ORIGINE ED EVOLUZIONE DELL'UOMO

 

    Fino a poco più di un secolo fa nessuno pensava che l'uomo potesse aver avuto anch'egli origine da una lenta e graduale evoluzione, perché tutti ritenevano che l'uomo fosse una creatura speciale, creata da Dio a Sua immagine e somiglianza e pertanto profondamente diversa da tutti gli altri esseri viventi. Così è scritto nelle Sacre Scritture e così veniva insegnato alla gente.

    Fu Charles Darwin, nel 1871, ad affermare per primo, nel suo libro "The descent of Man" (L'origine dell'uomo), che anche noi siamo esseri viventi come tutti gli altri, e che quindi siamo soggetti alle stesse leggi che governano i fenomeni naturali. L'uomo, pertanto, deve aver avuto degli antenati i quali, a loro volta, dovevano possedere delle caratteristiche simili a quelle degli animali cui egli oggi assomiglia di più, cioè le scimmie. Di qui il falso convincimento che Darwin avesse detto che l'uomo discende dalle scimmie.

    In realtà l'uomo non può derivare da un animale che gli è contemporaneo, così come uno di noi non può essere figlio della propria cugina. Darwin affermò semplicemente che uomo e scimmia dovevano aver avuto, in un tempo non molto lontano, antenati comuni, così come due cugini hanno dei nonni o dei bisnonni in comune. Andando molto indietro nel tempo, si arriverebbe a quei pochi organismi primordiali che sono stati gli antenati di tutte le forme viventi attualmente presenti sulla Terra.

 

1. LA TEORIA EVOLUZIONISTICA

    Prima di addentrarci nell'argomento forse è opportuno chiarire cosa intendano gli scienziati quando parlano di "teorie", e in particolare vedere che cosa dice la teoria evoluzionistica di Darwin.

    Non riuscendo in modo coerente e logico a giustificare l'enorme varietà degli organismi viventi, l'uomo non seppe far di meglio, in passato, che ricorrere al concetto di creazione. Secondo questo punto di vista sarebbe esistito un dio, ovvero un'entità trascendente e dalle possibilità infinite, il quale avrebbe popolato la Terra di ogni sorta di esseri viventi e assegnato all'uomo un ruolo preminente. Come tutti sanno, non esiste un unico mito della creazione: ogni cultura ne ha elaborato uno proprio, esclusivo e originale nei dettagli.  Tutti questi miti, tuttavia, proprio per la loro stessa natura, non sono delle teorie scientifiche. Non sono teorie scientifiche non solo perché da essi non è possibile trarre previsioni, ma anche per il fatto che non si possono confutare: non è possibile, cioè, dimostrare in alcun modo né che sono veri né che sono falsi. A tutti questi miti, in altre parole, mancano le prerogative tipiche delle teorie scientifiche: essi sono atti di fede e come tali non hanno né, per la verità,  pretendono di avere, un fondamento logico.

    Essendo un atto di fede, non è possibile ad esempio convincere un credente dell'inconsistenza del mito biblico della creazione, né è intendimento degli scienziati farlo: ognuno è libero di credere a ciò che vuole. Allo stesso tempo però la comunità scientifica pretende che chi apprezza la logica e il rigore del metodo scientifico, cioè della ricerca della verità attraverso l'osservazione e la sperimentazione, sia libero da anatemi e da imposizioni di qualsiasi tipo.

    I creazionisti spesso, con l'intento di sminuire la teoria evoluzionistica di Darwin, dicono che in fondo si tratta "solo di una teoria" e pertanto è assurdo pretendere che da essa possa scaturire la verità. Chi parla in questi termini non sa cosa sia una teoria scientifica. Cerchiamo allora di spiegarlo in poche parole.

    Una teoria scientifica non è altro che un'ipotesi, cioè un'idea che si forma nella mente dell'uomo, dopo che questi ha osservato attentamente e scrupolosamente i fenomeni naturali e gli esperimenti di laboratorio. Essa perciò non è la realtà ma una congettura, attraverso la quale è possibile giustificare i fenomeni naturali in modo logico e coerente. Una buona teoria non solo deve rendere ragione dei fenomeni dai quali essa stessa ha tratto origine, ma deve essere anche in grado di prevederne di nuovi da verificare in futuro.

   Una teoria inoltre non è qualche cosa di fisso ed immutabile, valido una volta per sempre, ma uno strumento concettuale da sottoporre continuamente a verifica. Una teoria viene definitivamente abbandonata quando non è più in grado di spiegare in modo chiaro e coerente i fatti osservati. Normalmente però quando una teoria in seguito all'interpretazione di qualche nuovo fenomeno, entra in contraddizione con i concetti che essa esprime, invece che scartata definitivamente, viene opportunamente corretta e modificata. Una teoria scientifica se è "solo una teoria", come dicono i creazionisti, è semplicemente tutto quello che deve essere.

    La teoria evoluzionistica di Darwin, come tutte le grandi teorie, è molto semplice e si basa su tre presupposti fondamentali. Primo: gli organismi viventi, animali o piante che siano, fanno molti figli: molti di più di quelli che servirebbero per rimanere in equilibrio stabile con il cibo e con lo spazio che l'ambiente mette loro a disposizione. Secondo: gli organismi della stessa specie non sono tutti identici fra di loro; ve ne sono di più grandi e di più piccoli, di più lenti e di più veloci, di più chiari e di più scuri, e così via. Terzo: esiste fra organismi di specie diversa, e anche fra organismi della stessa specie, una lotta continua per la sopravvivenza. In questa lotta prevalgono gli individui più forti, ovvero quelli meglio attrezzati per accedere alle risorse che la natura mette loro a disposizione, ottenendo un vantaggio riproduttivo sugli individui più deboli.

    A questo punto, torniamo alla storia evolutiva dell'uomo.

 

2. I PRIMI RITROVAMENTI DI FOSSILI UMANI

    Prima che Darwin, nel 1856, pubblicasse il suo libro sulla teoria dell'origine delle specie per selezione naturale, nella valle del fiume Neander presso Düsseldorf, in Germania, vennero rinvenuti i fossili di un cranio e di alcune ossa degli arti appartenuti ad un essere sicuramente umano, ma dalle caratteristiche strutturali molto particolari. Quel reperto, ovviamente, non venne interpretato su basi evolutive ed anzi alcuni eminenti biologi del tempo ritennero potesse trattarsi dei resti di un uomo moderno, deforme o gravemente malato. Il patologo tedesco Rudolf Virchow arrivò al punto di specificare che quell'individuo doveva aver sofferto di rachitismo in giovane età, aggravato da artrite in vecchiaia (come dimostravano le ossa arcuate degli arti) e ulteriormente peggiorato da qualche brutto colpo ricevuto in testa nell'età adulta. Per altri, invece, si trattava di un soldato cosacco dell'esercito russo (le gambe arcuate erano la prova di una vita passata a cavallo) che aveva partecipato alla guerra contro Napoleone nel 1814 e che, stremato dalla stanchezza (le arcate sopraorbitarie prominenti erano il risultato del continuo aggrottamento dei sopraccigli per il dolore), si era rifugiato in una caverna dove aveva trovato la morte. Successivamente, però, Thomas Henry Huxley, l'amico fraterno di Darwin, lo interpretò correttamente come le vestigia di una razza umana primitiva. A questa razza, di cui verranno rinvenuti in seguito molti altri esemplari, sarà assegnato il nome di "Uomo di Neanderthal" (Homo neanderthalensis).

    L'uomo di Neanderthal doveva essere un individuo tarchiato, alto circa un metro e mezzo, con un cranio di spessore abnorme, lungo e stretto, ma con una capacità notevole (oltre 1.500 cm³), perfino superiore alla media dell'uomo attuale; esso presentava inoltre la fronte sfuggente, le arcate sopraorbitarie molto prominenti e il foro occipitale non perfettamente parallelo al terreno. Tutte queste caratteristiche portarono ad immaginare gli uomini di Neanderthal come esseri con l'aspetto da bruti che abitavano le caverne e che procedevano con un'andatura curva in avanti, simile a quella delle attuali scimmie antropomorfe.

    Oggi sappiamo invece che l'uomo di Neanderthal non era affatto un essere bestiale, ma che aveva un'intelligenza e svolgeva un'attività molto simile alla nostra (conosceva ad esempio il fuoco e seppelliva i morti, dimostrando di possedere rispetto per i defunti). Egli visse in un'epoca molto recente (dai 130.000 ai 35.000 anni fa) e viene attualmente considerato una sottospecie dell'Homo sapiens a cui è stato assegnato il nome scientifico di "Homo sapiens neanderthalensis", mentre noi siamo "Homo sapiens sapiens". Egli quindi non è un nostro antenato, ma piuttosto una specie di uomo che ha avuto un iter evolutivo divergente rispetto al nostro, iter evolutivo che lo ha portato all'estinzione. I nostri veri antenati hanno invece abitato l'Africa almeno 3,5 milioni di anni fa.

    Come abbiamo visto, con Darwin la comunità scientifica prese coscienza che anche l'uomo, come qualsiasi altra specie vivente, doveva aver avuto una propria storia evolutiva e si mise alla ricerca delle tracce della sua origine. Nacque in questo modo la paleoantropologia, cioè la scienza che si occupa della ricerca e della catalogazione dei reperti fossili del genere umano. Fra i fossili umani vengono compresi, oltre alle ossa, anche gli utensili che l'uomo stesso fabbricò e utilizzò, e le tracce della sua attività, come i resti dei fuochi che accese per riscaldarsi e tenere lontani gli animali feroci, e i dipinti che realizzò sulle pareti delle caverne in cui visse.

    Tutti i ritrovamenti fossili riguardanti la specie umana sono stati rinvenuti praticamente nel secolo scorso e provengono in prevalenza dall'Africa, ma alcuni reperti importanti sono stati trovati anche in Asia e in Europa. I reperti fossili, attualmente esistenti, non sono molti e potrebbero trovare sistemazione, al completo, in una sala da conferenze: tuttavia essi si sono dimostrati sufficienti per ricostruire, in modo soddisfacente, la storia evolutiva dell'uomo.

    Le scoperte di questi ultimi vent'anni hanno rimandato molto indietro nel tempo la data dell'origine della nostra specie, che prima si collocava intorno ai 500.000 anni. Queste ultime scoperte hanno anche chiarito definitivamente che il genere umano ha avuto le sue origini in Africa e non in Europa, come per lungo tempo si era creduto. In realtà il convincimento che l'Europa fosse stata la culla dell'umanità non aveva alcun fondamento scientifico, ma si basava esclusivamente sulla presunzione che la civiltà europea fosse la più evoluta di tutte. Per questo motivo, resti di Ominidi, rinvenuti a Giava e in Cina alla fine dell'altro secolo e all'inizio di questo, vennero interpretati come resti di scimmie e non come nostri reali antenati.

    Con il termine di Ominide oggi si indicano collettivamente tutti i tipi ancestrali della specie umana contraddistinti dall'andatura eretta. L'unica specie di Ominide che alla fine sopravvivrà alla selezione naturale sarà la nostra, quella che abbiamo chiamato Homo sapiens sapiens.

 

3. LE SCOPERTE PIU' RECENTI

   Due milioni di anni fa vivevano contemporaneamente, in Africa, due tipi diversi di Ominidi: gli Australopiteci e quelli del genere Homo. Gli Australopiteci, il cui termine letteralmente significa "scimmie australi" (cioè scimmie del sud), in realtà non erano scimmie, ma uomini primitivi che si sono estinti senza lasciare discendenti. Gli altri, gli Ominidi del genere Homo, sono i nostri più diretti antenati e si sono evoluti fino a pervenire alla nostra specie.

    Le scoperte più sensazionali di questi ultimi anni sono rappresentate dalla famosissima Lucy e dalle tracce dei passi che tre individui lasciarono sulla cenere ancora calda di un vulcano dell'Africa più di tre milioni e mezzo di anni fa. Si tratta, in entrambi i casi, di Australopiteci che vivevano nella savana e che avevano già acquisi­to un eccellente adattamento all'andatura eretta.

