ORIGINE
ED EVOLUZIONE DELL'UOMO Fino a poco più di un secolo fa nessuno pensava
che l'uomo potesse aver avuto anch'egli origine da una lenta e graduale
evoluzione, perché tutti ritenevano che l'uomo fosse una creatura speciale,
creata da Dio a Sua immagine e somiglianza e pertanto profondamente diversa da
tutti gli altri esseri viventi. Così è scritto nelle Sacre Scritture e così
veniva insegnato alla gente. Fu Charles Darwin, nel 1871, ad affermare per
primo, nel suo libro "The descent of Man" (L'origine dell'uomo), che
anche noi siamo esseri viventi come tutti gli altri, e che quindi siamo soggetti
alle stesse leggi che governano i fenomeni naturali. L'uomo, pertanto, deve aver
avuto degli antenati i quali, a loro volta, dovevano possedere delle
caratteristiche simili a quelle degli animali cui egli oggi assomiglia di più,
cioè le scimmie. Di qui il falso convincimento che Darwin avesse detto che
l'uomo discende dalle scimmie. In realtà l'uomo non può derivare da un animale
che gli è contemporaneo, così come uno di noi non può essere figlio della
propria cugina. Darwin affermò semplicemente che uomo e scimmia dovevano aver
avuto, in un tempo non molto lontano, antenati comuni, così come due cugini
hanno dei nonni o dei bisnonni in comune. Andando molto indietro nel tempo, si
arriverebbe a quei pochi organismi primordiali che sono stati gli antenati di
tutte le forme viventi attualmente presenti sulla Terra. 1. LA TEORIA EVOLUZIONISTICA Prima di addentrarci nell'argomento forse è
opportuno chiarire cosa intendano gli scienziati quando parlano di
"teorie", e in particolare vedere che cosa dice la teoria
evoluzionistica di Darwin. Non riuscendo in modo coerente e logico a
giustificare l'enorme varietà degli organismi viventi, l'uomo non seppe far di
meglio, in passato, che ricorrere al concetto di creazione. Secondo questo punto
di vista sarebbe esistito un dio, ovvero un'entità trascendente e dalle
possibilità infinite, il quale avrebbe popolato la Terra di ogni sorta di
esseri viventi e assegnato all'uomo un ruolo preminente. Come tutti sanno, non
esiste un unico mito della creazione: ogni cultura ne ha elaborato uno proprio,
esclusivo e originale nei dettagli. Tutti
questi miti, tuttavia, proprio per la loro stessa natura, non sono delle teorie
scientifiche. Non sono teorie scientifiche non solo perché da essi non è
possibile trarre previsioni, ma anche per il fatto che non si possono confutare:
non è possibile, cioè, dimostrare in alcun modo né che sono veri né che sono
falsi. A tutti questi miti, in altre parole, mancano le prerogative tipiche
delle teorie scientifiche: essi sono atti di fede e come tali non hanno né, per
la verità, pretendono di avere, un
fondamento logico. Essendo un atto di fede, non è possibile ad
esempio convincere un credente dell'inconsistenza del mito biblico della
creazione, né è intendimento degli scienziati farlo: ognuno è libero di
credere a ciò che vuole. Allo stesso tempo però la comunità scientifica
pretende che chi apprezza la logica e il rigore del metodo scientifico, cioè
della ricerca della verità attraverso l'osservazione e la sperimentazione, sia
libero da anatemi e da imposizioni di qualsiasi tipo. I creazionisti spesso, con l'intento di sminuire
la teoria evoluzionistica di Darwin, dicono che in fondo si tratta "solo di
una teoria" e pertanto è assurdo pretendere che da essa possa scaturire la
verità. Chi parla in questi termini non sa cosa sia una teoria scientifica.
Cerchiamo allora di spiegarlo in poche parole. Una teoria scientifica non è altro che
un'ipotesi, cioè un'idea che si forma nella mente dell'uomo, dopo che questi ha
osservato attentamente e scrupolosamente i fenomeni naturali e gli esperimenti
di laboratorio. Essa perciò non è la realtà ma una congettura, attraverso la
quale è possibile giustificare i fenomeni naturali in modo logico e coerente.
Una buona teoria non solo deve rendere ragione dei fenomeni dai quali essa
stessa ha tratto origine, ma deve essere anche in grado di prevederne di nuovi
da verificare in futuro. Una teoria
inoltre non è qualche cosa di fisso ed immutabile, valido una volta per sempre,
ma uno strumento concettuale da sottoporre continuamente a verifica. Una teoria
viene definitivamente abbandonata quando non è più in grado di spiegare in
modo chiaro e coerente i fatti osservati. Normalmente però quando una teoria in
seguito all'interpretazione di qualche nuovo fenomeno, entra in contraddizione
con i concetti che essa esprime, invece che scartata definitivamente, viene
opportunamente corretta e modificata. Una teoria scientifica se è "solo
una teoria", come dicono i creazionisti, è semplicemente tutto quello che
deve essere. La teoria evoluzionistica di Darwin, come tutte
le grandi teorie, è molto semplice e si basa su tre presupposti fondamentali.
Primo: gli organismi viventi, animali o piante che siano, fanno molti figli:
molti di più di quelli che servirebbero per rimanere in equilibrio stabile con
il cibo e con lo spazio che l'ambiente mette loro a disposizione. Secondo: gli
organismi della stessa specie non sono tutti identici fra di loro; ve ne sono di
più grandi e di più piccoli, di più lenti e di più veloci, di più chiari e
di più scuri, e così via. Terzo: esiste fra organismi di specie diversa, e
anche fra organismi della stessa specie, una lotta continua per la
sopravvivenza. In questa lotta prevalgono gli individui più forti, ovvero
quelli meglio attrezzati per accedere alle risorse che la natura mette loro a
disposizione, ottenendo un vantaggio riproduttivo sugli individui più deboli. A questo punto, torniamo alla storia evolutiva
dell'uomo. 2. I PRIMI RITROVAMENTI DI FOSSILI UMANI Prima che Darwin, nel 1856, pubblicasse il suo
libro sulla teoria dell'origine delle specie per selezione naturale, nella valle
del fiume Neander presso Düsseldorf, in Germania, vennero rinvenuti i fossili
di un cranio e di alcune ossa degli arti appartenuti ad un essere sicuramente
umano, ma dalle caratteristiche strutturali molto particolari. Quel reperto,
ovviamente, non venne interpretato su basi evolutive ed anzi alcuni eminenti
biologi del tempo ritennero potesse trattarsi dei resti di un uomo moderno,
deforme o gravemente malato. Il patologo tedesco Rudolf Virchow arrivò al punto
di specificare che quell'individuo doveva aver sofferto di rachitismo in giovane
età, aggravato da artrite in vecchiaia (come dimostravano le ossa arcuate degli
arti) e ulteriormente peggiorato da qualche brutto colpo ricevuto in testa
nell'età adulta. Per altri, invece, si trattava di un soldato cosacco
dell'esercito russo (le gambe arcuate erano la prova di una vita passata a
cavallo) che aveva partecipato alla guerra contro Napoleone nel 1814 e che,
stremato dalla stanchezza (le arcate sopraorbitarie prominenti erano il
risultato del continuo aggrottamento dei sopraccigli per il dolore), si era
rifugiato in una caverna dove aveva trovato la morte. Successivamente, però,
Thomas Henry Huxley, l'amico fraterno di Darwin, lo interpretò correttamente
come le vestigia di una razza umana primitiva. A questa razza, di cui verranno
rinvenuti in seguito molti altri esemplari, sarà assegnato il nome di
"Uomo di Neanderthal" (Homo neanderthalensis). L'uomo di Neanderthal doveva essere un individuo
tarchiato, alto circa un metro e mezzo, con un cranio di spessore abnorme, lungo
e stretto, ma con una capacità notevole (oltre 1.500 cm³), perfino superiore
alla media dell'uomo attuale; esso presentava inoltre la fronte sfuggente, le
arcate sopraorbitarie molto prominenti e il foro occipitale non perfettamente
parallelo al terreno. Tutte queste caratteristiche portarono ad immaginare gli
uomini di Neanderthal come esseri con l'aspetto da bruti che abitavano le
caverne e che procedevano con un'andatura curva in avanti, simile a quella delle
attuali scimmie antropomorfe. Oggi sappiamo invece che l'uomo di Neanderthal
non era affatto un essere bestiale, ma che aveva un'intelligenza e svolgeva
un'attività molto simile alla nostra (conosceva ad esempio il fuoco e
seppelliva i morti, dimostrando di possedere rispetto per i defunti). Egli visse
in un'epoca molto recente (dai 130.000 ai 35.000 anni fa) e viene attualmente
considerato una sottospecie dell'Homo sapiens a cui è stato assegnato il
nome scientifico di "Homo sapiens neanderthalensis", mentre noi
siamo "Homo sapiens sapiens". Egli quindi non è un nostro
antenato, ma piuttosto una specie di uomo che ha avuto un iter evolutivo
divergente rispetto al nostro, iter evolutivo che lo ha portato all'estinzione.
