PREFAZIONE
Il presente saggio intende costituire il
primo passo
di un progetto di ricerca sulla teoresi atea
dalle origini ai nostri giorni,
nella quale si estraggano e si evidenzino
non tanto gli aspetti antireligiosi
dell’ateismo, quanto quelli che lo caratterizzano
filosoficamente,
indipendentemente dall’opposizione che la
particella privativa “a” rappresenta
e presuppone. Tale progetto apparirà certamente
insolito, ma si giustifica in
un atteggiamento ateo che non intende qualificarsi
per ciò che nega quanto per
ciò che propone, mantenendosi lontano dagli
schemi pregressi dell’ateismo
tradizionale, talvolta rancoroso e retorico,
spesso accompagnato da un
materialismo troppo schematico e pertanto
incapace di liberarsi da una
tradizione che ne blocca ogni evoluzione.
Tutti atteggiamenti che nel XX
secolo, radicalizzati in prassi politiche
e sociologiche, hanno prodotto danni
esiziali all’immagine dell’ateismo nella
sua essenza di filosofia
interpretativa del reale e di weltanschauung [1]
immanentistica ricca di elementi teoretici
ed esistenziali.
Appare
peraltro sicuro che il termine “ateismo”,
il cui conio si può far risalire
grosso modo al primo millennio a.C. in ambito
ellenico, non sia comparso ad
opera di coloro che in esso si riconoscevano
bensì da chi intendeva con esso
censurare un pensiero ed un comportamento
riprovevoli e condannabili rispetto
alle credenze religiose del tempo, le quali
venivano dai cosiddetti “atei” (o
empi) disconosciute o combattute; atteggiamenti
e comportamenti che suonavano
offesa alle usanze cultuali e rituali, che
venivano da essi disattese,
trascurate o violate. Gli aggettivi “ateo”
ed “atea” non erano pertanto,
allora, come non lo sono spesso anche oggi,
attributi che qualificassero una
persona nel suo legittimo modo di pensare
e di agire, bensì un aggettivo di
riprovazione e condanna, carico di disprezzo
e di biasimo. E tuttavia, come spesso accade nelle lingue,
alla fine è l’uso dei termini che ne determina
e sancisce il significato, piuttosto
che l’etimo. Per questa ragione noi continueremo
a definirci atei, anche se,
per molti versi, la qualifica può risultare
riduttiva, se non addirittura
sviante. Si aggiunga che essere atei non
significa soltanto respingere le
ipostasi religiose, in qualsiasi forma e
modalità, ma anche ciò che ad esse è
correlato: la superstizione e la divinazione,
la credenza in reliquie e in
oggetti taumaturgici, il ricorso a pratiche
magiche o pseudo-magiche, il
riferimento e il ricorso a forze considerate
in qualche modo “soprannaturali”,
siano personali o impersonali.
Va ancora
aggiunto che il termine “ateismo”, riferito
ad una categoria di appartenenza
ideale, e la qualifica di “ateo”, come attributo
afferente un certo
atteggiamento filosofico, vengono talvolta
respinti, più o meno inconsapevolmente,
persino da numerosi atei, che mal sopportano
il peso del secondo, in quanto si
è caricato nei secoli di un significato largamente
negativo, preferendovi (non
senza qualche incoerenza) quello di libero
pensatore, scettico, agnostico, ecc.
Ciò a riprova di quanto sia ancora difficile
nel XXI secolo proclamarsi atei
senza correre il rischio di essere guardati
con disprezzo, o almeno con
diffidenza. Malgrado ciò, in realtà, gli
atei nel mondo non sono poi così pochi
come la loro presenza mediatica e culturale
potrebbe far supporre; ciò vale
persino per la cattolicissima Italia, dove
essi sembrano essere piuttosto
numerosi, a dispetto del fatto che l’ateismo
italiano, sul piano politico e sul
piano culturale, sia un’entità sociale scarsamente
rappresentata e ancora per
molti versi ignorata.
Non
essendo per nulla nostra intenzione fare
dell’inopportuno e improbabile
proselitismo, nonché presumendo che i pochi
o molti lettori di questo libro
potranno esser quasi esclusivamente persone
atee (e quindi interessate a
conoscere meglio le radici del loro modo
di pensare) non sarà fuori luogo,
prima di occuparci dell’argomento specifico,
far precedere la nostra
esposizione da alcune considerazioni di carattere
generale concernenti
l’ateismo contemporaneo, al quale si sente
di appartenere lo scrivente e ai
quali faranno probabilmente riferimento coloro
che ci leggono (sperandoli
numerosi e non troppo esigenti).