    Lucy fu scoperta da una spedizione franco-americana guidata dai paleoantropologi Yves Coppens e Donald C. Johanson, nel 1974. Insieme ad ossa di coccodrilli, di roditori e di elefanti vennero ritrovate, nella valle desertica degli Afar in Etiopia, a una sessantina di kilometri da Addis Abeba, alcune ossa di Ominidi che poi furono riconosciute come appartenenti ad un unico individuo. Quell'individuo era una giovane femmina vissuta più di tre milioni di anni fa. Dalla struttura dello scheletro (completo al 40%), si poteva facilmente dedurre che essa era in grado di camminare in posizione eretta. Il nome di Lucy fu ispirato da una canzone dei Beatles molto in voga a quel tempo: "Lucy in the Sky with Diamonds" (usata, fra l’altro, anche come crittogramma della sostanza allucinogena LSD) che i ricercatori ascoltavano di frequente alla radio durante le operazioni di scavo.

    Le impronte di passi dei tre Ominidi furono rinvenute nel 1976, su uno strato di cenere vulcanica fossilizzata, da una spedizione scientifica guidata dalla celebre paleoantropologa Mary Leakey, moglie dell'ancor più famoso Louis Leakey capostipite di una famiglia di ricercatori che da oltre cinquant'anni opera in Africa orientale nella cosiddetta valle del Rift (Rift Valley). Louis Leakey, figura ormai leggendaria nel campo della paleoantropologia, era nato in Kenia nel 1903 da un pastore inglese trasferitosi in quelle terre per assolvere alla sua missione spirituale; la morte dello scienziato avvenne in quella regione africana nel 1972.

    Nei pressi di Laetoli in Tanzania sorge un vulcano, oggi spento, ma che alcuni milioni di anni fa era attivo ed eruttava lava insieme ad una gran quantità di ceneri e di lapilli. Su questo materiale polverulento, bagnato dalla pioggia, lasciarono le loro impronte tre ominidi che camminavano su due gambe come noi e i cui piedi non erano, per forma, molto diversi dai nostri. Il terreno su cui si sono conservate le tracce dei tre individui fu datato con il metodo del potassio-40 e risultò avere un'età di 3,7 milioni di anni. 

    L'anno successivo al ritrovamento di Lucy, la spedizione guidata da Donald Johanson fece un'altra scoperta sensazionale. Sul fianco eroso di una collina furono individuati i resti di un gruppo di individui che molto probabilmente morirono tutti insieme in seguito ad una catastrofe naturale, forse un'inondazione. Furono recuperati centinaia di denti e di frammenti ossei, appartenenti ad almeno tredici indivi­dui (di cui quattro bambini) che qualcuno pietosamente battezzò "Prima famiglia". Si trattava di esemplari con caratteristiche simili a quelle di Lucy. A tutti questi Ominidi venne alla fine assegnato il nome scientifico di Australopithecus afarensis (da Afar, il deserto etiopico in cui fu ritrovata Lucy).

 

4. LA STAZIONE ERETTA DELL'UOMO

    La caratteristica più singolare e in un certo senso più sorprendente dell'uomo è la posizione che il suo corpo assume nello spazio. La nostra specie è l'unica, fra tutti i mammiferi, a camminare in posizione eretta. La conquista della stazione e della deambulazione eretta, da un punto di vista evolutivo, dicono gli esperti, è di difficile acquisizione ed è molto più improbabile dello stesso sviluppo del cervello.

    Un tempo si riteneva che la stazione eretta, lo sviluppo del cervello e l'uso degli utensili fossero stati acquisiti, dall'uomo primitivo, contemporaneamente; oggi invece i paleoantropologi la pensano in modo diverso. Ad esempio Owen Lovejoy, un biologo esperto di locomozione animale, è convinto che gli Ominidi acquisirono la stazione eretta quando ancora vivevano nella foresta e che poi questa particolare posizione del corpo si rivelò vantaggiosa quando gli stessi furono costretti ad abitare nella savana. Ma che cosa spinse l'evoluzione degli Ominidi in questa direzione? Quali vantaggi evolutivi può aver comportato il camminare permanentemente su due soli arti, rispetto all'andatura su quattro zampe tipica di tutti gli altri mammiferi? 

    Come tutti (o quasi) sanno, l'evoluzione si realizza attraverso piccole variazioni casuali della struttura del DNA che si chiamano mutazioni e che si ripercuotono in altrettante lievi modifiche dell'organismo entro il quale tale DNA è contenuto. Le mutazioni, in sé, non sono né vantaggiose né svantaggiose per l'individuo che le subisce: tutto dipende dal modo in cui questo individuo reagirà alla prova dell'ambiente. Sarà l'ambiente, in altre parole, a consolidare o a cancellare le variazioni che compaiono sull'individuo mutato.

    L'andatura su quattro arti è indubbiamente più comoda rispetto a quella bipede ed è anche quella che richiede minore dispendio di energia. L'acquisizione dell'andatura bipede deve essere quindi interpretata come un avvenimento straordinario e niente affatto conveniente. La posizione eretta richiede infatti una ristrutturazione radicale della nostra anatomia, al confronto della quale lo sviluppo notevole dell'encefalo rappresenta un fenomeno di secondaria importanza.

    Spesso si parla di evoluzione in termini finalistici, come se un particolare cambiamento su di un organismo avvenisse con lo scopo di raggiungere un determinato obiettivo. Si dice, ad esempio, che l'uomo ha acquistato la stazione eretta per poter vedere in lontananza sopra le alte erbe della savana; ma ciò non può essere vero.

    Le mutazioni del DNA e i cambiamenti che, conseguentemente, queste mutazioni producono sull'organismo, non possono avvenire in previsione di un ambiente in cui questi organismi non vivono ancora: la selezione naturale non ha né coscienza né preveggenza.  L'acquisizione della stazione eretta, da parte dell'uomo primitivo, non avvenne per consentirgli di vedere meglio in lontananza, ma per garantirgli il mantenimento del tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando, cioè nella foresta nella quale quell'organismo ancora si trovava.

    La natura, come abbiamo detto, non può prevedere gli ambienti che devono ancora venire e le specie non si possono pre-adattare ad un ambiente che non c'è e che chissà se mai ci sarà. La possibilità di vedere meglio in lontananza, per l'Ominide che aveva acquisito la stazione eretta, non fu quindi la causa dell'innovazione, ma piuttosto l'effetto della sua esistenza.

    Per concludere, poiché l'evoluzione non ha né scopo, né direzione, dobbiamo ritenere che l'acquisizione della stazione eretta da parte di scimmie primitive che abitavano la foresta sia avvenuta per caso ed abbia posto quegli animali in condizioni più favorevoli rispetto agli altri, perché ha consentito loro di mantenere il tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando. Ritorneremo sull'argomento.

 

5. LA NEOTENIA

    Oggi si ritiene che l'uomo sia fondamentalmente il risultato di un fenomeno biologico che prende il nome di neotenia. Con questo termine, che etimologicamente significa "prolungamento della gioventù", si indica la tendenza delle specie viventi a conservare, nell'età adulta, alcune caratteristiche fisiche embrionali.

    Vive in Messico un animale dall'aspetto curioso: il suo nome è axolotl. Esso assomiglia ad un girino gigante ma a differenza del girino, che è una rana immatura, e che quindi non può riprodursi, l'axolotl è in grado di farlo. Esso è cioè un essere immaturo nell'aspetto, ma adulto nelle funzioni.

    Questo strano animale è stato studiato in laboratorio e si è scoperto che, aggiungendo una minima quantità di iodio all'acqua in cui vive, esso si trasforma in salamandra. Lo iodio è il costituente essenziale dell'ormone che produce la metamorfosi: se manca lo iodio nei laghi in cui la salamandra depone le uova, i girini che nascono non riescono a diventare adulti e muoiono. L'axolotl invece è sia in grado di trasformarsi in salamandra se le acque in cui vive sono ricche di iodio, sia di rimanere allo stato embrionale e continuare a riprodursi sotto forma di girino, se le acque sono prive di iodio.

    Una mutazione improvvisa e fortuita deve aver determinato, in tempi molto lontani, la comparsa, su alcuni girini delle salamandre del Messico, degli organi sessuali maturi e quindi in grado di produrre spermatozoi e uova. Questi girini si sarebbero quindi trovati nelle condizioni di potersi riprodurre prima che si fosse compiuta la metamorfosi: in questo modo deve essere nato l'axolotl. Ma che cosa c'entra la strana mutazione dell'axolotl con la storia dell'evoluzione umana?

    L’attinenza invero esiste perché molti studiosi ritengono che anche l'uomo sia un prodotto neotenico. Anzi, non solo l'uomo, ma tutto il gruppo degli animali più evoluti, ossia i cordati, potrebbe essere il risultato di una mutazione neotenica avvenuta centinaia di milioni di anni fa. I cordati sono un tipo (o philum) di animali, a cui appartengono i vertebrati, provvisti di una corda cartilaginea dorsale che funge da organo propulsore e di sostegno. Ora, il fatto che non esista alcun invertebrato che assomigli ai cordati al punto da potersi candidare a suo antenato, esclude che i cordati possano essere derivati da una mutazione comparsa su qualche individuo adulto. Viceversa la larva del riccio di mare, un animale che con i cordati non ha nulla da spartire, assomiglia a tal punto a questo gruppo di animali che molti ritengono che i cordati si siano evoluti proprio a partire dalla struttura immatura del riccio di mare che, al pari dell'axolotl, in seguito ad una mutazione, si è trovata in condizioni di riprodursi in virtù della neotenia. 

    Anche gli uomini adulti, dicevamo, hanno molte caratteristiche neoteniche. Se si osserva il feto di un mammifero qualsiasi, ad esempio il maiale, si nota che la testa è molto sviluppata rispetto al resto del corpo: questa sproporzione si ridimensiona però successivamente nel corso dello sviluppo. Nel caso dell'uomo, invece, la riduzione del rapporto dimensioni della testa/dimensioni del corpo, è minore. La nostra testa, in altre parole, conserva dimensioni notevoli anche nell'età adulta, consentendo la produzione di una massa celebrale di grosse proporzioni.

    Ma questa non è l'unica caratteristica neotenica che ci portiamo addosso. Il corpo glabro, ad esempio, è una caratteristica embrionale dei mammiferi i quali, da adulti, hanno tutti il corpo ricoperto di peli. Anche la pelle sottile e delicata, le ossa fragili e i denti di piccole dimensioni dell'uomo adulto, devono essere considerate caratteristiche embrionali dei mammiferi.

 

6. ANDATURA BIPEDE E RAPPORTI FAMILIARI

    Ora, facendo riferimento all'andatura bipede, si è osservato che essa richiede un ingrandimento degli arti inferiori ed uno sviluppo notevole dei muscoli. Le gambe di un bambino però sono piccole e gracili: l'andatura bipede non dovrebbe quindi essere il risultato di una modificazione neotenica. Le modificazioni che non sono di natura neotenica sono da considerarsi non naturali e quindi di più difficile acquisizione.

    Abbiamo detto che la stazione eretta non è affatto una posizione naturale (e tanto meno comoda) come superficialmente si potrebbe credere: essa è una sfida alle leggi della gravità perché eleva il baricentro del corpo e lo colloca in una posizione di perenne instabilità. La stazione eretta richiede quindi, da parte dell'individuo che la possiede, una notevole spesa energetica per la ricerca continua della posizione di equilibrio. Inoltre essa implica anche una serie di rischi come ad esempio l'immobilità, o quasi, in caso di ferite o di fratture di un arto e una serie di disturbi, anche gravi, come lo schiacciamento delle vertebre, le sciatiche, le vene varicose, ecc. E allora quali sarebbero stati i benefici derivanti da questa mutazione in grado di compensare gli inconvenienti fisiologici che devono aver tormentato l'uomo primitivo e che affliggono ancora oggi l'uomo moderno?

    Il vero beneficio, secondo l'anatomista americano O. Lovejoy, già menzionato in precedenza, sarebbe rappresentato dalla possibilità di utilizzare gli arti superiori come strumenti di presa e di trasporto di oggetti di varia natura e nello stesso tempo di acquisire, grazie alla maggiore altezza, un migliore controllo del territorio. Lovejoy ha elaborato una teoria che spiegherebbe il migliore adattamento all'ambiente che la posizione eretta avrebbe rappresentato per i progenitori della specie umana quando questi si trovarono nella savana a dover competere con le scimmie più prolifiche.