I nostri veri antenati hanno invece abitato l'Africa almeno 3,5 milioni di anni
fa. Come abbiamo visto, con Darwin la comunità
scientifica prese coscienza che anche l'uomo, come qualsiasi altra specie
vivente, doveva aver avuto una propria storia evolutiva e si mise alla ricerca
delle tracce della sua origine. Nacque in questo modo la paleoantropologia, cioè
la scienza che si occupa della ricerca e della catalogazione dei reperti fossili
del genere umano. Fra i fossili umani vengono compresi, oltre alle ossa, anche
gli utensili che l'uomo stesso fabbricò e utilizzò, e le tracce della sua
attività, come i resti dei fuochi che accese per riscaldarsi e tenere lontani
gli animali feroci, e i dipinti che realizzò sulle pareti delle caverne in cui
visse. Tutti i ritrovamenti fossili riguardanti la
specie umana sono stati rinvenuti praticamente nel secolo scorso e provengono in
prevalenza dall'Africa, ma alcuni reperti importanti sono stati trovati anche in
Asia e in Europa. I reperti fossili, attualmente esistenti, non sono molti e
potrebbero trovare sistemazione, al completo, in una sala da conferenze:
tuttavia essi si sono dimostrati sufficienti per ricostruire, in modo
soddisfacente, la storia evolutiva dell'uomo. Le scoperte di questi ultimi vent'anni hanno
rimandato molto indietro nel tempo la data dell'origine della nostra specie, che
prima si collocava intorno ai 500.000 anni. Queste ultime scoperte hanno anche
chiarito definitivamente che il genere umano ha avuto le sue origini in Africa e
non in Europa, come per lungo tempo si era creduto. In realtà il convincimento
che l'Europa fosse stata la culla dell'umanità non aveva alcun fondamento
scientifico, ma si basava esclusivamente sulla presunzione che la civiltà
europea fosse la più evoluta di tutte. Per questo motivo, resti di Ominidi,
rinvenuti a Giava e in Cina alla fine dell'altro secolo e all'inizio di questo,
vennero interpretati come resti di scimmie e non come nostri reali antenati. Con il termine di Ominide oggi si indicano
collettivamente tutti i tipi ancestrali della specie umana contraddistinti
dall'andatura eretta. L'unica specie di Ominide che alla fine sopravvivrà alla
selezione naturale sarà la nostra, quella che abbiamo chiamato Homo sapiens
sapiens. 3. LE SCOPERTE PIU' RECENTI Due milioni di anni fa vivevano contemporaneamente, in
Africa, due tipi diversi di Ominidi: gli Australopiteci e quelli del genere
Homo. Gli Australopiteci, il cui termine letteralmente significa "scimmie
australi" (cioè scimmie del sud), in realtà non erano scimmie, ma uomini
primitivi che si sono estinti senza lasciare discendenti. Gli altri, gli Ominidi
del genere Homo, sono i nostri più diretti antenati e si sono evoluti fino a
pervenire alla nostra specie. Le scoperte più sensazionali di questi ultimi
anni sono rappresentate dalla famosissima Lucy e dalle tracce dei passi che tre
individui lasciarono sulla cenere ancora calda di un vulcano dell'Africa più di
tre milioni e mezzo di anni fa. Si tratta, in entrambi i casi, di Australopiteci
che vivevano nella savana e che avevano già acquisito un eccellente
adattamento all'andatura eretta. Lucy fu scoperta da una spedizione
franco-americana guidata dai paleoantropologi Yves Coppens e Donald C. Johanson,
nel 1974. Insieme ad ossa di coccodrilli, di roditori e di elefanti vennero
ritrovate, nella valle desertica degli Afar in Etiopia, a una sessantina di
kilometri da Addis Abeba, alcune ossa di Ominidi che poi furono riconosciute
come appartenenti ad un unico individuo. Quell'individuo era una giovane femmina
vissuta più di tre milioni di anni fa. Dalla struttura dello scheletro
(completo al 40%), si poteva facilmente dedurre che essa era in grado di
camminare in posizione eretta. Il nome di Lucy fu ispirato da una canzone dei
Beatles molto in voga a quel tempo: "Lucy in the Sky with Diamonds"
(usata, fra l’altro, anche come crittogramma della sostanza allucinogena LSD)
che i ricercatori ascoltavano di frequente alla radio durante le operazioni di
scavo. Le impronte di passi dei tre Ominidi furono
rinvenute nel 1976, su uno strato di cenere vulcanica fossilizzata, da una
spedizione scientifica guidata dalla celebre paleoantropologa Mary Leakey,
moglie dell'ancor più famoso Louis Leakey capostipite di una famiglia di
ricercatori che da oltre cinquant'anni opera in Africa orientale nella
cosiddetta valle del Rift (Rift Valley). Louis Leakey, figura ormai leggendaria
nel campo della paleoantropologia, era nato in Kenia nel 1903 da un pastore
inglese trasferitosi in quelle terre per assolvere alla sua missione spirituale;
la morte dello scienziato avvenne in quella regione africana nel 1972. Nei pressi di Laetoli in Tanzania sorge un
vulcano, oggi spento, ma che alcuni milioni di anni fa era attivo ed eruttava
lava insieme ad una gran quantità di ceneri e di lapilli. Su questo materiale
polverulento, bagnato dalla pioggia, lasciarono le loro impronte tre ominidi che
camminavano su due gambe come noi e i cui piedi non erano, per forma, molto
diversi dai nostri. Il terreno su cui si sono conservate le tracce dei tre
individui fu datato con il metodo del potassio-40 e risultò avere un'età di
3,7 milioni di anni. L'anno successivo al ritrovamento di Lucy, la
spedizione guidata da Donald Johanson fece un'altra scoperta sensazionale. Sul
fianco eroso di una collina furono individuati i resti di un gruppo di individui
che molto probabilmente morirono tutti insieme in seguito ad una catastrofe
naturale, forse un'inondazione. Furono recuperati centinaia di denti e di
frammenti ossei, appartenenti ad almeno tredici individui (di cui quattro
bambini) che qualcuno pietosamente battezzò "Prima famiglia". Si
trattava di esemplari con caratteristiche simili a quelle di Lucy. A tutti
questi Ominidi venne alla fine assegnato il nome scientifico di Australopithecus
afarensis (da Afar, il deserto etiopico in cui fu ritrovata Lucy). 4. LA STAZIONE ERETTA DELL'UOMO La caratteristica più singolare e in un certo
senso più sorprendente dell'uomo è la posizione che il suo corpo assume nello
spazio. La nostra specie è l'unica, fra tutti i mammiferi, a camminare in
posizione eretta. La conquista della stazione e della deambulazione eretta, da
un punto di vista evolutivo, dicono gli esperti, è di difficile acquisizione ed
è molto più improbabile dello stesso sviluppo del cervello. Un tempo si riteneva che la stazione eretta, lo
sviluppo del cervello e l'uso degli utensili fossero stati acquisiti, dall'uomo
primitivo, contemporaneamente; oggi invece i paleoantropologi la pensano in modo
diverso. Ad esempio Owen Lovejoy, un biologo esperto di locomozione animale, è
convinto che gli Ominidi acquisirono la stazione eretta quando ancora vivevano
nella foresta e che poi questa particolare posizione del corpo si rivelò
vantaggiosa quando gli stessi furono costretti ad abitare nella savana. Ma che
cosa spinse l'evoluzione degli Ominidi in questa direzione? Quali vantaggi
evolutivi può aver comportato il camminare permanentemente su due soli arti,
rispetto all'andatura su quattro zampe tipica di tutti gli altri mammiferi?
Come tutti (o quasi) sanno, l'evoluzione si
realizza attraverso piccole variazioni casuali della struttura del DNA che si
chiamano mutazioni e che si ripercuotono in altrettante lievi modifiche
dell'organismo entro il quale tale DNA è contenuto. Le mutazioni, in sé, non
sono né vantaggiose né svantaggiose per l'individuo che le subisce: tutto
dipende dal modo in cui questo individuo reagirà alla prova dell'ambiente. Sarà
l'ambiente, in altre parole, a consolidare o a cancellare le variazioni che
compaiono sull'individuo mutato. L'andatura su quattro arti è indubbiamente più
comoda rispetto a quella bipede ed è anche quella che richiede minore dispendio
di energia. L'acquisizione dell'andatura bipede deve essere quindi interpretata
come un avvenimento straordinario e niente affatto conveniente. La posizione
eretta richiede infatti una ristrutturazione radicale della nostra anatomia, al
confronto della quale lo sviluppo notevole dell'encefalo rappresenta un fenomeno
di secondaria importanza. Spesso si parla di evoluzione in termini
finalistici, come se un particolare cambiamento su di un organismo avvenisse con
lo scopo di raggiungere un determinato obiettivo. Si dice, ad esempio, che
l'uomo ha acquistato la stazione eretta per poter vedere in lontananza sopra le
alte erbe della savana; ma ciò non può essere vero. Le mutazioni del DNA e i cambiamenti che,
conseguentemente, queste mutazioni producono sull'organismo, non possono
avvenire in previsione di un ambiente in cui questi organismi non vivono ancora:
la selezione naturale non ha né coscienza né preveggenza.
L'acquisizione della stazione eretta, da parte dell'uomo primitivo, non
avvenne per consentirgli di vedere meglio in lontananza, ma per garantirgli il
mantenimento del tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando, cioè
nella foresta nella quale quell'organismo ancora si trovava. La natura, come abbiamo detto, non può prevedere
gli ambienti che devono ancora venire e le specie non si possono pre-adattare ad
un ambiente che non c'è e che chissà se mai ci sarà. La possibilità di
vedere meglio in lontananza, per l'Ominide che aveva acquisito la stazione
eretta, non fu quindi la causa dell'innovazione, ma piuttosto l'effetto della
sua esistenza. Per concludere, poiché l'evoluzione non ha né
scopo, né direzione, dobbiamo ritenere che l'acquisizione della stazione eretta
da parte di scimmie primitive che abitavano la foresta sia avvenuta per caso ed
abbia posto quegli animali in condizioni più favorevoli rispetto agli altri,
perché ha consentito loro di mantenere il tradizionale modo di vita in un
ambiente che stava mutando. Ritorneremo sull'argomento. 5. LA NEOTENIA Oggi si ritiene che l'uomo sia fondamentalmente
il risultato di un fenomeno biologico che prende il nome di neotenia. Con
questo termine, che etimologicamente significa "prolungamento della gioventù",
si indica la tendenza delle specie viventi a conservare, nell'età adulta,
alcune caratteristiche fisiche embrionali. Vive in Messico un animale dall'aspetto curioso:
il suo nome è axolotl. Esso assomiglia ad un girino gigante ma a
differenza del girino, che è una rana immatura, e che quindi non può
riprodursi, l'axolotl è in grado di farlo. Esso è cioè un essere immaturo
nell'aspetto, ma adulto nelle funzioni. Questo strano animale è stato studiato in
laboratorio e si è scoperto che, aggiungendo una minima quantità di iodio
all'acqua in cui vive, esso si trasforma in salamandra. Lo iodio è il
costituente essenziale dell'ormone che produce la metamorfosi: se manca lo iodio
nei laghi in cui la salamandra depone le uova, i girini che nascono non riescono
a diventare adulti e muoiono. L'axolotl invece è sia in grado di trasformarsi
in salamandra se le acque in cui vive sono ricche di iodio, sia di rimanere allo
stato embrionale e continuare a riprodursi sotto forma di girino, se le acque
sono prive di iodio. Una mutazione improvvisa e fortuita deve aver
determinato, in tempi molto lontani, la comparsa, su alcuni girini delle
salamandre del Messico, degli organi sessuali maturi e quindi in grado di
produrre spermatozoi e uova. Questi girini si sarebbero quindi trovati nelle
condizioni di potersi riprodurre prima che si fosse compiuta la metamorfosi: in
questo modo deve essere nato l'axolotl. Ma che cosa c'entra la strana mutazione
dell'axolotl con la storia dell'evoluzione umana? L’attinenza
invero esiste perché molti studiosi ritengono che anche l'uomo sia un prodotto
neotenico. Anzi, non solo l'uomo, ma tutto il gruppo degli animali più evoluti,
ossia i cordati, potrebbe essere il risultato di una mutazione neotenica
avvenuta centinaia di milioni di anni fa. I cordati sono un tipo (o philum)
di animali, a cui appartengono i vertebrati, provvisti di una corda cartilaginea
dorsale che funge da organo propulsore e di sostegno. Ora, il fatto che non
esista alcun invertebrato che assomigli ai cordati al punto da potersi candidare
a suo antenato, esclude che i cordati possano essere derivati da una mutazione
comparsa su qualche individuo adulto. Viceversa la larva del riccio di mare, un
animale che con i cordati non ha nulla da spartire, assomiglia a tal punto a
questo gruppo di animali che molti ritengono che i cordati si siano evoluti
proprio a partire dalla struttura immatura del riccio di mare che, al pari dell'axolotl,
in seguito ad una mutazione, si è trovata in condizioni di riprodursi in virtù
della neotenia. Anche gli uomini adulti, dicevamo, hanno molte
caratteristiche neoteniche. Se si osserva il feto di un mammifero qualsiasi, ad
esempio il maiale, si nota che la testa è molto sviluppata rispetto al resto
del corpo: questa sproporzione si ridimensiona però successivamente nel corso
dello sviluppo. Nel caso dell'uomo, invece, la riduzione del rapporto dimensioni
della testa/dimensioni del corpo, è minore. La nostra testa, in altre parole,
conserva dimensioni notevoli anche nell'età adulta, consentendo la produzione
di una massa celebrale di grosse proporzioni. Ma questa non è l'unica caratteristica neotenica
che ci portiamo addosso. Il corpo glabro, ad esempio, è una caratteristica
embrionale dei mammiferi i quali, da adulti, hanno tutti il corpo ricoperto di
peli. Anche la pelle sottile e delicata, le ossa fragili e i denti di piccole
dimensioni dell'uomo adulto, devono essere considerate caratteristiche
embrionali dei mammiferi. 6. ANDATURA BIPEDE E RAPPORTI FAMILIARI Ora, facendo riferimento all'andatura bipede, si
è osservato che essa richiede un ingrandimento degli arti inferiori ed uno
sviluppo notevole dei muscoli. Le gambe di un bambino però sono piccole e
gracili: l'andatura bipede non dovrebbe quindi essere il risultato di una
modificazione neotenica. Le modificazioni che non sono di natura neotenica sono
da considerarsi non naturali e quindi di più difficile acquisizione. Abbiamo detto che la stazione eretta non è
affatto una posizione naturale (e tanto meno comoda) come superficialmente si
potrebbe credere: essa è una sfida alle leggi della gravità perché eleva il
baricentro del corpo e lo colloca in una posizione di perenne instabilità. La
stazione eretta richiede quindi, da parte dell'individuo che la possiede, una
notevole spesa energetica per la ricerca continua della posizione di equilibrio.
