Tre angolazioni sulla consapevolezza

CORRADO PENSA

1. John Kabat-Zinn 1 ha osservato che la nostra radicata abitudine a pensare per pensare, ossia il nostro tenace attaccamento all’attività discorsiva della mente ha, tra le altre conseguenze, quella di sopraffare ed espellere dalla mente alcune qualità. Tra queste vittime la più illustre non è altri che la consapevolezza. E dunque i pensieri travolgono proprio quel fattore capace di farci vedere che i pensieri sono solo pensieri, mettendoci in grado, così, di non rimanere invischiati nei pensieri (e naturalmente in stati d’animo, fantasie eccetera) come se fossero realtà presenti e vissute: equivoco che è uno dei maggiori ingredienti del dukkha, dell’umana infelicità.

Ora quella che chiamiamo pratica di consapevolezza si ripromette di mettere rimedio a questa situazione di sofferenza abituale e, insieme, non necessaria. E ciò in virtù, appunto, della paziente coltivazione della consapevolezza, ossia di una attenzione che sia diretta, fresca, non giudicante e, al tempo stesso, partecipe, ossia unita e connessa con ciò cui essa rivolge lo sguardo. Questa definizione ci mostra l’apparente complessità di una cosa semplice, la consapevolezza. In realtà la consapevolezza non solo è semplice ma, potremmo dire, rappresenta la massima semplicità. Solo che al conseguimento di questa rasserenante semplicità è d’ostacolo la nostra mente che, per esempio, facilmente associa il ‘non giudicante’ a un atteggiamento distanziante e il ‘partecipe’ a un modo d’essere identificato, ‘schierato’. Ma la semplicità della consapevolezza matura è fatta, invece, di calore e di equanimità e questo richiede un addestramento che provveda gradualmente a sciogliere i ‘nodi del cuore’ che precludono la semplicità chiara e calda.

In proposito, queste parole di Carol Wilson mi paiono dotate di particolare forza:

Ho passato parecchi anni della mia pratica di meditazione in attesa del momento in cui, una volta per tutte, sarei approdata al risveglio. Pensavo che questo evento avrebbe avuto luogo mentre ero immersa in uno stato di meditazione profonda, dopodiché il resto della mia vita sarebbe stata tutto una crociera. Ora, se noi consideriamo la pratica meditativa in questo modo, ossia la concepiamo come un insieme di attività (per esempio sedute formali e meditazione camminata) culminanti in una esperienza specifica e idealizzata - l’illuminazione - dopo la quale la vita scorre libera e chiara, noi rischiamo di farci sfuggire l’essenza della pratica. Ed è poi facile che ci sentiamo scoraggiati e confusi se vediamo che la chiarezza e il potere dell’esperienza meditativa non si trasferiscono automaticamente nella nostra vita attiva. Per me fu un enorme sollievo sbarazzarmi di questa aspettativa non realistica.

Allorché noi ci rendiamo conto che la pratica meditativa più profonda è la coltivazione di un atteggiamento e non la ricerca di una esperienza speciale, allora tutta la nostra vita si apre e ogni attività può diventare un veicolo di risveglio. La vita è fatta di momenti. La pratica di consapevolezza è semplicemente la coltivazione dell’abilità di incontrare qualunque cosa emerge di momento in momento con totale presenza e a cuore aperto 2.

Prima di passare a commentare questo magistrale brano di Carol, mi piace aggiungere una consonanza cristiana, offertaci da Karl Rahner:

Tutto dipende da come sopportiamo la vita quotidiana. Essa può renderci quotidiani ma può anche renderci liberi da noi stessi come nient’altro 3.

In genere, tutte le volte che si accenna all’eventualità che il quotidiano, invece di essere un ostacolo alla pratica ne possa diventare, al contrario, un potente alimentatore, chi legge o ascolta si sente contento e rassicurato. Il che è comprensibile, a patto di non nascondersi le difficoltà dell’impresa. La quale si fonda su vari requisiti. Vorrei sottolinearne questa volta uno in particolare, a causa della sua importanza, che anche Carol mette in luce: la vitale necessità di portarci alla mente-cuore periodicamente la nostra motivazione, il nostro impegno spirituale. Ricordiamo, al riguardo, le memorabili parole del Buddha:

O monaci, qualunque cosa un monaco pensi e consideri frequentemente, quella cosa diventerà un’inclinazione della sua mente 4.