Noteremo
però subito che con tutta probabilità, e
per la maggior parte di essi, il
rifiuto di Dio (o più in generale del “sacro”)
non è tanto la conseguenza di
una riflessione razionale sul significato
dell’ateismo stesso e quindi sulle
sue valenze sui piani filosofico ed esistenziale,
quanto una semplice (e spesso
irriflessiva) professione di incredulità,
più o meno accompagnata dal desiderio
di prendere le distanze da ciò che appare
come un inaccettabile tributo alla
credulità popolare e tradizionale. Si pensa
infatti che l’ipostasi di Dio non
sia credibile, e vada pertanto respinta,
ma non ci si domanda quali possano
essere sul piano filosofico e su quello esistenziale
le conseguenze della
negazione radicale della sua esistenza, o
meglio ancora, dal prescinderne nella
propria weltanschauung [2].
In altre parole, non si crede in un Dio la
cui esistenza e le cui prerogative
non convincono, ma neppure ci si avvede del
nuovo orizzonte che si spalanca una
volta che venga eliminata la sua inconscia
(eppur cogente) presenza nella
nostra mente, causata dalla pervasività psichica
del concetto di Dio (o almeno
del “divino”) e del suo consolidamento filogenetico-culturale,
attraverso
l’imprinting e l’educazione.
L’eliminazione filosofica del concetto di
Dio in realtà va molto oltre
la professione di ateismo; essa, qualora
venga profondamente tematizzata, può
dare luogo ad una sorta di rinascita all’esistenza,
come soggetti
“metafisicamente liberati” e pertanto proiettati
in un orizzonte aperto, dove
risultano tranciate tutte le catene di un’ipotetica
e vincolante
“trascendenza”, dalla quale dipenderemmo
ab origine e che ci permeerebbe
nel profondo. Tale trascendenza ha “legato”
gli uomini nei millenni,
condizionandone la loro cultura e il loro
sviluppo cognitivo, ma anche (ci
sembra corretto ammetterlo) con qualche merito
sul piano etico e sociale, se è
vero che non vi è civiltà che in qualche
modo non si sia fondata
originariamente sul timore, sul riconoscimento
e sul ricorso al divino,
attravverso il mito, la credenza, il culto
ed il rito. Non è tuttavia in questa
sede che ci occuperemo di questo aspetto
storico-antropologico (anche perché lo
abbiamo già trattato ampiamente altrove [3]),
poiché il nostro oggetto presente è la teoresi
atea nelle sue varie forme e nel
suo sviluppo storico, relativamente (in questa
prima parte della ricerca)
all’antichità, nelle sue espressioni più
significative dell’Occidente e
dell’Oriente.
Volendo
tuttavia fare il punto sulla situazione reale
dell’ateismo contemporaneo non
possiamo esimerci dal riconoscere, come sua
contrapposta, una certa “ripresa
spiritualistica” in questi ultimi decenni,
la quale, almeno in termini di
evidenza mediatica, non può che essere riconosciuta
e insieme destare qualche
sorpresa. Le librerie sono piene di libri
dedicati alla religiosità, sia essa
riferibile alla religione tradizionale e
istituzionalizzata (quella cristiana),
a religioni “esotiche” (per lo più di ascendenza
orientale) o a sincretismi di
vario tipo. Sugli schermi televisivi italiani
il più alto rappresentante della
cristianità ci viene proposto quasi a ogni
pranzo e cena, numerosissime sono le
testimonianze di fede in ogni circostanza
eccezionale o quotidiana, i
talk-shows che hanno per tema Dio, la “spiritualità”
o la morale religiosa,
ricorrono con straordinaria frequenza. Occorre
ammettere che di fronte a tanta
vivacità d’immagine e d’informazione l’ateismo
può contrapporre soltanto
qualche modesta rivista associativa, alcune
mailing list ad esso dedicate e
(questo sì) diversi siti internet, però accessibili
a una sparuta schiera di
interessati. In tale situazione l’ateismo,
e in special modo quello italiano,
risulta del tutto marginale ed emarginato,
quando non maliziosamente relegato
talvolta tra le stravaganze esibizionistiche