Inoltre essa implica anche una serie di rischi come ad esempio l'immobilità, o
quasi, in caso di ferite o di fratture di un arto e una serie di disturbi, anche
gravi, come lo schiacciamento delle vertebre, le sciatiche, le vene varicose,
ecc. E allora quali sarebbero stati i benefici derivanti da questa mutazione in
grado di compensare gli inconvenienti fisiologici che devono aver tormentato
l'uomo primitivo e che affliggono ancora oggi l'uomo moderno? Il vero beneficio, secondo l'anatomista americano
O. Lovejoy, già menzionato in precedenza, sarebbe rappresentato dalla
possibilità di utilizzare gli arti superiori come strumenti di presa e di
trasporto di oggetti di varia natura e nello stesso tempo di acquisire, grazie
alla maggiore altezza, un migliore controllo del territorio. Lovejoy ha
elaborato una teoria che spiegherebbe il migliore adattamento all'ambiente che
la posizione eretta avrebbe rappresentato per i progenitori della specie umana
quando questi si trovarono nella savana a dover competere con le scimmie più
prolifiche. Si sa che gli organismi viventi hanno tanto più
successo, nella lotta per la sopravvivenza, quanto più sono in grado di
lasciare una discendenza: non si tratterebbe quindi di produrre gran numero di
figli, quanto piuttosto di far in modo che ne rimanga in vita il maggior numero
possibile di quelli nati e per il tempo necessario perché sia prodotta a sua
volta altra prole. Ebbene l'uomo, a differenza di tutti gli altri mammiferi, e
quindi anche delle scimmie, non ha l'estro. Con questo termine si indica
quel periodo di fecondità in cui gli animali manifestano, attraverso segni
esteriori evidenti, un desiderio irrefrenabile all'accoppiamento. Tutti hanno
potuto osservare i cani e i gatti nel periodo dell'estro, cioè quando, come si
usa dire, sono "in calore". L'estro è una garanzia di prolificità in quanto
ogni accoppiamento che avvenisse nel periodo di tempo stabilito dalla natura si
concluderebbe inevitabilmente con la fecondazione delle uova e quindi con la
nascita di uno o più figli. Ma nell'uomo non è così: esso, come tutti sanno,
può avere rapporti sessuali senza che questi portino necessariamente alla
nascita di un figlio. Che cosa c'entra tutto ciò con la posizione
eretta? Lovejoy immagina che fra gli Ominidi che abitavano la foresta alcuni
acquisirono la posizione eretta attraverso una mutazione, dopo che furono
costretti a discendere dagli alberi indotti, come vedremo meglio in seguito, da
una necessità dettata da cambiamenti climatici. In questi individui, appena
scesi a terra, la stazione eretta era presumibilmente molto malsicura, ma andò
lentamente migliorando. A questa evoluzione contribuirono alcune mutazioni fra
cui, secondo Lovejoy, la comparsa di un individuo privo dell'estro. La prima femmina senza l'estro non avrebbe dunque
presentato quelle modificazioni di comportamento, tipiche degli animali "in
calore", capaci di richiamare l'attenzione del maschio dominante il quale
è colui che, all'interno del gruppo, feconda tutte le femmine. Questo
comportamento è molto diffuso tra i mammiferi ed è la regola, ad esempio, fra
i gorilla e i babbuini. Agli altri maschi del gruppo è in genere precluso
l'accoppiamento, anche se, in realtà, ad alcuni di essi la cosa è consentita
ma solo in periodi non fertili. Così è stato osservato ad esempio fra i
babbuini. Il fatto di non possedere l'estro dovrebbe
rappresentare uno svantaggio evolutivo: la teoria evoluzionistica insegna però
che un carattere può apparire svantaggioso se considerato a sé stante, ma
vantaggioso se valutato insieme ad altri con i quali interagisce. Immaginiamo
allora che all'interno di un gruppo di pre-Ominidi che abitavano la foresta e
che vivevano sugli alberi, ma che erano anche in grado di camminare al suolo in
posizione eretta (o quasi), sia comparsa una femmina senza l'estro. Questa
femmina avrebbe potuto accoppiarsi con un giovane del gruppo senza incontrare
ostacoli da parte del maschio dominante in quanto quest'ultimo non si sarebbe
accorto di lei proprio perché priva dell'estro. Da questi rapporti,
apparentemente sterili, sarebbe potuta nascere una discendenza, e quindi altre
femmine di quel tipo, cioè senza l'estro. Una femmina però che si fosse trovata sola a
provvedere all'allevamento del piccolo, avrebbe incontrato enormi difficoltà e
forse non ce l'avrebbe fatta a far sopravvivere il figlio e sé stessa. In
precedenza, all'interno del gruppo, non vi erano stati di questi problemi, perché,
come succede anche attualmente negli animali che vivono in comunità, tutti i
componenti del gruppo erano chiamati a collaborare per l'interesse comune. A causa della situazione che si era venuta a
creare dovette svilupparsi un nuovo tipo di rapporto fra i singoli componenti
del gruppo; si dovette cioè instaurare, fra individui di sesso diverso, un
legame personalizzato, di tipo monogamo, in cui il maschio, forse ricattato
psicologicamente attraverso richiami affettivi sconosciuti in precedenza, si
sarebbe legato ad un'unica femmina, e precisamente a quella dalla quale aveva
avuto il figlio. Forse in questo modo è nato quello che chiamiamo
"amore", cioè un rapporto di coppia stabile fondato su attrazioni di
tipo diverso da quei comportamenti stereotipati riscontrabili negli animali che
conducono vita comunitaria. In questa particolare situazione la stazione
eretta sarebbe stata di grande utilità perché avrebbe consentito al maschio,
mentre la femmina accudiva ai piccoli, di andare in cerca di cibo e di portarlo,
usando gli arti superiori, ai propri figli e alla loro madre. La liberazione
delle mani dalla schiavitù della locomozione avrebbe consentito il trasporto
del cibo e pertanto il bipedismo e la stazione eretta si sarebbero rivelati,
alla fine, un vantaggio nella lotta per l'esistenza, perché avrebbero
consentito il perfezionamento delle cure parentali e quindi in definitiva una
migliore garanzia di sopravvivenza. 7. LO SVILUPPO DEL CERVELLO Lo sviluppo del cervello umano o, per meglio
dire, un così alto rapporto ponderale fra massa celebrale e massa corporea, è
un fatto di secondaria importanza e di più facile acquisizione rispetto alla
posizione eretta in quanto, come abbiamo detto, legato alla neotenia. Il
cervello dell'uomo è di notevoli dimensioni solo se rapportato a quelle
corporee. Il cervello dell'elefante, ad esempio, è indubbiamente più grande
del nostro, ma anche il peso dell'animale è notevole, pertanto, fatti i conti,
il rapporto peso del cervello/peso del corpo, anche in questo caso, è
decisamente a favore dell'uomo. Il cervello serve per controllare e coordinare i
movimenti dei vari organi. Esistono, sparsi qua e là sul corpo degli animali
dei recettori, i quali captano segnali dal mondo esterno e li inviano al
cervello: questo, a sua volta, dopo averli analizzati, predispone le risposte
adeguate da trasmettere ai muscoli e alle ghiandole sistemate nelle diverse
parti del corpo. Il cervello dell'uomo non solo è in quantità sufficiente per
adempiere a queste funzioni, ma ne rimane ancora dell'altro per realizzare altre
attività quali, ad esempio, quelle connesse con il pensiero logico o con la
sfera affettiva e psichica. La maggiore potenzialità del cervello dell'uomo
non sta tuttavia soltanto nella quantità (la massa celebrale dell'uomo è più
che doppia, ad esempio, di quella delle scimmie antropomorfe), ma anche nella
qualità. Il cervello dell'uomo si presenta, cioè, maggiormente sviluppato
soprattutto in alcune zone come in corrispondenza dei lobi temporali che sono la
parte che controlla la parola e dei
lobi frontali che sono la sede del pensiero logico. Questo sviluppo sbilanciato del cervello ha
permesso all'uomo di comunicare con i suoi simili, ma soprattutto di pianificare
il futuro. L'uomo, infatti, è l'unico animale in grado di prevedere a quali
conseguenze porterà una determinata azione. Ciò rende attuabile una
programmazione, cioè la possibilità, ad esempio, di costruire strumenti di non
immediato impiego, ma che potrebbero risultare utili in futuro. Il linguaggio
articolato deve avere allora rappresentato lo strumento fondamentale per tale
attività in quanto avrebbe consentito di coordinare i progetti insieme con gli
altri componenti del gruppo. 8. IL REGIME ALIMENTARE L'uomo si distingue infine dalle scimmie
antropomorfe, cioè dagli animali che più gli assomigliano, anche per il regime
alimentare. Mentre le scimmie si nutrono di frutti, foglie e bacche, l'uomo
mangia anche la carne. Il regime alimentare è legato strettamente alle
caratteristiche dell'apparato digerente e in particolare ai denti. I denti
dell'uomo sono tutti più o meno della stessa grandezza e disposti su un'arcata
dentaria di forma parabolica. I denti delle scimmie antropomorfe sono invece di
dimensioni maggiori (soprattutto i canini) e l'arcata dentaria ha la forma di
una U, cioè con canini, premolari e molari disposti su due file parallele.
Nelle scimmie antropomorfe, inoltre, è ancora presente il diastema, uno
spazio fra incisivi e canini che consente l'incastro delle arcate dentarie.
Nell'uomo questo spazio non esiste proprio perché i denti, e soprattutto i
canini, si sono ridotti di dimensioni. Se ora andiamo a vedere le caratteristiche dei
denti degli Ominidi del passato notiamo che negli Australopiteci il diastema si
è a mano a mano ridotto senza mai scomparire completamente, mentre nessun
Ominide del genere Homo presenta il diastema. Ciò testimonia del fatto che i
nostri antenati diretti avevano un regime alimentare più vario rispetto a
quello degli Australopiteci, con i quali, per lungo tempo, hanno convissuto. I denti, tuttavia, oltre che per mangiare,
servono anche come difesa; se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si
fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare
utensili per combattere, essi si sarebbero trovati privi di un valido aiuto per
la difesa e molto probabilmente si sarebbero estinti. 9. L'EVOLUZIONE DEGLI OMINIDI Ritorniamo ora all'evoluzione degli Ominidi.
L'Ominide più antico che sia stato fino ad oggi rinvenuto fossile è l'Australopithecus
afarensis: esso comparve quasi 4 milioni di anni fa e i suoi resti ci consentono
di ricostruirne l'aspetto. L'Australopithecus afarensis era un individuo di
bassa statura, tarchiato e con un marcato dimorfismo sessuale: le femmine, cioè,
erano molto più piccole dei maschi. Nella specie umana la differenza di statura
fra maschi e femmine non è così evidente, mentre essa è ancora riscontrabile
nei gorilla. Non è questo tuttavia l'unico carattere di tipo scimmiesco
presente in questo antico Ominide: la faccia aveva un muso prominente, proprio
degli animali, e il cervello (400 cc) non era più grande di quello di un
attuale scimpanzé. La posizione del corpo era invece decisamente eretta. E'
innegabile, pertanto, che l'Australopiteco dell'Afar avesse un corpo da uomo e
una testa da scimmia, ma in realtà esso era diverso sia dall'uomo moderno sia
dalle attuali scimmie antropomorfe. La dentatura di questi Ominidi presenta il
diastema, come si nota attualmente nelle scimmie antropomorfe, mentre i molari,
al contrario di quello che si riscontra nelle scimmie più evolute, si
presentano più voluminosi dei denti anteriori (incisivi e canini). Questa
osservazione fa ritenere che l'alimentazione degli Australopiteci dell'Afar
fosse costituita da prodotti duri, come ad esempio noci e granaglie, che
necessitano di essere masticati a lungo prima di venire deglutiti. Ecco dunque
un'ulteriore prova che l'Australopiteco non viveva più nella foresta, dove
vivono tuttora scimpanzé e gorilla e dove si mangiano frutti e vegetali molli,
ma nella savana dove si trovano alimenti più duri. Il motivo per il quale l'uomo primitivo si
sarebbe allontanato dalla foresta per andare ad abitare nella savana oggi viene
spiegato facendo ricorso ad una serie di eventi naturali che si sarebbero
verificati fra la fine del Miocene e l'inizio del Pliocene, cioè all'incirca
fra i 6 e i 4 milioni di anni or sono. Gli eventi di cui si parla sarebbero a
loro volta la conseguenza di un fenomeno geologico di più vaste proporzioni che
ha coinvolto tutta la superficie terrestre e che prende il nome di "deriva
dei continenti". Duecento milioni di anni fa, all'inizio del
Mesozoico, le terre emerse erano riunite tutte insieme in un unico continente
che i geologi chiamano Pangea. La Pangea successivamente si spezzò in due
blocchi, uno a nord detto "continente di Laurasia" ed uno a sud detto
"continente di Gondwana". Fra i due blocchi continentali si insinuò
un mare di enormi dimensioni chiamato Tetide o mare mesogeo. Successivamente
anche i due grandi continenti si smembrarono a loro volta in "zolle"
più piccole che andarono alla deriva, viaggiando sul mantello fluido
sottostante. Questi blocchi continentali vennero poi a collidere fra loro (e
ancora oggi lo fanno), provocando fenomeni sismici e vulcanici oltre
all'accavallamento dei loro bordi con formazione di catene montuose. In
conseguenza di questi scontri, alcune zolle si fratturarono ulteriormente. Nel suo lento e persistente movimento verso nord
la "zolla africana" finì per andare a scontrarsi con quella europea.
