grassa che fa nascere, crescere e fiorire
la vegetazione e dissolve i cadaveri
per ricreare altra vita. È questa una connotazione
della divinità che non
possiede alcuna delle caratteristiche del
terribile dio celeste, a cui bisogna
ubbidire o comunque rendere ragione dei propri
atti. Che cosa può avere di
temibile e che cosa può pretendere una madre
che dà tutto di sé e nulla può
chiedere, se non di immergersi nella sua
fenomenologia ciclica della vita e
della morte, dove tutto si trasforma e si
evolve mantenendosi, nella sua
essenza materiale, uguale a se stessa? Quale
materialista (e quale ateo)
potrebbero rifiutare un tale atteggiamento
“religioso” ? Una religione di tal
genere ci mostra un volto della divinità
che non possiede alcuna delle
caratteristiche delle religioni ideologiche
in seguito affermatesi come
dominanti, all’interno delle quali ha potuto
svilupparsi quell’incredulità
evolventesi in negazione e rifiuto che conduce
all’ateismo vero e proprio.
L’affascinante
tesi di un matriarcato preistorico legato
al culto della Grande Madre inizia la
sua avventura abbastanza di recente, con
Johann Jakob Bachofen, il quale, nel
1861, pubblica il famoso saggio che ha dato
origine a tutte le tesi sulla
prevalenza del “femminile” nel mondo arcaico
pre-storico [41].
L’autore, basandosi su una vastissima cultura
classica non priva di influenze
romantiche, stabilisce, a partire da un analisi
della simbologia antica, un
modello archetipico al femminile di divinità
che sarebbe stato prevalente in
epoca remota, trapassando poi nelle tarde
figure della protosemitica Ishtar o dell’ellenica Demetra. Questa tesi
del matriarcato primitivo non ha mai trovato
conferme scientifiche in campo
etnologico (se non molto deboli nelle discendenze
matrilineari ancora attuali)
e tuttavia ha stimolato la riflessione su
di un epoca lontana in cui
verosimilmente i gruppi umani non erano dominati
dalle logiche di potere che
più tardi si sarebbero instaurate quasi ovunque
col patriarcato.
Va tuttavia
detto che in assenza di elementi storici
veramente probanti sull’epoca di
fioritura di questa religiosità naturalistica
sotto il segno del “femminile”
gli studiosi non riescono a trovare concordanze
sulla cronologia. Il già citato
Eliade (e con lui molti altri) fa coincidere
l’inizio del periodo centrale del
culto della Grande Madre con l’avvento delle
attività agricole:
La prima e forse la più importante conseguenza
della scoperta
dell’agricoltura, suscita una crisi nei valori
dei cacciatori paleolitici: le
relazioni d’ordine religioso con il mondo
animale sono sostituite da quella che
possiamo chiamare solidarietà mistica tra uomo e vegetazione. Sino a
quel momento l’essenza e la sacralità della
vita erano state rappresentate
dall’osso e dal sangue, ora lo saranno dallo
sperma e dal sangue. Inoltre, la
donna e la sacralità femminile vengono in
primo piano. Avendo svolto una parte
decisiva nella domesticazione delle piante,
le donne divengono proprietarie dei
campi coltivati: ciò eleva la loro posizione
sociale e crea istituti
caratteristici, come per esempio la matrilocazione:
l’obbligo per il marito di
abitare nella casa della moglie. [42]
Di avviso
completamente diverso è Pepe Rodriguez, un
serio ricercatore spagnolo
contemporaneo che ha dedicato un intero saggio
al problema della divinità al
femminile, e che ritiene il culto della Grande
Madre tipico delle fasi che
precedono l’introduzione dell’agricoltura
(quelli della “caccia e raccolta” e
della piccola orticultura) che segnerebbe
invece l’inizio dell’instaurazione
del patriarcato. La tesi di partenza è la
seguente:
[…] Il potere è detenuto
realmente da colui o coloro che, indipendentemente
dal sesso, hanno il
controllo della produzione e della distribuzione
degli alimenti, nonché dalla
ricchezza derivata dalla loro eccedenza [43].
