CIBI
TRANSGENICI I cosiddetti cibi transgenici (trans in latino significa oltre, al di là, quindi “al di là dei geni”) sono prodotti alimentari ottenuti da organismi geneticamente modificati (ogm) grazie alle tecniche raffinate e potenti messe a punto dalla biologia moderna. Prima di entrare nel merito di quanto ha permesso e di quanto promette per il futuro la rivoluzione biotecnologica in atto, vediamo di capire bene cosa siano i geni e come sia possibile modificarli. Ogni cellula, animale o vegetale che sia, contiene all’interno del nucleo che la caratterizza, speciali molecole dette acidi nucleici. Questi non sono altro che il DNA, le lunghe molecole filamentose con la tipica disposizione a doppia elica, ripiegate varie volte su sé stesse in maniera molto compatta e contenute in un certo numero di corpiccioli detti cromosomi (da due parole greche: chroma che significa colore e soma che significa corpo, con riferimento alla proprietà di questi corpuscoli di colorarsi quando vengono trattati con particolari sostanze che li rendono visibili al microscopio). Ogni specie vivente è caratterizzata da un ben determinato numero di cromosomi: l’uomo, ad esempio, ne ha 46, il grano 42, il cane 78 e così via. Anche l’RNA è un acido nucleico presente nella cellula, ma ha una forma e una funzione diversa da quella del DNA. Ciascun cromosoma, a sua volta, è formato da centinaia di unità minori ognuna delle quali controlla una ben determinata caratteristica dell’individuo. Queste piccole unità che compongono i cromosomi sono dette “geni” (da un termine greco che significa “generatore di”) e da essi deriva il nome di quel ramo della biologia che studia la trasmissione dei caratteri ereditari, la genetica. L’informazione scritta sul gene viene tradotta, attraverso un processo biochimico di cui si conoscono anche i dettagli, in proteine, cioè in molecole che sono al tempo stesso gli arredi e gli operatori di quel complesso “laboratorio chimico” che è la cellula. Alcune hanno infatti la funzione di struttura portante e sono le cosiddette proteine strutturali, mentre altre servono a fabbricare o trasformare migliaia di molecole più piccole, a procurare energia alla cellula, a costruire DNA e RNA e altre proteine, e sono gli enzimi. Il codice genetico è universale nel senso che non esistono strutture genetiche specifiche per ogni animale o pianta. L’uomo, ad esempio, è un uomo non perché fatto di geni umani ma perché il numero e la disposizione dei suoi geni lungo i cromosomi ne determina il differenziamento in un organismo dalle caratteristiche umane; altri hanno un numero e una disposizione degli stessi geni diversa e sono organismi diversi. Proprio grazie a questa universalità dei geni è possibile trasferire un gene da un organismo ad un altro e indurlo ad agire all’interno della nuova dimora. L’insulina umana per uso medico, ad esempio, oggi è prodotta da batteri nei quali è stato introdotto lo specifico gene estratto dalle cellule dell’uomo. 1. LE BIOTECNOLOGIE DEL PASSATO Nel 1951 due biologi americani, Norton D. Zinder e Joshua Lederberg riuscirono a trasferire materiale genetico (frammenti di DNA) da un batterio ad un altro attraverso l’azione di virus che fungevano da vettori. La tecnica fu detta trasduzione e dette l’avvio a quella che oggi viene chiamata l’ingegneria genetica. Attualmente l’ingegneria genetica è molto praticata e consiste in un insieme di tecniche che manipolano direttamente le molecole che formano i geni, modificandole, ricombinandole fra loro, costruendone di nuove e trasferendole da una cellula ad un’altra. I biochimici attualmente sono quindi in grado, ad esempio, di aggiungere un gene utile ad un nucleo cellulare che ne sia privo o modificare quello che già c’è, creando i cosiddetti organismi transgenici. Le biotecnologie si possono applicare tanto agli animali quanto alle piante, ma è più facile operare