LA
CLONAZIONE DALLA PARTE DELLA SCIENZA La scienza esiste perché l’uomo è per natura
curioso. Ognuno di noi è spinto da un desiderio irrefrenabile ad indagare su
ogni cosa gli capiti a tiro e ciò rappresenta lo stimolo principale nella
conoscenza dell’Universo e nella scoperta delle leggi che ne regolano il
divenire. La curiosità dell’uomo, proprio perché innata, non può essere in
alcun modo repressa (“…e pur si muove!” sussurrò Galilei subito dopo aver
abiurato di fronte alla Inquisizione), così come non può essere regolata da
leggi la ricerca del sapere: essa deve essere assolutamente libera. 1. VERSO LA CLONAZIONE Nell'autunno del 1993 due biologi della George
Washington University di Washington, Robert Stillmann e Jerry Hall, annunciarono
di essere riusciti ad ottenere, in vitro, la separazione delle prime due cellule
umane che si formano dopo che l'uovo è stato fecondato e di avere atteso per
alcuni giorni che si sviluppassero autonomamente. Se i due embrioni in
formazione così ottenuti fossero stati impiantati nell’utero di una donna
avrebbero potuto dar vita a due individui con lo stesso patrimonio genetico, ma
questo tentativo non fu fatto. I due ricercatori americani, in altre parole,
realizzarono in laboratorio la prima fase di ciò che di tanto in tanto avviene
naturalmente quando da un unico uovo fecondato nascono due gemelli identici,
detti anche monovulari. Si parlò in quell'occasione di clonazione umana,
ma clonazione non era: si trattava invece di un esperimento di “divisione
cellulare”, che fra l'altro era già stato tentato con successo sugli animali,
e che se poteva avere un notevole significato dal punto di vista della ricerca
di base, risultava invece del tutto privo di interesse pratico per l’uomo. La clonazione (dal greco klon che
significa germoglio, ramoscello, con evidente riferimento alla talea, una
tecnica di riproduzione delle piante che consiste nel piantare a terra parti di
esse in modo da indurle a formare un nuovo individuo) era un termine usato in
passato per indicare la riproduzione non sessuata di piante e animali semplici,
ma che in seguito fu applicato anche al caso di animali più complessi. Oggi per
clonazione si intende l’ottenimento di una copia identica di un individuo
partendo da una sua cellula non sessuale. Il primo animale superiore ad essere clonato fu
una rana. Nel 1952 due biologi americani, Robert Briggs e Thomas King,
prelevarono una cellula da un girino, ne isolarono il nucleo e lo inserirono in
una cellula uovo di una rana adulta dalla quale, in precedenza, era stato a sua
volta tolto il nucleo. La cellula così ottenuta fu fatta quindi sviluppare
all’interno dell’apparato riproduttore di una rana adulta ottenendo un
girino assolutamente identico a quello da cui era stata sottratta la cellula da
clonare. La rana, tutto sommato, è un organismo relativamente
semplice e la ricerca non poteva certo fermarsi lì; la sfida restava quella di
clonare un mammifero. Si sa che solo le prime cellule che si generano
dall’uovo fecondato sono in grado di esprimersi “in toto”, sono cioè
cellule “totipotenti”, mentre quelle di un animale adulto sono specializzate
nelle varie funzioni che devono assolvere. Queste funzioni vengono svolte dalla
attività di particolari geni (i corpuscoli formati di DNA che controllano le
caratteristiche ereditarie di quel determinato animale) che rimangono attivi,
mentre quelli inutili vengono bloccati o, come sul dirsi, repressi.
Negli anni Ottanta del secolo scorso vennero
clonati numerosi mammiferi partendo però sempre da blastomeri, cioè dalle
prime cellule che derivano dalla divisione dell’uovo fecondato che, come
abbiamo detto, sono cellule totipotenti e quindi non ancora specializzate. Le
cellule specializzate, per esempio quelle della cute o del fegato di un animale
adulto, non sono in grado, in condizioni naturali, di dare origine ad un
individuo completo, però, se opportunamente trattate, potrebbero diventarlo.
