VITA
E MORTE DELLE STELLE 1. SULLA PERFEZIONE E
IMMUTABILITA' DEI CIELI I filosofi dell'antica Grecia ritenevano che i
cieli fossero perfetti, eterni e incorruttibili e che pertanto nessun mutamento
potesse avvenire al loro interno. Eventuali cambiamenti erano ammissibili solo
al di sotto del primo cielo (quello della Luna), quindi, in pratica, solo sulla
Terra o nella sue immediate vicinanze. Questo convincimento traeva origine dal
senso comune (una cosa che in verità non ha mai aiutato molto a capire come
funziona il mondo), in quanto si era notato che nel breve lasso di tempo della
vita di un uomo, o anche di alcune generazioni, non si verificavano
effettivamente in cielo cambiamenti di sorta, mentre sulla Terra, nel frattempo,
accadevano eventi fisici e meteorologici di varia natura ed intensità. In realtà, alcuni oggetti strani e dall'aspetto
minaccioso ogni tanto solcavano il cielo, come fossero fantasmi, trascinandosi
dietro lunghe code: erano le comete, che venivano avvistate con terrore perché
considerate presagio di sventure. Esse, però, affinché fosse salvaguardata l'integrità dei
cieli, erano ritenute oggetti presenti nell'atmosfera terrestre, a sua volta corrotta ed
instabile. Bisognerà aspettare fino al 1577 per rendersi
conto che le comete sono oggetti sistemati nei cieli, a grande distanza dalla
Terra. In quell'anno, infatti, l'astronomo danese Tycho Brahe, pur senza
l'ausilio di strumenti ottici (che non erano ancora stati inventati), tentò di
misurare la parallasse di una cometa, ma non vi riuscì. Da ciò dedusse che la
cometa doveva trovarsi più lontana della Luna della quale era invece possibile
misurare la parallasse. Che cosa sia la parallasse è presto detto. Si
ponga il pollice davanti agli occhi e lo si guardi prima con l'occhio destro,
tenendo chiuso il sinistro e poi con l'occhio sinistro, tenendo chiuso il destro.
Lo si vedrà spostarsi, sullo sfondo della parete lontana, in modo tanto più
evidente quanto più lo si sarà posto vicino agli occhi. Questo spostamento
apparente del dito si chiama parallasse e si verifica perché cambia
l’angolazione sotto la quale si osserva il dito. Lo stesso fenomeno si nota
quando si guarda la Luna da due punti della Terra distanti fra loro: la si vede
spostarsi, sullo sfondo delle stelle fisse, perché il nostro satellite naturale
è relativamente vicino mentre, se nello stesso modo si guardasse un astro più
lontano, per esempio la Stella Polare, non si noterebbe spostamento alcuno. L'idea dell'integrità dei cieli si andava quindi
finalmente incrinando. In verità, si erano già verificati in passato alcuni
fenomeni che avrebbero dovuto far dubitare della perfezione dei cieli, ma
stranamente nessuno li notò. Vi era stata, ad esempio, la comparsa improvvisa
di stelle luminosissime tanto da poter essere viste perfino in pieno giorno,
oppure la presenza di macchie sulla superficie del Sole sicuramente osservabili
ad occhio nudo, ma ciò non suscitò particolare interesse fra la gente. Come
mai nessuno segnalò questi fenomeni? Molto probabilmente, condizionati dal pregiudizio
dell'immutabilità e dell’incorruttibilità dei cieli, gli antichi filosofi
greci, ma anche tutti coloro che vissero durante il medioevo, non fecero caso al
verificarsi di nuovi fenomeni anche perché, come diceva Goethe, normalmente le persone vedono solo ciò
che già conoscono. Nel 1054, nella costellazione del Toro, apparve
improvvisamente una stella luminosissima, tanto da superare in splendore la
stessa Venere. L'astro venne studiato attentamente dai cinesi e dai
giapponesi che ne annotarono con scrupolo la posizione e le altre
caratteristiche osservabili. Qui da noi invece, inspiegabilmente, nessuno lo
vide. Circa cinquecento anni più tardi, precisamente
nel 1572, si accese in cielo, nella costellazione di Cassiopea, un'altra nuova
stella, luminosa quanto quella apparsa nel 1054, ma questa volta venne osservata
e registrata ovunque, anche in occidente. Qui da noi, anzi, il fenomeno destò
tale interesse che l'astronomo danese Tycho Brahe, scrisse anche un libro
sull'argomento intitolato «De nova stella». Dal titolo di quel libro, in
seguito, ogni nuova stella che comparve in cielo venne chiamata nova.
In verità, sebbene il termine latino nova
significhi «nuova» non si tratta di una nuova stella, ma piuttosto, come
vedremo meglio in seguito, della morte di una vecchia avvenuta in seguito ad una
spettacolare esplosione. Una terza nova,
molto splendente, apparve pochi anni più tardi, nel 1604, nella costellazione
di Ofiuco (o del Serpente) e venne descritta, in questo caso, dal fisico
tedesco Keplero (Johannes Kepler). Da quei tempi, e fino ad oggi, vennero osservate
altre novae, ma non di proporzioni così
straordinarie come quelle del 1054, del 1572 e del 1604. A queste ultime, che
erano effettivamente di luminosità eccezionale, venne imposto il nome di supernovae,
riservando quello di novae ai casi
meno appariscenti. Quindi, come si è detto, dal 1604 ad oggi non è
più apparsa, nella nostra Galassia, alcuna supernova e di ciò ci si rammarica,
perché dai tempi di Galilei l'uomo costruì e perfezionò per l'osservazione del
cielo numerosi strumenti, che avrebbero consentito di studiare questi
fenomeni in modo molto preciso e dettagliato. Tutte le supernovae apparse in
passato furono invece osservate solo ad occhio nudo non essendo stato ancora
inventato alcuno strumento ottico: il cannocchiale venne utilizzato da Galilei,
per la prima volta, nel 1609, cinque anni dopo l'apparizione dell'ultima supernova. 2. DI CHE COSA SONO
FATTE LE STELLE? Come abbiamo visto, ci sono voluti più di
duemila anni per capire che anche nei cieli avvengono dei mutamenti, ma ci
vorranno ancora alcuni secoli di osservazioni e di studio per conoscere la
composizione dei corpi celesti. E' infatti solo da poco più di cent'anni che
sappiamo con esattezza di che cosa siano fatte le stelle ed è appena da una
cinquantina d'anni che abbiamo scoperto quali sono le loro fonti di energia. Fino alla metà dell'Ottocento l'uomo era
convinto che le stelle fossero costituite di un materiale speciale, la
cosiddetta «quinta essenza» (le altre quattro erano aria, acqua, terra e
fuoco) cui dettero il nome di etere;
questa sostanza doveva avere la proprietà di brillare in eterno senza
logorarsi. La cosa oggi appare inconcepibile, ma bisogna tenere presente che
solo nell'ultimo secolo si è capito finalmente che le stelle, essendo fatte
della stessa materia di cui sono costituiti gli oggetti terrestri, si dovevano
consumare e deteriorare nel tempo, fino a spegnersi completamente.
L'unico mezzo attraverso il quale possiamo avere
informazioni relativamente alle proprietà chimiche e fisiche delle stelle è la
luce che queste ci inviano. Lo strumento che ha consentito di captare,
analizzare e misurare la luce delle stelle è lo spettroscopio, un dispositivo
che trae origine da una osservazione compiuta da Isac Newton verso la fine del
1600. Il grande fisico inglese fece passare la luce del
Sole attraverso un prisma di vetro osservando il formarsi, su di uno schermo, di
una sequenza di colori (gli stessi dell'arcobaleno). A questa striscia di colori
venne dato il nome di «spettro» da un termine latino che significa
apparizione, miraggio, con allusione al fatto che la luce era sempre la stessa
ma, per effetto del prisma trasparente attraverso il quale veniva fatta passare,
appariva diversa, ovvero scomposta in vari colori. Nel 1814, a Vienna, un ottico di origine tedesca,
Joseph von Fraunhofer, ponendo una sottile fenditura davanti al prisma
attraverso il quale passava la luce, osservò il formarsi di una serie di righe
nere che solcavano lo spettro solare. Egli ne contò più di 700, però non
seppe dare giustificazione della loro presenza. Stranamente, nonostante
l'incertezza sul significato delle righe dello spettro solare, la tecnica
spettroscopica fu tuttavia immediatamente applicata ai pianeti e alle stelle più
brillanti, e ne risultarono analogie e differenze. Da queste osservazioni si poté trarre
il convincimento che tutti i corpi celesti fossero oggetti con caratteristiche
spettroscopiche comparabili e quindi, presumibilmente, fatti della stessa
materia, anche se lo stato fisico e la temperatura potevano essere diverse. Verso la fine del secolo XIX si riuscì
finalmente a capire che cosa significavano quelle righe scure all'interno dello
spettro colorato delle stelle. L'arcano venne svelato da due fisici tedeschi,
Gustav Kirchhoff e Robert Bunsen, i quali osservarono che riscaldando un gas di
sodio si otteneva una fiamma di colore giallo la cui luce, fatta passare
attraverso il solito prisma di vetro, produceva uno spettro nero solcato da due
righe gialle molto vicine fra loro. Confrontando quindi lo spettro del Sole con
quello ottenuto dai vapori di sodio, Kirchhoff e Bunsen poterono notare la
coincidenza fra le righe colorate dello spettro del sodio incandescente e due
analoghe, ma scure, presenti sullo spettro del Sole. In altre parole, le righe
brillanti, o in emissione, del gas caldo di sodio coincidevano con quelle nere o
in assorbimento dello spettro del Sole. Da ciò i due scienziati tedeschi
dedussero che sul Sole vi doveva essere del sodio. Successivamente vennero osservate, sullo spettro
solare, righe corrispondenti ad altri elementi chimici presenti sulla Terra.
Queste osservazioni convinsero gli scienziati che il Sole doveva essere un corpo
molto caldo avvolto da vapori relativamente più freddi. La massa interna molto
calda e molto densa emetteva una radiazione luminosa continua, cioè
comprendente tutti i colori dello spettro (come si era osservato in laboratorio
per i corpi incandescenti solidi, liquidi e anche gassosi ma molto compressi),
mentre i gas esterni, meno caldi e più rarefatti, assorbivano alcune radiazioni
producendo le righe nere sullo spettro solare. Queste righe erano determinate
dagli atomi degli elementi presenti nei gas dell'atmosfera solare. Ulteriori osservazioni spettroscopiche, condotte
sulle stelle, evidenziavano la presenza degli stessi elementi chimici esistenti
sul Sole. Era ormai chiaro a tutti che la materia doveva essere la stessa
ovunque e che molti degli elementi scoperti dai chimici sulla Terra erano
presenti anche sulle stelle. A conferma di ciò vi fu il riconoscimento di
alcuni elementi chimici sulle stelle prima ancora che gli stessi venissero
osservati sulla Terra. L'esempio più classico è quello dell'elio, un elemento
osservato nello spettro solare nel 1868, trent’anni prima che venisse isolato
sulla Terra. Il nome di elio (dal greco «helios» che significa Sole),
assegnato a questo elemento, è legato proprio al luogo del suo primo
ritrovamento. Alla fine dell’Ottocento l'uomo era riuscito
finalmente a capire quale fosse la composizione chimica delle stelle lontane (e
naturalmente del Sole) senza doversi recare sul posto. La cosa fu molto
sorprendente anche perché pochi anni prima, il filosofo francese Auguste Comte,
padre del positivismo, affermava: "Gli uomini potranno misurare con sempre
maggiore precisione la posizione e le distanze degli astri, ma mai riusciranno a
sapere di che cosa sono fatti". Anche per la scienza dovrebbe valere quello
che si usa dire in politica: "Mai dire mai". 3. L'ENERGIA DEL SOLE E L'ETA' DELLA TERRA Il problema relativo all'energia prodotta dal
Sole (e dalle altre stelle) venne affrontato a partire dalla seconda metà del
diciannovesimo secolo. A quel tempo, sulla base del principio dell'uniformismo
di Hutton, si era tentato di determinare l'età della Terra. James Hutton, un geologo scozzese vissuto nella
seconda metà del 1700, ipotizzò che la storia passata del nostro pianeta
potesse essere spiegata in base a ciò che accadeva al presente. Questo è per
l'appunto il contenuto del cosiddetto «principio dell'uniformismo» (o
dell'attualismo, come verrà in seguito chiamato da Charles Lyell, altro grande
geologo di estrazione britannica). Si tentò, quindi, sulla base di questo
principio, di calcolare l'età della Terra attraverso la stima del tempo
necessario allo svolgimento di alcuni fenomeni naturali che presumibilmente si
erano realizzati con lo stesso ritmo anche nel passato. Misurando ad esempio la velocità di accumulo di
sabbie e detriti sul fondo di bacini lacustri o di lagune, si riuscì a stimare
l'età di strati di rocce sedimentarie, di notevole potenza (spessore), formate
da quel tipo di materiali. Questo metodo non era molto preciso perché
l'erosione, la dislocazione degli strati rocciosi e la deformazione degli
stessi, modificando nel tempo la disposizione originaria del deposito, avrebbero
potuto falsare i risultati. Tuttavia, nonostante le difficoltà incontrate
nell’applicazione di queste tecniche di misura, si arrivò ugualmente a capire
che la Terra non era molto giovane come si era sempre pensato, ma avrebbe dovuto
avere un'età di almeno qualche centinaio di milioni di anni. Si tentò anche di misurare l'età del nostro
pianeta attraverso la stima del tasso di accumulo di sali nel mare partendo dal
presupposto che all'inizio i mari stessi fossero formati di acqua dolce e che i
sali vi fossero stati portati successivamente dai fiumi. Si pervenne quindi al
risultato che il tempo necessario affinché i fiumi potessero portare al mare
tutti i sali attualmente presenti (35 grammi per ogni litro di acqua) sarebbe
stato di un miliardo di anni. Questi tempi così lunghi della vita della Terra
erano favorevolmente accolti dai biologi i quali, nella seconda metà dell'Ottocento,
cercavano di ricostruire le tappe della lenta evoluzione degli organismi viventi
a partire dalle prime forme unicellulari. Ma tempi così lunghi non erano
altrettanto graditi dai fisici i quali si chiedevano attraverso quali meccanismi il Sole avrebbe
potuto produrre tanta energia da garantire alla Terra un flusso così intenso e
costante di calore e di luce per milioni e milioni di anni. Il Sole invia sulla Terra ingentissime quantità
di energia, ma quella che in effetti produce e diffonde tutto intorno nello
spazio è un miliardo di volte superiore alla parte che investe il nostro
pianeta. Per avere un'idea dell'enorme quantità di energia prodotta dal Sole
basterebbe notare che in una frazione di secondo esso emette complessivamente più
energia di quella che il genere umano ha utilizzato in tutta la sua storia. In
altro modo si potrebbe dire che se si riuscisse a catturare la porzione di
energia che il Sole invia sulla Terra in un solo secondo questa sarebbe
sufficiente a risolvere definitivamente il problema energetico offrendo ad ogni
abitante del nostro pianeta la possibilità di consumare giornalmente quella
quantità di energia che oggi è disponibile solo per una minoranza
privilegiata. Da dove quindi il Sole potrebbe trarre energia in
così grande quantità e per tempi tanto lunghi? Verso la metà dell'Ottocento, il fisico tedesco Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz, uno dei padri
della legge della conservazione dell'energia, e il collega britannico William
Thomson (divenuto poi lord Kelvin) calcolarono che il Sole non avrebbe mai
potuto produrre energia attraverso un normale processo di combustione. La nostra
stella,
si sapeva, è molto grande, ma anche se fosse fatta interamente di carbone o di
qualche altro combustibile (petrolio, legno), non avrebbe potuto bruciare per
tempi molto lunghi. Fatti i conti, si comprese che se la luce e il calore
dell'astro che ci illumina e ci riscalda fossero prodotti interamente da
combustione di carbone esso si sarebbe ridotto in cenere in meno di mille anni.