sui vegetali che hanno una genetica più semplice. Il modo di manipolare le piante non è tuttavia solo quello dell’ingegneria genetica: ve ne sono molti altri. Già nell’antichità, ad esempio, si selezionavano le specie più adatte, quelle più resistenti a un determinato parassita e quelle che davano i raccolti più abbondanti, mentre si scartavano le altre: questa ricerca delle piante più interessanti e utili all’uomo rappresenta la prima forma di miglioramento genetico. Il successivo passo in avanti in questo campo venne ottenuto con l’introduzione della tecnica dell’ibridazione che consiste nell’incrociare una pianta con un esemplare di varietà diversa o, quando è possibile, di specie diversa. Con l’incrocio operato dall’uomo si possono quindi riunire in un’unica pianta le caratteristiche positive di piante diverse, cosa che in natura sarebbe comunque avvenuto, ma con tempi molto più lunghi. La stessa tecnica è stata adottata anche sugli animali: il mulo, ad esempio, è l’incrocio fra l’asino e il cavallo, due animali di specie diversa. L’ibrido così ottenuto è un animale sterile che assomma alcune delle caratteristiche migliori del cavallo e dell’asino. Incrocio e selezione sono quindi le due tecniche di base del miglioramento genetico, le quali hanno portato a innumerevoli e sbalorditivi risultati. Incrocio e selezione tuttavia rimescolano i caratteri esistenti, ma non ne creano di nuovi: questo è invece possibile attraverso l’ingegneria genetica che è in grado di manipolare le cellule e perfino le singole molecole che contengono i caratteri genetici di tutte le specie animali e vegetali. Si sono così aperte nuove strade alla produzione di farmaci e di culture agro-industriali. Nella prima metà del secolo passato i biologi sono riusciti a coltivare in vitro, cioè a far crescere fuori dall’ambiente naturale, singole cellule prelevate da vari organi delle piante. Successivamente è stato anche possibile modificare le singole cellule ottenute in provetta e quindi ricomporre la pianta intera. La tecnica per ottenere colture in vitro è piuttosto semplice e consiste nel prelevare il tessuto desiderato da una pianta, ripulirlo da eventuali parassiti presenti in superficie e quindi sottoporlo all’azione di enzimi specifici fino ad ottenere cellule indifferenziate, cioè cellule che hanno perso le caratteristiche di cellule adulte e specializzate e sono ora capaci di riprodursi indefinitamente. Questa capacità di riprodursi all’infinito è una prerogativa delle cellule vegetali, ma non di quelle animali. Le cellule animali possono anche essere coltivate in vitro ma non si riproducono all’infinito: dopo un certo numero di generazioni la divisione cessa e le cellule muoiono. A differenza di quelle animali le cellule vegetali in coltura sono quindi in un certo senso immortali. Vi è un’altra caratteristica che distingue le cellule vegetali da quelle animali. Da una cellula vegetale prelevata da un qualsiasi organo della pianta e sviluppata in provetta è possibile che si rigeneri l'intera pianta mentre ciò non è possibile con le cellule animali le quali, una volta differenziate nei tessuti, non possono più tornare indietro. In altri termini mentre una cellula vegetale già differenziata può tornare ad una condizione, per così dire, primordiale per poi rigenerare l’intera pianta, ciò non è possibile con le cellule animali le quali, una volta diventate adulte ed avere assunto una funzione specifica non possono più tornare “bambine”, perché nel loro caso il differenziamento è irreversibile. Per evitare malintesi è opportuno accennare al fatto che la famosa pecora Dolly, primo caso di clonazione animale, non è stata ottenuta facendo riprodurre in provetta una cellula di un’altra pecora, ma in tutt’altro modo e precisamente introducendo in una cellula uovo il nucleo di una cellula indifferenziata. La riproduzione di cellule vegetali in