    Si sa che gli organismi viventi hanno tanto più successo, nella lotta per la sopravvivenza, quanto più sono in grado di lasciare una discendenza: non si tratterebbe quindi di produrre gran numero di figli, quanto piuttosto di far in modo che ne rimanga in vita il maggior numero possibile di quelli nati e per il tempo necessario perché sia prodotta a sua volta altra prole. Ebbene l'uomo, a differenza di tutti gli altri mammiferi, e quindi anche delle scimmie, non ha l'estro. Con questo termine si indica quel periodo di fecondità in cui gli animali manifestano, attraverso segni esteriori evidenti, un desiderio irrefrenabile all'accoppiamento. Tutti hanno potuto osservare i cani e i gatti nel periodo dell'estro, cioè quando, come si usa dire, sono "in calore".

    L'estro è una garanzia di prolificità in quanto ogni accoppiamento che avvenisse nel periodo di tempo stabilito dalla natura si concluderebbe inevitabilmente con la fecondazione delle uova e quindi con la nascita di uno o più figli. Ma nell'uomo non è così: esso, come tutti sanno, può avere rapporti sessuali senza che questi portino necessariamente alla nascita di un figlio.

    Che cosa c'entra tutto ciò con la posizione eretta? Lovejoy immagina che fra gli Ominidi che abitavano la foresta alcuni acquisirono la posizione eretta attraverso una mutazione, dopo che furono costretti a discendere dagli alberi indotti, come vedremo meglio in seguito, da una necessità dettata da cambiamenti climatici. In questi individui, appena scesi a terra, la stazione eretta era presumibilmente molto malsicura, ma andò lentamente migliorando. A questa evoluzione contribuirono alcune mutazioni fra cui, secondo Lovejoy, la comparsa di un individuo privo dell'estro.

    La prima femmina senza l'estro non avrebbe dunque presentato quelle modificazioni di comportamento, tipiche degli animali "in calore", capaci di richiamare l'attenzione del maschio dominante il quale è colui che, all'interno del gruppo, feconda tutte le femmine. Questo comportamento è molto diffuso tra i mammiferi ed è la regola, ad esempio, fra i gorilla e i babbuini. Agli altri maschi del gruppo è in genere precluso l'accoppiamento, anche se, in realtà, ad alcuni di essi la cosa è consentita ma solo in periodi non fertili. Così è stato osservato ad esempio fra i babbuini.

    Il fatto di non possedere l'estro dovrebbe rappresentare uno svantaggio evolutivo: la teoria evoluzionistica insegna però che un carattere può apparire svantaggioso se considerato a sé stante, ma vantaggioso se valutato insieme ad altri con i quali interagisce. Immaginiamo allora che all'interno di un gruppo di pre-Ominidi che abitavano la foresta e che vivevano sugli alberi, ma che erano anche in grado di camminare al suolo in posizione eretta (o quasi), sia comparsa una femmina senza l'estro. Questa femmina avrebbe potuto accoppiarsi con un giovane del gruppo senza incontrare ostacoli da parte del maschio dominante in quanto quest'ultimo non si sarebbe accorto di lei proprio perché priva dell'estro. Da questi rapporti, apparentemente sterili, sarebbe potuta nascere una discendenza, e quindi altre femmine di quel tipo, cioè senza l'estro.

    Una femmina però che si fosse trovata sola a provvedere all'allevamento del piccolo, avrebbe incontrato enormi difficoltà e forse non ce l'avrebbe fatta a far sopravvivere il figlio e sé stessa. In precedenza, all'interno del gruppo, non vi erano stati di questi problemi, perché, come succede anche attualmente negli animali che vivono in comunità, tutti i componenti del gruppo erano chiamati a collaborare per l'interesse comune.

    A causa della situazione che si era venuta a creare dovette svilupparsi un nuovo tipo di rapporto fra i singoli componenti del gruppo; si dovette cioè instaurare, fra individui di sesso diverso, un legame personalizzato, di tipo monogamo, in cui il maschio, forse ricattato psicologicamente attraverso richiami affettivi sconosciuti in precedenza, si sarebbe legato ad un'unica femmina, e precisamente a quella dalla quale aveva avuto il figlio. Forse in questo modo è nato quello che chiamiamo "amore", cioè un rapporto di coppia stabile fondato su attrazioni di tipo diverso da quei comportamenti stereotipati riscontrabili negli animali che conducono vita comunitaria.

    In questa particolare situazione la stazione eretta sarebbe stata di grande utilità perché avrebbe consentito al maschio, mentre la femmina accudiva ai piccoli, di andare in cerca di cibo e di portarlo, usando gli arti superiori, ai propri figli e alla loro madre. La liberazione delle mani dalla schiavitù della locomozione avrebbe consentito il trasporto del cibo e pertanto il bipedismo e la stazione eretta si sarebbero rivelati, alla fine, un vantaggio nella lotta per l'esistenza, perché avrebbero consentito il perfezionamento delle cure parentali e quindi in definitiva una migliore garanzia di sopravvivenza.

 

7. LO SVILUPPO DEL CERVELLO

    Lo sviluppo del cervello umano o, per meglio dire, un così alto rapporto ponderale fra massa celebrale e massa corporea, è un fatto di secondaria importanza e di più facile acquisizione rispetto alla posizione eretta in quanto, come abbiamo detto, legato alla neotenia. Il cervello dell'uomo è di notevoli dimensioni solo se rapportato a quel­le corporee. Il cervello dell'elefante, ad esempio, è indubbiamente più grande del nostro, ma anche il peso dell'animale è notevole, pertanto, fatti i conti, il rapporto peso del cervello/peso del corpo, anche in questo caso, è decisamente a favore dell'uomo.

    Il cervello serve per controllare e coordinare i movimenti dei vari organi. Esistono, sparsi qua e là sul corpo degli animali dei recettori, i quali captano segnali dal mondo esterno e li inviano al cervello: questo, a sua volta, dopo averli analizzati, predispone le risposte adeguate da trasmettere ai muscoli e alle ghiandole sistemate nelle diverse parti del corpo. Il cervello dell'uomo non solo è in quantità sufficiente per adempiere a queste funzioni, ma ne rimane ancora dell'altro per realizzare altre attività quali, ad esempio, quelle connesse con il pensiero logico o con la sfera affettiva e psichica.

    La maggiore potenzialità del cervello dell'uomo non sta tuttavia soltanto nella quantità (la massa celebrale dell'uomo è più che doppia, ad esempio, di quella delle scimmie antropomorfe), ma anche nella qualità. Il cervello dell'uomo si presenta, cioè, maggiormente sviluppato soprattutto in alcune zone come in corrispondenza dei lobi temporali che sono la parte che  controlla la parola e dei lobi frontali che sono la sede del pensiero logico.

    Questo sviluppo sbilanciato del cervello ha permesso all'uomo di comunicare con i suoi simili, ma soprattutto di pianificare il futuro. L'uomo, infatti, è l'unico animale in grado di prevedere a quali conseguenze porterà una determinata azione. Ciò rende attuabile una programmazione, cioè la possibilità, ad esempio, di costruire strumenti di non immediato impiego, ma che potrebbero risultare utili in futuro. Il linguaggio articolato deve avere allora rappresentato lo strumento fondamentale per tale attività in quanto avrebbe consentito di coordinare i progetti insieme con gli altri componenti del gruppo.

 

8. IL REGIME ALIMENTARE

    L'uomo si distingue infine dalle scimmie antropomorfe, cioè dagli animali che più gli assomigliano, anche per il regime alimentare. Mentre le scimmie si nutrono di frutti, foglie e bacche, l'uomo mangia anche la carne. Il regime alimentare è legato strettamente alle caratteristiche dell'apparato digerente e in particolare ai denti. I denti dell'uomo sono tutti più o meno della stessa grandezza e disposti su un'arcata dentaria di forma parabolica. I denti delle scimmie antropomorfe sono invece di dimensioni maggiori (soprattutto i canini) e l'arcata dentaria ha la forma di una U, cioè con canini, premolari e molari disposti su due file parallele. Nelle scimmie antropomorfe, inoltre, è ancora presente il diastema, uno spazio fra incisivi e canini che consente l'incastro delle arcate dentarie. Nell'uomo questo spazio non esiste proprio perché i denti, e soprattutto i canini, si sono ridotti di dimensioni.

    Se ora andiamo a vedere le caratteristiche dei denti degli Ominidi del passato notiamo che negli Australopiteci il diastema si è a mano a mano ridotto senza mai scomparire completamente, mentre nessun Ominide del genere Homo presenta il diastema. Ciò testimonia del fatto che i nostri antenati diretti avevano un regime alimentare più vario rispetto a quello degli Australopiteci, con i quali, per lungo tempo, hanno convissuto.

    I denti, tuttavia, oltre che per mangiare, servono anche come difesa; se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per combattere, essi si sarebbero trovati privi di un valido aiuto per la difesa e molto probabilmente si sarebbero estinti.

 

9. L'EVOLUZIONE DEGLI OMINIDI

    Ritorniamo ora all'evoluzione degli Ominidi. L'Ominide più antico che sia stato fino ad oggi rinvenuto fossile è l'Australopithecus afarensis: esso comparve quasi 4 milioni di anni fa e i suoi resti ci consentono di ricostruirne l'aspetto.

    L'Australopithecus afarensis era un individuo di bassa statura, tarchiato e con un marcato dimorfismo sessuale: le femmine, cioè, erano molto più piccole dei maschi. Nella specie umana la differenza di statura fra maschi e femmine non è così evidente, mentre essa è ancora riscontrabile nei gorilla. Non è questo tuttavia l'unico carattere di tipo scimmiesco presente in questo antico Ominide: la faccia aveva un muso prominente, proprio degli animali, e il cervello (400 cc) non era più grande di quello di un attuale scimpanzé. La posizione del corpo era invece decisamente eretta. E' innegabile, pertanto, che l'Australopiteco dell'Afar avesse un corpo da uomo e una testa da scimmia, ma in realtà esso era diverso sia dall'uomo moderno sia dalle attuali scimmie antropomorfe.

    La dentatura di questi Ominidi presenta il diastema, come si nota attualmente nelle scimmie antropomorfe, mentre i molari, al contrario di quello che si riscontra nelle scimmie più evolute, si presentano più voluminosi dei denti anteriori (incisivi e canini). Questa osservazione fa ritenere che l'alimentazione degli Australopiteci dell'Afar fosse costituita da prodotti duri, come ad esempio noci e granaglie, che necessitano di essere masticati a lungo prima di venire deglutiti. Ecco dunque un'ulteriore prova che l'Australopiteco non viveva più nella foresta, dove vivono tuttora scimpanzé e gorilla e dove si mangiano frutti e vegetali molli, ma nella savana dove si trovano alimenti più duri.

    Il motivo per il quale l'uomo primitivo si sarebbe allontanato dalla foresta per andare ad abitare nella savana oggi viene spiegato facendo ricorso ad una serie di eventi naturali che si sarebbero verificati fra la fine del Miocene e l'inizio del Pliocene, cioè all'incirca fra i 6 e i 4 milioni di anni or sono. Gli eventi di cui si parla sarebbero a loro volta la conseguenza di un fenomeno geologico di più vaste proporzioni che ha coinvolto tutta la superficie terrestre e che prende il nome di "deriva dei continenti".

    Duecento milioni di anni fa, all'inizio del Mesozoico, le terre emerse erano riunite tutte insieme in un unico continente che i geologi chiamano Pangea. La Pangea successivamente si spezzò in due blocchi, uno a nord detto "continente di Laurasia" ed uno a sud detto "continente di Gondwana". Fra i due blocchi continentali si insinuò un mare di enormi dimensioni chiamato Tetide o mare mesogeo. Successivamente anche i due grandi continenti si smembrarono a loro volta in "zolle" più piccole che andarono alla deriva, viaggiando sul mantello fluido sottostante. Questi blocchi continentali vennero poi a collidere fra loro (e ancora oggi lo fanno), provocando fenomeni sismici e vulcanici oltre all'accavallamento dei loro bordi con formazione di catene montuose. In conseguenza di questi scontri, alcune zolle si fratturarono ulteriormente.