dei “tempi moderni”. D’altra
parte, dopo la vivacità settecentesca, la
penetrazione ottocentesca (sulla scia
dello scientismo) e la sua identificazione
con l’ideologia marxista, l’ateismo
oggi potrebbe sembrare addirittura “in ritirata”
e qualche imprudente teologo
potrebbe per alcuni versi definirlo persino
“datato”.[4]
È probabile che
la causa principale di tale eclisse mediatico
dell’ateismo dipenda anche da
un’impropria identificazione con un’anti-religione
in forma “dominante” e
totalitaria, che ha segnato profondamente
(e in gran parte negativamente) la
storia del XX secolo. In quanto ateismo imposto
dalla politica (o meglio dal
potere) e non invece determinato da una
spontanea adesione ad esso (quale specifica
concezione del mondo e della
vita sganciata da ogni sua utilizzazione a fini
politici o sociologici)
l’immagine dell’ateismo risulta per molti
versi fortemente degradata. Né si può
parlare di una crisi di identità poiché,
a ben vedere, un’identità atea sul
piano filosofico non è mai esistita e ciò
neppure nelle epoche (ad esempio
quella illuministica) di sua maggiore vivacità
teorica. L’identità atea quindi
deve considerarsi ancora molto lontana da
una sua realizzazione, se per
identità s’intende un patrimonio culturale
filosoficamente determinato e
fondato, in cui un individuo possa riconoscersi
senza essere fuorviato da
incrostazioni o paramenti politici o sociologici.
In realtà, infatti, alcuni
regimi politici hanno, in un passato recente,
combattuto la religione (a volte
reprimendola con violenza) considerandola
piuttosto come espressione di un
contro-potere ideologico ed economico, anziché
come una weltanschauung
ideologica da respingere su base filosofica. Dal nostro
punto di vista
essa è invece da analizzare con attenzione
nelle sue componenti e nelle sue
motivazioni, rispettando l’assoluta legittimità
del fatto che essa possa venire
a tutt’oggi teorizzata, difesa e praticata,
in un clima di libertà che va
difeso e garantito, poiché va considerato
fondamento di ogni autentico ateismo.
Si tratta infatti di scoprire le nascoste
esigenze psichiche che sul piano
antropologico ne hanno giustificata la sua
costruzione e la sua
istituzionalizzazione, dati gli innegabili
vantaggi pratici che ne derivano sul
piano delle coscienze individuali e su quello
della coesione sociale.
Ma la
causa di questa relativa eclissi d’immagine
dell’ateismo non è identificabile
solo col fatto di essersi accompagnato a
ideologie socio-politiche pregresse;
ve n’è un’altra molto più profonda, che
è rappresentata non solo dall’indebolimento
di un velleitario scientismo ateo,
quanto dalla crisi di fiducia nella scienza
stessa, complici certi eccessi
delle sue applicazioni tecnologiche (spesso
più fantasticati che realizzati) i
quali metterebbero a rischio l’esistenza
stessa dell’umanità o quanto meno i
valori morali che l’hanno accompagnata nel
mondo occidentale dall’affermazione
del Cristianesimo in poi [5].
Si potrebbe probabilmente far iniziare questa
deriva anti-scientifica (ed
implicitamente irrazionalistica e filo-religiosa)
dalla distruzione di
Hiroshima e Nagasaki nel 1945, o meglio,
dalla presa di coscienza che il
progresso scientifico non è solo al servizio
dell’uomo, ma che in alcune sue
forme può essergli non solo dannoso, ma addirittura
esiziale. A “fissare” tale
consapevolezza hanno contribuito in seguito
l’inquinamento ambientale, numerosi
e gravissimi disastri ecologici, l effetto
serra, il buco dell’ozono, ecc.. Ma forse a dare
il colpo decisivo è
stato il gravissimo incidente avvenuto nella
centrale nucleare di Cernobyl nel
1986, che ha spostato l’asse del pericolo
dal piano bellico a quello dell’uso
civile del nucleare, alimentando un crescendo inarrestabile di
diffidenza verso la scienza e le sue applicazioni.