E ricordiamo, anche, che la capacità di determinazione (adhittana) è una virtù (parami) che si è invitati a coltivare al pari delle altre. Il potere dell’intenzione è spesso richiamato dal Buddha, tanto più quando si tratta dell’intenzione più importante, l’intenzione della liberazione.

In pratica a volte la presa di rifugio è la cosa più indicata, altre volte può essere il ribadire lentamente a se stessi l’aspirazione a raggiungere la liberazione per il bene di tutti (bodhicitta). Se poi questi modi classici ci creassero difficoltà, potremo certamente ricorrere a modalità più personali, della cui congenialità siamo più sicuri. L’essenziale è alimentare sistematicamente l’intenzione fondamentale. Naturalmente se siamo nati e cresciuti in ambienti antireligiosi, oppure siamo stati circondati da ambienti religiosi con i quali siamo però entrati precocemente in conflitto, può darsi che l’idea di formulare fervidamente (e uso questo avverbio con assoluto rispetto) la nostra aspirazione centrale non ci piaccia. Sennonché mi pare abbastanza irrilevante che la cosa ci piaccia o non ci piaccia: infatti solo l’esperienza pratica oggi, qui e ora, del formulare con adesione interiore il nostro impegno può farci comprendere quale è il nostro rapporto con questa specifica forma di lavoro interiore.

2. Oltre a imparare ad alimentare l’impegno, un’altra cosa di evidente importanza è addestrarsi a sperimentare e comprendere le valenze, le sfaccettature della consapevolezza meditativa. Mi sembra che, nell’insegnamento del Buddha, siano fondamentalmente tre: capacità di connessione, capacità di saggezza e capacità di prontezza sollecita.

La capacità di connessione appare vigorosamente sottolineata nel Satipatthana-sutta, dove il praticante è invitato a essere consapevole del corpo nel corpo (kayanupassana), delle sensazioni nelle sensazioni (vedananupassana), della mente nella mente (cittanupassana) 5.  L’espressione peculiare (corpo nel corpo, eccetera) vuole proprio sottolineare con forza il carattere di immediatezza e intimità, ossia di connessione ferma e non superficiale che la consapevolezza meditativa (sati) deve sviluppare. Essere consapevoli del corpo nel corpo, del respiro nel respiro, si contrappone a un contatto mediato attraverso il pensiero o l’immaginazione: si è consapevoli del respiro ma, anche, si nomina, si pensa, si immagina il respiro. Magari questa interferenza mentale è percentualmente modesta. Anche così, tuttavia, essa è sufficiente a impedire l’immediatezza totale, silenziosa, viva, ossia la pura consapevolezza, diretta, non verbale, non giudicante, in comunione partecipe, con il respiro o con un’altra espressione corporea.

Vedana, sensazione, vuol dire reazione piacevole, spiacevole o neutra. Le vedana sono quindi gli innumerevoli ‘mi piace’, ‘non mi piace’ e ‘né mi piace né non mi piace’ (anche come frutto di sordità e distrazione) che punteggiano e massicciamente condizionano le nostre giornate. Penso che aver dato un posto speciale, a sé stante, alle vedana, invece di includerle nella categoria generale di mente, sia un aspetto non minore della genialità spirituale del Buddha. Infatti sono gli elementari movimenti delle vedana, spesso rapidi e microscopici, che molte volte stanno alla radice di complesse concatenazioni di pensieri-emozioni-azioni. Allora, il minimo che si possa dire è che una capacità di presenza immediata e focalizzata sui nostri mi piace/non mi piace nel momento in cui essi sorgono, amplia non poco il nostro campo di libertà.