    Nel suo lento e persistente movimento verso nord la "zolla africana" finì per andare a scontrarsi con quella europea. A seguito dell'urto, si chiuse il grande oceano primordiale della Tetide, lasciando delle piccole cicatrici rappresentate dal Mediterraneo, dal mar Nero e dal Caspio. Successivamente il Mediterraneo si prosciugò, molto probabilmente a causa di una forte evaporazione e della contemporanea provvisoria chiusura dello stretto di Gibilterra, che impedì il rifornimento delle acque atlantiche. La zona del bacino del Mediterraneo si trasformò quindi in un grande deserto, interrotto qua e là da laghi salati, e il clima di tutta la regione si modificò radicalmente. Dall'Europa del nord, fino all'Africa settentrionale, il clima si fece più freddo e soprattutto molto più asciutto. A quel punto, la foresta equatoriale, che in precedenza si estendeva su di un vastissimo territorio, cominciò ad arretrare lasciando lo spazio alla formazione di immense savane.

    Anche l'Africa orientale, che nel frattempo si era staccata dal resto del continente, per il formarsi di una profonda frattura tettonica chiamata Rift Valley, si sollevò e cambiò decisamente il suo clima. Le piante e gli animali che non riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni ambientali scomparvero mentre altri organismi, provenienti da zone limitrofe, vi trovarono un habitat adatto al loro stile di vita. La fauna e la flora in quella zona si modificarono quindi profonda­mente.

    Da quelle parti vivevano anche i nostri più lontani antenati che nel frattempo la faglia del Rift aveva separato in due gruppi: quelli che rimasero ad ovest, dove persistette l'ambiente di foresta equatoriale, si sarebbero poi differenziati nelle attuali scimmie antropomorfe, mentre quelli che si trovarono ad est, in ambiente di savana, dettero origine agli Australopiteci, cioè a quel gruppo di organismi che si sarebbe separato definitivamente dal mondo animale. Questa ipotesi è stata chiamata scherzosamente dal paleoantropologo francese Yves Coppens "East Side Story" (La storia del lato est). Secondo Coppens quindi non fu l'Ominide ad uscire dalla foresta per dirigersi verso la savana, ma fu piuttosto la foresta stessa a scomparire sotto i suoi piedi.

    Il caso dell'Africa orientale che abbiamo appena descritto è un esempio istruttivo di quello che in biologia si chiama "speciazione", cioè la comparsa di nuove specie. Le nuove specie, come abbiamo detto, sono prodotte dalle mutazioni e tuttavia queste da sole non sono sufficienti: anche la pressione ambientale svolge un suo ruolo importante. Se le mutazioni avvengono in un ambiente che rimane sempre lo stesso, queste mutazioni non avranno seguito risultando o insignificanti o addirittura letali e quindi lasceranno gli organismi, nel loro insieme, così come sono sempre stati. Diversa sarebbe invece la situazione di un organismo che si trovasse a vivere in un ambiente nuovo: in tal caso la mutazione potrebbe acquisire un significato positivo e perdurante.

    Le scimmie Platirrine del Nuovo Mondo, ad esempio, ben adattate a vivere sugli alberi, non hanno cambiato forma da milioni di anni, nonostante il verificarsi di innumerevoli mutazioni che tuttavia l'ambiente ha regolarmente cancellato perché si dimostravano inadatte in un territorio che rimaneva sempre lo stesso. I pre-Ominidi invece, che si sono trovati a vivere nella savana, cioè in un ambiente completamente diverso da quello in cui vivevano prima, hanno subìto mutazioni riguardanti la postura, lo sviluppo delle masse muscolari, la forma e le dimensioni dei denti e delle mascelle, che si sono rivelate altrettanti caratteri di fondamentale importanza per il nuovo ambiente.

 

10. GLI ALTRI AUSTRALOPITECI

    L'Australopithecus afarensis non è l'unica specie di australopiteco che sia stata rinvenuta fossile. Un altro esemplare dello stesso genere, ma un po' più evoluto, venne ritrovato in Sud Africa ancora nel lontano 1924.

    Nella località di Taung (il posto di Tau, il Leone) al confine sudoccidentale del Transvaal, nella primavera del 1924, alcuni cavapietre estrassero dalle rocce un cranio, in buono stato di conservazione, che fu consegnato al direttore della miniera il quale, ignorandone il valore scientifico, lo usò come fermacarte fino a quando una giovane studentessa, che lo aveva notato, non consigliò il dirigente di portarlo ad un professore di anatomia dell'Università di Johannesburg, certo Raymond Arthur Dart.

    Questi osservò che il cranio presentava alcune caratteristiche tipicamente umane come i denti piuttosto piccoli e la posizione del foro occipitale spostata in avanti, mentre altre particolarità, come le ossa facciali e le ridotte dimensioni del cervello, erano specifiche delle scimmie. Dart notò anche la presenza di molti denti di latte la quale faceva ritenere che il cranio doveva essere appartenuto ad un individuo molto giovane, forse un bambino di 5 o 6 anni. Data la giovane età, al fossile venne assegnato il nome provvisorio di "Taung Baby" (Bambino di Taung), e con tale nome ancora oggi è noto.

    Le caratteristiche tipicamente umane del cranio erano rappresentate, come abbiamo detto, dalla forma della mandibola e dai denti (in particolare i canini) di dimensioni piuttosto ridotte e dalla assenza del diastema. Inoltre il foro occipitale era posizionato in modo tale da consentire la stazione eretta.

    Dart si convinse di trovarsi di fronte ad un cranio che, anche se presentava ancora alcune caratteristiche di tipo scimmiesco, doveva essere appartenuto ad un antenato diretto dell'uomo. Tuttavia egli non ebbe il coraggio di chiamare quell'individuo "uomo" e, tradendo le sue origini australiane, gli assegnò il nome scientifico di "Australopithecus africanus" che vuol dire scimmia del Sud che viene dall'Africa. Fu quindi Dart a coniare per primo il nome di Australopiteco per designare questo particolare genere di quasi-uomini e, poco tempo dopo, la descrizione particolareggiata delle caratteristiche del reperto apparve in un famoso articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, nel 1925.

    Dart però a causa di quell'articolo venne emarginato dalla comunità scientifica, perché in esso aveva osato affermare che l'uomo avesse degli antenati africani, ma il motivo di tanta avversione verso la nuova scoperta era dovuto anche al fatto che i paleoantropologi, soprattutto quelli inglesi, erano condizionati dal rinvenimento di un cranio fossi­le avvenuto alcuni anni prima in Inghilterra.

    Nel 1912 un giovane archeologo dilettante annunciò di aver rinvenuto a Piltdown, una località a pochi kilometri da Londra, in sedimenti ben consolidati e profondi (quindi non molto recenti), insieme ad ossa di mammiferi estinti, parecchi frammenti di un cranio dalle sembianze umane e una mandibola, spezzata un più parti, di tipo scimmiesco. Sembrava si trattasse proprio di quell'"anello mancante" della specie umana che alcuni scienziati cercavano da tempo e che mai era venuto alla luce. In realtà ci si trovava di fronte ad un'abile mistificazione. 

    Molti paleontologi di chiara fama si lasciarono ingannare da uno scherzo ben organizzato, perché fu loro presentato proprio ciò che essi si aspettavano di trovare. Altri paleontologi, meno ossessionati dal l'idea dell'"anello mancante", si dimostrarono scettici, ma non riuscirono a provare che si era in presenza di un imbroglio perché l'Uomo di Piltdown venne subito posto sotto chiave nel museo di storia naturale di Londra, dove rimase fino al 1953. Solo in quella data fu finalmente possibile sottoporre il reperto ad un esame accurato che dimo­strò, senza ombra di dubbio, che né la mandibola, né il cranio erano molto antichi. L'età del reperto fu controllata con il metodo di datazione al fluoro, che mise in luce che cranio e mandibola non erano contemporanei. Successivamente fu accertato che in effetti si trattava di una mandibola di un orangutan moderno e di un cranio che era appartenuto ad un individuo umano vissuto fra il 1200 e il 1300. Inoltre, al mi­croscopio, fu anche possibile osservare i segni della lima che aveva ridotto i denti per imitarne l'usura nonché la contraffazione del colore che era stato usato per far sembrare fossili delle ossa che fossili non erano. 

    Ritornando ora al ritrovamento sudafricano del Bambino di Taung, Dart, che conosceva bene il fatto suo, sapeva perfettamente che, da piccoli, scimpanzé e uomo si assomigliano molto di più che da adulti. Tuttavia le dimensioni del cranio fossile, anche tenuto conto della giovane età, erano tali da non poter essere ritenute quelle di un uomo, ma d'altra parte non potevano essere nemmeno quelle di una scimmia antropomorfa, anche perché le scimmie antropomorfe vivono tutte nella foresta tropicale e questo tipo di foresta, da milioni di anni, non era più presente in Sud Africa.

    Quando Dart portò il suo reperto a Londra e si rese conto che la comunità scientifica del luogo aveva accolto con molta freddezza la sua scoperta, avvilito, pensò di ritornare ad insegnare anatomia all'Università. Fu allora che un certo Robert Broom, un medico con la passione per l'antropologia, riuscì a convincerlo a non abbandonare la lotta e a continuare con lui la ricerca di fossili umani. I due collaborarono per una ventina d'anni e portarono alla luce numerosi resti fossili del genere Australopithecus.

    I luoghi sudafricani che fornirono materiale sufficiente per stabilire definitivamente la natura ominide dell'Australopiteco furono Sterkfontein, Makapansgat, Swartkrans e Krom-draai. Da qui uscirono non solo molti fossili ascrivibili al genere Australopithecus africanus, ma anche una forma di Australopiteco alquanto diversa a cui fu assegnato il nome di Australopithecus robustus.

    Negli anni successivi alle scoperte di Dart e Broom furono portati alla luce resti di Australopiteci anche in Africa Orientale dove operavano i coniugi Leakey. Il primo reperto del genere fu individuato in una località della Tanzania detta "gola di Olduvai", nel 1959, da Mary, la moglie di Louis Leakey, in una giornata in cui il marito non era potuto uscire perché costretto a letto dalla malaria. Quando Louis vide il reperto capì subito che si trattava di un Australopiteco, ma volle lo stesso assegnargli un nome proprio ed esclusivo e lo chiamò Zinjanthropus boisei, cioè "uomo di Zinj", da una parola araba con la quale veniva indicata l'Africa Orientale, mentre il nome specifico si riferiva a Charles Boise il finanziere londinese di origine americana che sovvenzionava le sue ricerche. L'età del fossile venne stimata con il metodo potassio-argo e fissata intorno al milione e ottocentomila anni.

    Il nome di Zinyantropo, assegnato da Leakey al reperto, durò poco perché gli antropologi, notando una forte somiglianza con gli Australopiteci robusti del Sud Africa, lo ribattezzarono Australopithecus boisei. Successivamente vennero ritrovati, nei pressi del lago Natron in Tanzania, e anche poco più a nord nella valle dell'Omo, al limite settentrionale del lago Turkana (ex lago Rodolfo), altre mandibole e crani dello stesso tipo.

    Gli Australopiteci risultavano quindi presenti sia in Africa meridionale, sia in Africa orientale, ma solo con il tipo robusto, mentre dell'Australopithecus africanus non sono mai stati rinvenuti dei fossili fuori della zona dell'Africa del Sud. 

    Dart oggi viene considerato l'iniziatore della paleoantropologia moderna in quanto con lui questa disciplina si indirizzò su rigorose basi scientifiche. Dopo i ritrovamenti del Sud Africa e dell'Africa Orientale, gli studi si incentrarono soprattutto sull'approfondimento delle conoscenze degli Australopiteci, e Dart ebbe la fortuna di vivere per intero questo avvincente periodo della ricerca paleoantropologica: egli morì, infatti, nel 1988 all'età di novantacinque anni.

 

11. IL COMPORTAMENTO DEGLI AUSTRALOPITECI

    La cosa strana è che i siti sudafricani in cui vennero trovati i resti degli Australopiteci erano sempre anche pieni di ossa di vari altri animali fra cui antilopi, cercopiteci, leopardi, iene, tartarughe, coccodrilli, ecc. Come si spiega questa concentrazione di ossa? Gli Australopiteci erano predatori di altri animali o erano essi stessi prede di animali feroci? Una risposta certa non è stata ancora data però si propende per la seconda ipotesi.

