Al di là dei pensieri

PATRICIA FELDMAN GENOUD

C’era un monaco che si faceva tantissime domande: probabilmente l’ostacolo in cui si imbatteva era il dubbio. Viveva molto lontano da dove si trovava il Buddha e, appena ricevute le istruzioni, la sua mente cominciava a divagare e si chiedeva se il mondo fosse o non fosse eterno e se fosse o non fosse infinito. E conoscere la risposta a queste domande gli sembrava così urgente che non riusciva più a praticare. Si mise dunque in marcia, attraversò villaggi, camminò per chilometri, e quando arrivò nel luogo dove si trovava il Buddha, il Buddha non c’era. Aspettò per due giorni, con in testa le sue domande che naturalmente si erano raddoppiate. Aspettava e pregava. Appena scorse il Buddha, dopo averlo salutato con rispetto lo invitò a rispondere alle sue domande. Il Buddha immediatamente si accorse dell’irrequietezza del monaco e con calma gli chiese: "Ti ho mai detto: ‘Vieni, ti insegnerò se il mondo sia infinito o eterno?’". "No, venerabile Buddha, non me l’hai mai detto". "E hai mai detto tu che avresti seguito la mia dottrina perché insegnavo cose di questo genere?". "No, venerabile Signore". "Allora, monaco, come sei sviato. Chi sei e a cosa stai rinunciando nella tua vita?". Gli fece poi un esempio: "Immagina un uomo che sia stato ferito da una freccia avvelenata. E immagina che quando arriva il chirurgo per operarlo quest’uomo non permetta che gli si estragga la freccia finché non gli avranno detto il nome di chi l’ha tirata. Di che razza è? Da che paese viene? Di cosa è fatto il suo arco? E di cosa la freccia? Da quale uccello provengono le penne della freccia? Non pensi che quest’uomo nel frattempo morirebbe?". Il monaco, sconcertato, naturalmente rispose: "Sì, morirebbe". E il Buddha aggiunse per completare il suo insegnamento: "Allo stesso modo, si può speculare sulle varie ipotesi circa il mondo, se sia finito o infinito, se sia rotondo o meno; ma ci sono cose più serie nella vita e io insegno quelle, e quelle soltanto. Sono la verità della nascita, della malattia, della vecchiaia e della morte; io, qui e ora, insegno la fine di tutto questo". E continuò dicendo: "Non ho insegnato cose inutili. Ho insegnato solo ciò che è utile, perché c’è solo la verità della sofferenza, la sua origine, la sua cessazione, e il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza". Ossia le cosiddette ‘quattro nobili verità’, che è considerato il primo insegnamento dato dal Buddha.

Questa storia mi è venuta in mente oggi pomeriggio mentre sedevo sotto un albero, aspettando un meditante che avrebbe dovuto arrivare a una certa ora per un colloquio, ma non arrivava. Sono passati altri due meditanti e mi hanno chiesto: "Posso venire io? Ho così tante domande!". Ho chiesto se avevano un colloquio programmato per quel giorno. Hanno risposto: "No, è per domani". Ho domandato: "Potete aspettare?". "Sì, penso di poter aspettare". È così che mi è tornata in mente quella storia, era una situazione così simile. Malgrado siano passati duemilacinquecento anni le nostre menti non sono molto diverse da quelle dei contemporanei del Buddha.

Consideriamo quanti pensieri abbiamo concepito oggi; probabilmente ci sono ancora pensieri rimasti senza risposta. Perché non usiamo i pensieri nella meditazione? Perché la comprensione intellettuale non porta alla pace? Perché non usiamo la riflessione e la comprensione analitiche? Solo perché i pensieri non hanno fine. Una domanda, un pensiero, porta a un altro pensiero e a un altro ancora. Riescono a soddisfarci? Forse sì. Abbiamo una domanda, andiamo da un insegnante o consultiamo un libro. E troviamo la risposta. E poi sorge un’altra domanda e un’altra ancora. Questo non significa che nei pensieri ci sia qualcosa di sbagliato, ma secondo il punto di vista del Buddha, i pensieri e il procedimento intellettuale non ci portano alla liberazione, alla libertà dall’attaccamento. E penso che la maggior parte dei sentieri spirituali affermino lo stessa cosa. Questo non significa che non si possa fare buon uso dei pensieri. Sono molto utili nella vita, per entrare in rapporto con le cose, con gli altri, per comunicare, per parlare, per il procedimento scientifico, e anche come prerequisito di sila, della moralità. Se pensiamo ai precetti che si prendono il primo giorno di ritiro, viene naturale riflettere: cosa significa tenere una condotta morale, avere dei principi etici? Usiamo i pensieri per agire in modo appropriato anziché in modo non salutare. Quindi non è necessario sbarazzarci dei pensieri, e non miriamo a questo. Se vogliamo liberarcene significa che ne siamo infastiditi. Quindi non si tratta di non usarli; è solo che non servono allo scopo a cui pensiamo che servano. Quanti pensieri avete avuto oggi? E quanti pensieri sono svaniti? Quante volte la vostra mente ha divagato e avete cercato di riportarla di nuovo qui, al respiro, alle sensazioni corporee? Questa è una prima comprensione intuitiva: vedere come la nostra mente sogni, vagabondi, inventi storie, e vedere che siamo fatti così. Se uscite per strada e chiedete a un passante: "Ha avuto molti pensieri oggi?", come credete che vi risponderebbe? "Certo che penso, cosa intende dire?".