Rodriguez ritiene che nella fase antropica
di “caccia e
raccolta” fosse la seconda attività ad assicurare
continuità alimentare e che
quindi le comunità primitive dipendessero
prevalentemente dal lavoro delle
donne, e ciò anche nella successiva fase
orticola:
Appare ovvio che l’orticultura derivò direttamente
dalle
osservazioni fatte dalle donne durante le
migliaia d’anni in cui lavorarono
come raccoglitrici […] e che le donne dovettero
esercitare un pieno controllo
su quella fondamentale attività fino al momento
in cui cambiamenti ambientali
e/o l’incremento demografico – che costringevano
all’aumento della produzione
di alimenti – richiesero una progressiva
partecipazione dell’uomo ai lavori
agricoli. E la sua prima funzione, data la
sua maggior forza muscolare, fu
quella di ripulire dalle sterpaglie i futuri
terreni di coltivazione per
renderli accessibili alle donne, che continuavano
ad essere incaricate della
raccolta.
Ma in quelle collettività una norma logica
finì per imporsi:
maggiore è la dipendenza di una comunità
dagli alimenti coltivati, maggiore
dovrà essere l’investimento in sforzi, tempo
e soggetti da destinare al lavoro
per produrli; quanto più aumenta la durezza
del lavoro, tanto più appare
probabile che tocchi agli uomini finire per
assumerlo parzialmente o totalmente
[44].
Nella tesi di Rodriguez è implicita un'altra
considerazione piuttosto interessante: gli
uomini sarebbero diventati i
maggiori operatori agricoli e i controllori
delle risorse alimentari quasi
involontariamente, godendo essi, nella fase
precedente, di un relativamente
scarso coinvolgimento lavorativo, poiché
le attività di caccia e di difesa del
territorio erano del tutto saltuarie. Infatti:
Con l’introduzione dell’agricoltura non si
smise di cacciare né
di raccogliere alimenti selvatici, ma la
pressione demografica rese più scarse
queste ultime risorse e obbligò a dipendere
sempre più dai propri raccolti di
cereali e leguminose, come pure dal bestiame
domestico. Lo sforzo necessario a
poter alimentare una comunità in crescita
richiese più culture e una maggior
produzione, cosicché gli uomini, come già
abbiamo detto, dovettero
progressivamente lasciarsi alle spalle la
comoda esistenza che condussero nella
fase orticola e dovettero mettersi ad aiutare
le donne nei lavori di
coltivazione, anche se alla fine, dopo circa
quattro millenni di vita agricola,
spinti dalle nuove condizioni sociali e lavorative
alle quali si sarebbe
giunti, la rimpiazzarono del tutto. [45]
Con ciò, secondo Rodriguez, i maschi, avrebbero
rimpiazzato le donne nell’attività agricola
e nello stesso tempo esse,
probabilmente sempre più impegnate ad accudire
una numerosa prole, sarebbero
state relegate alle attività domestiche (secondo
uno scenario diffuso tutt’ora
e a tutte le latitudini nelle società pre-tecnologiche).
Ad un’iniziale
situazione matriarcale (“forse” aggiungiamo
noi) sarebbe succeduto il prevalere
del maschio quale controllore delle risorse
alimentari (e probabilmente della
difesa degli accumuli di esse) e da ciò sarebbe
dipeso in gran parte l’avvento
del successivo patriarcato [46].
Tuttavia, si
“appartiene” alla divinità non soltanto perché
consente la vita e il suo
mantenimento attraverso le risorse alimentari,
ma anche perché (e probabilmente
soprattutto) legandosi ad essa ne deriva
sicurezza di riferimenti e quindi omeostasi
psichica. Dunque: appartenenza “al gruppo”
nelle società arcaiche tuttora
esistenti, appartenenza “alla terra” con
il culto preistorico della Grande
Madre, appartenenza “a Dio” nei monoteismi
abramitici, e così via. L’uomo, in
quanto animale sociale, sembrerebbe tendere
nella sua storia a cercare
costantemente e pervicacemente “appartenenze”
sovra-individuali di qualche
sorta. Anche certi gruppi giovanili del nostro
tempo si presentano come il
rifugio di individualità precarie ed incerte,
che cercano una qualche appartenenza;
ovvero una qualche integrazione, per formare
un “insieme” in cui riconoscersi.
