LA
FORMAZIONE DELLE MONTAGNE
Per tutta l’antichità e fino al Medioevo l’uomo ha considerato le
catene montuose come entità stabili e perenni, nate con il mondo. In verità
qualche dubbio sull’origine di questi giganti di roccia ripiegata era già
sorto nel IV e V secolo avanti Cristo quando i filosofi greci avevano notato con
stupore che conchiglie, coralli e resti di altri organismi marini si potevano
raccogliere anche in cima alle montagne. Come c’era arrivato il mare fino lassù?
In tempi più recenti, casualmente vennero scoperti, negli strati
rocciosi di alcune montagne, resti di animali e piante marine, ma l’argomento
riguardante i fossili (dal latino fodere = scavare) si perdette nella
confusione delle teorie ecclesiastiche che ignoravano la vera natura di questi
oggetti così chiaramente somiglianti agli organismi viventi. Svariate e
fantasiose furono le spiegazioni del fenomeno come quelle che li consideravano lusus
naturae, cioè scherzi della natura o tentativi fatti dal Creatore per
mettere alla prova la fede dell’uomo.
Chi pose il problema al di fuori di ogni discussione fu Leonardo da
Vinci, che ne intuì la verità e da quel momento i fossili vennero ritenuti
esattamente quello che appaiono, ossia i resti di organismi vissuti in tempi
geologici passati. Ma per giungere ad una spiegazione definitiva del
collegamento che intercorre fra i processi che originano le catene montuose e
gli ambienti marini si deve arrivare alla seconda metà del secolo scorso quando
si capì che i sedimenti accumulati sul fondo del mare potevano venire deformati
e sollevati per migliaia di metri. 1. LE
TEORIE OROGENETICHE
Il ciclo geologico che porta alla formazione delle catene montuose si
chiama orogenesi (dal greco òros = monte e génesis =
nascita) e comprende non solo il sollevamento e il ripiegamento di enormi pacchi
di sedimenti marini, ma anche il precedente accumulo di questo materiale in
depressioni prossime al continente e il loro progressivo sprofondamento. Le
teorie orogenetiche possono essere divise in due gruppi: quelle che prevedono il
formarsi delle montagne come effetto di spinte verticali e quelle che richiedono
l’intervento di spinte tangenziali, più o meno parallele alla crosta
terrestre. In passato furono più seguite le teorie dei sollevamenti verticali,
oggi quelle dei movimenti tangenziali.
Al primo gruppo di teorie appartiene quella antica che immaginava la
nascita delle montagne come effetto della contrazione che la crosta avrebbe
subito in seguito al raffreddamento del pianeta. Secondo questo modello la
crosta terrestre era concepita come un rivestimento rigido e sottile sovrastante
la parte interna fusa o quasi fusa. A mano a mano che questa parte interna si
raffreddava, si ritirava rispetto alla crosta, la quale, per potersi adattare
all’area sottostante rimpicciolita, era costretta a fratturarsi e corrugarsi
come la buccia di una mela secca. Questa ipotesi rendeva necessario supporre una
certa uniformità e simmetria nella distribuzione delle catene montuose sulla
superficie terrestre, ma le catene montuose, che fra l’altro rappresentano una
parte piuttosto esigua del nostro pianeta, non mostrano affatto una disposizione
regolare. Inoltre, la scoperta degli elementi radioattivi di cui proprio la
crosta è ricca, ha evidenziato che la Terra genera essa stessa energia, sotto
forma di calore, in quantità più che sufficiente a compensare le perdite
dovute all’irradiazione. La Terra non si starebbe quindi raffreddando, anzi può
darsi addirittura che si stia riscaldando.