E nemmeno prendendo in considerazione la forma più energetica di combustione
chimica che si conosca, ossia la reazione fra idrogeno e ossigeno che porta alla
formazione di acqua, il Sole avrebbe potuto sviluppare energia per un tempo
superiore a 3.000 anni. Ma il Sole vive da molti più anni. Scartata quindi l'idea che il Sole potesse
splendere in conseguenza di processi chimici, Helmholtz e lord Kelvin avanzarono
l'ipotesi che potesse farlo in seguito alla contrazione del suo volume. Il Sole
è formato di gas e i gas, come si sa, contraendosi, si riscaldano. Esso,
pertanto, sotto l'effetto della gravità, avrebbe potuto ridurre le sue
dimensioni a partire da una nebulosa molto estesa che, diminuendo il suo
diametro di solo una cinquantina di metri all'anno, avrebbe potuto dar ragione
dell'energia che emana. Al ritmo di cinquanta metri all'anno, il nostro
Sole si sarebbe rimpicciolito di un centinaio di kilometri in 2000 anni e
nessuno si sarebbe accorto (nemmeno con gli strumenti attualmente a
disposizione) di questa riduzione delle sue dimensioni. Andando però molto più
indietro nel tempo si arriverebbe, in alcuni milioni di anni, a dover immaginare
al posto del Sole, una nebulosa di volume enorme, addirittura più grande
dell'orbita terrestre. E' evidente che un Sole primitivo di dimensioni enormi,
in continua contrazione, non sarebbe conciliabile con un ritmo di emissione di
energia costante come indicano invece alcuni fossili relativi ad organismi che
per centinaia di milioni di anni non hanno cambiato sembianze. Sappiamo, ad
esempio, che la Lingula anatina, un Brachiopode che vive attualmente
nell'Oceano Indiano e nel Pacifico, e di cui è facile reperire i fossili, ha
conservato quasi inalterata la sua forma dal Siluriano ad oggi, cioè per quasi
400 milioni di anni. Questa è una prova convincente (ma non l’unica) del
fatto che l'ambiente fisico sulla Terra è rimasto pressoché costante per
centinaia di milioni di anni, cosa che sarebbe stata impossibile se il Sole
avesse subito variazioni di grandezza come quelle ipotizzate in precedenza. Verso la fine dell'Ottocento gli scienziati si
trovavano quindi divisi sul problema relativo all'età della Terra. I geologi
erano convinti che la Terra esistesse da tempi molto lunghi e che fosse rimasta più
o meno con le stesse caratteristiche per centinaia di milioni di anni e forse
addirittura per un miliardo, mentre dall’altra parte gli astronomi, sulla base
degli studi compiuti sul Sole, erano persuasi che la Terra non potesse esistere
da più di alcuni milioni di anni. 4. LA SCOPERTA DELLA RADIOATTIVITA' Mentre si dibatteva sull'età della Terra e sulla
fonte dell'energia solare, si ebbe la scoperta di un fenomeno fisico che avrebbe
consentito l'ingresso dell'astronomia nella sua fase più moderna e, nel
contempo, la spiegazione della produzione dell'energia da parte del Sole e delle
altre stelle. Si tratta della scoperta della radioattività, avvenuta
casualmente nel 1896, ad opera del fisico francese Antoine-Henri Becquerel. Becquerel, a quel tempo, si trovava a Parigi ed
era impegnato, insieme con altri fisici, nello studio del fenomeno della
fluorescenza. Si sapeva che i raggi catodici, generati nei cosiddetti «tubi di
scarica» (tubi di vetro all’interno dei quali veniva azionata una scarica
elettrica ad elevato potenziale), rendevano fluorescenti le pareti di vetro dei
tubi stessi quando dal loro interno si sottraeva l'aria per mezzo di una pompa
aspirante. Era stato anche osservato che il vetro, reso fluorescente dai raggi
catodici, generava, a sua volta, delle radiazioni che rendevano fluorescenti dei
sali di platinocianuro di bario, posti all'esterno. Il primo che notò queste radiazioni fu il fisico
tedesco Wilhelm Konrad Roentgen, il quale le chiamò raggi X per l'azione
misteriosa che mostravano. Egli osservò infatti che questi strani raggi erano
in grado di penetrare molte sostanze opache come la gomma, la carta e perfino il
corpo umano, al cui interno evidenziavano le ossa. I raggi X riuscivano
anche ad impressionare una lastra fotografica senza che venisse preventivamente
tolta dal suo involucro protettivo. Becquerel aveva scoperto che alcuni minerali di
uranio, esposti al Sole, diventavano fluorescenti e pertanto pensò che
avrebbero potuto emettere anch'essi raggi X o radiazioni simili. Egli allora,
dopo aver esposto alla luce del Sole i minerali di uranio, li poneva su una
lastra fotografica protetta dall'involucro di carta nera, per vedere se
riuscivano ad impressionarla. E in effetti, quando andava a sviluppare la
lastra, vi trovava l'impronta scura del minerale col quale era stata a contatto.
Avvenne però che in una giornata di cattivo
tempo, Becquerel non potendo continuare gli esperimenti, riponesse ogni cosa nel
cassetto in attesa che su Parigi tornasse il Sole. Quando, successivamente, il
fisico francese andò ad utilizzare le lastre fotografiche che aveva custodito
nel tavolo del laboratorio insieme ai minerali di uranio, si accorse che presentavano
macchie scure come se fossero già state usate. Fu così che scoprì che i
minerali di uranio emettevano radiazioni anche se non erano stati esposti
preventivamente ai raggi del Sole, e che quindi la proprietà di irradiare
doveva dipendere da caratteristiche insite nella sostanza stessa e non da
fattori esterni. Questa particolare proprietà della materia venne
chiamata «radioattività» dai coniugi Curie (Pierre e Maria Sklodowska, Premi
Nobel per la fisica nel 1903), i quali dedicarono tutta la loro vita allo studio
del fenomeno. A quel tempo si scoprì che molte sostanze
presenti nella crosta terrestre erano radioattive: oltre all'uranio, vi era il
torio, l'attinio, il polonio, il radio e altre ancora. Tutte queste sostanze
liberano energia che poi si trasforma in calore. Il calore emesso da un campione
di roccia è minimo, ma poiché le sostanze radioattive sono molto abbondanti e
diffuse uniformemente all'interno della crosta terrestre dove hanno continuato
ad irradiare per miliardi di anni, il calore emesso complessivamente doveva
essere enorme. Si veniva in questo modo a scoprire che la Terra possedeva una
propria fonte di calore, indipendente da quella derivante dalla massa fusa
originaria e da quella proveniente dal Sole e pertanto il suo raffreddamento
avrebbe dovuto avvenire molto più lentamente di quanto calcolato. In seguito a
queste nuove osservazioni l'età della Terra si allungava ulteriormente. Frattanto si scopriva che le sostanze
radioattive, e in particolare l'uranio, offrivano anche un metodo molto preciso,
detto dell'isotopo radioattivo, per la determinazione dell'età delle rocce. Gli
isotopi sono atomi diversi di uno stesso elemento, cioè atomi che contengono
nel nucleo lo stesso numero di protoni, ma un numero diverso di neutroni.
L'elemento idrogeno, ad esempio, è costituito da tre isotopi: prozio, deuterio
e trizio; il primo presenta nel nucleo un protone e nessun neutrone, il secondo
un protone e un neutrone e il terzo un protone e due neutroni. I neutroni fanno
solo massa, mentre la particella che caratterizza chimicamente l’idrogeno è
il protone. Molti elementi in natura sono costituiti da una miscela di isotopi,
e molti di questi isotopi sono radioattivi. Vediamo ora come sia stato possibile determinare
l'età delle rocce attraverso l'analisi del contenuto di sostanze radioattive.
L'isotopo 238 dell'uranio è radioattivo e si disintegra dando origine, alla
fine di un lungo e complesso processo di trasformazione, ad atomi che non sono
radioattivi. Il tasso di disintegrazione è assolutamente costante e non dipende
dalla temperatura, dalla pressione o da altre condizioni fisiche e chimiche a
cui è sottoposta la sostanza radioattiva; esso viene indicato, per comodità,
attraverso una grandezza che prende il nome di «periodo di semitrasformazione»
(o emivita). Questo rappresenta l'intervallo di tempo necessario affinché una
certa quantità di sostanza radioattiva diventi la metà. Quando una roccia solidifica, a partire da una
massa fusa, si forma una serie di cristalli, ciascuno dei quali è composto da
una ben determinata sostanza. Quindi, se una roccia contiene cristalli di
uranio, dobbiamo ritenere che all'inizio, cioè quando questi cristalli si
formarono, essi fossero costituiti esclusivamente dall’elemento uranio. Ora però,
col passare del tempo, l'uranio si è trasformato in piombo per cui dal rapporto
atomi di piombo/atomi di uranio presenti attualmente in un cristallo si dovrebbe
poter risalire al tempo in cui il cristallo stesso si formò, essendo nota l'emivita
dell'elemento radioattivo. Analizzando il contenuto in uranio e piombo delle
rocce più antiche che si possono raccogliere si riuscì a stabilire che la
Terra dovrebbe avere un'età di circa 4,6 miliardi di anni. Se l'età del nostro
pianeta è effettivamente questa, quella del Sole dovrebbe essere leggermente
maggiore, diciamo di 5 miliardi di anni. 5. MATERIA ED ENERGIA Agli inizi degli anni Venti del secolo scorso fu
imboccata finalmente la strada che avrebbe portato alla soluzione del problema
relativo alla produzione dell'energia del Sole e delle altre stelle. Il
suggerimento venne dal fisico inglese Arthur Stanley Eddington (1882-1944) il
quale indicò nella trasmutazione degli elementi radioattivi la probabile fonte
dell'energia solare. In quegli anni Einstein aveva formulato la teoria
della relatività speciale che conteneva l'equivalenza fra massa ed energia. Si
tratta di una legge molto nota che afferma che tutte le volte che da un corpo
viene estratta energia, deve diminuire la sua massa, e viceversa. Questa legge
è espressa dall'equazione E = m·c², dove E è l'energia, m la massa e c è la
velocità della luce. Poiché la velocità della luce elevata al quadrato è un
numero molto grande, la legge suggerisce che da piccole quantità di materia che
si annichiliscono, fuoriescono grandi quantità di energia. La scoperta che la materia poteva essere
considerata una forma di energia concentrata fece dunque sorgere il sospetto che
quella irradiata dalle stelle non venisse prodotta a spese del loro volume, come
pensavano von Helmholtz e lord Kelvin, ma a spese della loro massa. A quel tempo, l'unica sorgente di energia
nucleare che si conosceva era quella prodotta dall'uranio e dal torio. Potevano
le stelle trarre energia da queste sostanze? La risposta è no, e venne fornita dalla
spettroscopia che era ormai in grado di indicare con precisione la composizione
qualitativa e quantitativa del Sole e delle altre stelle. Esaminando la
posizione e lo spessore delle righe di Fraunhofer, si era potuto determinare non
solo il tipo di elemento chimico presente sulla stella, ma anche la sua
abbondanza. In realtà la questione non è così semplice perché le
caratteristiche dello spettro di una stella dipendono anche dalla temperatura,
la quale, in prima approssimazione, si può stabilire osservando il colore della
stella stessa. Come si sa dalla termodinamica, quanto più
aumenta la temperatura di un corpo, tanto più diminuisce la lunghezza d'onda
delle radiazioni luminose che esso emette in prevalenza. In altre parole, quanto
più un corpo è caldo tanto più chiara è la luce che si diffonde da esso.