    Erano stati osservati, su un cranio di australopiteco, due fori piccoli e rotondi, distanti fra loro circa due centimetri e mezzo che sembravano lasciati dai denti di animali predatori: anziché avanzare ipotesi un esperto geologo del luogo si mise a misurare la distanza fra i canini di un certo numero di predatori presenti in Sud Africa a quel tempo.  Egli poté così constatare che i fori lasciati sul cranio dell'Australopiteco si adattavano esattamente alla distanza tra i canini del leopardo fossile.

    Si sa che i leopardi hanno l’abitudine di trascinare sugli alberi le loro prede per poterle divorare, con tranquillità, fuori dalla portata dei mangiatori di carogne. Da qui, mentre l'animale viene sbranato, le ossa cadono a terra. Ora, poiché i terreni sudafricani in cui vennero ritrovati i fossili di Australopiteco sono tutti terreni carsici, cioè terreni in cui i grossi alberi crescono proprio in corrispondenza di spaccature del suolo che conducono a caverne profonde in cui ristagna dell'acqua, non è da escludere che le ossa delle prede, cadute dall'albero, possano essersi infilate nelle fessure del terreno per accumularsi nelle caverne sottostanti, proprio dove oggi è possibile trovare i fossili in abbondanza.

    L'Australopithecus africanus comparve circa 3 milioni di anni fa e si estinse circa 2 milioni di anni fa. La valutazione di un milione di anni che Dart dette al suo reperto oggi viene considerata una datazione per difetto, mentre a quel tempo si stentava a credere che un milione di anni fa potesse già essere presente un individuo con caratteristiche umane.

    L'Australopithecus africanus era simile al suo predecessore, l'Australopithecus afarensis: era alto un metro e venti, e pesava una trentina di kilogrammi ma maschi e femmine, pur avendo ancora dimensioni fra loro diverse, non presentavano più un dimorfismo sessuale così marcato come quello che si era riscontrato nell'afarensis. La testa inoltre mostrava più caratteri umani che scimmieschi e quindi doveva trattarsi di un Ominide più evoluto verso il genere umano che verso le scimmie. Si era anche potuto osservare che la disposizione dell'insieme dei denti era a parabola, come nell'uomo, e non a forma di U come nelle scimmie antropomorfe, e la grandezza dei molari era tale da far pensare che questo individuo fosse vissuto nella savana dove il nutrimento è costituito prevalentemente da noci e granaglie dure. Infine il volume della scatola cranica era di circa 450 cc.

    L'Australopiteco africano si estinse, come abbiamo detto, due milioni di anni fa forse perché battuto dalla concorrenza con i babuini che abitavano insieme a lui la savana e che sfruttavano le sue stesse risorse alimentari, o forse a seguito di una profonda modificazione del clima che rese quei luoghi più asciutti e di conseguenza più poveri di cibo.

    Abbiamo la prova che poco più di due milioni di anni fa il clima in Africa si fece generalmente più asciutto e questo nuovo habitat dovette favorire lo sviluppo di forme di Australopiteci di dimensioni maggiori e adatte ad una dieta più grossolana. E in effetti, come abbiamo visto, in diverse località dell'Africa meridionale ed orientale, vennero ritrovati fossili di Australopiteci più robusti e più grandi dell'Australopithecus africanus. Ad essi, come si ricorderà, fu dato il nome rispettivamente di Australopithecus robustus e Australopithecus boisei.

    Queste erano due specie di Australopiteci molto adatte alle condizioni di vita della savana arida e povera di risorse alimentari in quanto, oltre ad essere più massicce dei predecessori, presentavano anche dei muscoli masticatori molto potenti tanto da richiedere un supporto supplementare per attaccarsi al cranio. La volta cranica dell'australopiteco di Boise presenta infatti, sulla sommità, una strana cresta che viene interpretata come un sostegno per l'attacco dei muscoli masticatori. Questa caratteristica indusse i coniugi Leakey a pensare che l'Australopithecus boisei fosse in grado di triturare e schiacciare con forza alimenti molto duri, e per tale motivo gli fu attribuito il soprannome di "Schiaccianoci". Questi Ominidi in realtà si erano adattati ad un regime ipervegetariano che li costringeva ad una masticazione prolungata di grandi quantità di alimenti poco nutritivi; essi, in altre parole, erano costretti a supplire alla carenza energetica con una dieta molto abbondante che richiedeva un sistema masticatorio sviluppatissimo.

    Ricapitolando, abbiamo visto che l'Australopithecus robustus abitò l'Africa del Sud, mentre il boisei visse nell'Africa dell'Est: entrambi si estinsero circa un milione di anni fa, ma vissero, fin dalla loro comparsa, insieme ad un altro Ominide, e precisamente a quello che è considerato il vero nostro diretto antenato: l'Homo habilis.

 

12. LE LINEE EVOLUTIVE DEI PRIMATI

    A questo punto, prima di parlare del genere Homo, dobbiamo analizzare brevemente l'evoluzione di quelle che sono state le specie ancestrali degli Ominidi, ossia le specie animali che precedettero gli Australopiteci.

    L'uomo, come sappiamo, appartiene all'ordine dei Primati, cioè a quel gruppo di animali al quale appartengono anche le scimmie. L'origine di questi animali può essere fatta risalire alla fine del Mesozoico, circa 70 milioni di anni fa.

    A quel tempo l'Europa e l'America settentrionale erano ancora unite nel supercontinente di Laurasia e lungo la fascia equatoriale che lo attraversava si andavano formando estese foreste di Angiosperme, le piante con i fiori. Queste vennero invase, com'era prevedibile, da un gran numero di insetti che scoprirono nell'albero con i fiori una nicchia ecologica molto favorevole per l'abbondanza di cibo disponibile. Su quegli stessi alberi trovarono successivamente il loro habitat naturale gli Insettivori che in precedenza vivevano a terra. Questi, a loro volta, si adattarono gradualmente al nuovo ambiente sviluppando zampe prensili e una notevole agilità trasformandosi in Proscimmie le quali pertanto ebbero origine nei continenti del nord e non a sud, dove si spostarono solo successivamente, quando cioè l'aspetto geografico delle terre emerse cambiò assetto.

    Nel Montana, su una collina chiamata dai paleontologi Purgatory Hill, per le difficoltà che si incontrano nel lavoro di ricerca e di estrazione dei fossili, furono rinvenuti alcuni denti e dei frammenti di piccole mandibole riferibili ad un animale poco più grande di uno scoiattolo, che potrebbe rappresentare il progenitore di tutti i Primati viventi. Per estrarre quei pochi frammenti fossili fu necessario setacciare decine di metri cubi di terreno: da qui il nome di Collina Purgatorio assegnato a quel luogo.

    Questo antico Primate, a cui è stato dato il nome per nulla originale di Purgatorius, visse alla fine del Cretaceo, quando non si erano ancora del tutto estinti i dinosauri. Esso assomiglierebbe ad una specie arboricola tuttora vivente nell'Asia meridionale: la Tupaia, ovvero un animale che un tempo veniva classificato fra gli Insettivori (insieme al riccio e alla talpa), ma che oggi viene ritenuto più simile alle Proscimmie.

    Durante l'era geologica successiva, la Cenozoica, i Primati si sono rapidamente diversificati, ma la loro storia evolutiva è stata ricostruita a fatica in quanto i resti fossili di questi animali sono molto scarsi. La carenza di fossili di Primati dipende dal fatto che si tratta di animali arboricoli che vivevano nella foresta, cioè in un luogo che non si presta per nulla alla fossilizzazione in quanto i cadaveri vengono rapidamente distrutti sia fisicamente perché mangiati da altri animali, sia in seguito a trasformazioni chimiche che dissolvono le ossa prima che queste possano trasformarsi in fossili. 

    Quello della fossilizzazione è un fenomeno che richiede particolari condizioni ambientali per potersi realizzare. Le condizioni ideali sono rappresentate dalla morte dell'animale in prossimità di un vulcano che provveda alla sua copertura sotto una pioggia di polveri e ceneri, oppure sulla riva di un lago dove il cadavere ancora fresco possa venire ricoperto di melma o infine all'interno di una caverna umida che un crollo improvviso sigilli definitivamente.

    Le carni dell'animale, appena morto, vengono ben presto divorate da piccoli animaletti che vivono nel terreno umido senza però che le ossa subiscano alterazioni; a questo punto, la parte non minerale dell'osso, cioè il collagene proteico, subisce un processo di trasformazione chimica e viene dilavata dalle acque circolanti. L'osso diventa quindi poroso e fragile e può essere distrutto facilmente, cosa che in effetti avviene nella maggioranza dei casi.

    Se l'osso supera questo momento critico e se le acque circolanti sono ricche di sali e il loro pH non è né troppo acido né troppo basico, i sali precipitano negli interstizi dell'osso e quando tutti i pori sono stati riempiti esso è pietrificato ed è diventato un fossile. Le ossa fossili non sono quindi ossa, ma pietre.

    Nonostante i pochi reperti a disposizione, i paleontologi sono riusciti ugualmente a ricostruire l'evoluzione delle Proscimmie attraverso alcuni fossili, attribuibili ad animali non più grandi di un gatto, rinvenuti sia in America sia in Europa. In particolare alcuni di questi animali, classificati come appartenenti al genere Adapis, vissero nell'Europa centrale, una cinquantina di milioni di anni fa. Si tratterebbe di piccoli Primati arboricoli che si presume siano stati i progenitori dei Lemuridi, una famiglia di Proscimmie che attualmente vive in Madagascar.

    Circa 40 milioni di anni fa le Proscimmie conobbero un declino improvviso prodotto, presumibilmente, da una graduale riduzione dell'ambiente forestale, ma forse anche dalla concorrenza di altri Primati caratterizzati da un maggiore sviluppo cerebrale e da modificazioni strutturali delle estremità degli arti.

    Questi nuovi animali erano i progenitori delle scimmie Platirrine, dette anche scimmie del Nuovo Mondo, la cui storia evolutiva è ferma praticamente al Miocene, cioè all'epoca in cui furono rinvenuti reperti del tutto simili alle specie viventi. Si tratta di scimmie dotate di lunga coda prensile e narici divaricate (da cui la denominazione di Platirrine).

    Le scimmie Catarrine (cioè dal setto nasale stretto), dette anche scimmie del Vecchio Mondo, ebbero origine in Asia (se si vuol dar credito ad alcuni fossili raccolti in Birmania), una quarantina di milioni di anni fa, ma ben presto si trasferirono in Africa dove vivono tuttora. Durante l'Oligocene, cioè all'incirca 30-35 milioni di anni fa, questo genere di scimmie già abitava sicuramente l'Africa settentrionale perché là si trova la località che ha fornito il più alto numero di fossili di scimmie Catarrine: si tratta della regione di El Fayum, in Egitto.

    Il ritrovamento più importante dal punto di vista evolutivo, effettuato in quella regione, si riferisce ad un fossile cui è stato dato il nome di Aegyptopithecus: si tratta di un cranio quasi completo di una scimmia arcaica vissuta una trentina di milioni di anni fa che, secondo alcuni paleontologi, rappresenterebbe il progenitore sia delle scimmie antropomorfe moderne sia dell'uomo. 

    Da questo antico progenitore sarebbe discesa una gamma piuttosto ampia e varia di scimmie primitive che oggi vengono classificate tutte quante con il nome generico di Driopitecine ("scimmie delle querce") e il cui primo esemplare venne rinvenuto da Louis e Mary Leakey nel 1948 su di un'isoletta del lago Vittoria in Kenia. Del gruppo delle Driopitecine farebbe parte anche il famosissimo Proconsul.

    Il Proconsul, il cui nome significa "prima di Consul", con riferimento ad uno scimpanzé di nome Consul che viveva nello zoo di Londra, è il più antico documento fossile di un primate sprovvisto di coda e viene ritenuto l'antenato diretto delle attuali scimmie antropomorfe africane (scimpanzé e gorilla) e dell'uomo. Ad esso fu assegnata un'età compresa fra i 22 e i 12 milioni di anni.

    Su di un'altra linea evolutiva si troverebbero invece i tanto discussi Ramapiteci. Si tratterebbe in questo caso di diverse specie di scimmie arcaiche, di piccole dimensioni, che molto probabilmente avevano già raggiunto la stazione eretta, o quasi, e il cui primo rappresentate fossile fu trovato nel 1934 sui monti Siwalik in Asia (ai piedi dell'Hi­malaya), da un geologo indiano di nome Vinajak Rao. Il nome di Ramapit­hecus, che deriva dalla divinità indiana Rama e dalla parola greca "pithecos" che significa scimmia, gli venne però assegnato da uno stu­dente dell'Università di Yale, tale G. E. Lewis. Altri esemplari simili al Ramapithecus, a cui fu assegnato il nome di Sivapithecus (ma forse si tratta di Ramapitecine femmine), furono successivamente rinvenuti in Europa e in Africa.     