vitro ha portato grandi vantaggi in agricoltura. Il primo di questi vantaggi è l’enorme proliferazione delle cellule una volta poste in provetta. Ciò consente di ottenere centinaia di migliaia e anche milioni di piante complete nel giro di pochi mesi. Un secondo vantaggio è quello di ottenere piante tutte uguali fra loro e quindi tutte con le caratteristiche desiderate: il che garantisce un alto grado di omogeneità del prodotto. Infine, attraverso la riproduzione in vitro, è stato notevolmente ridotto il problema dei parassiti e delle malattie attraverso il prelievo di tessuti dalla pianta madre in zone non contaminate e si è inoltre provveduto alla loro ripulitura. A volte le piante ottenute dalle cellule riprodottesi in provetta non sono del tutto identiche all’originale. Questa variabilità è dovuta alle mutazioni, ossia a quegli eventi naturali e spontanei in seguito ai quali un determinato carattere genetico subisce un cambiamento. In genere le alterazioni prodotte sono nocive per l’organismo nel quale compaiono, ma eccezionalmente possono generare un carattere migliore che rende il soggetto in qualche misura più adatto all’ambiente. Questo tenderà, generazione dopo generazione, a diffondersi nella popolazione e a sostituirsi stabilmente al carattere originario. I biologi cercano quindi di isolare le cellule contenenti mutazioni che possono risultare vantaggiose sia per le piante sia per l’uomo le quali potranno dare origine ad organismi più resistenti ai parassiti e ai diserbanti, più nutrienti, più adatti alla raccolta meccanizzata e così via.
Il metodo classico per produrre una pianta transgenica (più propriamente pianta gm, geneticamente modificata) consiste nell’introdurre il gene desiderato nel DNA di un batterio “postino” chiamato Agrobacterium tumefaciens il quale, contagiando la pianta che si desidera modificare, le trasferisce la parte trasformata del proprio patrimonio genetico. Il frammento di DNA da introdurre nella pianta viene infatti prima sistemato all’interno del plasmidio, un particolare gene presente nel batterio, e quindi fatto penetrare nelle cellule delle piante da trattare. Il plasmidio non è altro che una molecola di DNA distinta dal patrimonio genetico vero e proprio del batterio e in grado di riprodursi in modo indipendente. Il batterio Agrobacterium tumefaciens è conosciuto da quasi cent’anni, da quando cioè i botanici scoprirono che una particolare malattia delle piante chiamata “galla del colletto” era causata dalla infezione di questo batterio. Il batterio penetra nella pianta, preferibilmente nella zona di confine fra fusto e radice (colletto) e provoca la moltiplicazione delle cellule attorno alla parte infettata. Le cellule della pianta incominciano allora a crescere molto velocemente e, cosa sorprendente, da quel momento in poi non è più necessaria la presenza del batterio per il loro sviluppo. Successivamente si scoprì che le cellule della pianta infettata producevano delle sostanze particolari del tutto estranee al loro mondo e di cui si cibavano i batteri. In altre parole questi, penetrati nella pianta, erano capaci di indurre le cellule infettate a produrre una sostanza di cui essi soli erano in grado di nutrirsi e questa facoltà veniva trasmessa alle cellule figlie della pianta ospitante anche in loro assenza. L’insieme delle informazioni raccolte portò alla formulazione di
un’ipotesi molto ardita sul meccanismo di produzione di sostanze estranee alla
pianta infetta e di moltiplicazione delle cellule in assenza del batterio
infettante. L’idea era che il batterio trasferiva, all’atto
dell’infezione, parte del proprio DNA alla pianta. Alla fine degli anni ‘70
la cosa fu confermata grazie alle tecniche messe a disposizione
dall’ingegneria genetica che ormai si era ben affermata e da quel momento la
ricerca sulle peculiarità specifiche dell’Agrobacterium si andò vieppiù