Pertanto, una stella di luce rossa (come ad esempio Betelgeuse, della
costellazione di Orione) ha una temperatura superficiale piuttosto bassa (di
circa 3000 gradi kelvin, 3000 K), mentre il Sole, che emette energia soprattutto come
luce gialla, ha una temperatura sui 6000 K. Invece una stella come Rigel
(anch'essa presente nella costellazione di Orione) che al nostro occhio appare
azzurra, emette radiazioni prevalentemente di piccole lunghezze d'onda ed è
quindi molto calda (circa 30.000 K). L'analisi degli spettri prodotti dagli astri a
diverse temperature evidenziava che la composizione chimica di una stella era
mediamente la seguente: circa il 70% di tutta la sua massa era idrogeno, circa
il 29% era elio, mentre tutti gli altri elementi presi insieme costituivano poco
più dell'1% della massa totale. Nel 1915, il chimico americano William Draper
Harkins (1873-1951) suggerì l'idea che quattro nuclei dell'atomo di idrogeno
avrebbero potuto fondersi insieme per formare il nucleo dell'atomo di elio e che
dalla reazione si sarebbe potuta liberare energia. Questa «fusione» dei nuclei
dell'idrogeno avrebbe infatti prodotto un nucleo atomico (quello dell'elio) di
peso leggermente inferiore alla somma dei pesi dei quattro nuclei di partenza,
e pertanto, la massa mancante, sarebbe potuta uscire sotto forma di energia. Il processo di fusione nucleare venne studiato
accuratamente e si scoprì che per la sua attuazione sarebbero state necessarie
temperature elevatissime (milioni di gradi), che si sarebbero potute realizzare
solo nelle zone più interne delle stelle, le quali, in superficie, come abbiamo
appena visto, presentano temperature, al massimo, di poche decine di migliaia di
gradi. Nel 1920, il già ricordato fisico inglese Arthur
Stanley Eddington credette di aver individuato il motivo per il quale le stelle
non collassano definitivamente sotto l'effetto dell'enorme forza di gravità che
la loro stessa massa produce. Egli partì dall'osservazione che, poiché le
stelle sono dei corpi gassosi, per poter rimanere in equilibrio, l'attrazione
gravitazionale verso l'interno dovrebbe essere bilanciata da una pari forza, che
agisce verso l'eterno. Questa forza non poteva che essere quella generata dalla
pressione dei gas surriscaldati che si genera al centro della stella e che
spinge in senso opposto alla gravità. Ma affinché si creino pressioni tali da opporsi al carico
dei gas sovrastanti il "core" della stella (come si dice in termini
tecnici), cioè il materiale che sta al centro, dovrebbe trovarsi a temperature
di milioni di gradi. Che cosa potrebbe mantenere il nucleo di una stella
costantemente a temperature tanto elevate? Eddington pensò ovviamente
all'energia atomica. La temperatura e la densità molto elevate del
centro della stella dovrebbero essere tali da cambiare profondamente le
caratteristiche stesse della materia, la quale, in quelle condizioni, non
dovrebbe più essere formata da atomi interi, ma dai suoi costituenti sciolti,
cioè da nuclei di atomi e da elettroni liberi di muoversi autonomamente come
avviene per le molecole che costituiscono un gas. Questo stato disordinato della materia viene
detto «plasma», un termine in verità per nulla appropriato per indicare
qualche cosa di caotico. Plasma infatti è una parola greca con la quale si
indica ciò che ha una configurazione ben definita, tanto è vero che la
corrispondente forma verbale «plasmare», significa proprio dar forma, quindi
tutto il contrario di quello che si voleva intendere assegnando quel termine
alla materia informe costituita da nuclei ed elettroni liberi da legami. Ma
ormai il termine è entrato nel linguaggio scientifico e l'errore non può più
essere corretto. Il plasma del centro del Sole sarebbe formato da
nuclei di atomi di idrogeno (cioè protoni), da nuclei di atomi di elio (o
particelle a),
da elettroni liberi e da pochi altri nuclei di atomi leggeri. A causa delle
altissime temperature e dell'eccezionale affollamento, tutte queste particelle
dovrebbero essere in veloce movimento e generare urti molto frequenti e molto
violenti fino eventualmente a fondere insieme. Si trattava allora di elaborare
un modello particolareggiato e coerente in grado di spiegare attraverso quali
reazioni successive si sarebbero potuti combinare fra loro i nuclei degli atomi
più semplici affinché formassero nuclei di atomi più complessi. Il processo venne descritto dettagliatamente, nel
1938, da Hans Albrecht Bethe, uno scienziato statunitense di origine tedesca
nato nel 1906 e tuttora vivente, il quale individuò due strade attraverso le
quali avrebbe potuto verificarsi la fusione nucleare. I processi che
descriveremo relativamente al Sole, salvo lievi modifiche, valgono anche per le
altre stelle. 6. LE FORZE CHE TENGONO
UNITI I NUCLEONI Prima di esporre i processi di fusione nucleare
forse è opportuno ricordare come siano fatti gli atomi, o meglio di che cosa
siano costituiti i loro nuclei. I nuclei degli atomi, come abbiamo già detto,
sono formati dall'unione di più protoni e neutroni, detti anche, con termine
unico, nucleoni. I protoni sono corpuscoli con carica elettrica positiva,
mentre i neutroni non possiedono carica elettrica. Ora, poiché sappiamo che le
cariche elettriche dello stesso segno si respingono, viene da chiedersi come
possano stare insieme, senza disintegrarsi, i nuclei degli atomi che contengono
più di un protone al loro interno. Evidentemente deve esistere una forza, più
forte di quella elettrica di repulsione, che tiene uniti i nucleoni all'interno
dei nuclei atomici. Di che forza si tratta? Poiché la meccanica quantistica suggeriva l'idea
che le forze si manifestano con lo scambio di particelle (fotoni per la
forza elettromagnetica e gravitoni per la forza di gravità), nel 1935 il
fisico giapponese Hidekei Yukawa avanzò il convincimento che se fosse esistita
effettivamente una forza in grado di tenere uniti i protoni e i neutroni
all'interno del nucleo, nello stesso luogo avrebbe dovuto essere presente anche
una particella di grandezza intermedia fra quella dell'elettrone e quella del
protone adatta a svolgere questo ruolo. Questa particella, con la funzione di «collante»,
avrebbe dovuto interagire con i nucleoni, così come, ad esempio con le
particelle cariche di elettricità, interagiscono i fotoni. La particella
ipotizzata da Yukawa fu chiamata mesone (dal greco «meso» = che sta in mezzo)
e venne individuata nel 1937 in uno storico esperimento condotto all'interno
delle cosiddette «camere a nebbia». La forza connessa alla presenza del mesone
fu chiamata «interazione forte» ed ha la caratteristica non solo di essere
molto più energica di quella elettrica, ma anche di agire esclusivamente fra
particelle poste a brevissima distanza, come sono per l'appunto i nucleoni
all'interno dei nuclei atomici. La forza nucleare opera nel modo migliore quando
neutroni e protoni all’interno del nucleo sono in proporzioni determinate. Se
i nuclei contengono fino ad un massimo di quaranta particelle la proporzione
migliore è quella costituita da un numero uguale di protoni e neutroni. Nel
caso di nuclei più complessi la stabilità è garantita da un numero di
neutroni superiore a quello dei protoni. Il nucleo dell’atomo di piombo, ad
esempio, contiene 83 protoni, ma ben 125 neutroni. Un nucleo atomico con
nucleoni in proporzioni diverse da quelle dei nuclei stabili tende a modificare
il numero di protoni e neutroni esistenti in modo da rientrare nella regione
della stabilità. I nuclei instabili sono quelli degli atomi radioattivi. La forza nucleare è molto intensa ma diminuisce
fortemente con la distanza tanto che già all’esterno del nucleo non è più
sensibile. A differenza della nucleare, la forza elettrica, espressa dalla legge
di Coulomb, agisce invece a tutte le distanze anche se con diversa intensità e
può essere sia attrattiva che repulsiva. Ad esempio, la forza che agisce fra
due corpi carichi di elettricità dello stesso segno, posti ad una certa
distanza, si fa più intensa quando gli oggetti stessi si avvicinano, perché
tale forza è direttamente proporzionale al prodotto delle cariche in gioco, ma
inversamente proporzionale al quadrato della distanza a cui sono poste le
cariche stesse: di conseguenza aumenta di poco all’aumentare della carica, ma
di molto al diminuire della distanza. Proviamo allora a condurre un esperimento
concettuale, cioè teorico, nel quale si immagina di lanciare due protoni l'uno
contro l'altro. Durante l’esperimento noi dovremmo vedere, in un primo tempo,
i due protoni avvicinarsi, ma poi, quando si venissero a trovare molto vicini,
la repulsione elettrica dovrebbe farsi tanto intensa da produrre il loro
allontanamento, e quindi li si dovrebbe vedere rimbalzare lontano. Ora, però,
se l'energia con la quale i nostri due protoni vengono lanciati l'uno contro
l'altro fosse molto grande, prima che prenda il sopravvento la repulsione di
natura elettrica, essi potrebbero venire a trovarsi così vicini l’uno
all’altro da risentire l'effetto della interazione forte che, come abbiamo
detto, è una forza attrattiva che si rende efficace a brevissima distanza. I
due protoni, quindi, essendo finiti molto vicini, invece che respingersi,
dovrebbero rimanere agganciati definitivamente perché ciò che la forza
nucleare ha unito la forza elettrica non può più dividere. Naturalmente, se il
tentativo venisse effettuato per unire un protone ed un neutrone, invece che due
protoni, l’energia necessaria per avvicinarli dovrebbe essere minore di
quella impiegata nell’esperimento precedente. Se al centro del Sole si unissero due protoni,
nel modo che abbiamo descritto, si formerebbe il nucleo dell'atomo di elio-2 il
quale è una particella molto instabile perfino a temperatura ambiente e quindi,
verosimilmente, in quel luogo caldissimo si disintegrerebbe immediatamente dopo
formata. Però esiste la possibilità che un protone possa perdere un positone
(ossia un elettrone positivo) divenendo neutrone e l'unione di un neutrone con
un protone non solo richiederebbe meno energia, ma condurrebbe anche ad una
struttura più stabile. Se un protone può perdere un positone e
trasformarsi in neutrone, il protone stesso potrebbe essere immaginato come un
neutrone che porta legato a sé un positone. Ebbene, le cose stanno
effettivamente in questi termini e la forza che lega queste due particelle si
chiama «interazione debole». Questa forza, a differenza di quella forte, può
essere sia attrattiva che repulsiva, ma agisce anch'essa solo fra particelle
poste a brevissima distanza. Abbiamo quindi visto che se un protone perde un
positone si trasforma in neutrone, ma esiste anche la possibilità contraria e
cioè quella di un neutrone che si libera di un elettrone e diventa protone.
Proprio studiando quest'ultimo fenomeno, intorno agli anni Trenta del secolo
scorso, i fisici
notarono che nel processo di trasformazione vi era un'inspiegabile perdita di
energia. La cosa sorprese non poco perché, a quel tempo,
era già nota una legge fondamentale della fisica, detta «legge di
conservazione dell'energia», secondo la quale l'energia può trasformarsi da un
tipo in un altro e può anche passare da un corpo ad un altro, ma il suo
ammontare complessivo deve rimanere inalterato. In altre parole, l'energia non
può né essere creata dal nulla, né svanire nel nulla. Ora, poiché la legge
di conservazione dell'energia è una di quelle leggi di natura che i fisici
ritengono inviolabili, si doveva trovare una spiegazione plausibile per
giustificare l'apparente perdita di energia che si notava nella trasformazione
del neutrone in protone. Il fisico austriaco Wolfang Pauli (1900-1958)
ipotizzò che l'energia mancante si fosse trasformata in un frammento di materia
(materia ed energia, come sappiamo, sono due entità intercambiabili) di massa
molto piccola e privo di carica elettrica. Questo corpiciolo di dimensioni
insignificanti, che in seguito verrà chiamato «neutrino» da Enrico Fermi, sarà
osservato direttamente all'interno di un reattore nucleare dai fisici
statunitensi Clyde Cowan e Frederick Reines solo nel 1953, cioè una ventina di
anni dopo la sua segnalazione teorica. Il motivo di tanta difficoltà nella sua
individuazione diretta va ricercato indubbiamente nelle dimensioni ridottissime
di questa strana particella, ma anche nel fatto che essa non possiede una carica
elettrica, qualità che invece l’avrebbe resa facilmente individuabile. Queste
caratteristiche di piccolezza e di neutralità consentono al neutrino di
attraversare la materia senza interagire (o quasi) con essa. Si calcola che un
neutrino potrebbe viaggiare attraverso un muro esteso da qui alla Proxima
Centauri (una stella che si trova a 40 mila miliardi di kilometri da noi) senza
mai scontrarsi con il nucleo di un atomo. Ciò sarebbe anche conseguenza del
fatto che i neutrini viaggiano alla velocità della luce (ulteriore prova,
quest'ultima, dell'assenza di massa perché gli oggetti dotati di massa devono
viaggiare necessariamente a velocità inferiori a quella della luce) e sono
sensibili solo all'interazione debole la quale, come abbiamo detto, si rende
efficace solo a brevissima distanza: in pratica solo quando una di queste
particelle dovesse centrare in pieno il nucleo di un atomo. Ora, poiché i
neutrini sfrecciano alla velocità della luce, essi rimangono in prossimità dei
nuclei atomici solo per tempi infinitamente brevi (un milionesimo di
miliardesimo di miliardesimo di secondo); troppo brevi perché si possano
verificare reazioni di sorta. Ma i neutrini, come vedremo meglio in seguito, si
formano in gran numero anche nel Sole in seguito alla fusione atomica
dell'idrogeno e quindi dovrebbero arrivare a frotte anche sulla Terra. Come fare
per rilevarli? Da più di trent'anni lo stesso fisico americano che li scoprì
all'interno dei reattori nucleari, Frederick Reines, è impegnato nella cattura
di neutrini provenienti dal Sole. L'esperimento è iniziato nel 1968 e in dieci
anni Reines era riuscito ad osservare già un gran numero di neutrini, ma
tuttavia in quantità minore di quella prevista teoricamente. Mancano
all'appello circa i due terzi dei neutrini pronosticati. E' sbagliata la teoria?
E' difettoso l'impianto sperimentale? Forse nulla di tutto ciò. Alcuni esperimenti condotti una ventina d'anni fa
sembrano indicare che esistono tre tipi diversi di neutrini che si
trasformano in continuazione l'uno nell'altro. Può essere quindi che gli
strumenti per la rilevazione dei neutrini usati per studiare il Sole, siano in
grado di captare una sola varietà delle tre entro cui, durante il viaggio
verso la Terra, i neutrini si trasformano variando incessantemente da una
specie all'altra. 7. LE SORGENTI
DELL'ENERGIA STELLARE Riprendiamo ora il discorso sulla fusione
nucleare. Abbiamo visto che se nel centro del Sole, oltre ai protoni, vi fossero
anche i neutroni, l'unione di un protone con un neutrone diventerebbe
relativamente agevole e si formerebbe anche un nucleo abbastanza stabile, cioè
il deutone (il nucleo dell'atomo di deuterio, l'isotopo pesante dell'idrogeno). Dopo che si è formato il deutone (o nucleo
dell’idrogeno-2) - suggerisce Bethe - potrebbe formarsi il nucleo dell'elio
attraverso due altre reazioni che coinvolgono protoni. In un primo momento
potrebbe aver luogo la produzione di nuclei di elio-3 per fusione di un nucleo
di deuterio con un protone, poi questi nuclei, a due a due, potrebbero reagire
fra loro formando il nucleo dell'atomo di elio-4, e liberare simultaneamente due
protoni. Il risultato complessivo di questa serie di
reazioni, chiamata reazione protone-protone o «catena p-p», è la conversione
di quattro protoni (cioè quattro nuclei dell'atomo di idrogeno) in un nucleo di
elio. Durante questo processo si libera energia perché vi è una perdita netta
di massa, in quanto la massa del nucleo dell'atomo di elio è leggermente
inferiore alla massa complessiva dei quattro protoni da cui tale nucleo ha
tratto origine. La perdita di massa, tuttavia, è appena dello
0,7%. Questo vuol dire che l'energia prodotta da quattro protoni che si uniscono
in un nucleo di elio è poca cosa, ma è notevole quella che si produce nel Sole
dove, in un solo secondo, viene generata l'energia corrispondente
all'annichilimento di quattro milioni e mezzo di tonnellate di materia. In altre
parole, in ogni secondo, nel Sole, 564,5 milioni di tonnellate di idrogeno si
trasformano in 560 milioni di tonnellate di elio, e si perdono pertanto 4,5 milioni di
tonnellate di materia (0,7% del totale) che si converte in energia. Ora, a prima
vista, la sparizione di 4,5 milioni di tonnellate di materia ogni secondo sembrerebbe una
perdita ingente e tale da consumare, in breve tempo, tutta la riserva di
idrogeno presente nel Sole, ma la massa del Sole è enorme (2x1030
kg) e dopo 5 miliardi di anni di attività ininterrotta, la perdita di materia,
percentualmente, è stata modesta. Per la precisione, il Sole da quando è nato
ha perso solo 6,5x1026 kg di materia e poiché si calcola che
continuerà a produrre energia a questo ritmo e attraverso questo medesimo
processo fisico di trasformazione per un tempo altrettanto lungo quanto quello
trascorso dalla sua formazione ad oggi, trasformerà in energia altrettanta
materia, ma alla fine non avrà perso nemmeno un millesimo della sua massa
totale. Sarebbe come se un uomo di 100 kilogrammi, dopo una lunga cura
dimagrante, constatasse di avere perso 100 grammi di peso, praticamente niente. A questo punto, prima di passare oltre, vi è da
chiedersi per quale motivo il Sole non si disintegri in un’unica grande
esplosione anziché realizzare i processi di fusione gradualmente nell’arco
di miliardi di anni. La risposta sta nella vita breve dei neutroni i quali
decadono uccisi dalla cosiddetta interazione debole, quella forza che come è
stato detto si esercita fra particelle poste a breve distanza. L’interazione
debole si manifesta fra due neutroni attraverso lo scambio di particolari
corpuscoli detti “particelle W”, scoperti dal fisico goriziano Carlo Rubbia
al centro di Ricerca Nucleare di Ginevra. I neutroni, diminuendo di numero,
rallenterebbero il processo di fusione e quindi in pratica svolgerebbero la stessa
funzione delle “barre di controllo” all’interno dei reattori nucleari. L'altro meccanismo attraverso il quale l'idrogeno può essere convertito in elio è detto ciclo carbonio-azoto, o «ciclo C-N»; esso è detto anche «ciclo CNO» perché alla reazione in verità partecipa anche l'ossigeno. Prima di parlarne dobbiamo quindi vedere in che modo potrebbe comparire il carbonio e gli altri elementi all'interno del Sole ed eventualmente anche nelle altre stelle. La teoria prevede che il carbonio potrebbe
formarsi, all'interno delle stelle, attraverso reazioni nucleari, ma in alcuni
casi questo elemento potrebbe anche essere già presente fin dal momento della
nascita della stella. Esistono infatti due tipi fondamentali di stelle che gli
astrofisici chiamano rispettivamente stelle di Popolazione I e stelle di
Popolazione II. Le prime si sarebbero formate in tempi relativamente recenti
utilizzando (almeno in parte) il materiale di quelle stelle che hanno terminato
la loro esistenza esplodendo e lanciando nello spazio la materia di cui erano
costituite, mentre le seconde si sarebbero formate all'inizio dei tempi, quindi
praticamente insieme all'Universo. Le stelle di Popolazione I, a cui appartiene
anche il Sole, contengono, come abbiamo visto, soprattutto idrogeno ed elio, ma
anche una discreta quantità di elementi più pesanti (fra cui carbonio e azoto)
e sono sistemate alla periferia delle galassie. Le stelle di Popolazione II
contengono invece quasi esclusivamente idrogeno ed elio e si trovano addensate
al centro delle galassie. Si ritiene quindi che quest'ultimo tipo di stelle si sia
formato quando si sono formate le galassie stesse, ossia poco dopo l'origine
dell'Universo. Per tale motivo sarebbe stato più logico chiamare stelle di
Popolazione I queste ultime, e riservare il nome di stelle di Popolazione II a
quelle che effettivamente si sono formate per seconde. Ma i nomi sono stati
assegnati quando non si conosceva ancora l'origine di questi due tipi di stelle,
e ora non è più possibile cambiarli. Le stelle di grande massa, come vedremo meglio in
seguito, hanno vita breve e terminano la loro esistenza esplodendo come supernovae.