    Il Ramapiteco, più di ogni altro, ha alimentato le polemiche sull'origine degli Ominidi. All'inizio furono rinvenuti fossili solo dei denti e alcuni frammenti del cranio e della mandibola e sulla base di questi scarsi reperti furono calcolate approssimativamente le dimensioni del corpo. Si venne quindi alla conclusione che dovesse trattarsi di un animale non più alto di un metro che viveva sugli alberi, ma che forse si trovava a suo agio anche a terra perché i denti rivelavano la presenza di una dieta fatta anche di alimenti duri come potrebbero essere le granaglie, che, per l'appunto, si raccolgono a terra. Basandosi sul­la forma arrotondata dell'arcata dentaria di tipo "umano", in un primo tempo venne ritenuto il vero progenitore dell'uomo, ma oggi si propende per un'altra tesi. 

 

13. UMANI ALL'UNO PER CENTO

    Studi recenti, condotti sulle proteine e sugli acidi nucleici, hanno dimostrato che lo scimpanzé e il gorilla assomigliano molto di più all'uomo che all'orangutan o al gibbone.  Questa scoperta ha sconvolto quella che era la tradizionale suddivisione degli Ominidi attuali in due famiglie: da una parte l'uomo (unica specie del genere Homo sopravvissuta alla selezione naturale) e dall'altra le scimmie antro­pomorfe (scimpanzé, gorilla, orangutan e gibbone). Tale schema si fer­mava in realtà alla semplice analogia morfologica d'insieme, cioè all'aspetto esteriore, mentre oggi è possibile compiere studi molto appro­fonditi sulle molecole organiche che sono alla base delle differenze anatomiche degli organismi viventi e quindi procedere ad una classifi­cazione di questi più rigorosa e dettagliata.

   I lavori di biologia molecolare iniziarono già nel 1967, quando due giovani biochimici di nome Vincent Sarich e Allan Wilson dell'Università di Berkeley in California, avendo confrontato le proteine presenti nel sangue delle scimmie antropomorfe con quelle dell'uomo, conclusero che gorilla, scimpanzé e uomo erano molto simili fra loro, mentre si notavano differenze più marcate con orangutan e gibbone. Essi, inoltre, sulla base delle loro misurazioni, riuscirono anche a stabilire che l'uomo si sarebbe staccato dagli altri primati soltanto cinque milioni di anni fa. Pertanto, stando agli studi dei due scienziati americani, l'uomo e le due scimmie antropomorfe africane avrebbero dovuto avere ancora un progenitore in comune in tempi molto recenti. Per i paleontologi, questa affermazione era un assurdo perché tutte le testimonianze fossili e geologiche indicavano che la separazione fra le due linee evolutive era avvenuta una ventina di milioni di anni fa, e non solo cinque come asserivano Sarich e Wilson.

    Il lavoro dei due ricercatori americani si basava su di una premessa molto semplice e cioè sul fatto che le differenze riscontrabili all'interno di una determinata molecola proteica, presente in organismi di specie diverse, avrebbero dovuto essere tanto maggiori quanto più lontano fosse stato il tempo del distacco di una specie dall'altra. E questo perché i cambiamenti sulle proteine, dovuti alle mutazioni del patrimonio genetico, si dovrebbero accumulare nel tempo ad un ritmo costante.

    Ma come si sarebbe potuto determinare con precisione il momento del distacco fra due specie diverse? Più precisamente, come hanno fatto Sarich e Wilson a stabilire che le scimmie antropomorfe africane si sono separate dall'uomo solo 5 milioni di anni fa?

    Il suggerimento sul modo di procedere venne da Linus Pauling, uno dei più grandi scienziati del nostro secolo vincitore di due premi Nobel (il primo nel 1954 per la chimica e il secondo nel 1962 per la pace) e morto di recente all'età di novantatré anni. Egli iniziò la sua lunga carriera scientifica come fisico atomico ma poi si occupò di svariati argomenti e alla fine anche di biochimica, interessandosi in particolare all'emoglobina e alle proteine del sangue. Insieme al biochimico Emile Zuckerkandl studiò le correlazioni esistenti fra DNA e strutture proteiche e intuì che il DNA avrebbe potuto costituire una specie di orologio molecolare in quanto le mutazioni che si verificano su di esso, essendo eventi casuali (come quelli che avvengono nelle sostanze radioattive), avrebbero dovuto accumularsi con regolarità.

    Nelle sostanze radioattive gli atomi si trasformano ad un ritmo costante in atomi non radioattivi, ed una volta nota la velocità di decadimento, che viene normalmente espressa attraverso il cosiddetto "periodo di dimezzamento" (o di semitrasformazione), è possibile stimare il trascorrere del tempo misurando la quantità di sostanza radioattiva residua in un determinato campione.

    Il potassio-40, ad esempio, ha un periodo di semitrasformazione di 1,3 miliardi di anni e ciò significa che di una certa quantità di questo particolare isotopo del potassio, presente in una roccia, dopo un miliardo e trecento milioni di anni ne rimane solo la metà, mentre il resto si è trasformato in argo che è un elemento non radioattivo. L'argo in realtà è un gas che normalmente si libera nell'aria, ma quando si forma nelle rocce vulcaniche vi rimane intrappolato. Pertanto misurando con precisione, in una roccia vulcanica, la quantità di potassio-40 residuo e quella di argo-40 (che per la precisione è l'isotopo dell'argo che deriva dal decadimento del potassio radioattivo), è possibile risalire all'età della roccia, essendo noto il periodo di semitrasformazione del potassio-40. 

    L'orologio molecolare non misura una diminuzione, come avviene nelle sostanze radioattive, ma un accumulo. Il difficile, in questo caso, era calibrare l'orologio stesso, ossia stabilire il ritmo al quale batteva il tempo. Sarich  e Wilson dopo lunghe ricerche riuscirono a determinare la velocità con la quale si accumulavano le differenze sulle diverse proteine.  Essi ad esempio poterono stabilire che il citocromo c (una particolare proteina che svolge un ruolo essenziale nel processo di respirazione cellulare) modifica l'un per cento della sua molecola ogni venti milioni di anni, mentre l'emoglobina fa altrettanto in solo sei milioni di anni. A questo punto non rimaneva che mettere in moto l'orologio, ossia scegliere il momento da cui farlo partire. Questo doveva corrispondere alla data di una biforcazione dell'albero genealogico nota con buona sicurezza sulla base delle tecniche convenzionali. Si decise quindi di iniziare a contare il tempo da trenta milioni di anni fa, cioè dall'epoca in cui secondo i paleontologi le scimmie antropomorfe si sarebbero separate dalle altre scimmie.

    Ora ammettiamo, per semplificare il ragionamento, che in questi trenta milioni di anni che, come abbiamo detto sopra, ci separano dall'epoca in cui scimmie antropomorfe e scimmie comuni avevano ancora un progenitore in comune, siano cambiati trenta amminoacidi lungo una determinata proteina. Se così fosse, essendo costante la scansione temporale, i cambiamenti si sarebbero susseguiti al ritmo di uno ogni milione di anni. Stabilito ciò, qualora si riscontrasse che su quella stessa proteina, presente in scimmie antropomorfe africane e uomo, vi fossero solo cinque amminoacidi diversi sarebbe chiaro che cinque milioni di anni dovrebbero separare uomo e scimmie antropomorfe africane dall'antenato comune.

    Gli studi di antropologia molecolare si sono concentrati recentemente sulle strutture del DNA. Ora, come tutti sanno, ogni specie vivente ha un proprio DNA che la caratterizza e due specie diverse hanno i rispettivi DNA tanto più dissimili fra loro quanto più queste specie sono lontane nella scala evolutiva. Ad esempio, fra cavallo ed asino, che sono due animali molto simili, anche nell'aspetto esteriore, e che pertanto dovrebbero essersi differenziati molto di recente da un antenato comune, le rispettive molecole del DNA si discostano effettivamente di molto poco. Invece quegli animali che presentassero un codice genetico molto diverso dovrebbero essersi differenziati, dall'antenato comune, in tempi molto lontani.

    Oggi la tecnica usata per confrontare i DNA di due specie diverse si chiama "ibridazione" e, ad esempio, nel caso di uomo e gorilla, consiste nel riscaldare la doppia elica del DNA di questi due organismi fino ad ottenere la separazione dei filamenti che la formano. Un singolo filamento del DNA dell'uomo viene quindi legato con un singolo filamento del DNA del gorilla e da questa operazione si ottiene una doppia elica ibrida, ossia metà umana e metà scimmiesca. I due filamenti, a freddo, si riavvolgono abbastanza bene ma non in modo perfetto, perché vi sono alcuni nucleotidi che non combaciano e quindi non si legano. Riscaldando questo DNA ibrido si nota che la temperatura necessaria alla separazione dei due filamenti è un po' inferiore a quella che era servita per separare i filamenti di un'elica pura, in quanto ora è minore il numero dei legami che tengono unite le due catene nucleotidiche. Si ottengono, in questo modo, una serie di temperature di rottura dei legami di DNA ibridi che ci informano di quanto le due specie su cui si sperimenta sono strettamente imparentate.

    Anche da queste ricerche appare evidente che uomo scimpanzé e gorilla sono diversi solo per l'aspetto esteriore, mentre la differenza è minima nel DNA. Ora viene da chiedersi come possa sussistere una così piccola differenza nel DNA ed una così vistosa nell'aspetto esterno di questi organismi.

    Gli antropologi molecolari hanno una loro teoria sulla storia evolutiva dell'uomo e delle scimmie antropomorfe la quale scaturisce da un'osservazione a cui non si era dato eccessiva importanza in passato. L'osservazione è la seguente: solo le scimmie antropomorfe e l'uomo sono capaci di star sospesi ad un ramo con le braccia ed oscillare. Questo movimento è detto "brachiazione" e le scimmie non antropomorfe non ne sono capaci e si spostano, infatti, sugli alberi, camminando sopra i rami. L'uomo, invece, pur non esercitandosi in questo tipo di locomozione molto di frequente, lo sa fare e anche in modo disinvolto (basta osservare i bambini arrampicarsi in un parco giochi o gli atleti volteggiare agli anelli e alla sbarra). D'altra parte nemmeno le scimmie antropomorfe passano molto del loro tempo appese ai rami degli alberi. L'importante però non è il tempo che questi primati dedicano alla brachiazione, ma il fatto che sono in grado di adottarla tutte le volte che si presenta l'occasione.

    La brachiazione comporta soluzioni anatomiche di considerevole complessità che solo l'uomo e le scimmie antropomorfe possiedono. Essi hanno la clavicola molto lunga e ciò rende la spalla libera di compiere ogni sorta di movimento. Questa particolare anatomia della parte superiore del corpo non solo consente la brachiazione ma anche la possibilità di camminare a terra appoggiandosi sulle nocche delle mani degli arti superiori, cosa che le attuali scimmie antropomorfe fanno e che i lontani progenitori dell'uomo probabilmente facevano.

    Secondo gli antropologi molecolari, l'uomo e le scimmie antropomorfe discenderebbero da un brachiatore vissuto una ventina di milioni di anni fa, cioè nel Miocene. Da esso sarebbe derivato, dieci milioni di anni fa, il gibbone. Successivamente si sarebbe differenziato l'orangutan e finalmente, circa quattro milioni e mezzo di anni fa, uomo, scimpanzé e gorilla.

    Purtroppo non disponiamo di fossili che possano essere ritenuti i diretti parenti delle scimmie antropomorfe moderne e che siano anche antenati dell'uomo e inoltre dei pochi fossili dei nostri più antichi progenitori non siamo in grado di dire se erano brachiatori oppure no.

    E' certo invece che il Ramapiteco non può essere considerato un nostro diretto antenato innanzitutto perché, come ha anche dimostrato l'antropologia molecolare, è troppo antico per poterlo essere e in secondo luogo perché si troverebbe sulla linea evolutiva che ha portato all'orangutan la quale si era ormai separata definitivamente da quella che erano ormai in procinto di percorrere le scimmie antropomorfe africane e l'uomo.