Così pensavano i biologi impegnati nella clonazione di animali adulti e in
questa direzione orientarono le loro ricerche. Il 5 luglio 1996 al Roslin Istitute di Edimburgo
nacque la pecora Dolly, il primo mammifero clonato a partire da una cellula
specializzata, ma la notizia della riuscita dell’esperimento venne diffusa
solo nel febbraio dell’anno successivo. Il ritardo della comunicazione venne
giustificato con l’esigenza di controllare scrupolosamente che si trattasse
effettivamente di clonazione. Al clone fu dato il nome della cantante e attrice
Dolly Parton famosa, oltre che per la sua bravura, anche per un seno prosperoso
che esibisce con molta naturalezza, in quanto la pecora fu clonata a partire
proprio da una cellula estratta dalla ghiandola mammaria del donatore, una
cellula che dovrebbe essere specializzata a svolgere solo una determinata
funzione. Un anno dopo la nascita di Dolly fu il turno di
tre vitelli ottenuti da cellule fetali e pertanto non ancora del tutto
specializzate, quindi di una cinquantina di topolini, alcuni dei quali a loro
volta clonati da altri cloni e infine di due scimmie, gli animali più vicini
all’uomo, che furono ottenute dal professor Don Wolf, direttore dell’Oregon
Primate Research Center degli Stati Uniti. I vitelli, oltre che cloni, erano
anche transgenici, cioè geneticamente modificati, per studiare la possibilità
di produrre farmaci per l’uomo direttamente nel latte delle femmine adulte. Ormai siamo vicini e presto sarà il turno anche
dell’uomo del quale sembra siano state già clonate alcune cellule. Il
diffondersi di tutti questi esperimenti sugli animali e la possibilità che a
breve scadenza possa essere clonato perfino l’uomo ha creato una forte
tensione nell’opinione pubblica orientata e amplificata dai mass media che,
quando si tratta di informare sulle nuove conquiste della scienza, lo fanno con
molta enfasi, ma spesso in modo scientificamente carente e impreciso, creando
allarmismo e grande preoccupazione fra la gente comune.
Come mai tutte le volte che viene diffusa la
notizia di una nuova scoperta scientifica, soprattutto se in campo biologico,
l’opinione pubblica, ma anche una parte del mondo accademico, si schiera
contro? Indubbiamente giocano un ruolo importante il pregiudizio e la paura di
ciò che non si conosce, ma forse anche qualcos’altro. In questo caso si è
arrivati a chiedere di limitare la libertà della ricerca scientifica con leggi
severe oppure negando i fondi pubblici per certi tipi di sperimentazione, ma
questo non è possibile. La scienza è sempre stata ritenuta un’attività così
nobile negli intenti ed elevata negli obiettivi, oltre che utile nei risultati e
nelle conseguenze, da essere rispettata perfino dai regimi più repressivi. La
scienza in realtà a volte compie esperimenti anche pericolosi per la salute
pubblica ma le misure precauzionali sono adottate dagli scienziati stessi i
quali evitano ad esempio di costruire i laboratori per lo studio degli esplosivi
in aree densamente popolate o installano speciali filtri per ridurre i disagi
che potrebbero derivare dal diffondersi di odori nauseanti o gas velenosi. Ma
che cosa è esattamente la ricerca scientifica? Come si svolge e quali fini si
propone? 2. GLI OBIETTIVI DELLA RICERCA SCIENTIFICA La ricerca scientifica potrebbe essere suddivisa
in due categorie: la ricerca di base e quella applicata. La prima, detta anche
fondamentale, ha per obiettivo la conoscenza dei fenomeni naturali, tende cioè
a soddisfare la curiosità dell’uomo, mentre la ricerca applicata serve a
sviluppare nuove tecnologie e quindi produce effetti pratici sulla vita di noi
tutti. La scoperta che era la Terra a girare intorno al
Sole e non viceversa non portò alcun beneficio concreto all’uomo, tuttavia
rivoluzionò il suo modo di pensare. Il fatto di togliere la Terra da una