Il materiale che queste stelle lanciano tutto intorno si mescola con le nubi di
gas presenti negli spazi interstellari e successivamente si condensa sotto la
propria attrazione gravitazionale, formando nuove stelle. Queste ultime sono
quindi stelle di seconda generazione e contengono una certa percentuale di atomi
pesanti che si erano formati nel nucleo delle stelle vissute in precedenza e
morte tragicamente in giovane età. Il Sole che come abbiamo detto è una
stella di questo tipo, è nato da una nube formata anche dai detriti
dell'esplosione di una supernova e contiene quindi atomi pesanti fin dal tempo
della sua formazione che è avvenuta quando la Galassia di cui fa parte aveva già
un'età di circa 10 miliardi di anni. Se una stella non contiene carbonio fin dalla sua
formazione questo elemento si dovrebbe formare, nel suo interno, a partire dagli
elementi leggeri che sono presenti. Non è facile tuttavia immaginare la nascita
di atomi di carbonio all’interno di una stella costituita esclusivamente di
idrogeno ed elio. Le reazioni che potrebbero dare l'avvio alla formazione di
elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio sono di due soli tipi, e cioè o
la cattura di un protone da parte del nucleo di elio, o la fusione di due nuclei
di elio. Nel primo caso si formerebbe il nucleo dell'isotopo 5 del litio, nel
secondo caso il nucleo dell'isotopo 8 del berillio. Ora però, né il litio-5, né
il berillio-8 sono nuclei stabili. E poiché se non si formano prima questi due
nuclei non si possono nemmeno formare quelli successivi, non si riusciva a
capire in che modo si sarebbe potuto originare, all'interno di una stella, il
nucleo dell'atomo di carbonio, indispensabile per l'avvio delle reazioni del
ciclo carbonio-azoto. Il problema relativo alla formazione del carbonio
fu risolto, alla fine, da due oscuri collaboratori di Bethe, E. E. Salpeter ed
E. Öpik i quali, prendendo le mosse da un'intuizione del fisico inglese Fred Hoyle, ipotizzarono che quando nel nucleo di una stella si riduceva
notevolmente il contenuto in idrogeno presumibilmente, in quella stella,
sarebbe terminata anche la reazione p-p. A quel punto, venendo a mancare
l’energia necessaria per la spinta verso l'esterno, si sarebbe verificato un
crollo del materiale della stella verso l'interno con conseguente aumento della
temperatura del nucleo centrale, fino a portarla a 100 milioni di gradi. A causa
di questa formidabile implosione, nel nucleo della stella anche la densità
sarebbe aumentata enormemente fino a raggiungere valori di almeno mille volte
superiori a quelli precedenti, già di per sé elevatissimi. In quelle
condizioni estreme, il nucleo di berillio-8, la cui vita è di appena una
frazione irrilevante di secondo (10-15 s), avrebbe fatto in tempo,
prima di scindersi nuovamente nei due nuclei dell'atomo di elio da cui era
derivato, ad unirsi ad un altro nucleo di elio. In altri termini, per l'elevata
densità, i nuclei degli atomi di elio nel centro della stella sarebbero molto
vicini gli uni agli altri e in quello stato è possibile immaginare uno scontro
praticamente simultaneo di tre nuclei di elio-4. Questi, combinandosi,
formerebbero il nucleo del carbonio-12. Una volta formatosi il carbonio-12, esso
fungerebbe poi da catalizzatore nucleare di una serie di reazioni che
coinvolgono i protoni (appunto quello che abbiamo chiamato il ciclo C-N). Il
carbonio-12 potrebbe allora assorbire gradualmente tre protoni trasformandosi
prima in azoto-13, poi in azoto-14 e quindi in ossigeno-15, emettendo
contemporaneamente due positoni e due neutrini. Successivamente, l'ossigeno
dovrebbe assorbire un quarto protone, quindi disintegrarsi espellendo una
particella a e ripristinando il carbonio-12 di partenza. L'effetto del ciclo di reazioni C-N è identico a
quello della catena p-p perché in entrambi i casi avviene la conversione di
quattro protoni in un nucleo di elio, con una perdita di massa dello 0,7% che si
converte integralmente in energia. L’unica differenza rispetto alla prima sta
nel fatto che nella reazione C-N serve l'atomo di carbonio come regolatore della
reazione. Ricapitolando, in una stella nel cui centro vi
siano
solo idrogeno ed elio e la cui temperatura interna non superi di molto i 10
milioni di gradi kelvin, l'energia prodotta dovrebbe derivare interamente dalla
catena di reazioni protone-protone. Invece in una stella che contiene nel suo
interno anche carbonio, potrebbe instaurarsi, oltre alla catena p-p, pure il
ciclo di reazioni carbonio-azoto, purché si raggiungano temperature adeguate.
La quantità di energia prodotta da un processo o dall'altro dipende dunque
dalla temperatura del nucleo della stella: se la temperatura si alza
notevolmente al di sopra dei 10 milioni di gradi, il ciclo di reazioni C-N
diventa la principale fonte di energia della stella. Perciò, per concludere, le stelle che hanno
massa molto grande e risplendono di luce bianco-azzurra molto intensa, in quanto
sono molto calde (come per esempio Sirio), traggono la loro energia
essenzialmente dal ciclo C-N, mentre le stelle più piccole e più fredde (per
esempio il nostro Sole) ricavano la loro energia attraverso la catena p-p. 8. IL DIAGRAMMA DI
HERTSPRUNG E RUSSEL Prima di vedere come sia possibile, con i dati a
disposizione, descrivere l'evoluzione delle stelle dal momento della loro
nascita a quello della morte, è opportuno accennare brevemente alla scoperta
che ha permesso di trattare, in termini scientifici, questo argomento. L'astronomo americano Henry Norris Russel,
proseguendo gli studi intrapresi dal collega danese Ejnar Hertsprung, scoprì,
agli inizi del Novecento, che esisteva una relazione molto semplice che legava
la luminosità assoluta di una stella al suo colore. La luminosità assoluta è una grandezza che
esprime la reale luminosità di una stella e non quella che appare
all’osservazione. In cielo, come è facile verificare, vi sono stelle molto
luminose e stelle poco luminose. Questa differenza di luminosità potrebbe
dipendere dalla distanza a cui si trova la stella oltre che dall’energia
effettivamente liberata. La conoscenza della distanza consente di stabilire la
loro luminosità assoluta o intrinseca, cioè la luminosità che deriva
unicamente dalla reale produzione di energia. Il colore di una stella, come già sappiamo,
dipende invece dalla temperatura superficiale: le stelle più fredde hanno
colore rosso, quelle più calde presentano un colore bianco azzurro. Si è
provveduto quindi ad una classificazione delle stelle anche in funzione del
colore dividendole secondo il cosiddetto «tipo spettrale», cioè in pratica
secondo un colore ben definito. Le classi individuate sono sette e vengono
indicate con una lettera maiuscola. Le stelle azzurre, molto calde, vengono
indicate con la lettera O, le altre, al calare della temperatura, appartengono
alle classi B, A, F, G, K, M. Il Sole appartiene alla classe G. Riportando sulle ascisse di un piano cartesiano
il tipo spettrale delle stelle, ossia la temperatura (in senso decrescente) e
sulle ordinate la loro luminosità assoluta (o intrinseca) si poteva notare che
quasi tutte le stelle si disponevano su una linea diagonale che partiva in alto
a sinistra del piano cartesiano e terminava in basso a destra. Questa linea
obliqua venne chiamata «sequenza principale» ed è formata da stelle che si
ordinano spontaneamente in quel modo anche in funzione della loro massa. Le più
massicce risultano infatti quelle che brillano di luce bianco-azzurra e si
trovano, nel diagramma, in alto a sinistra, mentre quelle meno massicce emettono
una fioca luce rossa e si trovano in basso a destra. Non tutte le stelle, però, appartengono alla
sequenza principale: ve ne sono alcune che, nonostante la loro temperatura
superficiale piuttosto bassa (motivo per il quale appaiono rosse) emettono
tuttavia molta luce in quanto hanno un volume enorme e di conseguenza liberano,
da una superficie di notevoli dimensioni, molta luce. Queste stelle, dette
giganti rosse, nel diagramma colore-luminosità, occupano sì la posizione a
destra, ma in alto invece che in basso. All'interno dello stesso diagramma trovano
sistemazione, questa volta in basso a sinistra, anche le nane bianche. Si tratta
di stelle che pur emettendo luce bianca e quindi presentando una temperatura
superficiale molto elevata, tuttavia, a causa delle loro dimensioni piuttosto
ridotte, emettono poca luce. 9. L'ORIGINE DELLE
STELLE La lettura del diagramma di Hertsprung e Russel
ci aiuta a delineare l'evoluzione delle stelle, ma per poterlo utilizzare
adeguatamente dobbiamo prima vedere come e quando nascono questi astri. Riguardo all'origine, vi sono ovviamente due sole
possibilità: o le stelle si sono formate tutte insieme all'inizio dei tempi,
cioè in pratica quando è nato l'Universo, o le stelle si sono potute formare
anche successivamente. In quest'ultimo caso esse dovrebbero formarsi anche
attualmente e ciò dovrebbe avvenire in quelle parti del cielo in cui c'è
materia disponibile per farlo. Nella nostra galassia esiste molta materia
rarefatta che riempie gli enormi spazi interstellari. Questa materia, a volte,
appare un po' più concentrata e si rende visibile o perché viene illuminata da
stelle poste nelle sue immediate vicinanze oppure perché impedisce la visione
nitida degli astri retrostanti. Questi addensamenti di materia sono abbastanza
frequenti, oltre che nella nostra, anche nelle altre galassie, e si ritiene che
da essi possano trarre origine le stelle. Alcune di queste nubi sono di dimensioni enormi e
al loro interno contengono, fra le altre, alcune stelle molto grandi e molto
luminose che costituirebbero la prova che gli astri si formano proprio a spese
del materiale che li racchiude. Sappiamo infatti che le stelle quanto più
grandi e luminose sono, tanto più breve è la loro vita perché molto
velocemente bruciano il combustibile nucleare di cui dispongono. Da ciò si
deduce che le stelle molto grandi che si osservano all'interno delle nubi di gas
non hanno avuto il tempo di allontanarsi troppo dal luogo in cui sono nate e
pertanto queste stelle dovrebbero essersi formate con il materiale della nube in
cui attualmente si trovano. Sembra quindi verosimile che le stelle, oltre che
esistere dall’inizio dei tempi, possano anche originarsi da nubi rarefatte e
fredde di gas e polvere che si trovano attualmente all'interno delle galassie:
ma in quale modo? Prima di azzardare una risposta è opportuno descrivere
brevemente come è nato l'Universo. Secondo le teorie più accreditate l'Universo
sarebbe nato dal nulla, ovvero da quella che viene definita una «fluttuazione
quantistica del vuoto» che avrebbe posto in essere un corpuscolo di dimensioni
estremamente ridotte (miliardi e miliardi di volte più piccolo di un protone)
nel quale però, potenzialmente, era concentrata tutta la materia e tutta
l'energia oggi esistente. Può sembrare un’affermazione bizzarra, ma in
realtà questa strana origine della materia e dell'energia dal nulla è prevista
dalla meccanica quantistica, una teoria che viene utilizzata per spiegare il
comportamento piuttosto originale dei corpuscoli di piccole dimensioni, come
sono ad esempio gli elettroni e i protoni. Secondo questa teoria il vuoto in
assoluto non esisterebbe perché anche là dove non vi fosse nulla di
osservabile, potrebbero sempre comparire e scomparire velocemente (senza cioè
dare il tempo per una loro registrazione) quelle che vengono chiamate «particelle
virtuali», le quali, in determinate condizioni, potrebbero anche concretizzarsi
in «particelle reali» (cioè registrabili). Le particelle virtuali appaiono
sempre in coppie e subiscono reciproca annichilazione se prima non vengono
allontanate per intervento di qualche fatto eccezionale. In tal caso le
particelle da virtuali si trasformano in reali.
Secondo la teoria, l'Universo potrebbe quindi
essere nato da una particella piccolissima e altamente simmetrica, ossia
omogenea in ogni sua parte, prodotta dal cosiddetto «falso vuoto», cioè in
una situazione di estrema instabilità. Questa particella effimera e insicura,
circa quindici miliardi di anni fa, all'improvviso, ruppe la simmetria che la
contraddistingueva e si dilatò a velocità impressionante (molto maggiore di
quella della luce) rilasciando tutta l'energia potenziale che stava al suo
interno. Questa energia in parte si condensò in particelle elementari
e in parte si conservò come tale. All'inizio, nell'Universo in formazione, le prime
particelle reali che comparvero erano quark, elettroni, neutrini e fotoni, ma
ben presto i quark si unirono a tre a tre per formare le particelle subatomiche
dotate di massa, cioè i nucleoni (protoni e neutroni). Ciò avvenne a seguito
dell'espansione e del raffreddamento a cui l'Universo andò incontro
immediatamente dopo la nascita. Mentre l'Universo continuava ad espandersi e a
raffreddarsi, i protoni e i neutroni si unirono e formarono i nuclei di
idrogeno-2, di elio-3 e di elio-4. Dopo pochi minuti, però, il processo di
fusione nucleare si arrestò, perché frattanto le particelle si erano
allontanate fra loro in misura tale che gli urti a cui andavano incontro non
erano più né frequenti, né efficaci. Quando l'Universo compì il mezzo milione di anni
di vita si era ormai raffreddato al punto da consentire agli elettroni di
sistemarsi definitivamente intorno ai protoni e ai nuclei più complessi. In
questo modo si vennero a formare gli atomi di idrogeno, di elio e di pochi altri
elementi molto semplici, mentre la radiazione, che in precedenza era rimasta
intrappolata all'interno della materia, poté finalmente sfuggire e viaggiare
liberamente nello spazio. Possiamo quindi ipotizzare che quando si
formarono i primi atomi, la materia e la radiazione fossero uniformemente e
simmetricamente distribuite nello spazio, come è attestato, fra l'altro,
dall'alto grado di uniformità della radiazione cosmica fossile. Si tratta della
notissima radiazione di fondo a 3 K (2,74 K, per la precisione), una radiazione
omogenea ed isotropa in quanto proveniente da tutte le direzioni con la stessa
intensità che rappresenta il residuo freddo del lampo iniziale che dette inizio
all’Universo. Il gas primordiale uniformemente distribuito
nello spazio divenne però instabile quando la spinta prodotta dal big bang
iniziale si attenuò e prese il sopravvento l'attrazione gravitazionale. A quel
punto si produssero delle piccole fluttuazioni che avrebbero poi innescato quei
processi di frazionamento e di addensamento di grandi ammassi di gas che
avrebbero originato le galassie. All'intero di queste prime galassie, o
protogalassie, attraverso un fenomeno entro certi limiti analogo a quello che
dette loro origine, si sarebbero formate successivamente le stelle (o, meglio,
le protostelle). A differenza delle protogalassie, in cui il moto
rotazionale intorno al centro di massa controbilancia la forza gravitazionale
per mezzo della forza centrifuga, le protostelle non possono mai raggiungere uno
stato di equilibrio perfetto perché nel loro caso il lento moto rotazionale non
è in grado di contrastare l'attrazione gravitazionale che costringe la massa
gassosa a contrarsi sempre più. L'energia gravitazionale, a mano a mano che la
stella si contrae, si trasforma infatti per metà in energia termica e per
l'altra metà in energia elettromagnetica, che viene irraggiata verso l'esterno.