accrescendo. Si scoprì, fra l’altro, che questo particolare batterio, oltre
al normale DNA cromosomico, ospita una molecola di DNA accessorio di forma
circolare, che è il vero responsabile della trasformazione delle cellule sane
della pianta in cellule malate. Questo tratto di DNA a forma circolare, di cui
si è fatto cenno in precedenza, è il plasmidio, una molecola che, all’atto
della infezione, si trasferisce dal batterio ad una cellula della pianta dove va
ad integrarsi con il suo patrimonio genetico. La cellula vegetale allora non
solo produce sostanze utili al batterio ma si riproduce essa stessa molto
velocemente, in modo da garantire nutrimento in abbondanza al parassita che è
penetrato al suo interno. Verso la metà degli anni ’80 un chimico americano di nome Kary Mullis mise a punto un processo, che permetteva di duplicare velocemente qualunque frammento di DNA prelevato in natura. Grazie a questa tecnica oggi si possono ottenere in poche ore miliardi di molecole tutte identiche a quella iniziale. In pratica i biologi prelevano dalle cellule di diversi organismi i geni responsabili di proprietà e funzioni utili, li riproducono in grande quantità e li introducono nel DNA della pianta che si vuole modificare. Le tecniche per introdurre i geni ottenuti in provetta nelle cellule delle piante sono svariate: una di esse è quella che si serve del batterio infettante. Il plasmidio degli agrobatteri (ne esistono di varie specie) si è dimostrato un vettore ideale per introdurre DNA estraneo nelle cellule vegetali. L’operazione consiste innanzitutto nella modifica del plasmidio originale che si ottiene grazie ad una particolare classe di enzimi, detti enzimi di restrizione, capaci di tagliare in punti precisi la lunga molecola di DNA da inserire nella cellula. Ottenuto in questo modo il tratto di DNA desiderato, viene estratto dal batterio il DNA circolare (plasmidio) e tagliato con lo stesso enzima di restrizione usato per isolare il gene da introdurre. Questo esibirà le stesse estremità presenti nell’altra molecola di DNA e pertanto adatte ad essere saldate fra loro. L’operazione di saldatura è condotta da un altro enzima detto ligasi il quale provvede a formare un’unica molecola cromosomica. Questa molecola ibrida si chiama DNA ricombinante e viene reintrodotta nel batterio che si moltiplicherà varie volte producendo, al suo interno, molte copie identiche del DNA circolare modificato. Il ricorso al batterio vettore non è l’unico sistema utilizzato per introdurre geni estranei nelle cellule: ne esistono altri, come ad esempio quello detto della microiniezione; si tratta di una vera e propria iniezione fatta con un ago di vetro microscopico e fragile. Questa tecnica di inserimento diretto di DNA è correntemente usata nelle cellule animali ma non è adatta per le cellule vegetali, che hanno la membrana più consistente. Le difficoltà maggiori per introdurre geni estranei nei nuclei delle cellule vegetali si incontrano quando si vuole intervenire su alcune piante importantissime per l’alimentazione umana quali frumento, granoturco e riso che non sono contagiabili con l’Agrobacterium. Per esse si stanno mettendo a punto due tecniche alternative. Una di queste consiste nel bombardare le cellule vegetali con microproiettili di oro o di tungsteno ricoperti di DNA che bucano la membrana. Un altro sistema è quello di sottoporre la cellula ad impulsi elettrici che provocano l'apertura temporanea di pori della membrana rendendola temporaneamente permeabile al DNA estraneo. Le tecniche di “impallinamento” e di “shock elettrici” sono state sperimentate su poche piante dove hanno dato esiti positivi ed ora si cerca di estenderle a piante più interessanti da un punto di vista agro-alimentare. Il primo successo di ordine pratico dell’ingegneria genetica fu, come abbiamo accennato, la produzione di insulina umana mercé l’impiego di un