A seguito dell'urto, si chiuse il grande oceano primordiale della Tetide,
lasciando delle piccole cicatrici rappresentate dal Mediterraneo, dal mar Nero e
dal Caspio. Successivamente il Mediterraneo si prosciugò, molto probabilmente a
causa di una forte evaporazione e della contemporanea provvisoria chiusura dello
stretto di Gibilterra, che impedì il rifornimento delle acque atlantiche. La
zona del bacino del Mediterraneo si trasformò quindi in un grande deserto,
interrotto qua e là da laghi salati, e il clima di tutta la regione si modificò
radicalmente. Dall'Europa del nord, fino all'Africa settentrionale, il clima si
fece più freddo e soprattutto molto più asciutto. A quel punto, la foresta
equatoriale, che in precedenza si estendeva su di un vastissimo territorio,
cominciò ad arretrare lasciando lo spazio alla formazione di immense savane. Anche l'Africa orientale, che nel frattempo si
era staccata dal resto del continente, per il formarsi di una profonda frattura
tettonica chiamata Rift Valley, si sollevò e cambiò decisamente il suo clima.
Le piante e gli animali che non riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni
ambientali scomparvero mentre altri organismi, provenienti da zone limitrofe, vi
trovarono un habitat adatto al loro stile di vita. La fauna e la flora in quella
zona si modificarono quindi profondamente. Da quelle parti vivevano anche i nostri più
lontani antenati che nel frattempo la faglia del Rift aveva separato in due
gruppi: quelli che rimasero ad ovest, dove persistette l'ambiente di foresta
equatoriale, si sarebbero poi differenziati nelle attuali scimmie antropomorfe,
mentre quelli che si trovarono ad est, in ambiente di savana, dettero origine
agli Australopiteci, cioè a quel gruppo di organismi che si sarebbe separato
definitivamente dal mondo animale. Questa ipotesi è stata chiamata
scherzosamente dal paleoantropologo francese Yves Coppens "East Side
Story" (La storia del lato est). Secondo Coppens quindi non fu l'Ominide ad
uscire dalla foresta per dirigersi verso la savana, ma fu piuttosto la foresta
stessa a scomparire sotto i suoi piedi. Il caso dell'Africa orientale che abbiamo appena
descritto è un esempio istruttivo di quello che in biologia si chiama "speciazione",
cioè la comparsa di nuove specie. Le nuove specie, come abbiamo detto, sono
prodotte dalle mutazioni e tuttavia queste da sole non sono sufficienti: anche
la pressione ambientale svolge un suo ruolo importante. Se le mutazioni
avvengono in un ambiente che rimane sempre lo stesso, queste mutazioni non
avranno seguito risultando o insignificanti o addirittura letali e quindi
lasceranno gli organismi, nel loro insieme, così come sono sempre stati.
Diversa sarebbe invece la situazione di un organismo che si trovasse a vivere in
un ambiente nuovo: in tal caso la mutazione potrebbe acquisire un significato
positivo e perdurante. Le scimmie Platirrine del Nuovo Mondo, ad
esempio, ben adattate a vivere sugli alberi, non hanno cambiato forma da milioni
di anni, nonostante il verificarsi di innumerevoli mutazioni che tuttavia
l'ambiente ha regolarmente cancellato perché si dimostravano inadatte in un
territorio che rimaneva sempre lo stesso. I pre-Ominidi invece, che si sono
trovati a vivere nella savana, cioè in un ambiente completamente diverso da
quello in cui vivevano prima, hanno subìto mutazioni riguardanti la postura, lo
sviluppo delle masse muscolari, la forma e le dimensioni dei denti e delle
mascelle, che si sono rivelate altrettanti caratteri di fondamentale importanza
per il nuovo ambiente. 10. GLI ALTRI AUSTRALOPITECI L'Australopithecus afarensis non è l'unica
specie di australopiteco che sia stata rinvenuta fossile. Un altro esemplare
dello stesso genere, ma un po' più evoluto, venne ritrovato in Sud Africa
ancora nel lontano 1924. Nella località di Taung (il posto di Tau,
il Leone) al confine sudoccidentale del Transvaal, nella primavera del 1924,
alcuni cavapietre estrassero dalle rocce un cranio, in buono stato di
conservazione, che fu consegnato al direttore della miniera il quale,
ignorandone il valore scientifico, lo usò come fermacarte fino a quando una
giovane studentessa, che lo aveva notato, non consigliò il dirigente di
portarlo ad un professore di anatomia dell'Università di Johannesburg, certo
Raymond Arthur Dart. Questi osservò che il cranio presentava alcune
caratteristiche tipicamente umane come i denti piuttosto piccoli e la posizione
del foro occipitale spostata in avanti, mentre altre particolarità, come le
ossa facciali e le ridotte dimensioni del cervello, erano specifiche delle
scimmie. Dart notò anche la presenza di molti denti di latte la quale faceva
ritenere che il cranio doveva essere appartenuto ad un individuo molto giovane,
forse un bambino di 5 o 6 anni. Data la giovane età, al fossile venne assegnato
il nome provvisorio di "Taung Baby" (Bambino di Taung), e con tale
nome ancora oggi è noto. Le caratteristiche tipicamente umane del cranio
erano rappresentate, come abbiamo detto, dalla forma della mandibola e dai denti
(in particolare i canini) di dimensioni piuttosto ridotte e dalla assenza del
diastema. Inoltre il foro occipitale era posizionato in modo tale da consentire
la stazione eretta. Dart si convinse di trovarsi di fronte ad un
cranio che, anche se presentava ancora alcune caratteristiche di tipo
scimmiesco, doveva essere appartenuto ad un antenato diretto dell'uomo. Tuttavia
egli non ebbe il coraggio di chiamare quell'individuo "uomo" e,
tradendo le sue origini australiane, gli assegnò il nome scientifico di "Australopithecus
africanus" che vuol dire scimmia del Sud che viene dall'Africa. Fu
quindi Dart a coniare per primo il nome di Australopiteco per designare questo
particolare genere di quasi-uomini e, poco tempo dopo, la descrizione
particolareggiata delle caratteristiche del reperto apparve in un famoso
articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, nel 1925. Dart però a causa di quell'articolo venne
emarginato dalla comunità scientifica, perché in esso aveva osato affermare
che l'uomo avesse degli antenati africani, ma il motivo di tanta avversione
verso la nuova scoperta era dovuto anche al fatto che i paleoantropologi,
soprattutto quelli inglesi, erano condizionati dal rinvenimento di un cranio
fossile avvenuto alcuni anni prima in Inghilterra. Nel 1912 un giovane archeologo dilettante annunciò
di aver rinvenuto a Piltdown, una località a pochi kilometri da Londra, in
sedimenti ben consolidati e profondi (quindi non molto recenti), insieme ad ossa
di mammiferi estinti, parecchi frammenti di un cranio dalle sembianze umane e
una mandibola, spezzata un più parti, di tipo scimmiesco. Sembrava si trattasse
proprio di quell'"anello mancante" della specie umana che alcuni
scienziati cercavano da tempo e che mai era venuto alla luce. In realtà ci si
trovava di fronte ad un'abile mistificazione.
Molti paleontologi di chiara fama si lasciarono
ingannare da uno scherzo ben organizzato, perché fu loro presentato proprio ciò
che essi si aspettavano di trovare. Altri paleontologi, meno ossessionati dal
l'idea dell'"anello mancante", si dimostrarono scettici, ma non
riuscirono a provare che si era in presenza di un imbroglio perché l'Uomo di
Piltdown venne subito posto sotto chiave nel museo di storia naturale di
Londra, dove rimase fino al 1953. Solo in quella data fu finalmente possibile
sottoporre il reperto ad un esame accurato che dimostrò, senza ombra di
dubbio, che né la mandibola, né il cranio erano molto antichi. L'età del
reperto fu controllata con il metodo di datazione al fluoro, che mise in luce
che cranio e mandibola non erano contemporanei. Successivamente fu accertato che
in effetti si trattava di una mandibola di un orangutan moderno e di un cranio
che era appartenuto ad un individuo umano vissuto fra il 1200 e il 1300.
Inoltre, al microscopio, fu anche possibile osservare i segni della lima che
aveva ridotto i denti per imitarne l'usura nonché la contraffazione del colore
che era stato usato per far sembrare fossili delle ossa che fossili non erano.
Ritornando ora al ritrovamento sudafricano del
Bambino di Taung, Dart, che conosceva bene il fatto suo, sapeva perfettamente
che, da piccoli, scimpanzé e uomo si assomigliano molto di più che da adulti.
Tuttavia le dimensioni del cranio fossile, anche tenuto conto della giovane età,
erano tali da non poter essere ritenute quelle di un uomo, ma d'altra parte non
potevano essere nemmeno quelle di una scimmia antropomorfa, anche perché le
scimmie antropomorfe vivono tutte nella foresta tropicale e questo tipo di
foresta, da milioni di anni, non era più presente in Sud Africa. Quando Dart portò il suo reperto a Londra e si
rese conto che la comunità scientifica del luogo aveva accolto con molta
freddezza la sua scoperta, avvilito, pensò di ritornare ad insegnare anatomia
all'Università. Fu allora che un certo Robert Broom, un medico con la passione
per l'antropologia, riuscì a convincerlo a non abbandonare la lotta e a
continuare con lui la ricerca di fossili umani. I due collaborarono per una
ventina d'anni e portarono alla luce numerosi resti fossili del genere
Australopithecus. I luoghi sudafricani che fornirono materiale
sufficiente per stabilire definitivamente la natura ominide dell'Australopiteco
furono Sterkfontein, Makapansgat, Swartkrans e Krom-draai. Da qui uscirono non
solo molti fossili ascrivibili al genere Australopithecus africanus, ma anche
una forma di Australopiteco alquanto diversa a cui fu assegnato il nome di
Australopithecus robustus. Negli anni successivi alle scoperte di Dart e
Broom furono portati alla luce resti di Australopiteci anche in Africa Orientale
dove operavano i coniugi Leakey. Il primo reperto del genere fu individuato in
una località della Tanzania detta "gola di Olduvai", nel 1959, da
Mary, la moglie di Louis Leakey, in una giornata in cui il marito non era potuto
uscire perché costretto a letto dalla malaria. Quando Louis vide il reperto capì
subito che si trattava di un Australopiteco, ma volle lo stesso assegnargli un
nome proprio ed esclusivo e lo chiamò Zinjanthropus boisei, cioè
"uomo di Zinj", da una parola araba con la quale veniva indicata
l'Africa Orientale, mentre il nome specifico si riferiva a Charles Boise il
finanziere londinese di origine americana che sovvenzionava le sue ricerche.
L'età del fossile venne stimata con il metodo potassio-argo e fissata intorno
al milione e ottocentomila anni. Il nome di Zinyantropo, assegnato da Leakey al
reperto, durò poco perché gli antropologi, notando una forte somiglianza con
gli Australopiteci robusti del Sud Africa, lo ribattezzarono Australopithecus
boisei. Successivamente vennero ritrovati, nei pressi del lago Natron in
Tanzania, e anche poco più a nord nella valle dell'Omo, al limite
settentrionale del lago Turkana (ex lago Rodolfo), altre mandibole e crani dello
stesso tipo. Gli Australopiteci risultavano quindi presenti
sia in Africa meridionale, sia in Africa orientale, ma solo con il tipo robusto,
mentre dell'Australopithecus africanus non sono mai stati rinvenuti dei
fossili fuori della zona dell'Africa del Sud.