Con il passare del tempo, la temperatura della massa stellare va quindi
aumentando e con essa aumenta la pressione verso l’esterno la quale, quando
raggiunge un valore tale da contrastare quella prodotta dal campo
gravitazionale, determina l'equilibrio provvisorio della massa stellare: la
protostella, a quel punto, è diventata stella. Naturalmente anche questo equilibrio è precario
perché la stella frattanto continua ad irradiare e di conseguenza a
raffreddarsi. Con il calo della temperatura si abbassa naturalmente anche la
pressione che dall'interno dovrebbe contrastare la forza gravitazionale. Questo
abbassamento della pressione interna produce un'ulteriore contrazione della
materia nel centro della stella con il conseguente aumento della sua
temperatura. Fino all'inizio del secolo appena concluso, come abbiamo visto, si
pensava che proprio la contrazione gravitazionale potesse dar conto dell'energia
persa dal Sole per irraggiamento, ma poi si è capito che ciò non poteva essere
vero. La formazione delle prime stelle iniziò,
verosimilmente, al centro delle protogalassie dove la condensazione di nuvole di
gas doveva essere maggiore che altrove. Fra le prime stelle che si formarono ve
ne erano sicuramente alcune molto grandi. Ora, come abbiamo visto in precedenza,
le stelle molto grandi hanno una vita piuttosto breve che si conclude con
un'esplosione. L'onda d'urto provocata da questa esplosione, produsse, a sua
volta, condensazioni di materia tutt'intorno, e quindi l'innesco per la
formazione di nuove stelle. La grandissima maggioranza delle stelle (stelle di
Popolazione II) ha avuto quindi origine al centro delle galassie ed è stata
provocata da onde d'urto provenienti da supernovae. Polveri e gas sono invece
rimasti in abbondanza alla periferia delle galassie stesse dove ancor oggi vi è
materiale sufficiente per la formazione di nuove stelle, le stelle di
Popolazione I. 10. L'EVOLUZIONE DELLE
STELLE All'inizio la densità di una protostella è
molto bassa e così pure la sua temperatura ma, con il progredire del collasso,
il nucleo centrale diviene sempre più denso e sempre più caldo. In questa
prima fase della sua esistenza, l'astro in formazione sta vivendo ancora a spese
dell'energia gravitazionale, ma ben presto, al centro, si raggiungeranno le
temperature necessarie all'innesco delle reazioni nucleari. Quando ciò avverrà
la nuova stella sarà entrata in possesso di una propria fonte di energia in
grado non solo di opporsi alla gravità che tenderebbe a schiacciarla sempre più,
ma anche adeguata a reintegrare le perdite dovute all'irraggiamento. L'astro
apparirà allora con le caratteristiche tipiche delle stelle della sequenza
principale del diagramma di Hertsprung e Russel e in questa condizione rimarrà
per il tempo più lungo della sua esistenza. Il tempo che una protostella impiega per
raggiungere il suo assetto stabile dipende dalle dimensioni iniziali. Se la nube
iniziale è molto grande questa si contrarrà rapidamente perché notevole sarà
la forza di gravità che agisce su di essa e, una volta raggiunta la forma
stabile, diventerà una stella bianca o azzurra di grosse dimensioni. Se invece
la nube iniziale è di dimensioni più modeste, la stella diventerà una gialla
o una rossa della grandezza del nostro Sole o anche meno.
Il nostro Sole (e le stelle simili ad esso), nel
primo periodo della sua vita, durato circa 15 milioni di anni, sarebbe passato
attraverso una fase detta T-Tauri, dal nome di una stella che è stata osservata
per la prima volta nella costellazione del Toro. Durante la fase di T-Tauri, la
nube di gas e polvere destinata a diventare stella, perde gran parte della sua
materia che si disperde nello spazio attraverso quello che viene chiamato «vento
stellare». Si tratta di particelle (in gran parte nuclei di atomi leggeri ed
elettroni) che vengono espulse dalla stella e proiettate nello spazio a grande
velocità. Gli astronomi ritengono che in questo momento della sua esistenza,
intorno al nostro Sole, si sarebbero venuti a formare i pianeti. Ora, poiché
molte stelle si trovano attualmente nella fase di T-Tauri, si desume che intorno
ad esse potrebbero originarsi sciami di pianeti e satelliti simili a quelli che
ruotano intorno al nostro Sole. Il Sole, come abbiamo detto, possiede le
caratteristiche che osserviamo attualmente da circa 5 miliardi di anni e con le
medesime rimarrà per altri 5 miliardi di anni, mentre le stelle
di dimensioni maggiori si estingueranno molto presto perché consumeranno
velocemente le riserve di combustibile. Sappiamo infatti che quanto più grandi
sono le dimensioni di una stella tanto maggiore sarà ovviamente la materia da
cui essa trae energia, ma tanto più estesa sarà anche la superficie da cui
fuoriescono le radiazioni. Ora si calcola che ad esempio una stella tre volte più
massiccia del Sole emette circa cinquanta volte più luce e quindi brucia
cinquanta volte più combustibile. Una stella tre volte più massiccia del Sole
consumerà quindi le sue scorte di combustibile in un tempo che sarà 3/50 di
quello impiegato dal Sole per bruciare le proprie. Si è trovato ad esempio che
per una stella molto splendente come Sirio la permanenza sulla sequenza
principale del diagramma H-R (in posizione comunque più alta rispetto a quella
occupata dal Sole), non sarà di molto superiore ai cento milioni di anni. Le stelle di massa più piccola del Sole
consumeranno invece lentamente il loro combustibile nucleare, non raggiungeranno
mai temperature molto elevate e stazioneranno nella sequenza principale (in
posizione inferiore rispetto al Sole) per tempi molto lunghi. Quindi, a seconda della grandezza della nebulosa
da cui hanno tratto origine, le stelle, dopo aver raggiunto la forma stabile, si
sistemeranno sulla sequenza principale in posizione diversa in relazione alla
loro massa, e vi rimarranno per tempi più o meno lunghi. Quando gran parte dell'idrogeno presente nel
centro di una stella delle dimensioni all’incirca del nostro Sole si sarà
esaurito, la reazione p-p avrà termine e la stella imploderà generando al suo
interno temperature molto alte, che consentiranno l'innesco del ciclo di
reazioni C-N. Queste reazioni sono molto più energetiche delle p-p e di
conseguenza la spinta verso l'esterno diventerà decisamente predominante sulla
gravità. La stella allora non sarà più in equilibrio e si espanderà
velocemente divenendo una gigante rossa. A quel punto la nostra stella
abbandonerà la sequenza principale e si dirigerà nuovamente verso la zona del
diagramma da cui era venuta, cioè in alto a destra. La stella ora, nonostante abbia una temperatura
più bassa, emetterà più calore di prima perché sarà diventata molto grande
la superficie da cui esce la radiazione. Il nostro Sole, come abbiamo detto,
passerà per questa fase fra circa 5 miliardi di anni. Allora le sue dimensioni
diverranno tali da inglobare Mercurio e Venere mentre la Terra, che si verrà a
trovare in prossimità della sua superficie, si incendierà come un fiammifero.
Se la nostra civiltà non si sarà estinta prima (cosa peraltro molto
probabile), in quell'occasione finirà sicuramente ogni possibilità di
sopravvivenza dell'uomo e di ogni altro essere vivente. Una volta raggiunto il massimo dell'espansione,
il nostro Sole inizierà nuovamente a contrarsi fino a portarsi un'altra volta
sulla sequenza principale, ma in una posizione più alta rispetto a quella
occupata in precedenza. In quella posizione, tuttavia, rimarrà per un tempo
molto breve in quanto ora la spinta dall'interno non sarà più sufficiente a
controbilanciare con efficacia la forza gravitativa che tende a farlo collassare.
In seguito al collasso la temperatura nel centro in un primo momento aumenterà,
ma poi, dissipato il calore verso l'esterno, diminuirà nuovamente per aumentare
un'altra volta in conseguenza di una successiva contrazione e così di seguito
per varie volte in un susseguirsi ritmico di variazioni di volume e di luminosità.
In altri termini, il nostro Sole diverrà una «variabile». La maggior parte
delle stelle variabili che si osserva attualmente in cielo (per esempio le
notissime Cefeidi) si trova sistemata proprio nella zona del diagramma
colore-luminosità nella quale dovrebbe andarsi a piazzare il Sole fra qualche
miliardo di anni. Durante questa fase di contrazione e dilatazione
ciclica, gli strati più esterni della stella potrebbero staccarsi e formare
intorno ad essa aloni simili ad anelli di fumo. Queste stelle effettivamente
esistono e vengono chiamate «nebulose planetarie», perché, all'osservazione
con i telescopi antiquati di un secolo fa, apparivano come dischetti simili a
pianeti (con i quali tuttavia, è bene dirlo esplicitamente, non hanno nulla a
che fare). A questo punto della sua evoluzione, una stella
come il nostro Sole o anche di dimensioni un po' maggiori, inizia le ultime fasi
della sua esistenza. Essa ha ormai quasi esaurito la scorta di carburante
atomico e quindi si contrae rapidamente diventando molto densa e molto calda: si
forma cioè quella che viene definita una «nana bianca», una stella destinata
a spegnersi lentamente. Una nana bianca infatti, non avendo più nulla da
"bruciare" molto lentamente si raffredda e da bianca diviene prima
gialla, poi bruna ed infine nera. Così finirà il nostro Sole e così finiranno
le stelle che gli assomigliano: un corpo piccolo e nero. I tempi necessari per
lo spegnimento di una nana bianca tuttavia sono molto lunghi tanto che si
ritiene probabile che nelle galassie non si sia ancora formata alcuna «nana
nera». Non sempre però la stella si arrende così
facilmente al suo destino. Può capitare, ad esempio, che durante il collasso
la nana bianca raccolga materia da una stella vicina (le nane bianche fanno
spesso parte di sistemi binari) e che questa materia, costituita soprattutto da
idrogeno (gas che è sempre presente sulla parte superficiale di una stella
anche quando si è esaurito al suo interno), raggiunta la nana bianca, venga
compressa dall'intensa forza di gravità che la piccola stella produce e quindi
riscaldata. Il riscaldamento del gas catturato potrebbe continuare fino al punto
di raggiungere le temperature sufficienti per avviare la reazione p-p. In
seguito all'energia sviluppata da questa reazione, la stella produrrebbe un
enorme lampo di luce e un'esplosione tale da spingere lontano parte
dell'involucro superficiale. Questo è il fenomeno che da Terra viene
interpretato come una nova. Dopo un po' di tempo, nuova materia verrà
attratta dalla piccola stella e l'evento si ripeterà: si parla allora di «nove
ricorrenti». A causa di queste esplosioni a ripetizione la stella, alla fine,
avrà espulso gran parte della sua materia e si sarà ridotta alle dimensioni di
una nana bianca non più grande della nostra Luna. Il Sole non ha le caratteristiche che abbiamo
illustrato sopra (esso fra l'altro non fa nemmeno parte di un sistema binario) e
quindi dopo che sarà collassato in una nana bianca finirà la sua esistenza in
solitudine trasformandosi lentamente in un blocco di materia molto denso e privo
di luce, cioè direttamente in una fredda nana nera. Le stelle molto grandi e quindi molto luminose
hanno un'evoluzione diversa da quella appena descritta. Si è osservato che
quando una stella ha una massa di 1,4 volte quella del Sole, o maggiore, va
incontro ad una fine drammatica e altamente spettacolare. Invece che espellere
gradualmente il suo involucro esterno, attraverso esplosioni successive, una
stella di grandi dimensioni lo fa in un'unica soluzione per mezzo di una
esplosione gigantesca che lancia nello spazio gran parte della materia di cui è
fatta: si forma cioè una «supernova». Queste stelle lanciano negli spazi
cosmici gli elementi più pesanti dell'elio che si erano nel frattempo
accumulati al loro interno e di cui ora esamineremo la genesi. 11. LA FORMAZIONE DEGLI
ELEMENTI PESANTI Abbiamo visto che poco dopo la nascita
dell'Universo si formarono i primi nuclei degli atomi più semplici con
l'aggregazione di protoni e di neutroni che a loro volta si erano formati assemblando i
quark che il big bang aveva prodotto. I fisici hanno calcolato che quando l'Universo
raggiunse l'età di una decina di minuti il 25% della materia presente in esso
era costituita di nuclei di elio-4, mentre il rimanente 75% era formato da
protoni. In realtà erano presenti anche altre particelle, ma in quantità
irrilevante: vi era qualche nucleo di deuterio, qualche nucleo di elio-3 e
frazioni insignificanti di nuclei di litio-7. Dopo la formazione dei nuclei degli elementi più
semplici, la temperatura dell'Universo in espansione continuava ad abbassarsi
raggiungendo ben presto valori ai quali non vi era più speranza alcuna che
potesse formarsi qualche altro nucleo atomico. Quando finalmente l'Universo
raggiunse l'età di circa mezzo milione di anni e la temperatura era scesa a
circa 3.000 K i nuclei cominciarono a catturare gli elettroni e si formarono i
primi atomi stabili. In pratica solo idrogeno ed elio. Oggi nell'Universo, oltre all'idrogeno e
all'elio, che tuttora rappresentano la parte maggiore della materia presente, vi
sono tuttavia anche altri elementi (basta guardarsi intorno per convincersi).
Sappiamo già che questi si sono formati all'interno delle stelle dove
esistono temperature elevatissime paragonabili a quelle che caratterizzavano
l'Universo primitivo. Vediamo in dettaglio come potrebbe essere avvenuta la loro
formazione. Quando nel centro di una stella termina la
reazione p-p, i nuclei degli atomi di elio che nel frattempo sono diventati
molto abbondanti, possono scontrarsi, a tre a tre, e formare il nucleo
dell'atomo di carbonio. Questo elemento è indispensabile, come abbiamo visto,
per l'innesco della reazione C-N, ma a partire da esso si possono formare anche
altri nuclei atomici. Se, ad esempio, ad un nucleo dell'atomo di carbonio si
unisce il nucleo dell'atomo di elio, si forma il nucleo dell'atomo di ossigeno.
