PERCHÉ MEDITARE

 CORRADO PENSA

  

La meditazione buddhista di consapevolezza, il cui insegnamento risale allo stesso Buddha e che classicamente va sotto il nome di satipatthana o vipassana, potrebbe definirsi anzi tutto come la contemplazione del corpo e della mente.

II fondamento necessario per questa contemplazione è sia una certa stabilità fisica, vale a dire la corretta posizione del corpo, sia una certa stabilità o calma mentale, la quale richiede naturalmente più tempo per maturare. Tale calma mentale è facilitata dal prestare attenzione a un oggetto semplice come ad esempio il respiro. C’è da osservare che non di rado, nell’ambito dell’odierna diffusione del buddhismo in Occidente, la necessità di questa preliminare stabilità interna finisce con l’essere sottovalutata. Cosa intendiamo con la parola consapevolezza? Intendiamo la pura attenzione silenziosa e non giudicante presente nel momento presente. E contemplare il corpo e la mente vuol dire osservare con questa attenzione le sensazioni fisiche, l’avvicendarsi di attrazione e repulsione nella nostra mente, il succedersi di emozioni e stati d’animo; vuol dire osservare i pensieri e le immagini che accompagnano gli stati d’animo.

Lo scopo più accessibile di questa contemplazione si può racchiudere in tre parole: più pace, più saggezza, più compassione. Lo scopo più alto è la liberazione dalla sofferenza ovvero l’incontro con ciò che "non nasce e che non muore", con l’Incondizionato che è luce senza misura.

Infatti, contemplando pazientemente, noi ci accorgiamo con sempre maggiore chiarezza e acutezza che la paura, la confusione, l’avversione e l’attaccamento che ci abitano producono una messe abbondante di sofferenza. E ci svegliamo gradualmente al fatto che le radici profonde della sofferenza non stanno fuori di noi, nelle cose, nelle persone, nelle circostanze ma stanno, piuttosto, dentro di noi, stanno cioè nel nostro modo di rapportarci con le cose, le persone (che includono noi stessi), le circostanze e gli eventi.

Vediamo che fino a quando la nostra relazione con tutto ciò è caratterizzata da attaccamento e avversione, ossia dall’identificazione con l’io e col mio, allora, inevitabilmente, gran parte di quello che ci capita non farà altro che alimenta re disagio, insoddisfazione, insicurezza, separazione. Vedendo e rivedendo, alla luce della consapevolezza, questa verità fondamentale - e, insieme, tanto elusiva - comincerà a succedere che attaccamento e avversione prendono a disseccarsi, lasciando più spazio dentro.

Questa maggiore spaziosità e libertà interiore significa più pace. La comprensione della verità fondamentale che la sofferenza è prodotta dal nostro modo di rapportarci alle cose comporta un evidente aumento di saggezza ossia della comprensione di ciò che veramente conta. Infine una maggiore disponibilità agli altri è la conseguenza naturale di questo sostanziale rasserenamento. Vale a dire: più si attenua la preoccupazione circa noi stessi, più emerge la sollecitudine per gli altri.

Un’osservazione importante da aggiungere a tutto questo: la meditazione che abbiamo brevemente descritto non può fiorire granché se è intesa - secondo una certa tendenza occidentale contemporanea - come una sorta di tecnica psicologica autosufficiente. In realtà la meditazione, nel buddhismo così come in altri approcci contemplativi, è parte di un quadro più grande. A tale quadro appartengono, oltre alla meditazione, sia un costante raffinamento etico, nel segno della non violenza e della giustizia, sia la coltivazione di una profonda fiducia spirituale. Quest’ultima si esprime, tipica mente, attraverso la ‘presa di rifugio’ nel Buddha, nel Dharma e nel sangha, presa di rifugio che incornicia e fonda la meditazione. Si prende rifugio nella potenzialità di illuminazione in noi, il Buddha; e quindi nel Dharma, ossia nel cammino interiore temporale e nella sua meta atemporale; e infine nel sangha, ossia nella comunità di coloro che percorrono questo cammino. Prendere rifugio significa dunque affermare la fiducia radicale e, insieme, prendere le distanze dalla miriade di aspettative mondane. Perciò una vera presa di rifugio, cresciuta e maturata, non potrà avere molto a che fare con l’optare per l’ideologia buddhista (intendimento abbastanza corrente del ‘rifugio’): tale opzione sarebbe infatti il semplice abbracciare una credenza e non già il fondare la fiducia nell’assoluto, al di là delle opinioni e dei concetti e della loro carica di separatività.

Infine la meditazione, così organicamente inserita in tale quadro più ampio, e sorretta dunque da etica e da fiducia, potrà pervenire alla sua massima estensione: ossia all’accendersi sempre più frequente della consapevolezza e dei suoi frutti nella quotidianità, ben al di là dei confini della meditazione formale. Questa è una vera e propria arte, che richiede passione e gusto, perché significa imparare a usare le circostanze della vita come luoghi di applicazione della consapevolezza e dunque come stimoli e sfide all’intelligenza della vita, del dolore e dell’amore.

Un risultato poi di speciale rilevanza in termini di religiosità è questo, che più la consapevolezza ci sorregge nel quotidiano più ne avvertiamo il fondamentale mistero, non dissimile dal mistero della preghiera interiore. I1 mistero di una dimensione benefica che è più grande di noi e che, al tempo stesso, appare essere la cosa più intimamente nostra.

 

(DA CONFRONTI, GIUGNO 1995)