batterio. L’insulina, una sostanza indispensabile ai malati di diabete, prima della scoperta della nuova tecnica di produzione veniva estratta dal pancreas di maiali e buoi. Nel 1978 i biologi molecolari di una piccola industria farmaceutica americana riuscirono ad introdurre il gene responsabile della produzione dell’insulina all’interno dell’Escherichia coli (un batterio presente nell’intestino dell’uomo) e consentirono che da questo microrganismo fosse prodotta la preziosa sostanza. Il successo fu enorme anche perché l’insulina prodotta in codesto modo era identica a quella umana, mentre quella usata fino ad allora era solo simile. Il buon risultato conseguito con l’insulina aprì la strada a nuove scoperte in campo medico e farmacologico. E’
bene ricordare che il 70% delle biotecnologie in atto riguardano la medicina e
sono dette “rosse” per distinguerle da quelle che riguardano le piante che
sono dette “verdi”. Le biotecnologie rosse sono attive nella ricerca di
organi da trapiantare da animali a uomini ove si presentino problemi di rigetto
e nella produzione di farmaci efficaci rispetto alle malattie attualmente
incurabili. Le biotecnologie verdi interessano alimenti e prodotti industriali
(ad esempio legname) e rappresentano il 30% del totale. 3. IL CONTROLLO SUI CIBI Prima di affrontare lo scottante argomento relativo alla pericolosità dei cibi transgenici dobbiamo fare tre premesse importanti. La prima è che l’affermazione secondo cui l’agricoltura tradizionale non riuscirà a garantire cibo sufficiente per una popolazione in continua crescita è falsa. Il cibo attualmente prodotto (senza ogm) sarebbe infatti sufficiente per una popolazione anche maggiore di quella esistente, se venisse adeguatamente distribuito e se non vi fossero sprechi nei paesi altamente industrializzati. E’ certo invece che questo cibo viene prodotto dove costa meno (cioè nei paesi poveri) e venduto dove si ottengono maggiori profitti. La seconda è che l’agricoltura non è natura, come molti pensano. Agricoltura, al contrario, significa sconvolgimento della natura, sostituzione di ambienti naturali con campi coltivati, riduzione e semplificazione della biodiversità, sovvertimento degli equilibri biologici, inquinamento dell’ambiente: il tutto contro natura. La terza è che non esiste tecnologia esente da rischi. Noi accettiamo una innovazione quando riteniamo che i rischi siano inferiori ai benefici: così è stato ad esempio per gli aerei e le automobili che tuttavia sono causa di migliaia di morti all’anno, per molti farmaci e per la stessa penicillina che pure salva milioni di vite, ma che a volte uccide per shock anafilattico. L’agricoltura tradizionale non sfugge a questa regola: può avvelenarci e inquinare l’ambiente, scatenare allergie e ridurre la biodiversità naturale. E nemmeno la cosiddetta agricoltura biologica ci salva da alcuni di questi pericoli. La verità è che i rischi dell’agricoltura sono considerati accettabili in rapporto ai benefici. Perché allora si pretende che solo le piante gm debbano essere assolutamente esenti da rischi? Circa cinquemila sono gli organismi vegetali attualmente sotto sperimentazione in tutto il mondo e oltre cento sono le piante transgeniche già ammesse dall’Unione Europea (Ue). Sono tutti sicuri i cibi prodotti a base di vegetali transgenici? Evidentemente no anche se i biotecnologi assicurano che questi alimenti non rappresentano un pericolo per la salute pubblica superiore a quello dei cibi preparati con piante tradizionali. Tuttavia, nonostante tutte le assicurazioni molti sono i dubbi sollevati sulla loro innocuità da associazioni e movimenti politici (ad esempio i Verdi) che hanno creato allarme fra i consumatori. Non è un caso che questi alimenti da alcuni siano stati chiamati “cibo di Frankenstein” (Franken Food) . Molte delle accuse mosse alle piante gm, come quelle di avere effetti tossici sull’uomo o