Tutte queste realtà vanno indubbiamente riferite
al fatto che l’homo sapiens
è costitutivamente un mammifero sociale,
ma l’approdo della socialità alla
“dipendenza” sociale deve essere considerata
una deriva legata ad esigenze
psichiche che prescindono e superano la socialità
in senso stretto e che
sconfinano in un “bisogno del sacro” sovra-individuale.
Questa realtà getta luce sulla
millenaria tendenza istintiva dell’uomo a
cercare “fuori di sé” la propria
ragione di essere e di esistere. È rilevante
il fatto che in tutto il mondo
primitivo, e ancora oggi in buona parte delle
culture asiatiche,
l’individualità venga considerata un falso
miraggio e molto spesso una colpa
imperdonabile. La meta, sia essa il nirvana o la perfezione,
presuppone sempre la rinuncia alla propria
unicità e la salvifica fusione nella
“totalità”. Anche se nell’Occidente industrializzato
le esigenze individuali
sembrano talvolta prevalere, non possiamo
considerarci per nulla esclusi da
nuovi sistemi (più o meno ideologici) di
“totalizzazione”, che potrebbero
garantire nuove appartenenze metafisiche
(o semplicemente sovra-individuali) di
qualche genere, ma che “funzionerebbero”
allo stesso modo di quelle pregresse.
Sul tema dell’appartenenza,
riferito alle popolazioni arcaiche o primitive,
gli etnologi si confrontano da
tempo e con sostanziali criteri di convergenza,
sia pure da angolazioni
diverse. Un contributo assai interessante
a questo tema ci viene dal già citato
De Martino, su cui vogliamo qui tornare per
l’aderenza delle sue tesi al
problema di cui ci stiamo occupando (la ricerca
costante di una salvifica
integrazione del singolo nell’identità unitaria
e totalizzante del gruppo),
colta da lui secondo un’interpretazione che
mescola idealismo, marxismo,
esistenzialismo e psicanalisi. Per questo
autore l’uomo (come si è già visto §
1.1), nella sua fase di appartenenza al primitivo
mondo magico legato allo
sciamanismo, deve far fronte ad un pericolo
esiziale che sta sempre dietro
l’angolo: quello di perdere il suo legame
culturale/esistenziale col gruppo di
appartenenza e con ciò “perdere” la sua anima.
A salvaguardia di tale devastante “crisi
della presenza” l’heideggeriano
“esserci” assume così una denotazione completamente
nuova. Non è più un “essere
gettati” nel mondo per costruirsi un esistenza,
ma un fuggire dal caos del
mondo che mette a repentaglio l’esistenza
stessa; ne deriva pertanto un cercare
protezione “dal mondo” nella nicchia culturale
ed esistenziale di un’appartenenza
sociale forte e sicura.
De Martino
rileva che la singolarizzazione individuale,
come dato di coscienza della
nostra unicità, permea la nostra cultura
al punto da diventare un presupposto
antropologico. Nelle società arcaiche, però,
le cose stanno in modo ben
diverso:
Ma nel mondo magico ciò che qui è un presupposto
sta ancora come
“problema”. Nel mondo magico l’anima può
essere perduta nel senso che nella
realtà, nella realtà e nell’esperienza
essa non si è ancora data, ma è una fragile
presenza che (per esprimerci con un
immagine) il mondo rischia di inghiottire
e di vanificare. Nel mondo magico
l’individuazione non è un fatto, ma un compito
storico, e l’esserci una realtà
condenda. Di qui un complesso di esperienze
e di rappresentazioni, di misure
protettive e di pratiche, che esprimono ora
il momento del rischio esistenziale
magico, ora il riscatto culturale, e che
formano, nella loro drammatica
polarità, il mondo storico della magia. La
propria presenza personale,
l’esserci, l’anima, “fugge” dalla sua sede,
può essere “rapita”, “rubata”,
“mangiata” e simili; è un uccello, una farfalla,
un soffio […] [47]
Il problema dell’anima viene qui posto come
quello
dell’individualità all’interno di una totalità
e non come ricettacolo di una
divinità esterna, infatti è la totalità-unità
del gruppo il fulcro della
sacralità; un’entità quasi iper-divina. Il
mondo magico delineato da De Martino
è quindi un mondo iper-divinizzato e coinvolgente
che “costruisce” delle
individualità integrate nella comunità; con
ciò la comunità costituisce una
“madre” culturale e sacrale assai più importante
e vitale di madre-natura. Si
comprende qui come non ci troviamo di fronte
a delle “fasi” evolutive dell’homo
sapiens, bensì a “sistemi” di individuazione e integrazione
completamente
differenti da quelli che hanno improntato
le antiche società europee. E con ciò
abbiamo forse qui colto il problema centrale
dell’uomo delle origini, in
rapporto al senso della sua esistenza, e
insieme il rapporto dialettico tra
individualità e totalità nella sua generalità.