Dart oggi viene considerato l'iniziatore della
paleoantropologia moderna in quanto con lui questa disciplina si indirizzò su
rigorose basi scientifiche. Dopo i ritrovamenti del Sud Africa e dell'Africa
Orientale, gli studi si incentrarono soprattutto sull'approfondimento delle
conoscenze degli Australopiteci, e Dart ebbe la fortuna di vivere per intero
questo avvincente periodo della ricerca paleoantropologica: egli morì, infatti,
nel 1988 all'età di novantacinque anni. 11. IL COMPORTAMENTO DEGLI AUSTRALOPITECI La cosa strana è che i siti sudafricani in cui
vennero trovati i resti degli Australopiteci erano sempre anche pieni di ossa di
vari altri animali fra cui antilopi, cercopiteci, leopardi, iene, tartarughe,
coccodrilli, ecc. Come si spiega questa concentrazione di ossa? Gli
Australopiteci erano predatori di altri animali o erano essi stessi prede di
animali feroci? Una risposta certa non è stata ancora data però si propende
per la seconda ipotesi. Erano stati osservati, su un cranio di
australopiteco, due fori piccoli e rotondi, distanti fra loro circa due
centimetri e mezzo che sembravano lasciati dai denti di animali predatori:
anziché avanzare ipotesi un esperto geologo del luogo si mise a misurare la
distanza fra i canini di un certo numero di predatori presenti in Sud Africa a
quel tempo. Egli poté così
constatare che i fori lasciati sul cranio dell'Australopiteco si adattavano
esattamente alla distanza tra i canini del leopardo fossile. Si sa che i leopardi hanno l’abitudine di
trascinare sugli alberi le loro prede per poterle divorare, con tranquillità,
fuori dalla portata dei mangiatori di carogne. Da qui, mentre l'animale viene
sbranato, le ossa cadono a terra. Ora, poiché i terreni sudafricani in cui
vennero ritrovati i fossili di Australopiteco sono tutti terreni carsici, cioè
terreni in cui i grossi alberi crescono proprio in corrispondenza di spaccature
del suolo che conducono a caverne profonde in cui ristagna dell'acqua, non è da
escludere che le ossa delle prede, cadute dall'albero, possano essersi infilate
nelle fessure del terreno per accumularsi nelle caverne sottostanti, proprio
dove oggi è possibile trovare i fossili in abbondanza. L'Australopithecus africanus comparve
circa 3 milioni di anni fa e si estinse circa 2 milioni di anni fa. La
valutazione di un milione di anni che Dart dette al suo reperto oggi viene
considerata una datazione per difetto, mentre a quel tempo si stentava a credere
che un milione di anni fa potesse già essere presente un individuo con
caratteristiche umane. L'Australopithecus africanus era simile al
suo predecessore, l'Australopithecus afarensis: era alto un metro e
venti, e pesava una trentina di kilogrammi ma maschi e femmine, pur avendo
ancora dimensioni fra loro diverse, non presentavano più un dimorfismo sessuale
così marcato come quello che si era riscontrato nell'afarensis. La testa
inoltre mostrava più caratteri umani che scimmieschi e quindi doveva trattarsi
di un Ominide più evoluto verso il genere umano che verso le scimmie. Si era
anche potuto osservare che la disposizione dell'insieme dei denti era a
parabola, come nell'uomo, e non a forma di U come nelle scimmie antropomorfe, e
la grandezza dei molari era tale da far pensare che questo individuo fosse
vissuto nella savana dove il nutrimento è costituito prevalentemente da noci e
granaglie dure. Infine il volume della scatola cranica era di circa 450 cc. L'Australopiteco africano si estinse, come
abbiamo detto, due milioni di anni fa forse perché battuto dalla concorrenza
con i babuini che abitavano insieme a lui la savana e che sfruttavano le sue
stesse risorse alimentari, o forse a seguito di una profonda modificazione del
clima che rese quei luoghi più asciutti e di conseguenza più poveri di cibo. Abbiamo la prova che poco più di due milioni di
anni fa il clima in Africa si fece generalmente più asciutto e questo nuovo
habitat dovette favorire lo sviluppo di forme di Australopiteci di dimensioni
maggiori e adatte ad una dieta più grossolana. E in effetti, come abbiamo
visto, in diverse località dell'Africa meridionale ed orientale, vennero
ritrovati fossili di Australopiteci più robusti e più grandi dell'Australopithecus
africanus. Ad essi, come si ricorderà, fu dato il nome rispettivamente di Australopithecus
robustus e Australopithecus boisei. Queste erano due specie di Australopiteci molto
adatte alle condizioni di vita della savana arida e povera di risorse alimentari
in quanto, oltre ad essere più massicce dei predecessori, presentavano anche
dei muscoli masticatori molto potenti tanto da richiedere un supporto
supplementare per attaccarsi al cranio. La volta cranica dell'australopiteco di
Boise presenta infatti, sulla sommità, una strana cresta che viene interpretata
come un sostegno per l'attacco dei muscoli masticatori. Questa caratteristica
indusse i coniugi Leakey a pensare che l'Australopithecus boisei fosse in
grado di triturare e schiacciare con forza alimenti molto duri, e per tale
motivo gli fu attribuito il soprannome di "Schiaccianoci". Questi
Ominidi in realtà si erano adattati ad un regime ipervegetariano che li
costringeva ad una masticazione prolungata di grandi quantità di alimenti poco
nutritivi; essi, in altre parole, erano costretti a supplire alla carenza
energetica con una dieta molto abbondante che richiedeva un sistema masticatorio
sviluppatissimo. Ricapitolando, abbiamo visto che l'Australopithecus
robustus abitò l'Africa del Sud, mentre il boisei visse nell'Africa
dell'Est: entrambi si estinsero circa un milione di anni fa, ma vissero, fin
dalla loro comparsa, insieme ad un altro Ominide, e precisamente a quello che è
considerato il vero nostro diretto antenato: l'Homo habilis. 12. LE LINEE EVOLUTIVE DEI PRIMATI A questo punto, prima di parlare del genere Homo,
dobbiamo analizzare brevemente l'evoluzione di quelle che sono state le specie
ancestrali degli Ominidi, ossia le specie animali che precedettero gli
Australopiteci. L'uomo, come sappiamo, appartiene all'ordine dei
Primati, cioè a quel gruppo di animali al quale appartengono anche le scimmie.
L'origine di questi animali può essere fatta risalire alla fine del Mesozoico,
circa 70 milioni di anni fa. A quel tempo l'Europa e l'America settentrionale
erano ancora unite nel supercontinente di Laurasia e lungo la fascia equatoriale
che lo attraversava si andavano formando estese foreste di Angiosperme, le
piante con i fiori. Queste vennero invase, com'era prevedibile, da un gran
numero di insetti che scoprirono nell'albero con i fiori una nicchia ecologica
molto favorevole per l'abbondanza di cibo disponibile. Su quegli stessi alberi
trovarono successivamente il loro habitat naturale gli Insettivori che in
precedenza vivevano a terra. Questi, a loro volta, si adattarono gradualmente al
nuovo ambiente sviluppando zampe prensili e una notevole agilità trasformandosi
in Proscimmie le quali pertanto ebbero origine nei continenti del nord e non a
sud, dove si spostarono solo successivamente, quando cioè l'aspetto geografico
delle terre emerse cambiò assetto. Nel Montana, su una collina chiamata dai
paleontologi Purgatory Hill, per le difficoltà che si incontrano nel lavoro di
ricerca e di estrazione dei fossili, furono rinvenuti alcuni denti e dei
frammenti di piccole mandibole riferibili ad un animale poco più grande di uno
scoiattolo, che potrebbe rappresentare il progenitore di tutti i Primati
viventi. Per estrarre quei pochi frammenti fossili fu necessario setacciare
decine di metri cubi di terreno: da qui il nome di Collina Purgatorio assegnato
a quel luogo. Questo antico Primate, a cui è stato dato il
nome per nulla originale di Purgatorius, visse alla fine del Cretaceo,
quando non si erano ancora del tutto estinti i dinosauri. Esso assomiglierebbe
ad una specie arboricola tuttora vivente nell'Asia meridionale: la Tupaia,
ovvero un animale che un tempo veniva classificato fra gli Insettivori (insieme
al riccio e alla talpa), ma che oggi viene ritenuto più simile alle Proscimmie. Durante l'era geologica successiva, la Cenozoica,
i Primati si sono rapidamente diversificati, ma la loro storia evolutiva è
stata ricostruita a fatica in quanto i resti fossili di questi animali sono
molto scarsi. La carenza di fossili di Primati dipende dal fatto che si tratta
di animali arboricoli che vivevano nella foresta, cioè in un luogo che non si
presta per nulla alla fossilizzazione in quanto i cadaveri vengono rapidamente
distrutti sia fisicamente perché mangiati da altri animali, sia in seguito a
trasformazioni chimiche che dissolvono le ossa prima che queste possano
trasformarsi in fossili. Quello della fossilizzazione è un fenomeno che
richiede particolari condizioni ambientali per potersi realizzare. Le condizioni
ideali sono rappresentate dalla morte dell'animale in prossimità di un vulcano
che provveda alla sua copertura sotto una pioggia di polveri e ceneri, oppure
sulla riva di un lago dove il cadavere ancora fresco possa venire ricoperto di
melma o infine all'interno di una caverna umida che un crollo improvviso sigilli
definitivamente. Le carni dell'animale, appena morto, vengono ben
presto divorate da piccoli animaletti che vivono nel terreno umido senza però
che le ossa subiscano alterazioni; a questo punto, la parte non minerale
dell'osso, cioè il collagene proteico, subisce un processo di trasformazione
chimica e viene dilavata dalle acque circolanti. L'osso diventa quindi poroso e
fragile e può essere distrutto facilmente, cosa che in effetti avviene nella
maggioranza dei casi. Se l'osso supera questo momento critico e se le
acque circolanti sono ricche di sali e il loro pH non è né troppo acido
né troppo basico, i sali precipitano negli interstizi dell'osso e quando tutti
i pori sono stati riempiti esso è pietrificato ed è diventato un fossile. Le
ossa fossili non sono quindi ossa, ma pietre. Nonostante i pochi reperti a disposizione, i
paleontologi sono riusciti ugualmente a ricostruire l'evoluzione delle
Proscimmie attraverso alcuni fossili, attribuibili ad animali non più grandi di
un gatto, rinvenuti sia in America sia in Europa. In particolare alcuni di
questi animali, classificati come appartenenti al genere Adapis, vissero
nell'Europa centrale, una cinquantina di milioni di anni fa. Si tratterebbe di
piccoli Primati arboricoli che si presume siano stati i progenitori dei
Lemuridi, una famiglia di Proscimmie che attualmente vive in Madagascar. Circa 40 milioni di anni fa le Proscimmie
conobbero un declino improvviso prodotto, presumibilmente, da una graduale
riduzione dell'ambiente forestale, ma forse anche dalla concorrenza di altri
Primati caratterizzati da un maggiore sviluppo cerebrale e da modificazioni
strutturali delle estremità degli arti. Questi nuovi animali erano i progenitori delle
scimmie Platirrine, dette anche scimmie del Nuovo Mondo, la cui storia evolutiva
è ferma praticamente al Miocene, cioè all'epoca in cui furono rinvenuti
reperti del tutto simili alle specie viventi. Si tratta di scimmie dotate di
lunga coda prensile e narici divaricate (da cui la denominazione di Platirrine).
Le scimmie Catarrine (cioè dal setto nasale
stretto), dette anche scimmie del Vecchio Mondo, ebbero origine in Asia (se si
vuol dar credito ad alcuni fossili raccolti in Birmania), una quarantina di
milioni di anni fa, ma ben presto si trasferirono in Africa dove vivono tuttora.
Durante l'Oligocene, cioè all'incirca 30-35 milioni di anni fa, questo genere
di scimmie già abitava sicuramente l'Africa settentrionale perché là si trova
la località che ha fornito il più alto numero di fossili di scimmie Catarrine:
si tratta della regione di El Fayum, in Egitto. Il ritrovamento più importante dal punto di
vista evolutivo, effettuato in quella regione, si riferisce ad un fossile cui è
stato dato il nome di Aegyptopithecus: si tratta di un cranio quasi
completo di una scimmia arcaica vissuta una trentina di milioni di anni fa che,
secondo alcuni paleontologi, rappresenterebbe il progenitore sia delle scimmie
antropomorfe moderne sia dell'uomo. Da questo antico progenitore sarebbe discesa una
gamma piuttosto ampia e varia di scimmie primitive che oggi vengono classificate
tutte quante con il nome generico di Driopitecine ("scimmie delle
querce") e il cui primo esemplare venne rinvenuto da Louis e Mary Leakey
nel 1948 su di un'isoletta del lago Vittoria in Kenia. Del gruppo delle
Driopitecine farebbe parte anche il famosissimo Proconsul. Il Proconsul, il cui nome significa "prima
di Consul", con riferimento ad uno scimpanzé di nome Consul che viveva
nello zoo di Londra, è il più antico documento fossile di un primate
sprovvisto di coda e viene ritenuto l'antenato diretto delle attuali scimmie
antropomorfe africane (scimpanzé e gorilla) e dell'uomo. Ad esso fu assegnata
un'età compresa fra i 22 e i 12 milioni di anni. Su di un'altra linea evolutiva si troverebbero
invece i tanto discussi Ramapiteci. Si tratterebbe in questo caso di diverse
specie di scimmie arcaiche, di piccole dimensioni, che molto probabilmente
avevano già raggiunto la stazione eretta, o quasi, e il cui primo rappresentate
fossile fu trovato nel 1934 sui monti Siwalik in Asia (ai piedi dell'Himalaya),
da un geologo indiano di nome Vinajak Rao. Il nome di Ramapithecus, che
deriva dalla divinità indiana Rama e dalla parola greca "pithecos"
che significa scimmia, gli venne però assegnato da uno studente
dell'Università di Yale, tale G. E. Lewis. Altri esemplari simili al
Ramapithecus, a cui fu assegnato il nome di Sivapithecus (ma forse si
tratta di Ramapitecine femmine), furono successivamente rinvenuti in Europa e in
Africa. Il Ramapiteco, più di ogni altro, ha alimentato
le polemiche sull'origine degli Ominidi. All'inizio furono rinvenuti fossili
solo dei denti e alcuni frammenti del cranio e della mandibola e sulla base di
questi scarsi reperti furono calcolate approssimativamente le dimensioni del
corpo. Si venne quindi alla conclusione che dovesse trattarsi di un animale non
più alto di un metro che viveva sugli alberi, ma che forse si trovava a suo
agio anche a terra perché i denti rivelavano la presenza di una dieta fatta
anche di alimenti duri come potrebbero essere le granaglie, che, per l'appunto,
si raccolgono a terra. Basandosi sulla forma arrotondata dell'arcata dentaria
di tipo "umano", in un primo tempo venne ritenuto il vero progenitore
dell'uomo, ma oggi si propende per un'altra tesi. 13. UMANI ALL'UNO PER CENTO Studi recenti, condotti sulle proteine e sugli
acidi nucleici, hanno dimostrato che lo scimpanzé e il gorilla assomigliano
molto di più all'uomo che all'orangutan o al gibbone.