Analogamente è potuto anche accadere che
gli straordinari progressi
della biologia e della genetica (tutti nel
senso di aiutare l’umanità a
risolvere quei problemi sanitari che la medicina
e la chirurgia non potrebbero
risolvere) grazie ad alcuni sciagurate prospettive
di replicazione o di
prolungamento innaturale della vita umana,
hanno finito per collocarsi nella
coscienza di molti come uno stravolgimento
negativo dell’esistenza, in
direzione di una fantascientifica degenerazione
dell’umanità. Si è così
insinuato il timore, talvolta terrifico,
di un futuro pan-scientifico basato su
di una sorta di “macchinismo” artificiale
spaventevole, in cui la vita umana
verrebbe a denotarsi come qualcosa che è
sfuggito di mano all’uomo stesso. Ciò
ha determinato in molti la convinzione che
questo futuro vada assolutamente
evitato o perlomeno “allontanato” il più
possibile, attraverso una “frenata” al
progresso scientifico e un ritorno ad atteggiamenti
meno materialistici e più
metafisici.
Ma quale
strada più adeguata si può dare per evitare
questo pericolo se non quella di
mitigare il razionalismo e recuperare una
“sano” irrazionalismo religioso,
molto più gratificante, tranquillizzante
e tonificante? In tale contesto si deve peraltro rilevare
che tra le scienze contemporanee è stata
proprio la cosiddetta “nuova” biologia
a generare le maggiori inquietudini sul futuro
dell’umanità e sulla sua eredità
culturale e religiosa. Essa (la sua nascita
è convenzionalmente riferibile alla
scoperta del DNA nel 1953) è anche la
disciplina scientifica che ha dato alcuni
straordinari punti d’appoggio
all’ateismo, rendendo la credenza nella possibilità
dell’esistenza di un divino
creatore sempre più precaria. Ed è forse
anche per questa ragione che la
biologia contemporanea ha finito per determinare,
in generale, un diffuso clima
di sospetto circa l “intrusione” violenta
di una scienza “disumanizzata” (una
nuova intollerabile ΰβρις)
nel campo “sacrale” della
vita, quale dono soprannaturale, intangibile
e da conservare nei termini in cui
“biblicamente” è stata concessa.
Tuttavia, se
oggi, in questa nuova kermesse trascendentalistica,
parlare di ateismo può
assumere in alcuni contesti persino il carattere
della stravaganza fuori moda,
nondiméno ha un senso analizzare la situazione
per vedere se esso, fuori da un
talvolta becero “ateismo pratico” può, sul
piano teoretico, recuperare le proprie
antiche origini teoriche e proiettarsi oltre
la banale polemica anti-religiosa,
caratterizzata molto spesso da un
contingente e grossolano anti-clericalismo.
Va infatti ribadito che il mondo
ateo è effettivamente (e purtroppo) segnato,
in larga parte, da atteggiamenti
che sono perlopiù “contro” la religione piuttosto
che “per” ciò l’ateismo
filosoficamente offre in termini di visione
del mondo che si coniuga con quella
libertà metafisica che di esso è presupposto
fondamentale [6].
In altre parole, è maggioritario, oggi come
ieri, un ateismo che si qualifica
per quello che nega piuttosto che per quello
che propone, ovvero un ateismo “di
protesta” piuttosto che “di proposta”. Noi
pensiamo, al contrario, che un
ateismo razionale e consapevole dovrebbe
“storicizzare” la religione piuttosto
che combatterla e per alcuni versi persino
accoglierne certe risposte
antropologiche, analizzandole alla luce della
ragione e della storia della
specie homo sapiens nelle sue origini e nei suoi sviluppi.
Tra due estremi
abbastanza ben definiti (un ateismo realizzato
nella condotta della vita in
termini di inconsapevolezza concettuale ed
un altro che sia il frutto di una
riflessione teorica) emerge una domanda di
carattere pragmatico ed etico che
potrebbe essere così enunciata: «È possibile non soltanto fare a meno di Dio
sul piano della coscienza individuale, ma
anche su quello generale, promuovendo
nel consorzio umano dei valori alternativi
alla religione che realizzino meglio
una qualche forma di eudemonismo largamente
diffuso ed eticamente ineccepibile?».
Ovvero: «È possibile costruire una società senza Dio
e nello stesso tempo
assolutamente libertaria, la quale, pur facendo
a meno dei millenari “valori
morali” fissati dalla fede religiosa, abbia
almeno le stesse o maggiori chances
di costruire una società giusta e volta al
maggior bene dei cittadini?» Si
tratta di una domanda più o meno formulata
esplicitamente che ha caratterizzato
il dibattito tra gli atei in ogni tempo e
che però “oggi” è più difficilmente
ponibile dopo le disastrose esperienze dell
“ateismo di stato”, sia durante la
rivoluzione francese e sia durante i cosiddetti
“socialismi reali “del XX
secolo. Da un punto di vista storico questa
possibilità sembrerebbe infatti
clamorosamente smentita, ma bisogna tuttavia
domandarsi se ciò non sia avvenuto
proprio perché quei regimi che hanno imposto
l’ateismo erano a loro volta delle
religioni (culto della Dea Ragione o culto
del “proletariato”) o perlomeno
delle pseudo-religioni, nel loro ricorso
costante alla violenza ideologica (e
per alcuni versi con pretese “salvifiche”
non molto dissimili dalla
soteriologia cristiana stessa che si intendeva
combattere).