Successivamente, la scoperta della diversa composizione delle rocce che
formano i continenti e di quelle che tappezzano i fondi oceanici portò alla
formulazione della teoria della “isostasia” (dal greco isos = uguale
e stasis = stare) per spiegare la ricerca di un equilibrio fra masse più
leggere e masse più pesanti attraverso movimenti di sollevamento e di
abbassamento di vaste aree della crosta terrestre. A questa scoperta si arrivò
attraverso la misura della deviazione del filo a piombo. Si notò che il filo a
piombo sistemato in prossimità di grosse catene montuose veniva attratto da
queste in misura minore di quello che ci si aspettava, e a volte veniva
addirittura respinto. Se le montagne fossero semplicemente dei cumuli di terra
più elevati delle aree circostanti e giacessero come un peso in eccesso sul
substrato rigido, il filo a piombo avrebbe dovuto deviare verso di esse in
misura maggiore di quanto osservato. Se ciò non accadeva voleva dire che vi era
qualche cosa che compensava l’eccesso di massa della montagna. La soluzione più
semplice era quella di immaginare, sotto la montagna, delle radici profonde,
composte dello stesso materiale relativamente leggero di cui è fatta la
montagna stessa, immerse nel substrato più pesante. Queste radici profonde di
materiale leggero avrebbero sostituito il materiale più pesante del basamento,
in modo da far diminuire lo spostamento del filo a piombo fino al valore
rilevato.
Ricerche geofisiche e sismiche condotte con strumenti più raffinati del
semplice filo a piombo, hanno confermato che non solo le montagne, ma tutta la
crosta continentale è formata da rocce relativamente leggere (graniti, gneiss e
sedimenti) che vengono chiamate sialiche perché costituite
prevalentemente da silicati di alluminio, mentre la crosta che tappezza i fondi
oceanici è formata da rocce più pesanti (basalti, peridotiti, ecc.) dette simatiche
perché ricche di silicati di magnesio. La crosta simatica oceanica, dello
spessore di 6-7 kilometri, si estende anche sotto i continenti avvolgendo
completamente la Terra, mentre lo strato sialico non è continuo e i continenti
possono essere considerati delle specie di enormi zattere di rocce leggere dello
spessore medio di 30-40 kilometri, che può arrivare a 70-80 in corrispondenza
delle catene montuose, poggiate sul sima.
Torniamo ora alla teoria dell’isostasia alla quale si arrivò studiando
l’enorme pacco di sedimenti (12 mila metri) che formano i monti Appalachi nel
Nord America. Nel 1859 il geologo newyorkese James Hall notò che le rocce
sedimentarie, compresse e ripiegate, che formano la catena degli Appalachi
avevano uno spessore dieci volte maggiore di quello di sedimenti non ripiegati
della stessa epoca che giacevano nella vicina pianura. Inoltre osservò anche
che tutti quei sedimenti erano di mare poco profondo e quindi dovevano essersi
accumulati in una zona che andava abbassandosi all’incirca allo stesso ritmo
con cui i detriti venivano deposti. Solo in questo modo, infatti, si sarebbe
reso possibile l’accumulo di grandi spessori di sedimenti tutti dello stesso
tipo. Lo sprofondamento della crosta su cui si accumulavano le sabbie e i fanghi
provenienti dalle terre vicine sarebbe continuato fino a che la spinta del
materiale profondo, reso pastoso dall’alta temperatura, non avesse superato il
carico sovrastante più leggero sollevandolo e deformandolo in accordo con il
principio di Archimede.