di provocare danni all’ambiente, in realtà sono comuni, come abbiamo visto, anche alle altre piante coltivate. Certo, qui c’è in più il rischio del gene esogeno, ma questo gene estraneo introdotto nella pianta anziché produrre danni potrebbe essere benefico e rimuovere per esempio alcuni fattori negativi naturalmente presenti nelle piante “normali”. Prendiamo il caso delle allergie alimentari. Alcune persone, soprattutto bambini, soffrono di allergie scatenate da particolari proteine contenute in determinati cibi come uova, latte, pesce e crostacei, solo per nominare i più comuni. Ebbene, individuata la proteina responsabile dell’allergia, si potrebbe introdurre nell’organismo un “gene antisenso” ossia un gene in grado di annullare l’attività del gene nocivo, in virtù del quale sarebbe ridotto il potenziale allergenico di quegli alimenti. Questo metodo è già stato sperimentato sul riso con buoni risultati. Vi è un altro vantaggio nella coltivazione di piante gm rispetto alle tradizionali. Tutti sanno, ad esempio, che l’uso eccessivo di antibiotici, anticrittogamici o veleni potrebbe determinare la scomparsa dell’organismo bersaglio (virus, fungo o insetto) mediante la riduzione della biodiversità, oppure favorire la selezione di organismi resistenti così che le sostanze di difesa impiegate sarebbero rese inefficaci. Ebbene, esistono dei geni, detti promotori, che attivano i geni specifici rendendoli efficaci solo se ve ne è la necessità, ossia solo se il parassita sta effettivamente infettando la pianta, o solo in determinati stadi di sviluppo, ovvero su particolari organi (ad esempio, fiore o radice) della pianta stessa. Negli Stati Uniti sono in vendita cibi di origine transgenica fin dal 1992. Questi prodotti prima della loro commercializzazione vengono esaminati nei laboratori di Stato preposti al controllo di tutti i prodotti alimentari, compresi quelli tradizionali e farmaceutici. Nei Paesi dell’Unione Europea la concessione per la coltivazione di piante transgeniche e la produzione di alimenti ottenuti da piante geneticamente modificate sono affidate all’autorità sanitaria dei singoli Stati membri che, dopo avere rigorosamente analizzato i campioni dei prodotti, concede o meno l’autorizzazione. Se la commissione ritiene che il prodotto non sia pericoloso per l’ambiente e per l’uomo il fascicolo con tutta la documentazione viene trasmesso agli altri Stati membri, che hanno 60 giorni di tempo per decidere se adeguarsi a quella deliberazione o procedere ad ulteriori esami. Alla fine dei controlli il Consiglio dell’Ue autorizza l’introduzione del prodotto nel mercato comune. Attualmente in Europa le licenze di coltivazione di piante transgeniche non vengono più accordate, mentre non è proibito importarle. Inoltre la ricerca nel settore è scoraggiata, se non addirittura impedita. A seguito di ciò la superficie coltivata a piante gm si è ridotta a pochi ettari, quasi tutti sistemati in Spagna e Portogallo. Alcune associazioni ambientaliste ritengono che siano in commercio, all’interno della comunità europea, prodotti transgenici destinati al consumo umano privi dei requisiti previsti dai regolamenti dall’Unione Europea. In cosa consistono esattamente questi requisiti, quali sono i controlli e che garanzie danno per la salute? I controlli sulla sicurezza dei cibi transgenici si basano sul concetto di equivalenza sostanziale che consiste nel verificare che la composizione chimica di un prodotto di origine transgenica sia la stessa dell’equivalente ottenuto con le tecniche normali. Se la formula chimica coincide il prodotto transgenico viene considerato innocuo per la salute umana, come lo è quello naturale. Non tutti i chimici concordano sulla validità di questo metodo. Essi fanno notare che esistono sostanze con la stessa formula chimica che tuttavia differiscono per alcune proprietà a causa del diverso orientamento