Questa scoperta ha sconvolto quella che era la tradizionale suddivisione
degli Ominidi attuali in due famiglie: da una parte l'uomo (unica specie del
genere Homo sopravvissuta alla selezione naturale) e dall'altra le scimmie antropomorfe
(scimpanzé, gorilla, orangutan e gibbone). Tale schema si fermava in realtà
alla semplice analogia morfologica d'insieme, cioè all'aspetto esteriore,
mentre oggi è possibile compiere studi molto approfonditi sulle molecole
organiche che sono alla base delle differenze anatomiche degli organismi viventi
e quindi procedere ad una classificazione di questi più rigorosa e
dettagliata. I lavori di biologia molecolare iniziarono già nel
1967, quando due giovani biochimici di nome Vincent Sarich e Allan Wilson
dell'Università di Berkeley in California, avendo confrontato le proteine
presenti nel sangue delle scimmie antropomorfe con quelle dell'uomo, conclusero
che gorilla, scimpanzé e uomo erano molto simili fra loro, mentre si notavano
differenze più marcate con orangutan e gibbone. Essi, inoltre, sulla base delle
loro misurazioni, riuscirono anche a stabilire che l'uomo si sarebbe staccato
dagli altri primati soltanto cinque milioni di anni fa. Pertanto, stando agli
studi dei due scienziati americani, l'uomo e le due scimmie antropomorfe
africane avrebbero dovuto avere ancora un progenitore in comune in tempi molto
recenti. Per i paleontologi, questa affermazione era un assurdo perché tutte le
testimonianze fossili e geologiche indicavano che la separazione fra le due
linee evolutive era avvenuta una ventina di milioni di anni fa, e non solo
cinque come asserivano Sarich e Wilson. Il lavoro dei due ricercatori americani si basava
su di una premessa molto semplice e cioè sul fatto che le differenze
riscontrabili all'interno di una determinata molecola proteica, presente in
organismi di specie diverse, avrebbero dovuto essere tanto maggiori quanto più
lontano fosse stato il tempo del distacco di una specie dall'altra. E questo
perché i cambiamenti sulle proteine, dovuti alle mutazioni del patrimonio
genetico, si dovrebbero accumulare nel tempo ad un ritmo costante. Ma come si sarebbe potuto determinare con
precisione il momento del distacco fra due specie diverse? Più precisamente,
come hanno fatto Sarich e Wilson a stabilire che le scimmie antropomorfe
africane si sono separate dall'uomo solo 5 milioni di anni fa? Il suggerimento sul modo di procedere venne da
Linus Pauling, uno dei più grandi scienziati del nostro secolo vincitore di due
premi Nobel (il primo nel 1954 per la chimica e il secondo nel 1962 per la pace)
e morto di recente all'età di novantatré anni. Egli iniziò la sua lunga
carriera scientifica come fisico atomico ma poi si occupò di svariati argomenti
e alla fine anche di biochimica, interessandosi in particolare all'emoglobina e
alle proteine del sangue. Insieme al biochimico Emile Zuckerkandl studiò le
correlazioni esistenti fra DNA e strutture proteiche e intuì che il DNA avrebbe
potuto costituire una specie di orologio molecolare in quanto le mutazioni che
si verificano su di esso, essendo eventi casuali (come quelli che avvengono
nelle sostanze radioattive), avrebbero dovuto accumularsi con regolarità. Nelle sostanze radioattive gli atomi si
trasformano ad un ritmo costante in atomi non radioattivi, ed una volta nota la
velocità di decadimento, che viene normalmente espressa attraverso il
cosiddetto "periodo di dimezzamento" (o di semitrasformazione), è
possibile stimare il trascorrere del tempo misurando la quantità di sostanza
radioattiva residua in un determinato campione. Il potassio-40, ad esempio, ha un periodo di
semitrasformazione di 1,3 miliardi di anni e ciò significa che di una certa
quantità di questo particolare isotopo del potassio, presente in una roccia,
dopo un miliardo e trecento milioni di anni ne rimane solo la metà, mentre il
resto si è trasformato in argo che è un elemento non radioattivo. L'argo in
realtà è un gas che normalmente si libera nell'aria, ma quando si forma nelle
rocce vulcaniche vi rimane intrappolato. Pertanto misurando con precisione, in
una roccia vulcanica, la quantità di potassio-40 residuo e quella di argo-40
(che per la precisione è l'isotopo dell'argo che deriva dal decadimento del
potassio radioattivo), è possibile risalire all'età della roccia, essendo noto
il periodo di semitrasformazione del potassio-40.
L'orologio molecolare non misura una diminuzione,
come avviene nelle sostanze radioattive, ma un accumulo. Il difficile, in questo
caso, era calibrare l'orologio stesso, ossia stabilire il ritmo al quale batteva
il tempo. Sarich e Wilson dopo
lunghe ricerche riuscirono a determinare la velocità con la quale si
accumulavano le differenze sulle diverse proteine.
Essi ad esempio poterono stabilire che il citocromo c (una particolare
proteina che svolge un ruolo essenziale nel processo di respirazione cellulare)
modifica l'un per cento della sua molecola ogni venti milioni di anni, mentre
l'emoglobina fa altrettanto in solo sei milioni di anni. A questo punto non
rimaneva che mettere in moto l'orologio, ossia scegliere il momento da cui farlo
partire. Questo doveva corrispondere alla data di una biforcazione dell'albero
genealogico nota con buona sicurezza sulla base delle tecniche convenzionali. Si
decise quindi di iniziare a contare il tempo da trenta milioni di anni fa, cioè
dall'epoca in cui secondo i paleontologi le scimmie antropomorfe si sarebbero
separate dalle altre scimmie. Ora ammettiamo, per semplificare il ragionamento,
che in questi trenta milioni di anni che, come abbiamo detto sopra, ci separano
dall'epoca in cui scimmie antropomorfe e scimmie comuni avevano ancora un
progenitore in comune, siano cambiati trenta amminoacidi lungo una determinata
proteina. Se così fosse, essendo costante la scansione temporale, i cambiamenti
si sarebbero susseguiti al ritmo di uno ogni milione di anni. Stabilito ciò,
qualora si riscontrasse che su quella stessa proteina, presente in scimmie
antropomorfe africane e uomo, vi fossero solo cinque amminoacidi diversi sarebbe
chiaro che cinque milioni di anni dovrebbero separare uomo e scimmie
antropomorfe africane dall'antenato comune. Gli studi di antropologia molecolare si sono
concentrati recentemente sulle strutture del DNA. Ora, come tutti sanno, ogni
specie vivente ha un proprio DNA che la caratterizza e due specie diverse hanno
i rispettivi DNA tanto più dissimili fra loro quanto più queste specie sono
lontane nella scala evolutiva. Ad esempio, fra cavallo ed asino, che sono due
animali molto simili, anche nell'aspetto esteriore, e che pertanto dovrebbero
essersi differenziati molto di recente da un antenato comune, le rispettive
molecole del DNA si discostano effettivamente di molto poco. Invece quegli
animali che presentassero un codice genetico molto diverso dovrebbero essersi
differenziati, dall'antenato comune, in tempi molto lontani. Oggi la tecnica usata per confrontare i DNA di
due specie diverse si chiama "ibridazione" e, ad esempio, nel caso di
uomo e gorilla, consiste nel riscaldare la doppia elica del DNA di questi due
organismi fino ad ottenere la separazione dei filamenti che la formano. Un
singolo filamento del DNA dell'uomo viene quindi legato con un singolo filamento
del DNA del gorilla e da questa operazione si ottiene una doppia elica ibrida,
ossia metà umana e metà scimmiesca. I due filamenti, a freddo, si riavvolgono
abbastanza bene ma non in modo perfetto, perché vi sono alcuni nucleotidi che
non combaciano e quindi non si legano. Riscaldando questo DNA ibrido si nota che
la temperatura necessaria alla separazione dei due filamenti è un po' inferiore
a quella che era servita per separare i filamenti di un'elica pura, in quanto
ora è minore il numero dei legami che tengono unite le due catene nucleotidiche.
Si ottengono, in questo modo, una serie di temperature di rottura dei legami di
DNA ibridi che ci informano di quanto le due specie su cui si sperimenta sono
strettamente imparentate. Anche da queste ricerche appare evidente che uomo
scimpanzé e gorilla sono diversi solo per l'aspetto esteriore, mentre la
differenza è minima nel DNA. Ora viene da chiedersi come possa sussistere una
così piccola differenza nel DNA ed una così vistosa nell'aspetto esterno di
questi organismi. Gli antropologi molecolari hanno una loro teoria
sulla storia evolutiva dell'uomo e delle scimmie antropomorfe la quale
scaturisce da un'osservazione a cui non si era dato eccessiva importanza in
passato. L'osservazione è la seguente: solo le scimmie antropomorfe e l'uomo
sono capaci di star sospesi ad un ramo con le braccia ed oscillare. Questo
movimento è detto "brachiazione" e le scimmie non antropomorfe non ne
sono capaci e si spostano, infatti, sugli alberi, camminando sopra i rami.
L'uomo, invece, pur non esercitandosi in questo tipo di locomozione molto di
frequente, lo sa fare e anche in modo disinvolto (basta osservare i bambini
arrampicarsi in un parco giochi o gli atleti volteggiare agli anelli e alla
sbarra). D'altra parte nemmeno le scimmie antropomorfe passano molto del loro
tempo appese ai rami degli alberi. L'importante però non è il tempo che questi
primati dedicano alla brachiazione, ma il fatto che sono in grado di adottarla
tutte le volte che si presenta l'occasione. La brachiazione comporta soluzioni anatomiche di
considerevole complessità che solo l'uomo e le scimmie antropomorfe possiedono.
Essi hanno la clavicola molto lunga e ciò rende la spalla libera di compiere
ogni sorta di movimento. Questa particolare anatomia della parte superiore del
corpo non solo consente la brachiazione ma anche la possibilità di camminare a
terra appoggiandosi sulle nocche delle mani degli arti superiori, cosa che le
attuali scimmie antropomorfe fanno e che i lontani progenitori dell'uomo
probabilmente facevano. Secondo gli antropologi molecolari, l'uomo e le
scimmie antropomorfe discenderebbero da un brachiatore vissuto una ventina di
milioni di anni fa, cioè nel Miocene. Da esso sarebbe derivato, dieci milioni
di anni fa, il gibbone. Successivamente si sarebbe differenziato l'orangutan e
finalmente, circa quattro milioni e mezzo di anni fa, uomo, scimpanzé e
gorilla. Purtroppo non disponiamo di fossili che possano
essere ritenuti i diretti parenti delle scimmie antropomorfe moderne e che siano
anche antenati dell'uomo e inoltre dei pochi fossili dei nostri più antichi
progenitori non siamo in grado di dire se erano brachiatori oppure no. E' certo invece che il Ramapiteco non può essere
considerato un nostro diretto antenato innanzitutto perché, come ha anche
dimostrato l'antropologia molecolare, è troppo antico per poterlo essere e in
secondo luogo perché si troverebbe sulla linea evolutiva che ha portato
all'orangutan la quale si era ormai separata definitivamente da quella che erano
ormai in procinto di percorrere le scimmie antropomorfe africane e l'uomo. Come accennavamo sopra, l'analisi biochimica non
si è limitata a campioni di tessuti viventi ma si è potuta estendere anche ad
un campione osseo non ancora completamente pietrificato di Ramapithecus
rivelando che questo animale ancestrale presenta affinità biochimiche più
evidenti con l'orangutan che non con le altre scimmie antropomorfe. Per questo
motivo il Ramapiteco attualmente viene considerato l'antenato dell'orangutan. Oggi il candidato più accreditato al ruolo di
antenato comune di scimpanzé, gorilla e Australopiteci è il Kenyapiteco, un
Ominoide che visse in Africa circa sei o sette milioni di anni fa (questo è il
valore temporale su cui anche i paleoantropologi molecolari oggi concordano come
data di separazione fra le scimmie antropomorfe africane e l’uomo) e che, come
abbiamo già ricordato, si trovò improvvisamente separato in due gruppi dallo
sprofondamento della Rift Valley. 14. L'EVOLUZIONE DEL GENERE HOMO Nel 1961, nella gola dell'Olduvai, all'interno
dello stesso sito in cui un paio di anni prima era stato trovato lo Zinjantropo,
uno dei figli di Louis Leakey, Jonathan, rinvenne due frammenti di cranio e una
mandibola incompleta di un Ominide apparentemente più evoluto dell'Australopiteco.