posizione centrale e di privilegio e relegarla in un ruolo periferico e
secondario, indusse l’uomo ad una revisione intellettiva e culturale profonda
che lo indirizzò verso un approccio alla natura più attento e responsabile
rispetto a prima, quando le risorse della Terra venivano considerate di sua
proprietà e quindi qualche cosa da cui poter attingere senza limiti. Spendere
tanto danaro per costruire e lanciare nello spazio navette spaziali che vanno a
fotografare Giove e a misurare la temperatura di Saturno, o allestire
esperimenti costosissimi per tentare di stabilire se il neutrino possiede o meno
una massa non serve a nulla, se non a soddisfare la curiosità dell’uomo e la
sua sete di sapere. Nel campo della ricerca applicata il problema è
più sfuggente perché qui non è facile distinguere fra buona e cattiva
ricerca. Vi sono alcune persone che sostengono che la scienza con i suoi
derivati tecnologici crea più problemi di quanti ne risolve. Ad esempio,
l’esplosione demografica, che pone notevoli preoccupazioni alla nostra classe
politica, è dovuta ai progressi in campo medico che hanno abbattuto il tasso di
mortalità infantile e contemporaneamente quasi raddoppiato, nel corso di un
secolo, la durata della vita. Così pure il miglioramento della qualità della
vita conseguente alle tecnologie legate all’elettronica moderna ha portato con
sé consumi incontrollati di energia e di materie prime non rinnovabili e un
degrado ambientale dal quale non sarà facile tornare indietro. E infine la
televisione ha fatto di noi la società più informata che sia mai esistita e
tuttavia promuove una cultura di massa che alcuni vedono come una minaccia alla
civiltà. Anche le scoperte più pericolose possono essere
viste sotto luce diversa. Il 2 agosto 1939, ad esempio, il fisico di origine
ungherese Leo Szilard scrisse una famosa lettera, firmata anche da Einstein, al
Presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt per metterlo in guardia dai
pericoli insiti nell’energia nucleare, una nuova forma di energia che solo da
poco era stata scoperta. In realtà i fisici che lavoravano in America erano
preoccupati del fatto che alla stessa scoperta potevano essere giunti i colleghi
della Germania nazista, quelli che tutto il mondo considerava i “cattivi”, i
quali forse stavano progettando l’utilizzo della nuova forma di energia per
scopi bellici e si trovavano ad un passo dalla realizzazione della temutissima
bomba atomica. Tutti sanno come andò a finire la storia. Furono gli
americani, ossia i “buoni” (o almeno quelli che venivano ritenuti tali) a
realizzare per primi l’arma micidiale e, senza pensarci troppo, la sganciarono
sulla testa dei giapponesi procurando la morte immediata di 200.000 persone
inermi oltre ad una serie di danni genetici la cui gravità si sarebbe rivelata
solo in tempi successivi. I responsabili di quell’atto crudele portarono su di
sé, per tutta la vita, il rimorso di ciò che avevano fatto. Eppure qualcuno
ritiene che il bombardamento degli americani sulle due città giapponesi sia
servito, in qualche misura, a convincere il nemico a firmare l’armistizio e
quindi ad evitare, con il protrarsi della guerra, altre morti inutili. Poi le
grandi potenze si armarono di bombe atomiche compiendo anche una serie di
esperimenti in aria e sottoterra che per fortuna si andarono diradando nel
tempo. Qualcuno ritiene che l'armamento nucleare valse a garantire cinquant'anni
di pace in Europa anche se si trattò di una pace effimera e molto instabile,
basata sul ricatto psicologico e sulla paura. Poi venne il disarmo ed oggi
nonostante che di bombe atomiche nel mondo ve ne siano ancora a migliaia, la
gente non sembra eccessivamente turbata della prospettiva di una guerra nucleare
ma, paradossalmente, teme piuttosto l'utilizzo pacifico di quella forma di