della molecola nello spazio. La sola composizione chimica di una sostanza contenuta in un prodotto transgenico non è quindi sufficiente a dare garanzia di assoluta innocuità tossicologica. Per questo motivo il Parlamento europeo di recente ha deciso di rendere i controlli ancora più severi introducendo il cosiddetto principio di precauzione che, nel caso specifico, consiste fondamentalmente nel far ripetere periodicamente le analisi sui prodotti di origine transgenica già messi in commercio. Spesso, soprattutto in questi ultimi tempi, viene invocato dagli ambientalisti il già citato principio di precauzione. Come abbiamo visto, non esiste attività umana a rischio nullo ed invocare in continuazione un principio che di fatto blocca qualsiasi innovazione non può essere accettato dalla comunità scientifica la quale come obiettivo si prefigge proprio quello di esplorare mondi sconosciuti dove la garanzia di certezza non esiste, giacché il dubbio è nella natura stessa della scienza. Questa non è certo infallibile tuttavia è l’unica attività umana in grado di riconoscere i propri errori, di analizzarli e di cercare i rimedi. Non altrettanto si può dire di altre attività a cominciare da quelle dei politici i quali non ammettono mai di aver sbagliato mentre i disastri da loro provocati sono numerosi e gravi. Nonostante i controlli siano stati e continuino ad essere estremamente rigorosi e nonostante le assicurazioni da parte dei biotecnologi sulla assoluta sicurezza dei cibi transgenici la gente, anche perché condizionata dai mass-media, è molto preoccupata per i possibili effetti nocivi di questi prodotti e molti dubbi permangono ancora sulla loro innocuità. Non è la prima volta che i progressi recenti nel campo tecnologico generano fra la gente comune (ma a volte anche fra gli esperti del settore) una ferma opposizione. Come mai? Senza dubbio i motivi di una tale reazione negativa sono giustificati, almeno in parte, dalla paura di ciò che non si conosce, ma forse esistono anche altre spiegazioni. Spesso in passato si è assistito al rifiuto dei progressi tecnologici considerati innaturali e immorali. Così successe, ad esempio, per la vaccinazione che venne accolta con sospetto perché considerata una pratica innaturale e purtroppo ancora oggi alcuni la ritengono una prassi inutile se non addirittura pericolosa. Perfino il parafulmine, ai tempi di Franklin, era giudicato uno strumento contro natura e di conseguenza immorale perché deviava le saette impedendo a Dio di colpire dove meglio credeva. (Un Dio debole, detto per inciso, se non riusciva nemmeno ad evitare il parafulmine.) In realtà i controlli sui prodotti che devono essere immessi nell’ambiente sono realizzati con il massimo scrupolo e se, come nel caso dei cibi transgenici, gli esperti garantiscono la sicurezza degli alimenti che arrivano sulle nostre tavole non abbiamo motivo di dubitare. Il lavoro degli scienziati non è quello, come pensa qualcuno, di tramare contro i loro simili ma semmai, al contrario, di rendere la vita dell’uomo più lunga e di migliore qualità. I cibi transgenici fino a prova contraria sono perciò da ritenersi del tutto sicuri, tuttavia bisogna tenere sempre presente che i controlli sono fatti dagli uomini e gli uomini, proprio in quanto tali, non sono infallibili: gli effetti collaterali e le conseguenze inattese di nuove tecniche spesso sono difficili da prevedere o possono venire alla luce solo dopo molto tempo dall’introduzione della innovazione. Un esempio classico che viene spesso citato per comprovare quest’affermazione è quello del DDT. Poco prima dell’inizio del secondo conflitto mondiale venne sintetizzata in laboratorio la molecola del DDT, il potente insetticida che tutti conoscono, per opera del chimico svizzero Paul Müller il quale, per quella scoperta, ricevette il Premio Nobel per la chimica nel 1948. L’efficacia del nuovo prodotto