La sottigliezza delle ossa, i molari di piccole dimensioni e il volume della
scatola cranica decisamente superiore a quello di analoghi reperti trovati in
precedenza, lasciavano immaginare che dovesse trattarsi di un individuo di
costituzione un po' meno robusta di qualsiasi australopiteco noto. A giudicare dal luogo del ritrovamento (un
livello del terreno leggermente inferiore a quello in cui fu rinvenuto lo
Zinjantropo), il frammento di calotta cranica e la mandibola di quello che verrà
chiamato, in onore del suo scopritore, il "bambino di Johnny", doveva
essere appartenuto ad un individuo di poco più antico dello Zinjantropo, ma
nello stesso tempo più evoluto di questo. Un bel dilemma che tuttavia fu risolto due anni
più tardi quando, in uno strato superiore dello stesso deposito (datato un
milione e mezzo di anni circa), fu estratto un cranio del volume di 660 cm³,
con a fianco alcuni ciottoli lavorati. La lavorazione del materiale litico fu
attribuita all'Ominide di cui fu portata alla luce la calotta cranica, che
pertanto fu chiamato Homo habilis, cioè "uomo abile" e quindi
in grado di usare le mani con destrezza. Il nome venne suggerito da Raymond Dart
il quale riteneva che il diretto antenato dell'uomo moderno dovesse essere un
Ominide in grado di fabbricare utensili e quindi di servirsi del cervello in
modo originale. Poiché i resti dello strato sottostante rinvenuti in precedenza
apparivano molto somiglianti a quelli appena scoperti, anche questi ultimi
furono attribuiti all' Homo habilis. Altri resti di Homo habilis vennero ritrovati
negli anni successivi sia in Africa orientale sia in Sudafrica: fra questi un
cranio, molto ben conservato, scoperto in Kenia nel 1972 dall'altro dei figli
dei Leakey, Richard. Al fossile venne attribuita un'età di quasi due milioni di
anni. Come abbiamo già accennato in precedenza, il
ritrovamento di ossa di Ominidi più progrediti degli Australopiteci faceva
ritenere che intorno a due milioni di anni or sono vivessero sullo stesso
territorio due tipi di individui, entrambi con caratteristiche umane, ma un po'
diversi nei particolari: gli uni avevano encefalo piccolo e molari grossi, ed
erano gli Australopiteci, gli altri avevano encefalo grande e molari piccoli, ed
erano gli Ominidi del genere Homo. I primi si sarebbero estinti entro un milione
di anni, i secondi si sarebbero invece evoluti fino a diventare gli uomini
attuali. Circa due milioni e mezzo di anni fa in Africa
cambiò il clima per l'ennesima volta e la savana si fece più arida e di
conseguenza più povera di alimenti teneri che erano il cibo preferito dagli
Australopiteci di tipo africano. Nelle nuove condizioni ambientali mentre l'Australopithecus
boisei (cioè la forma robusta di Australopiteco) che si nutriva con una dieta
fatta preferibilmente di vegetali e di semi duri, era attrezzato per cavarsela
rispetto alle sopraggiunte difficoltà, l'Australopithecus africanus si
trovò invece in piena crisi. Come fare per sopravvivere? La risposta è sempre la stessa: mutando. Le
mutazioni, come si ricorderà, sono quei cambiamenti improvvisi e imprevedibili
del patrimonio genetico che si realizzano di continuo nel DNA e che poi si
riflettono sulle strutture fisiche dei singoli individui. Normalmente questi
cambiamenti producono soggetti meno adatti all'ambiente, ma se questo è in via
di trasformazione, le nuove forme potrebbero trovarsi particolarmente a loro
agio proprio grazie ai nuovi requisiti fisici forniti loro dalle mutazioni. Così
potrebbe essere avvenuto nel caso dell'Australopithecus africanus il
quale inaspettatamente si era venuto a trovare in difficoltà in un ambiente
arido e povero di cibo tenero. Egli quindi, secondo il parere di alcuni illustri
paleoantropologi, attraverso alcune mutazioni, si sarebbe trasformato in Homo
habilis. Le mutazioni che si susseguirono sull'Australopithecus
africanus indubbiamente furono svariate ma una fu decisiva su tutte le
altre: l'ingrandimento del cervello. Questo aumentò, nell'Homo habilis,
del 50% rispetto a quello del suo predecessore. Uno sviluppo così spropositato
dell'encefalo, che mai si era realizzato in alcun altro animale e che mai si
realizzerà in seguito, consentirà di risolvere con efficacia i problemi che la
nuova situazione ambientale stava producendo. Questi, fondamentalmente, erano
problemi legati alla ricerca del cibo. Cibi teneri di origine vegetale non ve n'erano più;
vi era tuttavia abbondanza di carne. La savana si trovò infatti improvvisamente
abitata da mandrie sterminate di erbivori che approfittavano di un ambiente a
loro favorevole per moltiplicarsi. Molto probabilmente non era necessario che l'Homo
habilis per procurarsi il cibo cacciasse gli animali, come in un primo tempo
si era pensato: il terreno doveva essere già pieno delle carcasse di quelli
morti per cause naturali o uccisi dai carnivori e poi abbandonati prima di
venire completamente spolpati. L'Homo habilis per procurarsi la carne
forse doveva semplicemente contenderla a iene ed avvoltoi che, com'è noto, si
nutrono di carogne. Vi era tuttavia un problema da risolvere e non di
poco conto. Come fare per accedere alle carni dei grossi mammiferi coperte da
una pelle spessa e resistente che tagliare con i denti o con le unghie era
pressoché impossibile? L'Australopiteco africano non era certo dotato di
artigli adatti a penetrare nei tessuti e i canini, piccoli e deboli, non erano
in grado di lacerare la pelle e strappare le carni dalle ossa degli animali. Non
rimaneva che usare il cervello che nel frattempo si era fatto molto grande. Fu
così che l'Australopiteco africano, divenuto ormai “uomo abile”, si mise a
fabbricare utensili di pietra, che facilitavano l'accesso alle carni degli
animali morti. E mentre l'Australopiteco africano si trasformava in Homo
habilis, il boisei continuava a masticare noci e granaglie dure, divenendo
intanto preda del leopardo e degli altri carnivori della savana. In questo modo
finirà per estinguersi completamente. Oggi i paleoantropologi hanno a disposizione
reperti fossili sufficienti per ricostruire la struttura fisica dell’Homo
habilis. Esso doveva essere un individuo alto un metro e mezzo e pesare una
cinquantina di kilogrammi. Era quindi circa delle dimensioni dell'Australopithecus
robustus, ma le sue ossa erano molto più leggere. Aveva un'andatura
perfettamente eretta, la capacità cranica era intorno ai 700 cm³ e la faccia
appariva molto meno prominente di quella dell'Australopiteco. Soprattutto una fronte molto ampia dava la
sensazione di trovarsi in presenza di un essere umano, una sensazione che, nel
caso dell'Australopiteco, non si era mai avuta. Anche la dentatura era molto
simile a quella dell'uomo attuale e proprio ciò fa ritenere che l'alimentazione
dell’Homo habilis fosse un po' meno vegetariana di quella dell'Australopiteco
e che per tale motivo dovesse nutrirsi anche di carne. Con l'Homo habilis compare per la prima
volta quella caratteristica che viene ritenuta una prerogativa fondamentale del
genere umano, cioè la produzione di utensili. Fino ad oggi non si è raccolta
alcuna prova che l'Australopiteco fosse stato in grado di fabbricare utensili
di pietra scheggiata e così pure nessun animale vivente, nemmeno lo scimpanzé,
che pure è capace di strappare rami dalle piante per inserirli nei termitai e
catturare le formiche che poi mangia, è in grado di fabbricare volontariamente
strumenti di alcun genere, né di conservare quelli che si sono dimostrati
efficaci in determinate circostanze.
Nessun animale, in altre parole, è in grado di prevedere il futuro come
fa l'uomo. Ma da quale specie ancestrale deriva l'Homo
habilis? Come abbiamo visto, secondo alcuni studiosi, l'Homo habilis
sarebbe derivato dall'Australopithecus africanus. Secondo altri, l'Australopithecus
afarensis avrebbe dato origine a due linee evolutive: da un lato gli
Australopiteci con l'africanus prima, e il robustus e il boisei poi, e
dall'altro l'Homo habilis, che
si sarebbe successivamente differenziato prima in Homo erectus e poi
nell’attuale specie di Homo sapiens. Infine, secondo un terzo gruppo di
paleoantropologi, gli Australopiteci e gli Ominidi del genere Homo avrebbero
avuto un'evoluzione indipendente senza alcun rapporto diretto. Essi avrebbero
invece avuto un lontano antenato comune, non ancora individuato. Recenti scoperte hanno dimostrato che l'Homo
habilis non solo fabbricava manufatti in pietra ma, molto probabilmente, che
egli era anche in grado di costruire accampamenti. Ciò è stato dedotto dal
ritrovamento ad Olduvai di un cerchio di pietre che rappresenterebbe i resti di
una delle prime abitazioni costruite dall'uomo. 15. IL LINGUAGGIO "Le parole - come dice anche Richard Leakey
- purtroppo non si fossilizzano". Pertanto, non riusciremo mai a sapere con
certezza quando si è originato il linguaggio verbale. Tuttavia abbiamo a
disposizione alcune testimonianze indirette, rappresentate dai manufatti
realizzati dai nostri antenati e dai cambiamenti nella loro struttura anatomica,
che ci consentono di formulare alcune ipotesi sul modo in cui il linguaggio
articolato avrebbe potuto nascere e svilupparsi. I primi utensili in pietra costruiti dall'uomo
sono stati trovati, insieme con le sue ossa fossili, ad Olduvai, ed hanno un'età
di due milioni di anni, ma in seguito ne furono rinvenuti anche di più antichi.
Si tratta dei famosissimi "chopper" (parola inglese che significa
accetta, mannaia di macellaio), ciottoli di lava intenzionalmente scheggiati per
ricavare un margine tagliente. Queste pietre lavorate, molto probabilmente,
venivano usate dall'Homo habilis per tagliare la pelle degli
animali e per staccare la carne dalle loro ossa, ma forse anche per tagliare e
appuntire i rami degli alberi. L'utensile, a differenza del semplice strumento,
implica la presenza di un pensiero concettuale, cioè la necessità che nella
mente dell'operatore si formi un'idea di ciò che si vuole realizzare. Questa
idea diverrà quindi oggetto lavorato attraverso una serie ordinata di azioni
successive. E' necessario saper parlare per compiere queste azioni? Forse sì. Per fabbricare un oggetto di pietra, ad esempio,
occorre innanzitutto individuare un ciottolo di dimensioni e forma opportune e
quindi cercare un percussore adatto per colpire il ciottolo. Inoltre bisogna
operare in modo tale che i colpi vengano inferti sotto varie angolazioni e con
un'energia adeguatamente calibrata. Infine è necessaria un'azione di controllo
della forma che l'oggetto va assumendo per effetto delle scheggiature. Tutto ciò
richiede un'attività intellettiva tutt'altro che semplice.