energia la cui scoperta, è bene ricordarlo, ha consentito al nostro Enrico
Fermi di vincere il premio Nobel per la fisica. Un altro esempio interessante è stato la
scoperta e l’utilizzo del DDT, un insetticida che si rivelerà pericoloso per
la salute dell’uomo e il cui impiego, per tale motivo, dovette essere sospeso
una trentina d’anni fa. Quell’insetticida tuttavia procurò enormi benefici
alle truppe americane impegnate nella seconda guerra mondiale liberandole dai
parassiti e difendendole dalla puntura degli insetti tropicali. Vi è infine il
problema dei contenitori di plastica i cui difetti consistono nei loro stessi
pregi: la notevole resistenza alla decomposizione biologica che li rende
economici da usare determina infatti anche il forte onere di spese necessario
per sbarazzarsi di essi quando non servono più. 3. CLONARE L’UOMO Torniamo ora alla clonazione e ai potenziali
pericoli insiti in essa qualora la pratica si diffondesse soprattutto fra gli
uomini. Alcuni temono che con la clonazione umana il futuro della nostra specie
che finora si è evoluta attraverso un processo (comune peraltro a tutti gli
animali e le piante) di ricombinazione delle differenze, rischi una specie di
semplificazione genetica. In altre parole il pericolo per la nostra specie
sarebbe quello di produrre uomini tutti uguali, una sorta di selezione
eugenetica e razzista. Se si diffondesse la pratica della clonazione finirebbe
– si dice - la dignità e la libertà dell’uomo. Ma perché pensare all’aspetto negativo del
problema e non ai benefici che ne potrebbero derivare? Innanzitutto vi è da
dire che chi, pensando alla pratica della clonazione, avanza scenari
catastrofici per l’uomo non conosce bene la biologia e nemmeno
l’antropologia. L’uomo non è un prodotto esclusivo dei geni, egli è anche
frutto dell’ambiente in cui vive. Il clone non sarebbe altro che un gemello più
giovane e tutti sanno che i gemelli, anche quelli monovulari, non sono mai
identici fra loro anche se costretti a vivere nello stesso ambiente e facendo
esperienze simili. Per la persona clonata le differenze con il donatore
sarebbero ancora maggiori perché in questo caso, oltre al resto, anche il
momento storico della sua esistenza sarebbe diverso. Ma poi si rifletta sul fatto che per creare un
mondo pieno di uomini tutti uguali non serve la clonazione, basta il plagio.
Esempi di clonazioni culturali ve ne sono state in tutte le parti del mondo e in
ogni tempo, basti pensare al nazismo, al comunismo e al fanatismo legato alle
religioni nonché alle sette di varia natura. Coloro che vedono nella clonazione un pericolo
drammatico e senza ritorno per l'umanità, invocano leggi severe e punizioni
esemplari per i trasgressori ma vanamente perché quelle leggi (come
d’altronde tutte le leggi), verrebbero violate; ed eludere le leggi non è poi
così difficile, soprattutto in certi ambienti. I divieti non risolvono i
problemi, li nascondono, rendendoli più costosi e senza possibilità di
controllo e contro i pazzi, i fanatici e i ricchi supernarcisisti non ci
sarebbero leggi che tengono: non è attraverso la cultura del divieto che si
otterrebbe qualche cosa di buono, ma attraverso quella che qualcuno chiama la
“cultura della padronanza", cioè della consapevolezza profonda di quello
che si sta facendo e del controllo delle proprie emozioni. Anche la clonazione come tante altre scoperte
scientifiche che in un primo momento apparivano pericolose troverà, alla fine,
il suo assetto naturale ed equilibrato all'interno della società civile e
quando sarà operante verrà anche accettata. La società civile si è
dimostrata, nel suo complesso, molto più saggia e tollerante di quanto
comunemente si crede ed ha dimostrato, in varie circostanze, di essere in grado
di rimediare ad errori e mostruosità che persone incapaci o fanatiche avevano
prodotto.