Facciamo un esempio. Una sensazione spiacevole piccolissima (noi non la vediamo) alimenta un cattivo umore, magari anch’esso non riconosciuto da noi. A un certo punto può capitarci di arrivare a una parola di troppo, forse a un’azione inappropriata. Me se noi fossimo stati ‘totalmente presenti e a cuore aperto’ davanti alla piccola sensazione spiacevole, lasciandola sorgere, espandersi e poi contrarsi, la concatenazione negativa non si sarebbe messa in moto. Un’ultima annotazione riguardo a vedana: il lavoro con le vedana può mostrarci in maniera specialmente convincente il potere di sati. Immaginiamo, ad esempio, di provare un netto ‘non mi piace’ davanti a una persona. Ora se, in virtù di una consapevolezza bene addestrata, noi riusciamo veramente ad aderire, a connetterci, appunto, a questa onda di avversione, con immediatezza e intimamente, non è pensabile che il nodo di avversione rimanga uguale. Invece esso è destinato a perdere, per lo meno in parte, il suo potere. In sostanza effettuare questa connessione intima e non giudicante vuol dire cominciare a sostituire il potere dell’identificazione con il potere della consapevolezza, il che significa cominciare a sostituire l’ignoranza con la saggezza.

Quanto alla consapevolezza rivolta alla mente (cittanupassana) e alla consapevolezza diretta a specifici contenuti mentali (dhammanupassana), la cosa di gran lunga più importante dal punto di vista pratico mi sembra questa: solo se abbiamo sviluppato una buona capacità di consapevolezza del corpo (kayanupassana) e delle vedana (vedananupassana) è possibile rivolgere fruttuosamente l’attenzione non giudicante al più complesso campo delle emozioni e dei pensieri. Sia perché è naturale andare dal più semplice al più complesso, sia perché non di rado l’unico modo per connettersi con un’emozione è connettersi con le sue manifestazioni fisiche e con il vario avvicendarsi delle vedana, ossia con il tipico pulsare di attaccamento e/o avversione che caratterizza la maggior parte delle emozioni.

3. Consideriamo adesso un’altra valenza di sati, della consapevolezza, nell’insegnamento del Buddha. Come già si accennava sopra, l’attenzione contemplativa – tipicamente non giudicante e partecipe – oltre alla capacità di connessione/adesione, deve avere la capacità di saggezza. Allorché se ne vuole sottolineare questo aspetto, i testi usano l’espressione yoniso-manasikara, tradotta abitualmente ‘attenzione saggia’. È interessante osservare che il vocabolo yoniso viene da yoni, che è il grembo femminile: dunque attenzione saggia nel senso di comprensione radicale, che va fino in fondo. Ciò è molto diverso da manasikara, che è la semplice attenzione funzionale, indispensabile per vivere: fare, ascoltare eccetera. Inoltre – e questo ci aiuta a capire meglio l’attenzione saggia – il Buddha menziona anche il suo contrario, ayoniso-manasikara, che viene così definita:

Allorché uno coltiva l’attenzione non saggia, allora sorgono gli inquinanti che non erano ancora sorti e aumentano gli inquinanti che già c’erano 6.

Ad esempio, in uno stato di risentimento possiamo constatare un’attenzione molto attiva nel soffermarsi su ricordi particolari, in tal modo rafforzando il risentimento e magari suscitando, per giunta, un desiderio di vendetta. Parallelamente, l’attenzione saggia è definita come l’attenzione in virtù della quale non sorgono nuovi inquinanti e quelli già sorti sono lasciati andare 7. Dunque, un risveglio alla saggezza, all’equilibrio, all’amore. E ancora:

Come procede la comprensione di colui/colei che coltiva l’attenzione saggia? Così: questa è la sofferenza, questa è l’origine della sofferenza, questa è la fine della sofferenza e questa è la via che conduce alla fine della sofferenza 8.