    Come accennavamo sopra, l'analisi biochimica non si è limitata a campioni di tessuti viventi ma si è potuta estendere anche ad un campione osseo non ancora completamente pietrificato di Ramapithecus rivelando che questo animale ancestrale presenta affinità biochimiche più evidenti con l'orangutan che non con le altre scimmie antropomorfe. Per questo motivo il Ramapiteco attualmente viene considerato l'antenato dell'orangutan.

    Oggi il candidato più accreditato al ruolo di antenato comune di scimpanzé, gorilla e Australopiteci è il Kenyapiteco, un Ominoide che visse in Africa circa sei o sette milioni di anni fa (questo è il valore temporale su cui anche i paleoantropologi molecolari oggi concordano come data di separazione fra le scimmie antropomorfe africane e l’uomo) e che, come abbiamo già ricordato, si trovò improvvisamente separato in due gruppi dallo sprofondamento della Rift Valley.

 

14. L'EVOLUZIONE DEL GENERE HOMO

    Nel 1961, nella gola dell'Olduvai, all'interno dello stesso sito in cui un paio di anni prima era stato trovato lo Zinjantropo, uno dei figli di Louis Leakey, Jonathan, rinvenne due frammenti di cranio e una mandibola incompleta di un Ominide apparentemente più evoluto dell'Australopiteco. La sottigliezza delle ossa, i molari di piccole dimensioni e il volume della scatola cranica decisamente superiore a quello di analoghi reperti trovati in precedenza, lasciavano immaginare che dovesse trattarsi di un individuo di costituzione un po' meno robusta di qualsiasi australopiteco noto.

    A giudicare dal luogo del ritrovamento (un livello del terreno leggermente inferiore a quello in cui fu rinvenuto lo Zinjantropo), il frammento di calotta cranica e la mandibola di quello che verrà chiamato, in onore del suo scopritore, il "bambino di Johnny", doveva essere appartenuto ad un individuo di poco più antico dello Zinjantropo, ma nello stesso tempo più evoluto di questo.

    Un bel dilemma che tuttavia fu risolto due anni più tardi quando, in uno strato superiore dello stesso deposito (datato un milione e mezzo di anni circa), fu estratto un cranio del volume di 660 cm³, con a fianco alcuni ciottoli lavorati. La lavorazione del materiale litico fu attribuita all'Ominide di cui fu portata alla luce la calotta cranica, che pertanto fu chiamato Homo habilis, cioè "uomo abile" e quindi in grado di usare le mani con destrezza. Il nome venne suggerito da Raymond Dart il quale riteneva che il diretto antenato dell'uomo moderno dovesse essere un Ominide in grado di fabbricare utensili e quindi di servirsi del cervello in modo originale. Poiché i resti dello strato sottostante rinvenuti in precedenza apparivano molto somiglianti a quelli appena scoperti, anche questi ultimi furono attribuiti all' Homo habilis.

    Altri resti di Homo habilis vennero ritrovati negli anni successivi sia in Africa orientale sia in Sudafrica: fra questi un cranio, molto ben conservato, scoperto in Kenia nel 1972 dall'altro dei figli dei Leakey, Richard. Al fossile venne attribuita un'età di quasi due milioni di anni.

    Come abbiamo già accennato in precedenza, il ritrovamento di ossa di Ominidi più progrediti degli Australopiteci faceva ritenere che intorno a due milioni di anni or sono vivessero sullo stesso territorio due tipi di individui, entrambi con caratteristiche umane, ma un po' diversi nei particolari: gli uni avevano encefalo piccolo e molari grossi, ed erano gli Australopiteci, gli altri avevano encefalo grande e molari piccoli, ed erano gli Ominidi del genere Homo. I primi si sarebbero estinti entro un milione di anni, i secondi si sarebbero invece evoluti fino a diventare gli uomini attuali. 

    Circa due milioni e mezzo di anni fa in Africa cambiò il clima per l'ennesima volta e la savana si fece più arida e di conseguenza più povera di alimenti teneri che erano il cibo preferito dagli Australopiteci di tipo africano. Nelle nuove condizioni ambientali mentre l'Australopithecus boisei (cioè la forma robusta di Australopiteco) che si nutriva con una dieta fatta preferibilmente di vegetali e di semi duri, era attrezzato per cavarsela rispetto alle sopraggiunte difficoltà, l'Australopithecus africanus si trovò invece in piena crisi. Come fare per sopravvivere?

    La risposta è sempre la stessa: mutando. Le mutazioni, come si ricorderà, sono quei cambiamenti improvvisi e imprevedibili del patrimonio genetico che si realizzano di continuo nel DNA e che poi si riflettono sulle strutture fisiche dei singoli individui. Normalmente questi cambiamenti producono soggetti meno adatti all'ambiente, ma se questo è in via di trasformazione, le nuove forme potrebbero trovarsi particolarmente a loro agio proprio grazie ai nuovi requisiti fisici forniti loro dalle mutazioni. Così potrebbe essere avvenuto nel caso dell'Australopithecus africanus il quale inaspettatamente si era venuto a trovare in difficoltà in un ambiente arido e povero di cibo tenero. Egli quindi, secondo il parere di alcuni illustri paleoantropologi, attraverso alcune mutazioni, si sarebbe trasformato in Homo habilis. 

    Le mutazioni che si susseguirono sull'Australopithecus africanus indubbiamente furono svariate ma una fu decisiva su tutte le altre: l'ingrandimento del cervello. Questo aumentò, nell'Homo habilis, del 50% rispetto a quello del suo predecessore. Uno sviluppo così spropositato dell'encefalo, che mai si era realizzato in alcun altro animale e che mai si realizzerà in seguito, consentirà di risolvere con efficacia i problemi che la nuova situazione ambientale stava producendo. Questi, fondamentalmente, erano problemi legati alla ricerca del cibo.

    Cibi teneri di origine vegetale non ve n'erano più; vi era tuttavia abbondanza di carne. La savana si trovò infatti improvvisamente abitata da mandrie sterminate di erbivori che approfittavano di un ambiente a loro favorevole per moltiplicarsi. Molto probabilmente non era necessario che l'Homo habilis per procurarsi il cibo cacciasse gli animali, come in un primo tempo si era pensato: il terreno doveva essere già pieno delle carcasse di quelli morti per cause naturali o uccisi dai carnivori e poi abbandonati prima di venire completamente spolpati. L'Homo habilis per procurarsi la carne forse doveva semplicemente contenderla a iene ed avvoltoi che, com'è noto, si nutrono di carogne. 

    Vi era tuttavia un problema da risolvere e non di poco conto. Come fare per accedere alle carni dei grossi mammiferi coperte da una pelle spessa e resistente che tagliare con i denti o con le unghie era pressoché impossibile? L'Australopiteco africano non era certo dotato di artigli adatti a penetrare nei tessuti e i canini, piccoli e deboli, non erano in grado di lacerare la pelle e strappare le carni dalle ossa degli animali. Non rimaneva che usare il cervello che nel frattempo si era fatto molto grande. Fu così che l'Australopiteco africano, divenuto ormai “uomo abile”, si mise a fabbricare utensili di pietra, che facilitavano l'accesso alle carni degli animali morti. E mentre l'Australopiteco africano si trasformava in Homo habilis, il boisei continuava a masticare noci e granaglie dure, divenendo intanto preda del leopardo e degli altri carnivori della savana. In questo modo finirà per estinguersi completamente.

    Oggi i paleoantropologi hanno a disposizione reperti fossili sufficienti per ricostruire la struttura fisica dell’Homo habilis. Esso doveva essere un individuo alto un metro e mezzo e pesare una cinquantina di kilogrammi. Era quindi circa delle dimensioni dell'Australopithecus robustus, ma le sue ossa erano molto più leggere. Aveva un'andatura perfettamente eretta, la capacità cranica era intorno ai 700 cm³ e la faccia appariva molto meno prominente di quella dell'Australopiteco.

    Soprattutto una fronte molto ampia dava la sensazione di trovarsi in presenza di un essere umano, una sensazione che, nel caso dell'Australopiteco, non si era mai avuta. Anche la dentatura era molto simile a quella dell'uomo attuale e proprio ciò fa ritenere che l'alimentazione dell’Homo habilis fosse un po' meno vegetariana di quella dell'Australopiteco e che per tale motivo dovesse nutrirsi anche di carne.

    Con l'Homo habilis compare per la prima volta quella caratteristica che viene ritenuta una prerogativa fondamentale del genere umano, cioè la produzione di utensili. Fino ad oggi non si è raccolta alcuna prova che l'Australopiteco fosse stato in grado di fabbricare u­tensili di pietra scheggiata e così pure nessun animale vivente, nemmeno lo scimpanzé, che pure è capace di strappare rami dalle piante per inserirli nei termitai e catturare le formiche che poi mangia, è in grado di fabbricare volontariamente strumenti di alcun genere, né di conservare quelli che si sono dimostrati efficaci in determinate circostanze.     Nessun animale, in altre parole, è in grado di prevedere il futuro come fa l'uomo.

    Ma da quale specie ancestrale deriva l'Homo habilis? Come abbiamo visto, secondo alcuni studiosi, l'Homo habilis sarebbe derivato dall'Australopithecus africanus. Secondo altri, l'Australopithecus afarensis avrebbe dato origine a due linee evolutive: da un lato gli Australopiteci con l'africanus prima, e il robustus e il boisei poi, e dall'altro l'Homo habilis,  che si sarebbe successivamente differenziato prima in Homo erectus e poi nell’attuale specie di Homo sapiens. Infine, secondo un terzo gruppo di paleoantropologi, gli Australopiteci e gli Ominidi del genere Homo avrebbero avuto un'evoluzione indipendente senza alcun rapporto diretto. Essi avrebbero invece avuto un lontano antenato comune, non ancora individuato.

    Recenti scoperte hanno dimostrato che l'Homo habilis non solo fabbricava manufatti in pietra ma, molto probabilmente, che egli era anche in grado di costruire accampamenti. Ciò è stato dedotto dal ritrovamento ad Olduvai di un cerchio di pietre che rappresenterebbe i resti di una delle prime abitazioni costruite dall'uomo.

 

15. IL LINGUAGGIO

    "Le parole - come dice anche Richard Leakey - purtroppo non si fossilizzano". Pertanto, non riusciremo mai a sapere con certezza quando si è originato il linguaggio verbale. Tuttavia abbiamo a disposizione alcune testimonianze indirette, rappresentate dai manufatti realizzati dai nostri antenati e dai cambiamenti nella loro struttura anatomica, che ci consentono di formulare alcune ipotesi sul modo in cui il linguaggio articolato avrebbe potuto nascere e svilupparsi.

    I primi utensili in pietra costruiti dall'uomo sono stati trovati, insieme con le sue ossa fossili, ad Olduvai, ed hanno un'età di due milioni di anni, ma in seguito ne furono rinvenuti anche di più antichi. Si tratta dei famosissimi "chopper" (parola inglese che significa accetta, mannaia di macellaio), ciottoli di lava intenzionalmente scheggiati per ricavare un margine tagliente. Queste pietre lavorate, molto probabilmente, venivano usate dall'Homo habilis per tagliare la pelle degli animali e per staccare la carne dalle loro ossa, ma forse anche per tagliare e appuntire i rami degli alberi.

    L'utensile, a differenza del semplice strumento, implica la presenza di un pensiero concettuale, cioè la necessità che nella mente dell'operatore si formi un'idea di ciò che si vuole realizzare. Questa idea diverrà quindi oggetto lavorato attraverso una serie ordinata di azioni successive. E' necessario saper parlare per compiere queste azioni? Forse sì.

    Per fabbricare un oggetto di pietra, ad esempio, occorre innanzitutto individuare un ciottolo di dimensioni e forma opportune e quindi cercare un percussore adatto per colpire il ciottolo. Inoltre bisogna operare in modo tale che i colpi vengano inferti sotto varie angolazioni e con un'energia adeguatamente calibrata. Infine è necessaria un'azione di controllo della forma che l'oggetto va assumendo per effetto delle scheggiature. Tutto ciò richiede un'attività intellettiva tutt'altro che semplice. 