Non è da escludere quindi che anche gli esperimenti sulla clonazione, a
lungo termine, non possano recare benefici all'umanità, come accadde per le
vaccinazioni le quali, non dimentichiamolo, all'inizio (e sporadicamente ancora
oggi) vennero fortemente avversate, e non consentano invece la soluzione di
alcuni problemi medici e farmacologici ancora aperti, come quello del rigetto di
organi trapiantati. Attraverso la clonazione non avremo affatto un mondo
pieno di “hitlerini” tutti uguali e tutti perfidi come fu il dittatore
nazista e in grado di ripetere il suo progetto politico, né verranno riprodotti
dei “semirobot”, uomini senza volontà capaci solo di lavorare come schiavi
per mantenere nel lusso i loro padroni. Si tratta di idee orribili, che però
esistono solo nel mondo della fantascienza. Le applicazioni delle scoperte nel campo della
clonazione serviranno invece per combattere malattie come il cancro o correggere
difetti ereditari come il mongolismo. L’aspirazione massima dei biologi è
quella di riuscire a clonare il maiale perché alcuni organi di quell’animale
sono, per dimensioni, simili a quelle dell’uomo. Se si riuscisse a modificare
geneticamente quell’animale in modo ad esempio che il suo cuore diventasse
compatibile con quello umano, si potrebbe successivamente clonare questi
particolari esemplari per ottenere un congruo numero di copie da utilizzare come
“banche” per trapianti. Secondo alcuni ricercatori la tecnica della clonazione
potrebbe essere utilizzata anche per aumentare, ad esempio, la popolazione di
animali in via di estinzione come i panda, le tigri o gli elefanti. A proposito
di questi ultimi animali, c’è un biologo giapponese che sta studiando la
possibilità di far rinascere alcuni animali estinti e primi fra tutti i mammut;
alcuni esemplari di questi preistorici elefanti pelosi sono stati ritrovati con
le carni ancora perfettamente conservate nei ghiacciai della Siberia; in teoria
si potrebbe quindi prendere una cellula ben conservata di questo animale e
trapiantarne il nucleo entro la cellula uovo di un elefante e quindi farla
sviluppare nell’utero del pachiderma vivente: ne nascerebbe un mammut. L’ultima frontiera rimane quella della
clonazione di esseri umani. Per il momento non si tratta di creare un organismo
intero, ma tessuti ed eventualmente organi che possano essere utilizzati nei
trapianti senza correre il rischio del rigetto. La strada da percorrere è
ancora molto lunga e piena di incognite. Non conosciamo molti dettagli di non
secondaria importanza del processo di clonazione e questo ci mette di fronte a
rischi di errori troppo grandi perché la procedura sperimentata sugli animali
possa essere applicata all’uomo. La ricerca comunque va avanti e non possiamo
sapere se e quando si fermerà. Importante è avere maggiore fiducia nella
scienza e soprattutto in chi opera in quel campo. Quando, all'inizio dell'altro secolo,
cominciarono ad essere introdotti nella pratica medica i primi due anestetici
generali che erano appena stati scoperti, l'etere e il cloroformio, si sollevò
una vera tempesta di opposizione perfino fra i medici stessi, alcuni dei quali
erano addirittura convinti che il dolore fosse necessario e utile all’uomo.
Purtroppo così stava anche scritto nei testi sacri e ciò non contribuì certo
a migliorare la situazione. L'argomentazione più pressante e convincente era
che l’utilizzo di antidolorifici rappresentava qualche cosa di innaturale,
sinonimo, a quel tempo, di immorale. (Ancora oggi la Chiesa ritiene che
l’utilizzo di anticoncezionali sia immorale perché rappresenta una pratica
contro natura.) Si racconta che un medico militare inglese per sostenere la tesi
che l'uso degli anestetici durante le operazioni chirurgiche facesse più male
che bene ebbe a dire: "E' meglio sentire un uomo che urla con quanto fiato
ha in gola quando il chirurgo affonda il coltello nelle sue carni, che vederlo
calare in silenzio nella fossa". Come si può rispondere ad una
argomentazione del genere? Con i fatti. Oggi sono passati quasi due secoli da
quei tempi e l'uso degli anestetici è talmente diffuso che nessun medico,
nemmeno militare, si sognerebbe di eseguire anche il più semplice e banale
degli interventi chirurgici senza l'impiego di un anestetico.
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