L’ateismo teorico, all’opposto,
si presenta sempre come un tentativo di sottrarre
l’uomo al suo annullamento in
qualcosa che lo trascenda e quindi il suo
obbiettivo non può essere che
l’eliminazione del legame con la sacralità
totalizzante in qualsiasi forma essa
si presenti, dando corso ad un itinerario
di libertà (talvolta psichicamente
rischioso) che avvia il singolo verso la
realizzazione di un’individualità che
appartiene a se stessa. In questo senso l’ateismo
non è soltanto una negazione
di Dio, quanto una negazione di tutto ciò
che “totalizza”, “lega” e “annulla”
l’individuo in un’insieme che lo trascende.
Esso quindi opera il taglio
radicale di quel cordone ombelicale che lega
spesso l’uomo ad una
“appartenenza” metafisica o che gliela fa
cercare inconsapevolmente, appena si
sente più solo e indifeso, per un retaggio
ancestrale di natura psichica.
[1] A questo nostro punto di vista si contrappone un atteggiamento ateo da cui intendiamo distinguerci, quello che vede come fondamenti di ogni fenomeno religioso intenti mistificatori, “oppiacei” e strumentali ,miranti al potere e al dominio delle coscienze. Interessante espressione recente di tale atteggiamento è la monumentale ed enciclopedica opera di Giovanni Grana (in quattro volumi e per un totale di oltre duemilacinquecento pagine) L’invenzione di Dio (Edizioni SETUP 2000-2002). Grana è, comunque, un colto e attento studioso delle religioni che meriterebbe maggiore attenzione, sia per l’acutezza dell’analisi e sia per la ricchezza dei riferimenti e delle citazioni.
[2] Con cultura “arcaica” intendiamo quella che in passato veniva chiamata, in generale, “primitiva”. I due aggettivi sono praticamente sinonimi, ma il primo ci consente di sottolineare il nostro distacco, ormai diffuso nella ricerca contemporanea, dall’etnocentrismo del passato, quando si usava l’aggettivo “primitivo” spesso per stigmatizzare (talvolta con implicito disprezzo) il selvaggio rozzo, involuto, ignorante e irrazionale. Lévi Strauss (il fondatore dell’anropologia strutturale) chiamava queste società arcaiche “fredde” e invece “calde” quelle a tecnologia avanzata, alludendo allo spreco di energie (entropia) espresso da queste rispetto al risparmio di quelle (sia in senso fisico che in senso psichico), con un chiaro apprezzamento per le prime e una certa presa di distanza dalle seconde. Questo atteggiamento, variamente riscontrabile in tutti gli studiosi del ‘900, intendeva contrapporsi all’etnologia sette-ottocentesca, che considerava i soggetti delle cosiddette società “primitive” pigri, neghittosi e incapaci di qualsiasi ragionamento logico-astratto. In realtà la cultura delle popolazioni arcaiche è soltanto una cultura “altra”, legata a una weltanschauung mistico-irrazionalistica profondamente religiosa e totalmente differente da quella delle società pervase dal pensiero scientifico. Ciò resta vero anche se, a causa di tale base mistico-irrazionalistica, profondamente interiorizzata dall’uomo arcaico, in quelle società l’ateismo è impossibilitato a nascere e ad esprimersi.
[3] Con cultura “antica” intendiamo designare quelle culture (europee, mediorientali, orientali) che si sono poi successivamente trasformate in maniera netta, adottando nuove religioni, producendo ricerca scientifica e assumendo connotazioni più o meno tecnologiche. Relativamente a queste società riferiamo l’aggettivo “antico” ad un periodo che a grandi linee precede la data (assunta del tutto convenzionalmente) della nascita di Cristo (infatti l’espressione “a.C.” può esser intesa altrettanto correttamente come “avanti Convenzione”).