In simboli questa reazione si potrebbe rappresentare nel modo seguente: C-12 +
He-4 = O-16. Successivamente l'ossigeno-16 potrebbe reagire con un altro nucleo
di elio e formare neon-20; questo, a sua volta, potrebbe catturare ancora un
altro nucleo di elio e formare magnesio-24, e così via verso la formazione di
elementi sempre più pesanti. Inoltre, nella zona di confine fra il nocciolo
della stella dove lentamente si è andato esaurendo l'idrogeno e la parte più
esterna che contiene ancora un po' di questo elemento potrebbero verificarsi
reazioni di cattura di protoni da parte degli isotopi pesanti, che in precedenza
si erano formati nel nucleo della stella. Per esempio, l'ossigeno-16 potrebbe
catturare un protone e formare fluoro-17 il quale a sua volta, per emissione di
un positone, potrebbe trasformarsi nell'isotopo più pesante dell'ossigeno,
l'ossigeno-17 (che ha un neutrone in più e un protone in meno del fluoro-17).
In questo modo si formerebbero molti isotopi nucleari: per esempio, il sodio-21
dal neon-20, l'alluminio-25 dal magnesio-24 e così via. Affinché possano innescarsi reazioni nucleari
fra nuclei di elementi pesanti e nuclei di elio e di idrogeno è necessario che
si realizzino temperature elevatissime. Queste reazioni infatti sono impedite
dalla repulsione coulombiana in quanto si tratta di far penetrare, in strutture
cariche positivamente (i nuclei degli elementi pesanti), altre strutture cariche
anch'esse positivamente (i nuclei degli atomi di elio e i protoni). Con il
crescere del numero atomico, diventa sempre più difficile costringere un
protone o un nucleo dell'atomo di elio a penetrare fra i molti protoni e
neutroni dei nuclei degli atomi pesanti per formarne altri più pesanti ancora. Però, se sono difficili le reazioni con
frammenti di materia con carica positiva, come abbiamo visto, dovrebbero essere
più facili le reazioni con neutroni che sono particelle senza carica elettrica.
I neutroni vengono prodotti all'interno delle stelle nei modi più svariati. Per
esempio, quando un nucleo di carbonio-13 assorbe un nucleo di elio, si forma il
nucleo dell'ossigeno-16 e contemporaneamente si libera un neutrone. I neutroni,
come si ricorderà, si potrebbero formare anche per la fuoriuscita di un
positone da un protone. Il neutrone, dopo essere stato catturato dal
nucleo di un elemento pesante, potrebbe liberarsi di un elettrone e trasformarsi
in protone. Il nucleo del nuovo atomo verrebbe allora a trovarsi con un protone
in più e un neutrone in meno e quindi sarebbe tramutato in uno degli isotopi
dell'elemento a numero atomico maggiore. Tutte queste reazioni avverrebbero
all'interno delle giganti rosse, ma ad un certo punto anche esse si
interromperebbero. L'arresto si verificherebbe quando la stella si venisse a
trovare nella condizione di produrre il ferro. Fino al momento della produzione del ferro, tutte
le reazioni nucleari attraverso le quali sono stati prodotti i nuclei degli
elementi pesanti, partendo da quelli più leggeri, erano reazioni esotermiche
cioè reazioni che si svolgevano spontaneamente con liberazione di calore. Ora,
però, accade che i nuclei degli atomi del ferro (e degli elementi ad esso
vicini nella Tabella di Mendeleev) sono molto stabili e quindi non hanno alcuna
tendenza a legare a sé altre particelle subatomiche, né a rompersi in
frammenti più piccoli: in pratica, non hanno alcuna tendenza a reagire
spontaneamente. Pertanto la trasformazione di atomi di ferro sia in atomi più
pesanti, sia in atomi più leggeri, invece che produrre richiede energia. La
conseguenza di tutto ciò è che la produzione di energia termonucleare,
all'interno di una stella, si arresta quando nella stella stessa compare il
ferro. In quel momento non si possono più innescare
reazioni che producano energia e quindi non vi è più nulla in grado di opporsi
alla forza di gravità che spinge i materiali verso il centro della stella.
Avviene pertanto il collasso della stella stessa; la materia si comprime
enormemente e la temperatura riprende a salire raggiungendo valori
incredibilmente alti. In queste condizioni i nuclei di ferro letteralmente si
sbriciolano liberando particelle a,
protoni e neutroni che potrebbero anche dar vita a nuove reazioni nucleari se
non fosse che sono stati generati attraverso una reazione endotermica, cioè
una reazione che ha prodotto a sua volta il raffreddamento brusco del nocciolo
della stella stessa. La stella quindi collassa velocemente creando, al
centro, valori di densità tali da provocare la penetrazione degli elettroni nei
protoni con formazione di neutroni. In questo modo, mentre il nucleo della
stella si riempie di neutroni, le parti più esterne si riscaldano fino a
raggiungere temperature di molti milioni di gradi. Nella zona che circonda il
nucleo centrale della stella, vi sono ancora elementi in grado di produrre
reazioni nucleari che liberano energia. Queste reazioni, per l'elevarsi
improvviso della temperatura, si attivano in tempi brevissimi generando una
quantità enorme di calore che la stella non è più in grado di dissipare
gradualmente attraverso la sua superficie. Questa allora, da reattore
nucleare che produce energia controllata, diventa improvvisamente una vera e
propria bomba atomica di dimensioni gigantesche e l'enorme quantità di energia
che si libera istantaneamente, provoca la sua esplosione catastrofica. La stella
diventa così una supernova. Durante la fase esplosiva si producono neutroni
un po' dovunque e in quantità elevatissima. La presenza di un gran numero di
neutroni consente il formarsi, in breve tempo, di elementi pesanti attraverso il
processo di cattura degli stessi. Il processo di cattura dei neutroni che si
realizza nel momento dell'esplosione di una supernova, è detto «processo r»
(o rapido) e porta alla formazione di nuclei eccessivamente ricchi di neutroni e
quindi instabili. Questi nuclei però, in seguito ad emissione elettronica,
trasformano parte dei neutroni in protoni creando strutture stabili. In tal modo
avrebbero origine gli elementi con elevato numero atomico, compresi quelli
radioattivi più pesanti dell'uranio. Al processo di cattura neutronica r si contrappone quello detto s
(dalla parola inglese slow che vuol
dire lento). Si tratta di un processo di cattura neutronica che avviene in tempi
molto lunghi e quindi in situazioni di stabilità della stella. In questo caso,
una volta catturato un neutrone, il nucleo, prima di catturarne un secondo, ha
tutto il tempo di assestarsi trasformando alcuni neutroni in protoni attraverso
l'emissione di elettroni, oppure anche di particelle a.
12. LE NANE BIANCHE La storia delle nane bianche inizia nel 1844
quando l'astronomo tedesco Friedrich Wilhelm Bessel, dall'Osservatorio di Königsberg
(una città che a quel tempo si trovava in Prussia ma che oggi fa parte della
Lituania con il nome di Kaliningrad) scoprì che Sirio, la stella più luminosa
del cielo, era dotata di un moto proprio. Bessel per primo determinò la
distanza di una stella attraverso la stima della sua parallasse e
successivamente si applicò a misurare quella di Sirio osservando gli spostamenti di quest'astro
rispetto allo sfondo delle stelle lontane. Raccogliendo i dati egli notò però che
Sirio si muoveva in cielo seguendo un percorso lievemente oscillante che mal si
conciliava con lo spostamento dovuto all'effetto di parallasse, il quale avrebbe
dovuto invece essere lineare. Sirio doveva quindi essere dotata non solo di un
moto proprio, ma avere anche vicino una stella che rendeva questo moto
leggermente sinuoso. Tutte le stelle hanno un moto proprio che però
appare molto piccolo a causa della loro grande distanza. La stessa cosa accade
per un aereo che quando vola molto alto in cielo sembra lento, mentre quando è
vicino al suolo lo vediamo muoversi molto velocemente.
L'idea di Bessel che Sirio avesse una compagna
era plausibile anche perché, proprio in quegli anni, si era scoperto che solo
raramente le stelle sono corpi isolati (come ad esempio il nostro Sole), mentre,
molto più di frequente, si tratta di sistemi binari o anche multipli legati fra
loro gravitazionalmente. Bessel, in base all'ampiezza delle oscillazioni, calcolò
anche che la compagna di Sirio avrebbe dovuto avere una massa ragguardevole,
circa la metà di quella della stella principale la quale a sua volta è grande
quanto il doppio del Sole. Non essendo però riuscito a vederla, concluse che la
compagna di Sirio, se esisteva, doveva essere una stella oscura. Diciotto anni più tardi, nel 1862, un ottico di
nome Alvan Clark, mentre metteva alla prova un nuovo telescopio di sua
costruzione, notò, vicino a Sirio, un piccolissimo puntino luminoso che poi si
scoprì essere proprio quella «compagna oscura» che Bessel aveva cercato
invano. Si trattava in effetti di una stella di magnitudo 11,2, quindi non
proprio oscura, tuttavia di luce fioca, cento volte più debole della più
debole delle stelle visibili ad occhio nudo. Quella stellina venne battezzata
Sirio B, ma qualcuno la soprannominò Cucciolo perché a volte Sirio veniva
chiamata Stella-cane (Dog-star), essendo la stella più luminosa della
costellazione del Cane Maggiore. Ora però, poiché la stella appena individuata
emetteva poca luce, mentre la sua massa doveva essere molto grande (altrimenti
non avrebbe potuto spostare una stella massiccia come Sirio dalla sua
traiettoria rettilinea), si era pensato, in un primo momento, potesse trattarsi
di una stella rossa a bassa temperatura. Nel 1915, però, l'astronomo americano
Walter Sydney Adams, analizzando lo spettro di questo flebile corpo celeste, si
accorse che la sua temperatura superficiale doveva essere altissima, almeno
quanto quella di Sirio A e quindi doveva emettere luce bianca e non rossa. La
nuova scoperta pose allora un interrogativo: se Sirio B è un corpo tanto caldo
al punto da emettere luce bianca, per quale motivo è così poco luminoso? L'unica spiegazione plausibile era che Sirio B
fosse di dimensioni molto ridotte. Se un oggetto è molto caldo, ma
contemporaneamente ha una superficie molto limitata, esso emette ovviamente poca
luce e infatti oggi sappiamo che Sirio B è una stella molto particolare: è un
po' più piccola della Terra, ma ha una massa leggermente più grande di quella
del Sole. La sua densità media è vicina a 35.000 g/cm³, quindi essa è migliaia di
volte superiore a quella della Terra che è di 5,52 g/cm³ e una pallina da
ping-pong, riempita con quel materiale, peserebbe 10 quintali. Naturalmente Sirio
B come qualsiasi corpo celeste non ha una struttura omogenea e infatti a mano a
mano che si procede verso l’interno la densità aumenta a causa del carico
sovrastante. La stessa cosa succede per il nostro pianeta che al centro ha una
densità ben maggiore di quella delle rocce superficiali. Nella regione centrale
il materiale che compone Sirio B raggiunge il valore di 100.000.000 g/cm³ e una
pallina da ping-pong riempita di quel materiale peserebbe più di 3.000
tonnellate. Successivamente furono osservate in cielo
numerose stelle del tipo di Sirio B, tutte molto vicine a noi. A queste stelle
fu assegnato il nome di «nane bianche» e si è calcolato che nella nostra
Galassia ve ne dovrebbero essere svariati miliardi, impossibili tuttavia da
osservare direttamente al telescopio date le loro enormi distanze e le esigue
dimensioni. Con la scoperta delle nane bianche ci si trovava
di fronte al problema di stabilire di che materiale fossero fatte in quanto non
si conosceva, a quel tempo, alcuna sostanza dotata di una così elevata densità.
L'enigma venne risolto dal fisico indiano Subrahamanyan Chandrasekhar nel 1930,
all'indomani della formulazione della teoria della meccanica quantistica. A quel tempo già si sapeva che gli atomi sono
fondamentalmente degli edifici vuoti in quanto le particelle che li
costituiscono (nuclei ed elettroni) sono piccolissime rispetto alle loro
dimensioni globali. Il diametro del nucleo di un atomo si aggira intorno a 10-13
cm, mentre quello di un atomo intero è circa 10-8 cm. Un atomo è
quindi circa 100.000 volte più grande del suo nucleo. Per farsi un’idea delle
dimensioni dell’atomo possiamo immaginare di ingrandirne uno fino a farlo
diventare quanto una palestra da cinque o sei mila spettatori: il nucleo di
quell’atomo non sarebbe più grande di un grano di pepe e ce ne vorrebbero
100.000 di queste minuscole sferette, collocate l’una a fianco all’altra,
per attraversare per lungo la palestra. Ci vorrebbero anche un milione di
miliardi (1015) di esse per riempire l’ambiente. Era quindi ragionevole immaginare che questi
atomi, all'interno di stelle molto piccole ma molto massicce, sottoposti a
pressioni enormi, potessero venire frantumati e schiacciati fino a ridurre
notevolmente gli spazi fra i nuclei centrali e gli elettroni periferici. La
materia, ridotta in queste condizioni, viene chiamata «degenerata» e la
possiamo immaginare come formata da palline di ping-pong schiacciate e a diretto
contatto. Lo schiacciamento degli atomi, tuttavia, non avrebbe potuto procedere
fino al punto da consentire alle particelle subatomiche di accalcarsi le une
sulle altre, perché ciò gli sarebbe stato impedito da un singolare
comportamento degli elettroni i quali, entrati in contatto fra loro, oppongono
resistenza ad una ulteriore compressione. Si tratta di un comportamento della
materia scoperto nel 1925 dal fisico austriaco Wolfang Pauli. Esso prende il nome di «principio di esclusione»
e riguarda le particelle subatomiche (come ad esempio gli elettroni) dotate di
una particolare proprietà interna detta «spin».
Queste particelle non possono trovarsi tutte insieme in una medesima
regione dello spazio, e quindi, in pratica, non possono avvicinarsi oltre un
certo limite, perché esiste una forza (che non deve essere confusa con quella
elettrica di repulsione) che glielo impedisce. In virtù di questa forza (detta
«pressione di Fermi») le nuvole elettroniche che orbitano nelle regioni più
esterne degli atomi, se la pressione a cui sono sottoposti è intensa, ma non
esageratamente elevata, si avvicinano ai nuclei ma senza collassare
definitivamente su di essi. Chandrasekhar calcolò che se la massa di una stella
non è troppo grande (per la precisione inferiore a 1,4 masse solari, massa che
viene detta «limite di Chandrasekhar») il definitivo collasso gravitativo su sé
stessa non avrebbe luogo in quanto sarebbe impedito dalla pressione di Fermi e
la stella raggiungerebbe una situazione di equilibrio con i nuclei atomici molto
vicini fra loro ma non a diretto contatto. In queste condizioni la materia si
troverebbe con i nuclei atomici in grado di potersi muovere liberamente quasi si
trattasse delle molecole di un gas: questo stato della materia infatti viene
anche detto «gas degenere». Abbiamo quindi visto che anche nel caso di una
densità enorme come quella presente all'interno di una nana bianca i nuclei
degli atomi sono tuttavia ancora sufficientemente separati gli uni dagli altri.