Alla fossa lunga e stretta sistemata in prossimità dei continenti in cui
si accumulano e si costipano i materiali destinati ad evolvere in una catena
montuosa di corrugamento il geologo americano James Dana nel 1870 dette il nome
di geosinclinale. Per quanto riguarda lo sprofondamento dei sedimenti che
si accumulano all’interno di questa sacca naturale del fondo marino, in un
primo momento si era pensato che potesse essere il loro stesso peso a spingere
il contenuto verso il basso, ma poi, ragioni connesse con l’equilibrio della
crosta, esclusero questa ipotesi. Ne vennero allora avanzare delle altre fra cui
quella delle correnti convettive delle masse magmatiche sottostanti, che
avrebbero trascinato verso il basso, quasi risucchiato, il contenuto della
geosinclinale, ma nemmeno questa ipotesi soddisfaceva appieno. In realtà non è
necessario spiegare il meccanismo di un fenomeno per poterlo trattare. Siamo
sicuri ad esempio delle glaciazioni del quaternario che hanno coperto di
ghiaccio mezza Europa senza essere in grado di spiegarne la causa e siamo anche
sicuri del magnetismo terrestre senza sapere come si origina. Attualmente i
geologi sono convinti che qualunque sia stato il meccanismo di formazione delle
geosinclinali si tratta di zone di indebolimento della crosta terrestre come è
dimostrato anche dai frequenti sismi e dalle rocce vulcaniche iniettate fra i
materiali sedimentari che poi sarebbero andati a formare le montagne.
In qualsiasi modo si sia prodotto l’abbassamento, i geologi ritenevano
in passato che quando la parte più profonda della fossa geosinclinale avesse
raggiunto la zona calda del sima sottostante l’espansione provocata dal calore
avrebbe dilatato e contorto i sedimenti che, divenuti meno densi e non trovando
possibilità di espandersi di fianco, avrebbero iniziato a risalire.
L’isostasia si basa infatti su quel principio fisico incontestabile secondo
cui un corpo che galleggia su una massa fluida più pesante emerge tanto più
quanto più profondamente è immerso in essa. 2. LE SPINTE TANGENZIALI
Le teorie orogenetiche che si appellano a spinte tangenziali per spiegare
l’emersione e il ripiegamento degli enormi sedimenti marini che andranno a
formare le catene a pieghe e falde di ricoprimento fanno riferimento alla teoria
più generale della tettonica delle placche. L’osservazione che le catene
montuose, soprattutto quelle di formazione più recente, si trovino ai margini
dei continenti, così come il fatto che le fosse profonde si rinvengano in
vicinanza delle coste e non in mezzo agli oceani, fece ritenere che fosse lo
spostamento di zolle di crosta terrestre a causare questi fenomeni.
Già lo stesso Wegener, con la sua teoria della deriva dei continenti,
pensava che le montagne fossero il risultato del movimento dei continenti che,
incontrando resistenza lungo la strada, o scontrandosi fra loro, avrebbero
ripiegato e sollevato i bordi come avviene in un tappeto sul quale viene spinto
un armadio per avvicinarlo al muro. D’altra parte, l’idea che la formazione
delle catene montuose potesse avvenire a seguito dello spostamento dei
continenti non era in contraddizione con la teoria delle geosinclinali secondo
cui l’emersione dei sedimenti sarebbe dovuta allo schiacciamento degli stessi
provocato dalla collisione dei continenti. Le Alpi e l’Himalaya, ad esempio,
si sarebbero sollevate quando l’oceano della Tetide si restrinse a causa
dell’avvicinamento dell’Africa all’Europa e, rispettivamente, dell’India
all’Asia. Lo scontro di questi blocchi continentali avrebbe premuto sulle
geosinclinali facendone uscire il contenuto come esce il dentifricio quando si
preme sul tubetto.
Con la teoria della tettonica delle placche (o tettonica globale) il
meccanismo della formazione delle montagne viene rivisto nei dettagli, ma
sostanzialmente rimane quello che aveva intuito Wegener. A muoversi ora non
sarebbero più i continenti, ma i fondali oceanici i quali, giunti in prossimità
dei continenti, finirebbero per inabissarsi sotto di essi schiacciando il
contenuto delle geosinclinali e provocando terremoti e fuoriuscita di magma come
è testimoniato dai numerosi vulcani che si trovano in prossimità delle grandi
catene montuose. Il fenomeno di sottoscorrimento del basamento oceanico, con
termine tecnico, è detto subduzione (dal latino sub, sotto e ducere,
guidare, quindi: “portare al di sotto”).