[4] Walter Burkhert La creazione del sacro (Orme biologiche nell’esperienza religiosa) Adelphi – 2003. Va però rilevato che Burkert precisa il suo atteggiamento rispetto alla sociobiologia nei termini seguenti (p.39). «La possibilità di una derivazione sociobiologia della religione resta quindi celata nella preistoria. L’idea è attraente. C’è una vasta distesa di tempo a disposizione del processo evolutivo, con decine di migliaia e anche centinaia di migliaia di generazioni a riempire lo iato tra scimpanzé e homo sapiens, mentre in altri casi studiati dalla sociobiologia il problema del periodo di tempo in questione è sembrato insuperabile. La religione, provenendo da tempi immemorabili e spesso caratterizzata dal principio di una immutabile continuità, potrebbe fornire un paradigma per la “coevoluzione di geni e cultura”. Non c’è modo, però, di verificare questa ipotesi, si tratti di trentamila, trecentomila o tre milioni di anni, di mille, diecimila o centomila generazioni; alla stregua dei criteri scientifici, l’ipotesi perde utilità. Possiamo solo ricostruire vagamente le condizioni culturali decisive. Mentre col tempo le incertezze si moltiplicano, le evidenze si dileguano. La sociobiologia, che insiste su precisi parametri in modelli matematici, non può avere applicazioni appropriate in queste sfere. Probabilità, osservazioni selettive e intuizioni dovranno prenderne il posto.».
[5] Salvo i casi in cui è stato “usato” a fini di potere e di sopraffazione.
[6] Burkert (Op.cit – p.17) all’inizio del primo capitolo di La creazione del sacro, che intitola Cultura in un paesaggio (Situare la religione) afferma: «All’ubiquità della religione si accompagna la sua persistenza attraverso i millenni. La religione è sopravvissuta ai più drastici cambiamenti sociali ed economici: alla rivoluzione neolitica, alla rivoluzione urbana, alla rivoluzione industriale. Se mai fu inventata, la religione è riuscita a permeare praticamente tutte le varietà della cultura umana; nel corso della storia, comunque, la religione non è mai stata reinventata, a quanto si può dimostrare, ma è sempre stata presente, tramandata di generazione in generazione da tempo immemorabile. Quanto ai fondatori di nuove religioni, come Zarathustra, Gesù o Maometto, la loro opera creativa è consistita nel trasformare, rovesciare o riordinare modelli ed elementi esistenti, che continuano ad aver innegabili somiglianze di famiglia con forme più antiche. ».
[7] Per un’analisi del fenomeno religioso da punto di vista esplicitamente ateistico si veda G.Grana Op.cit. vol.I pp.27-307
[8] Tesi di questo tipo sono rinvenibili in quasi tutta la cultura marxista a cominciare proprio da Marx ed Engels. Un testo abbastanza discutibile, ma comunque interessante, è quello di Ambrogio Donini (Lineamenti di storia delle religioni Editori Riuniti 1959), nel quale viene sviluppato uno studio sulla nascita e sugli sviluppi del sacro rilanciando il punto di vista marxista. Alcune tesi sono condivisibili (p.68: «L’idea di creazione nasce con l’homo faber») ma vi è anche qualche asserzione piuttosto ideologica (p.124: «Zeus, Ares, Plutone, Posidone, con le loro divine consorti e amanti, con i loro paggi e cortigiani, erano gli dèi di padroni.»). Donini rilancia anche il nesso tra l’istituzione della religione nelle società del mondo antico e l’esercizio dello schiavismo.
[9] Ci è sembrato opportuno questo veloce passaggio informativo (pur essendo consapevoli della sua approssimazione ed insufficienza) quale indicazione orientativa da offrire a coloro che intendessero approfondire il tema della religione arcaica. Degli autori citati faremo ora seguire le coordinate cronologiche e le opere considerate più importanti relativamente al nostro argomento:
Edward Burnett Tylor (1832-1917) Cultura primitiva (1971).
James George Frazer (1854-1941) Il ramo d’oro (1911-1915).
Robert Ranulph Marett (1866-1943) Nascita della religione (1909).
Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) La mentalità primitiva (1922).
Rudolf Otto (1869-1937) Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale (1917).