Ma è possibile comprimere ulteriormente la materia? Se i nuclei e gli elettroni
venissero a stretto contatto, tanto da penetrare gli uni negli altri, la densità
della materia diverrebbe quasi quanto quella dei nuclei atomici. Una pallina di
ping-pong riempita di questa materia peserebbe non 3000 tonnellate come quella
piena della materia che si trova al centro delle nane bianche, ma più di 30
miliardi di tonnellate e non ci sarebbe al mondo alcun mezzo in grado di
sollevarla e trasportarla. Esistono stelle la cui densità raggiunge quella dei
nuclei atomici? 13. LE PULSAR: STELLE
DI NEUTRONI Nel 1844 l'astronomo britannico William Parsons,
conte di Rosse, si mise ad ispezionare il cielo nella posizione in cui gli
astronomi orientali avevano detto di aver avvistato la supernova nel 1054. In
quella zona egli osservò una nebbiolina diffusa che chiamò «Nebulosa del
Granchio» (Crab Nebula in lingua
inglese) per il suo aspetto, con due protuberanze simili a chele, che ricordava
il noto crostaceo. Successivamente, nel 1920, il famoso astrofisico
americano Edwin Hubble, utilizzando il più potente telescopio allora esistente,
quello installato sul Monte Wilson in California, scattò una serie di
straordinarie fotografie della Crab Nebula in cui si poteva vedere che si
trattava di una massa turbolenta di gas (la quale sembrava il prodotto di una tremenda
esplosione) e, al centro, una stellina molto debole. Confrontando queste fotografie con quelle
scattate in passato, Hubble notò che le attuali dimensioni della nebulosa erano
leggermente maggiori di quelle precedenti. Era evidente che la Nebulosa del
Granchio si era espansa e forse il fenomeno era tuttora in atto. Fu infatti
possibile misurare la velocità di questa espansione e quindi risalire al tempo
in cui la stessa ebbe inizio. I calcoli portarono a stabilire che l'inizio del
fenomeno doveva essere avvenuto circa 900 anni prima, cioè proprio intorno alla
data in cui nella costellazione del Toro apparve quella stella luminosissima che
i cinesi chiamarono «Stella ospite». A quel punto non vi erano più dubbi: la
Nebulosa del Granchio non era altro che il residuo gassoso della supernova del
1054. Per quanto riguarda la stellina centrale, non
poteva che trattarsi del residuo della stella originaria esplosa come supernova
e in un primo momento si pensò ad una nana bianca, ma poi, in seguito ad una
serie di osservazioni e di argomentazioni teoriche, si dovette cambiare idea. Le
osservazioni portarono a concludere che la stellina sistemata al centro della
Nebulosa del Granchio doveva essere un corpo caldissimo perché emetteva
radiazioni di lunghezza d'onda molto breve, quindi ricche di energia, come raggi
X e raggi gamma. Questo stesso tipo di radiazione esce anche dai sincrotroni, le
apparecchiature di grandi dimensioni utilizzate dai fisici per accelerare,
all'interno di forti campi magnetici, le particelle subatomiche cariche di
elettricità. Le radiazioni emesse dalla stellina centrale della Crab Nebula
furono chiamate «radiazioni di sincrotrone» e avrebbero potuto essere
originate da elettroni ad alta velocità costretti a muoversi all'interno di un
campo magnetico molto intenso. In seguito a questa scoperta ci si convinse che
anche le altre supernovae avrebbero dovuto lasciare residui del tipo di quello
scoperto nella Nebulosa del Granchio. Si andò quindi alla ricerca di nebulose
in zone del cielo in cui erano apparse le supernovae negli ultimi 1.000 anni. In
effetti, da tutte queste nebulose, ma pure da altre, presumibilmente
corrispondenti a supernovae esplose in tempi molto antichi, provenivano delle
radiazioni molto intense del tipo di quelle scoperte nella Nebulosa del
Granchio, però senza l'evidenza di una stellina centrale. Il dubbio che la stellina di dimensioni
estremamente ridotte ma in grado di produrre enormi quantità di energia non
fosse una nana bianca, venne al noto astronomo indiano-americano Subrahamanyan
Chandrasekhar, intorno agli anni Trenta. Egli fece notare che le nane bianche
che si era riusciti ad osservare e studiare avevano tutte una massa inferiore a
1,4 masse solari. Queste stelle, nonostante la fortissima forza gravitazionale
che la loro stessa massa produce, non riescono tuttavia a contrarsi oltre un
certo limite perché gli elettroni che si muovono disordinatamente al loro
interno glielo impediscono. Ma che cosa sarebbe successo se la massa del residuo
stellare in contrazione fosse stata superiore al limite di 1,4 masse solari?
Chandrasekhar pensò che se gli elettroni di carica negativa, invece che vagare
liberi, si infilassero nei protoni di carica positiva, si otterrebbero delle
particelle neutre (i neutroni) che sotto l'effetto della gravità si dovrebbero
ammassare per formare una sfera molto più densa di quella rappresentata dalla
nana bianca. Queste ipotetiche stelle superdense vennero chiamate «stelle di
neutroni» e si pensò che proprio questo tipo di corpi celesti avrebbero potuto
rappresentare il residuo dell'esplosione di una supernova. Per farsi un’idea
della densità incredibile che regna all’interno di una stella di neutroni si
tenga presente che se la Terra venisse compressa fino a convertire tutta la sua
materia in neutroni ammassati gli uni sugli altri, essa assumerebbe le dimensioni
di una sfera che potrebbe trovare comodamente sistemazione all’interno di uno
stadio. Il Sole e tanto meno la Terra non potrebbero mai
trasformarsi in corpi di neutroni. Chandrasekhar calcolò che un astro, per
poter evolvere verso una stella di neutroni, avrebbe dovuto essere grande almeno
una volta e mezzo il Sole (per la precisione più di 1,4 volte la sua massa). Ma
una stella di neutroni è solo il residuo di un corpo celeste molto più grande
che ha dato origine ad una supernova. Una supernova doveva quindi essere
all'origine una stella tanto grande che, nonostante la perdita durante la fase
esplosiva di gran parte della sua massa, ne possedeva ancora a sufficienza così
da superare abbondantemente quella del Sole. Ora, stelle tanto massicce sono
piuttosto rare, ma si calcolò che se anche ve ne fosse stata solo una su cento,
dato il numero complessivo molto alto, le stelle pesanti si dovrebbero contare a
milioni anche solo all'interno della nostra Galassia. Sorse allora il sospetto che al centro della
nebulosa del Granchio e di molte altre nebulose, residuo anch'esse di
esplosioni di supernovae, vi dovesse essere una stella di neutroni e non una
nana bianca come si era sempre ritenuto. Le stelle di neutroni dovrebbero essere
corpi celesti estremamente piccoli con un diametro non superiore a poche decine
di kilometri e quindi forse quella che era stata vista al centro della Nebulosa
del Granchio non era il residuo dell’esplosione del 1054. Quello che si
cercava doveva infatti essere di dimensioni molto piccole, e pertanto, a quella
distanza, invisibile. Come fare per vedere stelle di dimensioni così piccole? Nell'agosto del 1967 una giovane astronoma
inglese, di nome Susan Jocelyn Bell, facendo uso di una apparecchiatura
speciale, notò una periodica emissione di onde radio proveniente da una zona
del cielo dove apparentemente non vi erano stelle. Gli impulsi radio si
susseguivano ad intervalli molto brevi (poco più di un secondo) e molto
regolari, tanto che all'inizio si pensò a segnali lanciati da esseri
intelligenti (i fantomatici «omini verdi» dei romanzi di fantascienza).
Successivamente però fu chiaro che non poteva trattarsi di segnali prodotti da
esseri intelligenti proprio perché erano molto regolari e quindi non davano
alcuna informazione e secondariamente perché la produzione di quegli impulsi
avrebbe richiesto una quantità di energia miliardi di volte superiore a quella
che il genere umano è in grado di produrre. Nessun essere intelligente, se
veramente tale, avrebbe potuto dissipare una così grande quantità di energia
per lanciare segnali praticamente privi di significato. Non poteva quindi che
trattarsi di un astro che subiva mutamenti in modo ciclico. Che tipo di corpo
celeste poteva essere? Si pensò a varie soluzioni, come quella di un
corpo che emetteva onde radio e che veniva periodicamente occultato da un altro
che gli girava intorno. Si pensò anche che poteva trattarsi di un corpo che
girava intorno al proprio asse, rivolgendo periodicamente verso Terra una
particolare zona della sua superficie che emetteva radioonde. Infine poteva
essere un oggetto che pulsava. A quel tempo si optò proprio per quest'ultima
soluzione e il corpo misterioso fu chiamato «stella pulsante» o, in modo
abbreviato, «pulsar» (dall’inglese
pulsating star). Oggi sappiamo che le pulsar in realtà sono
stelle di neutroni che ruotano molto velocemente su sé stesse formando un
intenso campo magnetico che trattiene i corpuscoli carichi elettricamente. Gli
altri corpuscoli, quelli senza carica, sarebbero trattenuti dal campo
gravitazionale fornito a sua volta di fortissima intensità. Il campo magnetico, però,
non riesce a trattenere gli elettroni in corrispondenza dei poli magnetici, da
dove gli stessi sfuggirebbero a grande velocità. Gli elettroni che fuggono
dalla stella, nel momento in cui rallentano la loro corsa, generano radiazioni
che possono venire raccolte da un osservatore posto a Terra tutte le volte che
un polo magnetico della stella si affaccia al nostro pianeta. La pulsar sarebbe
quindi come un enorme faro (non di luce, ma di onde radio), che appare acceso
solo quando è rivolto verso l'osservatore, e quindi non si tratterebbe di
stelle pulsanti, come si era pensato in un primo momento, ma di stelle rotanti. Sappiamo dalla fisica che quando un corpo carico
di elettricità accelera o decelera la sua marcia, emette energia sotto forma di
radiazioni elettromagnetiche. Gli elettroni che escono da una pulsar decelerano
allontanandosi dall’astro e quindi emettono radiazioni, ma non è detto che
queste debbano essere necessariamente onde radio. Le radiazioni emesse
da una pulsar potevano essere di tutte le lunghezze d'onda e quindi, in
particolare, anche radiazioni del visibile, cioè luce. Si andò quindi a vedere se la piccola stellina
di luce molto intensa posta al centro della nebulosa del Granchio non fosse per
caso una pulsar ottica. Per verificare se essa si accendeva e si spegneva a
brevissimi intervalli di tempo si doveva far uso di apparecchiature adatte. Nel
gennaio del 1969 venne puntato verso la stella in oggetto un apparecchio capace
di catturare gli impulsi luminosi e si notò che effettivamente quella che era
sempre stata ritenuta una nana bianca era invece una stella di neutroni. Ma perché le pulsar dovrebbero essere stelle di
neutroni? La risposta si ottiene attraverso ragionamenti logici. Innanzitutto le
pulsar dovrebbero essere oggetti molto piccoli perché solo oggetti molto
piccoli possono ruotare a velocità tali da consentire di produrre impulsi
elettromagnetici estremamente frequenti. Le pulsar inoltre dovrebbero essere
anche molto dense altrimenti la forza centrifuga provocata dalla rotazione
vincerebbe la forza di gravità con conseguente disintegrazione. Si è calcolato
che per evitare che la stella vada a pezzi in seguito alla rotazione la densità
dovrebbe essere di almeno un milione di tonnellate per centimetro cubo
(un’enorme petroliera a pieno carico ridotta alle dimensioni di uno spillo),
quindi ben maggiore di quella delle nane bianche. Le pulsar pertanto non
potrebbero essere nane bianche rotanti, perché queste ultime non hanno la
densità richiesta. Appare così opportuno chiarire come una stella di
neutroni possa acquistare una velocità di rotazione tanto elevata. Una stella di
questo tipo, come abbiamo visto, si forma in seguito al collasso gravitazionale
di un corpo di grande massa che ruota su sé stesso sempre più velocemente a
mano a mano che si riducono le sue dimensioni. Si tratta del ben noto principio
di conservazione del momento angolare utilizzato anche dalle ballerine le quali,
per girare su sé stesse molto velocemente, si imprimono prima una rotazione
tenendo le braccia ben larghe e poi le rinserrano al petto di colpo. Si può
dimostrare che la velocità angolare di una stella che collassa cresce in
proporzione inversa del quadrato del raggio. In pratica, se questo si riducesse
di 100 mila volte (come è il caso delle stelle di neutroni), la velocità
angolare aumenterebbe di 10 miliardi di volte rispetto al valore di partenza. Se
il Sole, ad esempio, potesse diventare una stella di neutroni (ma come abbiamo
visto non ne ha la massa sufficiente) il suo periodo di rotazione, che è di 25
giorni, si ridurrebbe a solo due decimillesimi di secondo. Le stelle di neutroni in rotazione emettono
energia dai poli magnetici e quindi dovrebbero diminuire la loro velocità di
rotazione. Se ciò è vero, le pulsar giovani dovrebbero avere una velocità di
rotazione maggiore rispetto a quelle più vecchie. La stella che si trova al
centro della nebulosa del Granchio è senza dubbio una stella molto giovane ed
è infatti anche la pulsar più rapida che si conosca. Il periodo di rotazione
della pulsar della nebulosa del Granchio è stato misurato con grande precisione
e si è potuto constatare che effettivamente aumenta di alcuni milionesimi di
secondo all'anno. Lo stesso fenomeno è stato osservato anche su altre pulsar. 14. I BUCHI NERI Come abbiamo visto, l’esistenza di una stella
è determinata dal sottile equilibrio tra la pressione verso l’esterno
esercitata dal suo gas reso caldo dalle reazioni nucleari che si realizzano nel
nucleo centrale e l’attrazione gravitazionale verso l’interno, dovuta alla
sua stessa massa. Quando una stella esaurisce le scorte di combustibile nucleare
l’equilibrio, che nel tempo aveva subito vari aggiustamenti, si rompe
definitivamente e la stella si raffredda e si contrae. A questo punto il suo
destino è segnato. Se la stella è abbastanza piccola, se cioè le
sue dimensioni sono inferiori a 1,4 masse solari, si contrarrà enormemente, ma alla fine
riuscirà a trovare una nuova situazione di equilibrio quando l’attrazione
gravitazionale verrà bilanciata da una folla di elettroni in continuo
movimento: si formerà, in questo modo, una nana bianca che poi lentamente si
spegnerà divenendo nana nera. Le stelle di massa maggiore finiranno invece la
loro esistenza in modo traumatico e altamente spettacolare esplodendo e
lanciando nello spazio gran parte della materia che le costituiva. Questo
evento, come sappiamo, viene detto esplosione di supernova e produce immense
nubi di gas in espansione originate dagli strati più esterni della stella. Se
la massa che rimane dopo l’esplosione è compresa fra 1,4 e 3,2 masse solari
essa subisce un collasso gravitazionale alla fine del quale gli elettroni
penetrano all’interno dei protoni dando origine ai neutroni. Si forma in
questo modo un oggetto molto più compatto e denso della nana bianca: la stella
di neutroni. In essa ora sarà la forza nucleare ad arrestare l’opera
distruttiva della gravità. Abbiamo anche visto che per quanto riguarda le
dimensioni dei residui stellari i ruoli sono invertiti, nel senso che le nane
bianche che si formano a partire da stelle di dimensioni relativamente piccole
finiscono la loro esistenza in corpi celesti piuttosto grandi (il Sole si ridurrà
alle dimensioni della Terra) mentre le stelle di neutroni che si sono formate a
partire da corpi celesti di grosse dimensioni finiranno la loro esistenza in
corpi di non più di 20 o 30 km di diametro. La densità media di una nana
bianca è di alcune decine di kilogrammi per centimetro cubo, mentre quella di
una stella di neutroni è migliaia di miliardi di volte superiore. Esistono tuttavia nel firmamento stelle di massa
ancora maggiore di quella che forma le stelle di neutroni. Qual è la loro
sorte? Nel 1939 il fisico americano J. Robert
Oppenheimer aveva calcolato che un corpo di massa notevole (almeno tre volte e
mezzo la massa del Sole) avrebbe potuto continuare a collassare senza alcun
impedimento, fino a ridursi a zero. Naturalmente si trattava di uno studio
teorico perché in pratica non è possibile che la massa di una stella si
concentri in un punto senza dimensioni. Si può però immaginare un collasso di una
stella che proceda fino a polverizzare i neutroni e in cui anche la forza
nucleare sia costretta a piegarsi alla gravitazione. Si verrebbe a formare un
corpo di densità elevatissima tale che il suo campo gravitazionale diventasse così
intenso che nulla ne potesse più uscire. Sappiamo infatti che affinché un
oggetto possa abbandonare un corpo al quale è legato gravitazionalmente, deve
possedere una velocità iniziale maggiore della cosiddetta velocità di fuga. Per comprendere cosa sia la velocità di fuga di
un corpo basta immaginare di lanciare un sasso verso l'alto: il sasso
raggiungerebbe una certa altezza, quindi arresterebbe la sua corsa, invertirebbe
la marcia e tornerebbe a terra. Se al sasso venisse impressa una forza maggiore
procederebbe più velocemente, raggiungerebbe un'altezza maggiore ma poi, come
prima, si fermerebbe, invertirebbe la marcia e ricadrebbe a terra. Ciò succede
perché la Terra esercita sul sasso una forza (la forza di gravità),
che tende a riportare i corpi al suolo. Con l'aumentare dell'altezza la forza di
gravità diminuisce di intensità e pertanto un oggetto che si trovasse a
notevole altezza risentirebbe in minor misura dell'attrazione gravitazionale
terrestre rispetto ad uno di massa uguale che fosse vicino al suolo. Da ciò si
deduce che un corpo lanciato verso l'alto, a mano a mano che sale, viene
attratto verso Terra con sempre minore forza. Pertanto, se un corpo venisse lanciato verso
l'alto con una notevole velocità iniziale, indubbiamente rallenterebbe
gradualmente la sua corsa, ma non è detto che dovrebbe necessariamente fermarsi
e quindi invertire la marcia. Infatti, se la sua velocità iniziale fosse
superiore a 11,2 kilometri al secondo il corpo non si fermerebbe mai e quindi
non tornerebbe più indietro. La velocità di 11,2 km/s è la velocità di
fuga della Terra che può essere definita come la velocità necessaria ad un
corpo per sfuggire alla gravità superficiale terrestre ed evitare di ricadere
al suolo. E' possibile calcolare la velocità di fuga di qualsiasi altro corpo
celeste, in funzione della sua massa e delle sue dimensioni; per esempio la
velocità di fuga della Luna è di 2,4 km al secondo, mentre la velocità di fuga
del Sole è 617,7 km/s. Sappiamo che la velocità massima che può
raggiungere un corpo è 300.000 km/s. Questa, in realtà, è la velocità della
luce e a questa velocità può viaggiare solo la luce stessa, mentre i corpi
materiali (razzi, proiettili o particelle) possono raggiungere, al massimo,
velocità leggermente inferiori a questo limite. Ora, se immaginiamo un corpo
tanto massiccio e denso da produrre un campo gravitazionale in grado di impedire
che da esso possa sfuggire anche un oggetto che possedesse la velocità iniziale
di 300.000 km al secondo, da quel corpo non potrebbe uscire nulla, nemmeno la
luce. Un corpo di tal fatta era stato ipotizzato già
alla fine del XVIII secolo dal reverendo John Michell e da Pierre Simon marchese
di Laplace, i quali, portando alle estreme conseguenze la teoria della
gravitazione universale di Newton, immaginarono l’esistenza di una stella di
dimensioni enormi la quale avrebbe attratto a sé ogni cosa, compresa la luce.