    Ora, è evidente che la disponibilità di un oggetto lavorato dà il vantaggio, a chi lo possiede, di accedere con maggiore facilità alle risorse alimentari più pregiate e ciò, ovviamente, facilita la lotta per l'esistenza. Ma l'oggetto lavorato non è qualche cosa che si trasmetta geneticamente, come potrebbero essere i denti più grossi e robusti o la stazione eretta: la sua realizzazione pertanto deve essere appresa dalle generazioni precedenti le quali a loro volta devono possedere un mezzo efficace per insegnarla. E quale sistema migliore, per trasmettere informazioni, di quello rappresentato dal linguaggio verbale?  

    L'attività manuale dell'Homo habilis non si esaurisce, tuttavia, con la costruzione di chopper. In siti di età più recente vennero infatti alla luce oggetti in pietra meglio rifiniti, come i "chopping-tools", ottenuti colpendo i ciottoli su entrambe le facce invece che su una sola. Successivamente, con l'Homo erectus, comparvero le raffinate "amigdale" oggetti in pietra sapientemente rifiniti su tutto il nucleo del ciottolo: per questo motivo l'amigdale viene anche definita "bifacciale". Non si è mai riusciti a capire bene a cosa potesse servire questo strano oggetto di pietra con il filo tagliente che gli gira tutt'intorno rendendolo difficile da tenere in mano senza farsi male. Secondo alcuni l'amigdale, legata ad un bastone, poteva essere utilizzata come ascia, ma un'attenta osservazione al microscopio, nel punto in cui avrebbe dovuto innestarsi il legno, non ha mostrato segni di usura. La cosa più probabile è che venisse usata come strumento da lancio, ma può anche darsi che non servisse a nulla: forse era solo un bello strumento di cui andare orgogliosi per essere stati capaci di costruirlo.

    Ma l'uomo primitivo, come abbiamo detto, era anche in grado di costruire manufatti più complessi delle pietre scheggiate. I cosiddetti "accampamenti", cioè i rozzi muretti di pietra che cingono limitate zone di terreno di forma circolare, forse erano rudimentali abitazioni entro le quali l'Homo habilis avrebbe potuto fermarsi per fabbricare utensili, o per mettersi al riparo dalle belve feroci.    

    La tecnologia può anche aver avuto la sua importanza nell'origine del linguaggio verbale, ma senza una conformazione particolare della laringe mai l'uomo avrebbe potuto parlare. Scimpanzé e gorilla, ad esempio, sono in grado anch'essi di esprimere concetti semplici e manifestare emozioni, tuttavia non sono capaci di parlare perché la loro laringe è sistemata in modo tale da non consentire una perfetta modulazione dei suoni. La stessa cosa avviene nei neonati, i quali non sarebbero in grado di parlare nemmeno se le facoltà psichiche glielo consentissero.

    La fonazione infatti è possibile solo in seguito all'abbassamento della laringe che produce un allargamento della cavità faringea sovrastante con conseguente emissione di suoni. Nelle scimmie l'organo della fonazione è posto in posizione elevata e proprio in virtù di questa particolare collocazione della laringe esse riescono a bere e a respirare contemporaneamente. Lo stesso avviene nei bambini appena nati i quali, come tutti sanno, riescono a poppare e a respirare nello stesso tempo. I bambini possono cominciare a parlare, o per meglio dire, ad articolare correttamente le parole non prima dei due anni, cioè dall'età in cui la laringe tende a scendere verso il basso.

    Studi recenti hanno dimostrato che l'abbassamento della laringe produce una flessione della base del cranio che da appiattita si fa curva. Questo fenomeno si è osservato nei bambini, i quali nascono con la base del cranio piatta, ma poi, con lo sviluppo, questa comincia a scendere fino a trovare definitiva sistemazione verso i dieci anni. Ora, nei crani degli Australopiteci non si è mai notata l'incurvatura verso il basso della base del cranio, mentre nell'Homo erectus questa flessione sembra presente anche se in modo non molto evidente: questi quindi, molto probabilmente, possedeva le strutture anatomiche di base per la fonazione. Per quanto riguarda invece l'Homo habilis, non si è riusciti a procedere ad un analogo esame a causa della mancanza, fra i reperti fossili, di crani completi della base.

    Se nulla si può dire riguardo alla posizione della laringe dell'Homo habilis sembrano invece essere presenti, in questo Ominide, le due aree della corteccia cerebrale preposte al controllo del linguaggio articolato. Queste sono il "centro di Broca" e il "centro di Wernicke", così chiamate dal nome dei due ricercatori che le hanno scoperte nel secolo scorso. Esse si trovano sul lato sinistro del cervello il quale è anche quello maggiormente sviluppato. Allo sviluppo maggiore del lato sinistro del cervello contribuisce, oltre ai centri della fonazione, anche il fatto che la maggior parte della popolazione umana è destrimane e l'uso della mano destra è controllato proprio da quell'emisfero cerebrale.

    Purtroppo anche il cervello, come la parola, non fossilizza. Quindi nessuno ha mai potuto esaminare direttamente il cervello di un animale estinto. Tuttavia a volte possiamo osservare la configurazione esterna di esso in quelli che vengono chiamati i "calchi endocranici". L'encefalo durante la crescita modella il cranio entro il quale è riposto, lasciando su di esso lo stampo della sua struttura. Ora può capitare, durante la fossilizzazione, che la scatola cranica si riempia di sabbia la quale successivamente si consolida formando appunto il calco interno del cranio. Questo rappresenta l'esatto duplicato delle dimensioni e della forma dell'interno della scatola cranica, che può essere anche considerato una specie di cervello di pietra di cui però è possibile osservare solo la parte esterna. Alcuni studiosi, fra cui il celeberrimo antropologo Phillip Tobias, su certi calchi endocranici di Homo habilis, riescono a vedere le tracce dei lobi e delle circonvoluzioni del cervello. 

    Molti scienziati in realtà invitano alla prudenza in quanto le meningi che avvolgono il cervello sono membrane assai spesse e quindi è molto improbabile che sulla scatola cranica possano formarsi le impronte delle circonvoluzioni e dei vasi sanguigni dell'encefalo. Quello che si stampa sulla parte interna del cranio - essi dicono - molto probabilmente sono i vasi delle pareti del cranio stesso e non quelle del cervello.

    Alcuni paleoantropologi sono del parere che il linguaggio verbale non si sia sviluppato attraverso una lenta e graduale evoluzione iniziatasi più di due milioni di anni fa, ma all'improvviso e molto di recente. Secondo questi studiosi il linguaggio avrebbe fatto la sua comparsa solo 35.000 anni fa quando l'uomo già possedeva forme di cultura simili a quelle che conosciamo oggi.

 

16. L'HOMO ERECTUS

    Come abbiamo visto, all'Homo habilis succede l'Homo erectus. La denominazione di "erectus", riservata a questo Ominide, risale agli anni Cinquanta, quando si riteneva che gli Australopiteci non fossero ancora dei bipedi perfetti, ma che camminassero aiutandosi con gli arti superiori, come fanno attualmente le scimmie antropomorfe. L'Homo erectus aveva un cervello con un volume superiore a 1000 cm³, cioè di poco inferiore al nostro, e visse fra un milione e mezzo e 200.000 anni fa, età quest'ultima in cui comparve sulla scena l'Homo sapiens.

    Il primo fossile di Homo erectus venne trovato a Giava, da un medico olandese, che si era fatto trasferire in quelle terre perché convinto che là dovesse trovarsi l'"anello mancante" fra uomo e scimmia. Di questo anello mancante aveva parlato Ernst Heinrich Haeckel, uno dei grandi sostenitori di Darwin, il quale aveva ipotizzato l'esistenza di una creatura ancestrale, che egli chiamò Pitecantropo, e che avrebbe dovuto avere, come diceva anche il nome, per metà caratteristiche di scimmia e per metà caratteristiche di uomo.

    La storia del medico olandese, di nome Eugene Dubois, merita di essere raccontata per intero perché ha dell'incredibile. Questo strano personaggio, fin da ragazzo si era appassionato alla teoria evoluzionistica di Darwin e si era convinto che il fossile di Neanderthal fosse effettivamente un progenitore umano, ma che dovessero esistere delle forme ancora più antiche, cioè del tipo di quelle che Haeckel chiamava Pitecantropi. A quel tempo l'Indonesia era una colonia olandese e Dubois sapeva che da quelle parti viveva una specie di grande scimmia simile all'uomo, e il cui nome indirizzava anche in questo senso. Esso è l'orangutan (parola che nella lingua locale significa "uomo della foresta") e quindi, attraverso un ragionamento privo di qualsiasi logica, pensò che negli stessi luoghi avrebbe dovuto trovarsi anche l'antenato dell'uomo.

    Il giovane Dubois tentò, in un primo tempo, di farsi mandare dal governo del suo Paese a Giava come direttore di una spedizione scientifica, quindi, non essendo riuscito ad ottenere l'incarico, chiese di esservi inviato come medico militare. E venne accontentato.

    Egli, per un colpo di fortuna veramente incredibile, trovò effettivamente nel 1891, lungo le sponde di un piccolo corso d'acqua, il fiume Solo, un cranio umano ed alcuni denti.  L'anno successivo rinvenne, in una zona vicina e all'interno della stessa formazione rocciosa, un femore umano. Egli, a quel punto, credette di aver individuato proprio l'anello mancante e chiamò il nuovo Ominide Pitecanthropus erectus, nome che vuol dire "scimmia-uomo che sta ritta in piedi". Il nome Pitecanthropus sembrava perfettamente appropriato perché il cranio era troppo grande per essere quello di una scimmia e troppo piccolo per essere quello di un uomo. D'altro canto il femore, proveniente dalla stessa formazione, era sostanzialmente moderno, il che significava che il suo possessore camminava stando ritto in piedi. Da qui la specificazione di "erectus" data al reperto.

    Altri resti fossili, simili a quelli del Pitecantropo di Dubois, furono trovati successivamente in diverse parti del mondo e ciascuno ricevette un proprio nome. Ai reperti trovati in Cina, ad esempio, fu assegnato il nome di "uomo di Pechino", o Sinantropo; in Germania, preso Heidelberg fu scoperta la famosa mandibola di Mauer, e in Africa furono rinvenuti i rappresentanti più antichi: nel deposito di Koobi Fora a est del lago Turkana fu rinvenuto un cranio a cui è stata attribuita l'età di 1.600.000 anni. Tutti questi Ominidi oggi vengono classificati come Homo erectus e non hanno nulla a che vedere con le scimmie.

    L'Homo erectus non solo era capace di scheggiare la pietra, cosa che faceva con maggiore maestria del suo predecessore habilis, ma imparò anche a servirsi sistematicamente del fuoco. L'uso del fuoco avvantaggiò notevolmente questo Ominide, perché gli consentì di spingersi alla conquista di luoghi freddi e anche perché gli permise di sfruttare e conservare meglio gli alimenti.

    Circa 200.000 anni fa l'Homo erectus venne definitivamente soppiantato dall'Homo sapiens con il quale si conclude la nostra storia.

    Fra i 400 e i 300 mila anni fa apparvero, in diverse regioni del pianeta, delle forme di Homo erectus di aspetto più moderno che i paleoantropologi non sanno ancora se considerare Homo sapiens o sempli­cemente forme più evolute di Homo erectus.

    L'Homo sapiens si differenziò, successivamente, in due sottospecie: Homo sapiens neanderthalensis, i cui resti fossili non hanno un'età anteriore ai 100.000 anni, e l'Homo sapiens sapiens comparso fra i 200 e i 140 mila anni fa in Africa.

    L'Africa è stata quindi per due volte la culla dell'uomo: una prima volta con gli Australopiteci, quando, soprattutto in considerazione della posizione eretta, questi Ominidi vennero considerati i nostri più prossimi antenati e, successivamente, con l'Homo sapiens, il nostro vero diretto antenato.

    La straordinaria intuizione di Darwin ha trovato, alla fine, la sua piena conferma. Nel 1871 egli scriveva: "In ogni grande regione del mondo i mammiferi esistenti sono strettamente imparentati con le specie estinte della stessa zona. E' quindi probabile che l'Africa fosse in passato abitata da scimmie ora estinte, strettamente affini al gorilla e allo scimpanzé e, dal momento che queste due specie sono at­tualmente i parenti più prossimi dell'uomo, è verosimile che i nostri antichi progenitori fossero vissuti nel continente africano piuttosto che altrove". 

fine

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