L’ateismo
autentico, in quanto assertore di libertà
metafisica (che sta a base di ogni
altra libertà umana) ha un senso soltanto
ed esclusivamente se è in grado di
condurre sul piano sociale all’affermazione
e alla diffusione della libertà in
ogni suo aspetto e ad ogni livello. Se questa
indispensabile prerogativa non
viene rispettata l’ateismo viene tradito
nella sua stessa essenza e,
paradossalmente, un regime che “imponga”
l’ateismo e che nel contempo non
rispetti la libertà di praticare ogni fede
religiosa senza restrizioni risulta
per ciò stesso negatore dell’ateismo, il
quale non può essere che radicalmente
libertario. Ogni sistema di convivenza che
imponga dei legami “ideologici”
realizza fondamentalmente le premesse di
ogni religione, che sono quelle di
“legare” gli uomini a qualche entità concettuale
che li trascenda in quanto
individui (una “totalità” che li comprenderebbe)
e nei confronti della quale la
loro individualità risulterebbe subordinata
e inessenziale.
Posto questo punto fermo, ovvero che la libertà, nella sua massima estensione (esclusa quella di nuocere ad alcun altro esistente) deve considerarsi fondamento primo e irrinunciabile di ogni teorizzazione atea, si tratta di cercarne le origini e tematizzarle come basi di partenza di un percorso volto alla ricerca delle motivazioni di fondo che l’hanno portata o potranno portarla (in forme nuove) a costituirsi come una weltanschauung alternativa a quelle religiose. Lo scopo di questo saggio è quello di fornire un modesto contributo per la fondazione di questa ricerca, indietreggiando storicamente sino ai primi segni dell’esistenza di una teoresi atea nel mondo antico. In quanto primo passo di una ricerca complessa il presente lavoro presuppone un seguito che, speriamo, possa vedere la luce in tempi non troppo lunghi. Esso dovrebbe costituire lo sviluppo temporale di questo lavoro, che viene qui proposto ai lettori atei italiani, sperando in un loro favorevole (e benevolo) accoglimento.
[1] Useremo il
termine tedesco spesso in alternativa a quelli
di concezione del mondo, visione
del mondo e intuizione del mondo, espressioni variamente utilizzate
per esprimere lo stesso concetto.
[2] Il termine
tedesco può essere tradotto con: visione del mondo, concezione del m.,
intuizione del m.
[3] Si rinvia al Capitolo 4 di Necessità e
Libertà (Editrice Clinamen 2004) pp.83-97.
[4]
E’ un rilievo del teologo francese Vernette,
il quale parla addirittura di
periodo “post-ateo” (Jean Vernette - L’ateismo – Xenia 2000 – pag.1)
[5]
Un importante e ampio saggio storico sull’ascesa
e sull’affermazione del
Cristianesimo (ma noi non ne condividiamo
gli eccessi polemici) è costituito
dalla Storia criminale del Cristianesimo, in cinque volumi, di
Karlheinz Deschner (Ariele 2000-2004). In
esso lo storico tedesco conduce un
dettagliato excursus storico sui misfatti
della religione cristiana, dal suo
sorgere alla modernità.
[6] Vorremmo osservare qui, di passaggio, che l’ateismo che noi difendiamo, in quanto fondato sulla libertà metafisica, risulta non coniugabile con ipostasi metafisiche necessitaristiche o deterministiche di sorta. Laddove esistano filosofie anti-religiose dove sia stata semplicemente sostituito Dio con l’Essere, la Necessità, l’Uno-Tutto, ecc., mantenendo la derivazione dell’universo da un’entità strutturale olistica e originaria che lo precederebbe e lo determinerebbe, non si può parlare, secondo noi, di ateismo, ma semmai di pseudo-religione non cultuale. Un ateismo autentico, infatti, riteniamo non possa fare a meno di fondarsi sull’ammisione del caso come elemento determinante, ancorché non dominante, dell’evoluzione del cosmo.