Essi calcolarono che una stella di densità uguale a quella del Sole, ma con un
raggio 500 volte maggiore (e quindi con un volume 100 milioni di volte più
grande) avrebbe generato sulla sua superficie una forza gravitativa così
intensa da impedire alla luce da essa stessa prodotta di uscire. La luce, a quel
tempo, veniva immaginata formata da corpuscoli, come aveva suggerito Newton ma
successivamente, con il prevalere della teoria ondulatoria, fu lo stesso Laplace
a scartare la sua geniale intuizione: un’onda non è un oggetto materiale e
quindi non può risentire dell’attrazione gravitazionale.
Oggi sappiamo che stelle grandi come le aveva
immaginate Laplace non possono esistere perché collasserebbero sotto
l’effetto del loro stesso peso. La qual cosa comunque non altera l’essenza
del problema che tuttavia si manifesterebbe solo in oggetti di dimensioni
ridotte, ma molto pesanti. Anche la luce, che dopo la teoria newtoniana per
lungo tempo è stata considerata un fenomeno ondulatorio, oggi, sulla base della
teoria quantomeccanica della materia, si può di nuovo immaginare formata da
particelle, i fotoni appunto, corpuscoli senza massa quando sono fermi, ma
dotati di
energia e quindi con massa quando sono in movimento. Un corpo con queste proprietà eccezionali viene
chiamato «buco nero», anche se in realtà è tutt’altro che un buco: esso è
infatti un oggetto molto massiccio e molto denso, che deriva dalla contrazione
di un corpo celeste di grandi dimensioni. Per quale motivo allora viene chiamato
buco? Il nome gli fu assegnato negli anni sessanta dal fisico americano J.
Archibald Wheeler, il quale cercava per questi oggetti una definizione più
semplice e di maggior efficacia descrittiva che non fosse quella di “oggetto
collassato per effetto gravitazionale”. Egli pensò che l’espressione
“buco nero”, che derivò dalla teoria einsteiniana dello spazio, potesse
colpire meglio l’immaginazione. Per Einstein lo spazio è una realtà che
subisce deformazioni per la presenza in esso di corpi di grande massa. Possiamo
immaginarcelo come un telo di gommapiuma sul quale vengono riposte delle sfere
di peso diverso. Il telo si affossa, nei punti in cui è poggiato il corpo
massiccio, in misura tanto maggiore quanto più è pesante il corpo. Negli
affossamenti scivolano i corpi più leggeri che stanno vicino dando
l’impressione di venire attratti da quello centrale. Se l'oggetto è molto
pesante, esso potrebbe addirittura sfondare il telo di gommapiuma generando uno
strappo, un vero e proprio buco. Ora, qualsiasi cosa dovesse finire
nell'avvallamento e poi nel buco creato dal corpo pesante non riuscirebbe più
ad uscire. Allo stesso modo, e fuor di metafora, lo spazio si incurva sempre più
per effetto di corpi pesanti fino a creare una voragine che inghiotte ogni cosa
e dalla quale nulla può emergere. Ecco perché Wheeler chiamò "buco"
l'oggetto molto massiccio; mentre l'aggettivo "nero" si riferisce al
fatto che da esso non può uscire la luce, né qualsiasi altra radiazione
elettromagnetica. Abbiamo detto che una stella per poter diventare
un buco nero dovrebbe avere una massa notevole. Nella nostra galassia esistono
stelle decine di volte più massicce del Sole e naturalmente anche in passato
possono essere esistite stelle di questo tipo. Alcune di queste stelle,
contraendosi, potrebbero finire come supernovae ed espellere parte del materiale
che le costituisce. Se ciò che rimane è più pesante di 3,2 masse solari,
invece che una stella di neutroni, dovrebbe formarsi un buco nero. I fisici sono
convinti che i buchi neri siano molto numerosi. Ma come fare per individuarli? Questi strani oggetti celesti sono difficilissimi
da scoprire perché non possono essere osservati nel solito modo, dato che non
emettono luce né radiazioni di altro tipo. I buchi neri però hanno un campo
gravitazionale intensissimo e quindi creano una forte attrazione su oggetti
vicini. Verso la fine degli anni Sessanta il fisico americano Joseph Weber
dichiarò di essere riuscito a rilevare la presenza di alcuni gravitoni (che
sono l’aspetto corpuscolare delle onde gravitazionali, come i fotoni lo sono
delle onde luminose) servendosi di alcuni grandi cilindri sistemati nello
spazio. La notizia suscitò molto interesse ma anche alcuni dubbi, perché i
gravitoni sono corpuscoli molto poco energetici perfino se prodotti dai buchi
neri. Furono fatti in seguito vari tentativi di ripetere l’esperimento di
Weber ma nessuno con esito favorevole, così che oggi vi è il sospetto che i
gravitoni non possano essere individuati. In genere i corpi celesti sono molto lontani fra
loro e il campo gravitazionale di un buco nero, per quanto intenso, non sarebbe
in grado di creare un'attrazione sensibile su stelle che fossero lontane da esso
alcuni anni luce, però se una stella si trovasse abbastanza vicina ad un buco
nero, come succede nei sistemi stellari binari, questo risucchierebbe da essa
parte della sua materia carica di elettricità la quale, precipitando a grande velocità sulla sua
superficie, emetterebbe radiazioni di varia natura come fanno tutti i corpi
elettrici in
moto accelerato. Queste radiazioni, osservate da Terra, potrebbero indicare la
presenza di un oggetto di quel genere. Nel 1965 nella costellazione del Cigno è stata
individuata una sorgente di raggi X, chiamata Cygnus X-1, che potrebbe indicare
la presenza di un buco nero. La cosa non è certa e i fisici procedono con
grande cautela perché raggi X vengono emessi anche da altri oggetti celesti.
Nelle vicinanze di questa sorgente di radiazione vi è però una stella visibile
di grande massa, circa 30 volte quella del Sole, la quale sembra girare intorno
a qualche cosa che non esiste. Cerchiamo di spiegare questa osservazione facendo
riferimento al Sole. Che cosa succederebbe se l'astro che ci illumina,
all'improvviso, collassasse concentrando tutta la materia di cui è fatto in una
sfera di meno di tre kilometri di raggio? Sappiamo che non può farlo, ma in
quel caso la forza di gravità alla sua superficie diventerebbe enorme e nemmeno
la luce potrebbe evadere. Il Sole, in altre parole, diventerebbe un buco nero e
non lo si vedrebbe più. Nulla però cambierebbe rispetto all'attrazione che il
nostro astro esercita sui pianeti i quali continuerebbero a girargli intorno
come fanno attualmente, e non gli finirebbero addosso come qualcuno potrebbe
pensare. Nel 1974 l'inglese Steven Hawking, uno dei più
grandi fisici teorici che l'umanità abbia mai conosciuto, suggerì che, in base
alle leggi della meccanica quantistica, il destino dei buchi neri potrebbe anche
essere diverso da quello immaginato. Fino a quel tempo si pensava infatti che un
buco nero fosse lo stadio finale a cui poteva ridursi la materia e che, una
volta formato, avrebbe continuato ad esistere per sempre; anzi, in alcuni casi,
per la caduta in esso di altra materia, avrebbe addirittura potuto
accrescersi. Hawking mostrò invece che la materia potrebbe
sfuggire dal buco nero fino a farlo completamente “evaporare”. Per
comprendere il fenomeno suggerito dal fisico inglese dobbiamo rifarci al
principio di indeterminazione, un principio fondamentale della meccanica
quantistica, di cui abbiamo già fatto cenno. Abbiamo visto che secondo la meccanica
quantistica il nulla in assoluto non esiste nel senso che anche dove si ritiene
che non possa esserci alcunché, in realtà qualche cosa si potrebbe sempre
materializzare. Si tratta della comparsa improvvisa di coppie di particelle (già
sappiamo che le particelle compaiono sempre a coppie, ad esempio elettrone e
positone insieme). Queste entità però, appena create devono sparire
immediatamente, altrimenti verrebbe violato il principio di conservazione della
materia-energia: una delle leggi fondamentali della fisica. Particelle che
scompaiono appena dopo nate, come si ricorderà, vengono dette
"virtuali" per distinguerle da quelle che vivono più a lungo, e che
pertanto possono essere osservate per mezzo di adatti rilevatori, le quali vengono
dette "reali". Ora però, se la produzione della particella e
dell'antiparticella virtuale avvenisse in prossimità del bordo di un buco nero,
la forza di marea creata dallo stesso buco nero potrebbe risucchiare una delle
due al suo interno lasciando l'altra senza la compagna con cui annichilirsi. La
particella abbandonata all'esterno potrebbe a sua volta cadere nel buco nero
oppure allontanarsi rendendosi visibile sotto forma di radiazione. La particella
che si allontana dal buco nero non è più una particella virtuale, ma reale e
quindi possiede energia. Da dove proviene questa energia? Evidentemente dallo
stesso buco nero il quale ha inghiottito una particella che, vista da un
osservatore esterno, apparirebbe fornita di energia negativa, cioè di una
quantità di energia che, sommandosi con quella positiva dell'astro che l’ha
risucchiata, determinerebbe la riduzione dell’energia totale dello stesso buco
nero e di conseguenza della sua massa. Con l'andar del tempo, la massa e il volume del
buco nero diminuirebbero sensibilmente e questo rimpicciolimento faciliterebbe
l'evasione di altre particelle fino a consumarsi del tutto. I buchi neri però
sono oggetti molto grandi e per evaporare completamente dovrebbero impiegare
tempi biblici. Si calcola che un buco nero con la massa del nostro Sole
impiegherebbe 1066 anni (miliardi, miliardi e miliardi… di anni)
per scomparire del tutto. Ma un mini-buco nero lo farebbe in meno tempo e
potrebbe evaporare con una velocità tale da emettere quantità notevoli di
raggi X. Alcuni fisici ritengono che dovrebbero esistere
numerosi mini-buchi neri, cioè buchi neri dotati di piccola massa e forniti di dimensioni non più grandi del protone, che si sarebbero formati all'inizio dei
tempi quando le condizioni fisiche dell'ambiente erano diverse dalle attuali. I
buchi neri che si formano attualmente sono di grosse dimensioni perché derivano
da stelle di grande massa le quali vengono compresse dal loro stesso peso. I
buchi neri di piccole dimensioni dovrebbero derivare da oggetti piccoli come
pianeti o asteroidi i quali però attualmente non sono in grado di comprimersi
fino al punto di creare densità eccezionali. Queste compressioni invece si
sarebbero realizzate, nell'Universo primitivo, per effetto di forze esercitate
dal big bang stesso. I buchi neri di piccole dimensioni, ora, dopo 15 miliardi
di anni dalla loro formazione, sarebbero in parte evaporati e in alcuni casi
anche esplosi. Hawking ha dimostrato matematicamente che un buco nero evapora in
tempi tanto più brevi quanto più è piccolo e se il buco nero fosse
piccolissimo la reazione di evaporazione si completerebbe attraverso
un'esplosione che libererebbe una quantità di energia pari a quella creata
dall’esplosione contemporanea di milioni di bombe atomiche. Realtà o fantasia? Né l'una né l'altra cosa:
calcoli eseguiti a tavolino, non suffragati, per il momento, da alcun riscontro
sperimentale. Si tenga tuttavia presente che le discipline che hanno il compito
di descrivere i fenomeni della natura possiedono una base sperimentale che non
può essere trascurata. La scienze naturali, in altre parole, hanno bisogno
delle evidenze osservative e sperimentali per poter essere accettate dalla
comunità scientifica. fine |