Mircea Eliade (1907-1986) Trattato di storia delle religioni 1949).
William Robertson Smith (1846-1894) Letture sulla religione dei Semiti (1889).
Emile Durkheim (1858-1917) Le forme elementari della vita religiosa (1912).
Marcel Mauss (1872-1950) Teoria generale della magia (1950).
Edward Evan Evans-Pritchard (1902-1973) Teorie sulla religione primitiva (1956).
Alfred Reginald Radcliffe-Brown (1881-1955) Una scienza naturale della società (1957).
Bronislaw Caspar Malinowski (1884-1942) Magia, scienza e religione (1925).
Claude Lévi-Strauss
(1908) Antropologia strutturale (1958),
Il pensiero selvaggio (1962).
Raffaele Pettazzoni (1883-1950) L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi (1922).
Ernesto De Martino (1908-1965) Il mondo magico (1948).
Angelo Brelich (1913-1977) Introduzione alla storia delle religioni (1966).
[10] In Necessità e libertà (Editrice Clinamen 2004) abbiamo proposto (Prefazione e I.1) una filosofia pluralistica della realtà che si estrinseca in un sostanziale dualismo dell’esperienza antropica. La struttura mentale dell’homo sapiens è secondo noi in grado di percepire, oltre alla materia, una seconda realtà, che abbiamo chiamato aiteria e che concerne gli affetti, le emozioni estetiche e quelle etiche, gli entusiasmi della scoperta e della conoscenza.
[11] James G. Frazer (1854-1941) Il ramo d’oro – Bollati Boringhieri 1991 – p.824.
[12] Robert Ranulph Marett (1866-1943), allievo e successore di Tylor a Oxford, in “Folklore”, vol. XI, del 1900, esponeva la sua teoria, che identificava nel mana melanesiano il prototipo di tutte le entità trascendentali in cui l’uomo ha posto le sue credenze.
[13] Levy-Bruhl (etnologo di formazione filosofica), utilizzando anche i precedenti studi sociologici di Durkheim, è stato uno dei primi antropologi a studiare (non direttamente ma documentalmente) il pensiero e il comportamento dei primitivi, attingendo a una larga messe di documenti etnologici relativi alle testimonianze di viaggiatori, missionari, pubblici funzionari, ecc. su comunità primitive sparse in vari continenti. Il suo saggio La mentalité primitive, pubblicato a Parigi nel 1922 è tradotto in italiano soltanto nel 1966, deve essere considerato uno dei testi fondamentali sul pensiero magico-religioso.
[14] Lucien Levy-Bruhl La mentalità primitiva - Einaudi 1966 – p.29.
[15] Lucien Levy-Bruhl La mentalità primitiva - Einaudi 1966 – pp.45-46.
[16] A fronte dell’analisi un po’ drastica di Lévy-Bruhl sul fenomeno del “primitivismo” voglio citare il giudizio, piuttosto severo, espresso su di lui da Gianni Grana. Nel già citato L’invenzione di Dio – vol.I – (Setup Edizioni 2000) a p.79 egli afferma: «Ora uno degli abusi di astrazione teorica nei libri di Lévy-Bruhl, oltre alla generalizzazione uniforme sul “primitivo”, consiste nell’antitesi schematica fra “mentalità primitiva”, irrazionale “prelogica” tradizionale, e mentalità moderna tutta razionalità e consapevolezza individuale, critica distintiva dialettica ecc., sia pure come reazione giustificata alle ricorrenti sovra-impressioni di una mentalità e di un’ottica culturale moderna, nella interpretazione delle culture etnologiche.». (v. pref. di E. De Martino a L’anima primitiva, p.15). Il divario di mentalità pare enorme proprio perché viene esasperato tipologicamente, come balzo abissale fra culture e quasi fra umanità diverse, remote l’una all’altra, anziché come fasi di una lunga-corta storia comune estremamente variegata negli esiti parziali, e di una evoluzione bio-genetica unica nelle enormi differenziazioni etniche della specie umana […] »
[17] Ivi p.78.
[18] Ivi p.79
[19] Mircea Eliade Il mito dell’eterno ritorno – Borla Editore 1968 – p.68.
[20] Mircea Eliade Storia delle credenze e delle idee religiose - vol. I – Sansoni 1999 – p.7.