Negli anni immediatamente precedenti la teoria della tettonica delle
placche, anche lo schema di geosinclinale era stato revisionato. Vennero
individuati due tipi di geosinclinale separati da una zona rilevata chiamata ruga:
una miogeosinclinale più vicina alla costa in cui si depositano
sedimenti di mare basso e una eugeosinclinale più al largo in cui
accanto a sedimenti di mare più profondo vengono emesse rocce vulcaniche.
Quando si verifica un’orogenesi, le forze che la producono spingono l’intero
pacco dei sedimenti delle due geosinclinali verso il continente (detto con
termine tecnico avanpaese) che rimane praticamente indeformato. Anche sui
continenti vennero individuate due strutture geologiche fondamentali: le aree
stabili, spianate dall’erosione, dette cratoni, e quelle instabili,
dette orogeni. I cratoni, distinguibili in scudi (se leggermente arcuati
come uno scudo poggiato a terra) e tavolati, rappresentano la porzione più
antica e pianeggiante della parte emersa del pianeta priva di vulcanismo e di
sismicità, mentre gli orogeni presentano invece caratteristiche di debolezza,
possono essere deformati, sono sede di fenomeni magmatici e sismici e mostrano
un profilo topografico piuttosto accidentato.
Secondo le attuali teorie, l’orogenesi è quindi direttamente legata
alla formazione degli oceani i quali, a differenza dei continenti, sono
strutture di formazione geologica recente: in essi infatti non si sono mai
raccolte rocce di età superiore ai 200 milioni di anni, mentre sulla terra
ferma vi sono anche rocce che hanno un’età di quasi quattro miliardi di anni.
Inoltre gli oceani non sono dei larghi catini con il fondo più o meno
pianeggiante come si riteneva in passato, ma presentano irregolarità e rilievi
che possono raggiungere dimensioni anche maggiori di quelle che si riscontrano
sui continenti. Questi rilievi sottomarini sono quasi tutti di origine vulcanica
e quelli di dimensioni maggiori possono anche affiorare formando delle isole,
che, come nel caso delle Hawaii, hanno un’altezza complessiva di 10 mila
metri. Ma i rilievi oceanici più imponenti e più interessanti dal nostro punto
di vista sono le dorsali, cioè quelle catene montuose che si snodano in una
zona più o meno centrale di tutti gli oceani.
La prima di queste catene sottomarine ad essere scoperta, nella seconda
metà dell’Ottocento, fu la dorsale medio-atlantica, una struttura che
pertanto era nota anche a Wegener, il quale, tuttavia, non ne aveva capito la
funzione e la considerava una fastidiosa anomalia, un accumulo di detriti
abbandonati dai continenti nel loro movimento di deriva. Fin dagli anni Venti
del secolo scorso, però, gli scienziati sapevano già che questa dorsale
dell’Atlantico non era una formazione limitata a quell’oceano, ma faceva
parte di un sistema molto più ampio, esteso a tutti gli oceani del mondo, lungo
quasi 70 mila kilometri.