Vale a dire la consapevolezza contemplativa (sati, yoniso-manasikara) è una forma di attenzione che reca in sé una certa comprensione delle quattro verità fondamentali. D’altra parte, se noi riflettiamo sulla stessa definizione corrente di sati, ossia ‘attenzione non giudicante’, appare intuitivo come una attenzione veramente non giudicante contenga, implicita, una comprensione non superficiale della verità sul dolore, dato che comprende che l’atteggiamento giudicante è un fatto avversivo e separativo per eccellenza. Se tale comprensione circa la sofferenza manca, allora è chiaro che abbiamo a che fare o con l’attenzione semplice (manasikara) o con l’attenzione non saggia. Un esempio a riguardo di tutto ciò: una meditante si era trovata in un ufficio postale ad aiutare pazientemente una persona in difficoltà nel disbrigo di una certa pratica. Portata a buon termine la pratica, la persona aiutata si era allontanata senza una parola di ringraziamento. La meditante mi diceva di aver avvertito una reazione insolita e indubbiamente interessante: al primo momento di stupore ne era seguito, immediatamente, un secondo, di sollievo. Il sollievo era dovuto all’intuizione che il disappunto e la contrarietà in risposta alla scortesia non erano assolutamente necessari e potevano essere felicemente lasciati andare. E che invece di soffrire nella stretta di una contrazione dolorosa, la meditante poteva continuare a stare tranquillamente in quello spazio positivo dentro al quale si era mossa fino a quel momento. Dunque l’attenzione saggia, emersa fin dall’inizio di questa sequenza, si profila chiaramente nelle sue caratteristiche: conoscenza intuitiva della verità sulla sofferenza, nessun nuovo inquinante è emerso, ed è stato lasciato andare immediatamente l’inquinante del disappunto che stava affacciandosi.

4. E infine la terza angolazione. Abbiamo visto la consapevolezza come sati, capacità di connessione, abbiamo visto la consapevolezza come yoniso-manasikara, capacità di saggezza. Un’ulteriore valenza è quella che va sotto il nome di appamada 9. Appamada è il contrario di pamada, che è negligenza, disordine, incuria, distrazione. Dunque appamada è diligenza, cura, sollecitudine. In realtà il termine è spesso usato come sinonimo di attenzione-consapevolezza. E, ovviamente, quando si sceglie di usare appamada, si intende sottolineare l’aspetto della sollecitudine e della cura che debbono animare l’autentica consapevolezza. Se con yoniso-manasikara si intende mettere in luce l’aspetto discernimento che deve inerire alla consapevolezza, e con sati la capacità di contatto intimo, con appamada si vuole ricordare che l’attenzione contemplativa, per essere trasformante, deve possedere anche le connotazioni di sollecitudine e di prontezza. Ricordiamo il brano di Carol Wilson là dove si dice che consapevolezza è "l’abilità di incontrare qualunque cosa emerge di momento in momento con totale presenza e a cuore aperto": certamente una abilità che presuppone non poca sollecitudine e prontezza. Infatti non a caso il Buddha fa appello ad appamada come virtù capace per eccellenza di far sì che un praticante osservi la propria mente nel bel mezzo di un turbamento 10. Attività difficile ma molto fruttuosa, dal momento che da essa nascono qualità fondamentali, a cominciare dalla saggezza (pañña).

Dunque appamada come consapevolezza sollecita e pronta, come consapevolezza portatrice di un senso di urgenza e di fiducia. Forse per questo il Buddha scelse questa valenza come quella da raccomandare alla fine della sua vita: "Lavorate alla vostra liberazione animati da appamada". In essa, infatti, sembrano esserci gli ingredienti più essenziali del cammino.

NOTE

1. J. Kabat-Zinn, Wherever you go there you are again, New York, 1994, pp. 93-95. Trad. it. Dovunque tu vada sei già là, Corbaccio 1997.

2. C. Wilson, Do I want to be comfortable or do I want to be free? in Inquiring Mind, 15, 2, 1999, p. 35.

3. K. Rahner, Parole per una esprienza di fede, Brescia, Queriniana, 1998, p. 70.

4. Majjhima Nikaya (=MN), 19.

5. La quarta ‘base’ della consapevolezza è una variante della terza, ossia riguarda sempre la mente. Solo che si rivolge ad alcuni specifici contenuti mentali, come, per esempio, i cinque impedimenti alla meditazione, i sette fattori di illuminazione, eccetera. Essa va sotto il nome di dhammanupassana.

Il Satipatthana-sutta compare come n. 10 nel MN e, in forma più estesa, come n. 22 del Digha Nikaya.

6. MN, 2.

7. ivi.

8. ivi.

9. Per appamada e i riferimenti testuali, cf. P. Payutto, Sammasati, An Exposition of Right Mindfulness, Bangkok, 1988, pp. 3-10.

10. Samyutta Nikaya, 48, 56.