[21] Émile Durkheim Le forme elementari della vita religiosa Edizioni di Comunità 1963 – p.5.
[22] Ivi p.11.
[23] Ivi p.39.
[24] Ivi p.456.
[25] È una delle principali tesi esposte dal sociologo tedesco Niklas Luhmann nel suo Funzione della religione (Morcelliana – Brescia 1991). Luhmann sostiene che la religione, più di ogni altro elemento culturale antropico, determina un processo di creazione del “senso” dell’esistere nelle interazioni tra un sistema sociale e il proprio ambiente e ciò principalmente attraverso una “riduzione dlla complessità”. L’esito di questo processo di semplificazione è di rendere sensato ciò che nella sua incomprensibile complessità finisce per presentarsi come privo di senso, generando smarrimento e inquietudine.
[26] Ivi p.482.
[27] Claude Lévi-Strauss Il pensiero selvaggio - Il Saggiatore 1976 - p.238.
[28] Ivi p.242.
[29] Bronislav Malinowski Magia, scienza e religione Newton Compton Editori 1976 – p.47.
[30] Raffaele Pettazzoni Saggi di storia delle religioni e di mitologia – Edizioni Italiane – Roma 1946 – p.23 passim.
[31] Ernesto De Martino Il mondo magico Boringhieri 1973 – p.113-114.
[32] Ivi p.149.
[33] Angelo
Brelich Introduzione alla storia
delle religioni – Edizioni dell’Ateneo 1966 – p.7.
[34] Ivi – pp.9-10.
[35] Ivi – p11.
[36]
Il concetto di omeostasi psichica è tematizzato nel I capitolo del
già
citato Necessità e libertà (pp.38-39) e nel IV capitolo (pp.
85-87).
[37] Si domanda Burkert (Op. cit. p.31): «Ma l’illusione è disfunzionale? La scoperta delle endorfine, analgesici naturali presenti nel cervello, indica piuttosto una funzione biologica positiva della felicità illusoria per il superamento di crisi drammatiche di stress e di sofferenza. Si potrebbe sostenere che anche le illusioni religiose sono sociobiologicamente vantaggiose.» (cfr. Necessità e libertà, p.92). E qualche pagina dopo aggiunge (p.34): « Un’ultima congettura - che si avvicin all’ipotesi “endorfina” – è che il successo della religione sia attribuibile al fatto che essa aiuta a sopportare meglio le catastrofi, incoraggiando la procreazione anche in circostanze disperate.».
[38] La parola religione deriva etimologicamente, giusta la definizione di Lattanzio in Divinae institutiones (IV, 28) ripresa più tardi anche da Sant’Agostino (De Civitate Dei, X, 1 e Retractationes, I, 13), dal verbo religare (quale vincolo di pietas che unisce tra loro i fedeli e li “lega” a Dio).
[39] Dice Mauss:
«Questi diversi caratteri esprimono, in realtà,
solo la irreligiosità del rito
magico; che è e si vuole che sia antireligioso.
In ogni caso esso non fa parte
di uno di quei sistemi organizzati che chiamiamo
culti.» (Teoria generale
della magia – Einaudi 1991 – p.18.)
[40] La sacra bibbia – Edizioni Paoline 1965 – Deuteronomio, 20, 10-17.
[41] Si tratta de Il diritto matriarcale: un saggio sulla ginocrazia del mondo antico nella sua natura religiosa è giuridica che lo storico delle religioni svizzero propose tra l’indifferenza generale di un contesto permeato ormai di positivismo.
[42] Mircea Eliade Storia delle credenze e delle idee religiose - vol. I – Sansoni 1999 – p.52 e ss..
[43] Pepe Rodriguez Dio è nato donna – Editori Riuniti 2000 – p.143.
[44] Ivi – p.149-150.
[45] Ivi – p.205.
[46] Abbiamo dato spazio a questa tesi perché la riteniamo piuttosto originale e fuori dagli schemi interpretativi tradizionali. Rodriguez, pur non essendo un antropologo di professione, svolge la sua ricerca in modo analitico, con citazioni documentali copiose e con frequenti riferimenti all’archeologia, alla storia, all’etnologia e alla psicologia.
[47] Ernesto de Martino Il mondo magico – Boringhieri Torino 1973 – p.97.