Ora, è evidente che la disponibilità di un
oggetto lavorato dà il vantaggio, a chi lo possiede, di accedere con maggiore
facilità alle risorse alimentari più pregiate e ciò, ovviamente, facilita la
lotta per l'esistenza. Ma l'oggetto lavorato non è qualche cosa che si
trasmetta geneticamente, come potrebbero essere i denti più grossi e robusti o
la stazione eretta: la sua realizzazione pertanto deve essere appresa dalle
generazioni precedenti le quali a loro volta devono possedere un mezzo efficace
per insegnarla. E quale sistema migliore, per trasmettere informazioni, di
quello rappresentato dal linguaggio verbale?
L'attività manuale dell'Homo habilis non
si esaurisce, tuttavia, con la costruzione di chopper. In siti di età più
recente vennero infatti alla luce oggetti in pietra meglio rifiniti, come i
"chopping-tools", ottenuti colpendo i ciottoli su entrambe le facce
invece che su una sola. Successivamente, con l'Homo erectus, comparvero
le raffinate "amigdale" oggetti in pietra sapientemente rifiniti su
tutto il nucleo del ciottolo: per questo motivo l'amigdale viene anche definita
"bifacciale". Non si è mai riusciti a capire bene a cosa potesse
servire questo strano oggetto di pietra con il filo tagliente che gli gira
tutt'intorno rendendolo difficile da tenere in mano senza farsi male. Secondo
alcuni l'amigdale, legata ad un bastone, poteva essere utilizzata come ascia, ma
un'attenta osservazione al microscopio, nel punto in cui avrebbe dovuto
innestarsi il legno, non ha mostrato segni di usura. La cosa più probabile è
che venisse usata come strumento da lancio, ma può anche darsi che non servisse
a nulla: forse era solo un bello strumento di cui andare orgogliosi per essere
stati capaci di costruirlo. Ma l'uomo primitivo, come abbiamo detto, era
anche in grado di costruire manufatti più complessi delle pietre scheggiate. I
cosiddetti "accampamenti", cioè i rozzi muretti di pietra che cingono
limitate zone di terreno di forma circolare, forse erano rudimentali abitazioni
entro le quali l'Homo habilis avrebbe potuto fermarsi per fabbricare
utensili, o per mettersi al riparo dalle belve feroci.
La tecnologia può anche aver avuto la sua
importanza nell'origine del linguaggio verbale, ma senza una conformazione
particolare della laringe mai l'uomo avrebbe potuto parlare. Scimpanzé e
gorilla, ad esempio, sono in grado anch'essi di esprimere concetti semplici e
manifestare emozioni, tuttavia non sono capaci di parlare perché la loro
laringe è sistemata in modo tale da non consentire una perfetta modulazione dei
suoni. La stessa cosa avviene nei neonati, i quali non sarebbero in grado di
parlare nemmeno se le facoltà psichiche glielo consentissero. La fonazione infatti è possibile solo in seguito
all'abbassamento della laringe che produce un allargamento della cavità
faringea sovrastante con conseguente emissione di suoni. Nelle scimmie l'organo
della fonazione è posto in posizione elevata e proprio in virtù di questa
particolare collocazione della laringe esse riescono a bere e a respirare
contemporaneamente. Lo stesso avviene nei bambini appena nati i quali, come
tutti sanno, riescono a poppare e a respirare nello stesso tempo. I bambini
possono cominciare a parlare, o per meglio dire, ad articolare correttamente le
parole non prima dei due anni, cioè dall'età in cui la laringe tende a
scendere verso il basso. Studi recenti hanno dimostrato che l'abbassamento
della laringe produce una flessione della base del cranio che da appiattita si
fa curva. Questo fenomeno si è osservato nei bambini, i quali nascono con la
base del cranio piatta, ma poi, con lo sviluppo, questa comincia a scendere fino
a trovare definitiva sistemazione verso i dieci anni. Ora, nei crani degli
Australopiteci non si è mai notata l'incurvatura verso il basso della base del
cranio, mentre nell'Homo erectus questa flessione sembra presente anche
se in modo non molto evidente: questi quindi, molto probabilmente, possedeva le
strutture anatomiche di base per la fonazione. Per quanto riguarda invece l'Homo
habilis, non si è riusciti a procedere ad un analogo esame a causa della
mancanza, fra i reperti fossili, di crani completi della base. Se nulla si può dire riguardo alla posizione
della laringe dell'Homo habilis sembrano invece essere presenti, in
questo Ominide, le due aree della corteccia cerebrale preposte al controllo del
linguaggio articolato. Queste sono il "centro di Broca" e il
"centro di Wernicke", così chiamate dal nome dei due ricercatori che
le hanno scoperte nel secolo scorso. Esse si trovano sul lato sinistro del
cervello il quale è anche quello maggiormente sviluppato. Allo sviluppo
maggiore del lato sinistro del cervello contribuisce, oltre ai centri della
fonazione, anche il fatto che la maggior parte della popolazione umana è
destrimane e l'uso della mano destra è controllato proprio da quell'emisfero
cerebrale. Purtroppo anche il cervello, come la parola, non
fossilizza. Quindi nessuno ha mai potuto esaminare direttamente il cervello di
un animale estinto. Tuttavia a volte possiamo osservare la configurazione
esterna di esso in quelli che vengono chiamati i "calchi endocranici".
L'encefalo durante la crescita modella il cranio entro il quale è riposto,
lasciando su di esso lo stampo della sua struttura. Ora può capitare, durante
la fossilizzazione, che la scatola cranica si riempia di sabbia la quale
successivamente si consolida formando appunto il calco interno del cranio.
Questo rappresenta l'esatto duplicato delle dimensioni e della forma
dell'interno della scatola cranica, che può essere anche considerato una specie
di cervello di pietra di cui però è possibile osservare solo la parte esterna.
Alcuni studiosi, fra cui il celeberrimo antropologo Phillip Tobias, su certi
calchi endocranici di Homo habilis, riescono a vedere le tracce dei lobi
e delle circonvoluzioni del cervello. Molti scienziati in realtà invitano alla
prudenza in quanto le meningi che avvolgono il cervello sono membrane assai
spesse e quindi è molto improbabile che sulla scatola cranica possano formarsi
le impronte delle circonvoluzioni e dei vasi sanguigni dell'encefalo. Quello che
si stampa sulla parte interna del cranio - essi dicono - molto probabilmente
sono i vasi delle pareti del cranio stesso e non quelle del cervello. Alcuni paleoantropologi sono del parere che il
linguaggio verbale non si sia sviluppato attraverso una lenta e graduale
evoluzione iniziatasi più di due milioni di anni fa, ma all'improvviso e molto
di recente. Secondo questi studiosi il linguaggio avrebbe fatto la sua comparsa
solo 35.000 anni fa quando l'uomo già possedeva forme di cultura simili a
quelle che conosciamo oggi. 16. L'HOMO ERECTUS Come abbiamo visto, all'Homo habilis
succede l'Homo erectus. La denominazione di "erectus",
riservata a questo Ominide, risale agli anni Cinquanta, quando si riteneva che
gli Australopiteci non fossero ancora dei bipedi perfetti, ma che camminassero
aiutandosi con gli arti superiori, come fanno attualmente le scimmie
antropomorfe. L'Homo erectus aveva un cervello con un volume superiore a
1000 cm³, cioè di poco inferiore al nostro, e visse fra un milione e mezzo e
200.000 anni fa, età quest'ultima in cui comparve sulla scena l'Homo sapiens. Il primo fossile di Homo erectus venne
trovato a Giava, da un medico olandese, che si era fatto trasferire in quelle
terre perché convinto che là dovesse trovarsi l'"anello mancante"
fra uomo e scimmia. Di questo anello mancante aveva parlato Ernst Heinrich
Haeckel, uno dei grandi sostenitori di Darwin, il quale aveva ipotizzato
l'esistenza di una creatura ancestrale, che egli chiamò Pitecantropo, e che
avrebbe dovuto avere, come diceva anche il nome, per metà caratteristiche di
scimmia e per metà caratteristiche di uomo. La storia del medico olandese, di nome Eugene
Dubois, merita di essere raccontata per intero perché ha dell'incredibile.
Questo strano personaggio, fin da ragazzo si era appassionato alla teoria
evoluzionistica di Darwin e si era convinto che il fossile di Neanderthal fosse
effettivamente un progenitore umano, ma che dovessero esistere delle forme
ancora più antiche, cioè del tipo di quelle che Haeckel chiamava Pitecantropi.
A quel tempo l'Indonesia era una colonia olandese e Dubois sapeva che da quelle
parti viveva una specie di grande scimmia simile all'uomo, e il cui nome
indirizzava anche in questo senso. Esso è l'orangutan (parola che nella lingua
locale significa "uomo della foresta") e quindi, attraverso un
ragionamento privo di qualsiasi logica, pensò che negli stessi luoghi avrebbe
dovuto trovarsi anche l'antenato dell'uomo. Il giovane Dubois tentò, in un primo tempo, di
farsi mandare dal governo del suo Paese a Giava come direttore di una spedizione
scientifica, quindi, non essendo riuscito ad ottenere l'incarico, chiese di
esservi inviato come medico militare. E venne accontentato. Egli, per un colpo di fortuna veramente
incredibile, trovò effettivamente nel 1891, lungo le sponde di un piccolo corso
d'acqua, il fiume Solo, un cranio umano ed alcuni denti.
L'anno successivo rinvenne, in una zona vicina e all'interno della stessa
formazione rocciosa, un femore umano. Egli, a quel punto, credette di aver
individuato proprio l'anello mancante e chiamò il nuovo Ominide Pitecanthropus
erectus, nome che vuol dire "scimmia-uomo che sta ritta in piedi".
Il nome Pitecanthropus sembrava perfettamente appropriato perché il cranio era
troppo grande per essere quello di una scimmia e troppo piccolo per essere
quello di un uomo. D'altro canto il femore, proveniente dalla stessa formazione,
era sostanzialmente moderno, il che significava che il suo possessore camminava
stando ritto in piedi. Da qui la specificazione di "erectus" data al
reperto. Altri resti fossili, simili a quelli del
Pitecantropo di Dubois, furono trovati successivamente in diverse parti del
mondo e ciascuno ricevette un proprio nome. Ai reperti trovati in Cina, ad
esempio, fu assegnato il nome di "uomo di Pechino", o Sinantropo; in
Germania, preso Heidelberg fu scoperta la famosa mandibola di Mauer, e in Africa
furono rinvenuti i rappresentanti più antichi: nel deposito di Koobi Fora a est
del lago Turkana fu rinvenuto un cranio a cui è stata attribuita l'età di
1.600.000 anni. Tutti questi Ominidi oggi vengono classificati come Homo
erectus e non hanno nulla a che vedere con le scimmie. L'Homo erectus non solo era capace di
scheggiare la pietra, cosa che faceva con maggiore maestria del suo predecessore
habilis, ma imparò anche a servirsi sistematicamente del fuoco. L'uso del fuoco
avvantaggiò notevolmente questo Ominide, perché gli consentì di spingersi
alla conquista di luoghi freddi e anche perché gli permise di sfruttare e
conservare meglio gli alimenti. Circa 200.000 anni fa l'Homo erectus venne
definitivamente soppiantato dall'Homo sapiens con il quale si
conclude la nostra storia. Fra i 400 e i 300 mila anni fa apparvero, in
diverse regioni del pianeta, delle forme di Homo erectus di aspetto più
moderno che i paleoantropologi non sanno ancora se considerare Homo sapiens
o semplicemente forme più evolute di Homo erectus. L'Homo sapiens si differenziò,
successivamente, in due sottospecie: Homo sapiens neanderthalensis, i cui
resti fossili non hanno un'età anteriore ai 100.000 anni, e l'Homo sapiens
sapiens comparso fra i 200 e i 140 mila anni fa in Africa. L'Africa è stata quindi per due volte la culla
dell'uomo: una prima volta con gli Australopiteci, quando, soprattutto in
considerazione della posizione eretta, questi Ominidi vennero considerati i
nostri più prossimi antenati e, successivamente, con l'Homo sapiens, il
nostro vero diretto antenato. La straordinaria intuizione di Darwin ha trovato,
alla fine, la sua piena conferma. Nel 1871 egli scriveva: "In ogni grande
regione del mondo i mammiferi esistenti sono strettamente imparentati con le
specie estinte della stessa zona. E' quindi probabile che l'Africa fosse in
passato abitata da scimmie ora estinte, strettamente affini al gorilla e allo
scimpanzé e, dal momento che queste due specie sono attualmente i parenti più
prossimi dell'uomo, è verosimile che i nostri antichi progenitori fossero
vissuti nel continente africano piuttosto che altrove". fine |