Lungo la cresta di questa dorsale oceanica corre normalmente una fossa
tettonica, detta in inglese rift, ossia spaccatura, larga alcuni
kilometri e profonda qualche centinaio di metri. Da questa spaccatura centrale
si osservano continue emissioni di lava che, solidificandosi su ambo i lati
sotto forma di basalti, vanno a pavimentare i fondali oceanici. Il magma fluido
sottostante sarebbe spinto in superficie da correnti di convezione, generate da
differenze di temperatura. Più precisamente, nel mantello sottostante la
litosfera si formerebbero correnti circolari contigue di materiale fluido o
semifluido simili a quelle che si generano nell’acqua di una pentola posta sul
fuoco. I rami ascendenti di due celle convettive adiacenti trasportano verso
l’alto il materiale lavico che va ad insinuarsi nella fossa tettonica la quale
si allarga, oltre che per l’arrivo di nuovo materiale, anche a seguito delle
trazioni esercitate dalle celle convettive che giunte sotto la litosfera tendono
a divergere. La trazione esercitata dal movimento rotatorio del magma, spostando
lateralmente le rocce che formano i pavimenti oceanici, spiegherebbe il motivo
per il quale le rocce che si trovano in prossimità della dorsale sono piuttosto
recenti mentre via via che si procede verso i due bordi dell’oceano si
incontrano rocce di età sempre più antica. Inoltre, con l’espansione dei
fondi oceanici, si spiegherebbe anche il motivo per il quale i sedimenti che si
depositano sul fondo degli oceani sono praticamente inesistenti in prossimità
della dorsale, mentre presentano spessori di vari kilometri vicino ai
continenti.
L’orogenesi sarebbe quindi legata all’apertura e all’evoluzione di
un oceano. Vediamo allora come si forma un oceano. Un oceano nasce quando la
litosfera di un continente, sottoposta a tensione, si spacca. Si apre allora una
fossa tettonica simile a quella africana che partendo dalla valle del Giordano,
attraverso il Mar Rosso, si estende lungo gran parte dell’Africa orientale. Da
questa spaccatura del terreno in un primo tempo fuoriescono lave che vanno a
formare alti coni vulcanici. In seguito, mentre i bordi della fossa si alzano
per l’arrivo di nuove lave provenienti dal magma sottostante, la fossa stessa,
appesantita dalla presenza di materiali simatici, sprofonda fino ad essere
parzialmente invasa dal mare o occupata da laghi lunghi e stretti. Col tempo, le
lave che continuano a fuoriuscire dalla spaccatura centrale solidificano
sull’uno e sull’altro lato di questa profonda apertura della crosta
terrestre formando una dorsale sottomarina i cui lati, spianati dall’azione
delle onde, si allontanano a mano a mano che nuova lava solidifica nel centro.
Mentre viene spostata lateralmente la litosfera sottomarina si raffredda e si
appesantisce e nel contempo spinge i due monconi continentali in direzione
opposta.
L’arrivo di nuovo materiale dalle zone
sottostanti la crosta e l’espansione dei fondi oceanici dovrebbe far aumentare
il volume del globo terrestre. Non è facile misurare un aumento di volume del
pianeta, ma le misure indicano che l’espansione dei fondi oceanici dovrebbe
essere comunque maggiore di un’eventuale espansione dell’intero pianeta.
Quindi, anche ammesso che la Terra si espanda, sicuramente lo farebbe ad un
ritmo decisamente inferiore a quello dei fondi oceanici. Da ciò consegue che
lontano dall’asse di espansione deve esistere una zona nella quale il fondo
oceanico viene distrutto. Le numerose e dettagliate osservazioni portano a
ritenere che la distruzione di crosta oceanica avviene ai margini della zolla
dove prima o poi compaiono delle fosse in prossimità delle quali i fondali
oceanici appesantiti e raffreddati sprofondano e vengono a poco a poco
inghiottiti per subduzione.
Quando una zolla tettonica oceanica va in subduzione al di sotto di un
bordo su cui è sistemato un continente, non solo emerge il contenuto delle
geosinclinali, ma si insinuano fra i sedimenti anche alcuni lembi del pavimento
basaltico che vengono strappati dal fondo del mare durante il processo di
subduzione e collisione. Si formano in questo modo rocce molto tipiche dette ofioliti
(dal greco ophis = serpente e lithos = pietra, quindi rocce simili
alla pelle del serpente) o anche, con riferimento al colore, rocce verdi.
Queste rocce particolari, a volte metamorfosate, si ritrovano in molte catene
montuose comprese le Alpi e gli Appennini. fine |