nei confronti dei pidocchi e delle zanzare portatrici della malaria venne immediatamente sperimentata sui militari e sulla popolazione civile proprio in occasione della guerra, e in effetti il DDT sterminò molti insetti portatori di malattie tanto che a quel conflitto si attribuisce il merito (si fa per dire) di essere stata l’unica guerra della storia dell’uomo ad avere ucciso più persone con le armi che con le malattie. Il DDT venne accolto con generale entusiasmo perché sembrava innocuo e capace di risolvere tutti i mali della Terra. Si pensò, con ingiustificato ottimismo, che fosse stato posto termine al problema relativo alla diffusione delle malattie trasmesse dagli insetti e che si fosse ottenuta la protezione delle risorse agricole coltivate e immagazzinate dall’uomo. Purtroppo ben presto ci si dovette ricredere e convincere che quello che doveva essere il pregio principale di questa sostanza, ossia l’elevata stabilità della sua molecola difficilmente degradabile per via biologica e di conseguenza a lungo efficace nel luogo in cui veniva immessa, era invece il suo difetto peggiore. Il DDT in realtà è un veleno non solo per gli insetti ma per tutti gli organismi viventi, uomo compreso, e il suo accumulo nei tessuti viventi di animali e piante raggiunse ben presto limiti pericolosi (ne sono state trovate tracce perfino nel grasso dei pinguini dell’Antartico e in quello degli orsi polari) tanto da convincere molti governi a toglierlo dal commercio. A causa della stabilità della sua molecola era divenuta talmente elevata la concentrazione di DDT in alcune zone della Terra che il latte materno ne conteneva quantità tali che se fossero state riscontrate nelle carni destinate all’alimentazione umana queste non avrebbero potuto essere messe in vendita. E’ naturalmente fuor di luogo saltare direttamente alla conclusione che l’uso del DDT ha sortito più danni che vantaggi. Il merito della vittoria sulla malaria, ad esempio, va attribuito in larga misura all’uso del DDT tanto che perfino l’Organizzazione mondiale della sanità agli inizi degli anni ‘70 riconobbe i meriti di questo prodotto per la pubblica igiene. Nel 1944 il DDT fu usato in dosi massicce sulla popolazione più povera di Napoli per disinfestare i vestiti pieni di pidocchi che l’indigenza di quella gente non consentiva di cambiare. Per la prima volta nella storia un’epidemia invernale di tifo petecchiale in quella città fu bloccata sul nascere. Anche la produttività agricola dei paesi sottosviluppati scenderebbe di colpo se si smettesse di usare i pesticidi, compreso il DDT. Altro esempio è quello del Freon, una sostanza che quando fu inventata ebbe immediate applicazioni proprio in relazione alla sua innocuità e stabilità, tanto che l’inventore per dimostrarne la sicurezza ne inalò una dose che poi espirò sulla fiamma di una candela spegnendola. Il Freon non è affatto innocuo come si pensava all’inizio. Oggi gli esperti del settore ritengono che quella sostanza sia la maggiore responsabile del cosiddetto buco dell’ozono, ossia della diminuzione dello spessore della fascia di ozono che ci protegge dai raggi ultravioletti che giungono dallo spazio. Attraverso questi esempi si può comprendere che l’opinione pubblica non ha il diritto di regolare la ricerca scientifica perché non ha conoscenze sufficienti per farlo, né i mezzi adeguati. Come abbiamo detto, solo la scienza ha in sé stessa la possibilità di correggere i propri errori. Nel caso del DDT e del Freon, ad esempio, i fatti hanno dimostrato che l’opinione pubblica non aveva alcuna riserva sul loro uso: invece la scienza ne ha rilevato i danni sulla salute dell’uomo e dell’ambiente. E’ diritto del popolo in regime di democrazia, attraverso le leggi, prendere decisioni anche sbagliate; ma è altrettanto diritto degli scienziati, se non addirittura dovere, proporre leggi che correggano tali errori. fine |