Dunque, quella in cui ci troviamo è una situazione davvero speciale: osservare i pensieri senza concedergli l’abituale potere, conoscere il processo del pensiero anziché seguire il racconto che si sta dipanando. Il nostro mondo mentale ha potere. I pensieri ci fanno correre di qua e di là. Come ci riescono? Ributtandoci dentro le nostre storie. Dov’è la vacanza che ho fatto l’anno scorso? E l’ultimo buon pranzo? E l’ultimo fidanzato? Dove sarà adesso? In un pensiero, o in un’immagine. O forse andate nel futuro; programmi, anticipazioni, aspettative: "Mi chiedo come andrà a finire questo ritiro. Cosa riuscirò a capire? Cosa mi succederà?". Stiamo già programmando e immaginando un mucchio di cose. Oppure ci giudichiamo. Diamo i voti alla nostra pratica. Ripeto, il problema non è la presenza dei pensieri, il problema è credere ai pensieri: credere che rappresentino una soluzione per la nostra pratica, per la nostra vita. Il che gli fa acquistare molto potere su di noi. Perché hanno questo potere? Ci sono cinque sensi fisici, l’odorato, il tatto, l’udito, il gusto, la vista, e uno mentale, la coscienza, che in questo contesto non è molto più importante di quelli fisici. Quindi, i pensieri funzionano facendo sempre riferimento alle nostre situazioni personali e ci tengono bloccati: abbiamo un’idea, un programma, costruiamo delle storie, ma qual è la realtà delle nostre storie? Quanto le teniamo strette? Quante volte avete cercato di risolvere un problema da quando siete qui? E la mente gira a vuoto; questo condizionamento è frutto di vecchie abitudini, ma nonostante tutto insistiamo a riproporre domande essenziali sulla nostra vita, le stesse domande che probabilmente ci hanno portato qui. Il fatto è che abbiamo urgenza di trovare altre domande, a cui probabilmente il processo del pensiero non può rispondere. Può un pensiero dare risposte sulla natura delle cose? Com’è la libertà fondamentale? La comprensione intellettuale può rispondere a domande del genere? Io credo di no.

Quello che il Buddha scoprì è che attraverso una mente silenziosa, una mente quieta, possiamo sviluppare la nostra personale capacità di vedere chiaramente e direttamente oltre la mente pensante, basandoci sulla verità della nostra esperienza di ciascun momento. Ma spesso noi preferiamo tenerci stretti al noto piuttosto che avventurarci su sentieri sconosciuti, perché mette paura. Sapere o non sapere: qui, in questa situazione di ritiro, c’è la possibilità di scegliere; è a questo che stiamo lavorando, lavoriamo sulla frontiera, sui confini tra restare fermi al noto o darci almeno un piccolo spazio per assaporare com’è il non sapere, cosa accade in quello spazio. Una situazione di ritiro è preziosa, perché non ci sono distrazioni, non vi viene richiesto nessun compito, nessun "fare". E già questo, questa assenza del fare, non è già una risposta al perché sono qui? Ma veramente sono qui per chiedermi perché sono qui? Forse avrete già notato quante volte ritorni questa domanda. Solo due giorni per sentirci più sicuri, per sentirci un po’ più a nostro agio, e forse siamo già attaccati al nostro cuscino. Cosa succederebbe se entrando vedeste qualcun altro seduto sul vostro cuscino? Come vi sentireste? Vi siete già creati il vostro spazio in questa stanza, non è così? E quante volte avete guardato la bacheca per vedere se il vostro nome era in lista per i colloqui? L’avete già visto una volta, magari due: "Devo controllare. È proprio a quell’ora?". Lo si fa perché si vuole sapere. Perché ci si aggrappa a quel che si può. Perché qui non vi abbiamo dato appigli. E tuttavia c’è sempre qualcosa a cui ci si può aggrappare. Abitudini molto radicate. Non lo dico per criticarvi o giudicarvi, ma solo perché ve ne rendiate conto. Perché notiate come sia radicato il processo dell’aggrapparsi.

Un esempio per chiarire cosa voglio dire. Dopo quattro mesi di pratica intensiva – naturalmente senza leggere, senza scrivere, era stato tolto tutto dalle camere, non c’era nemmeno un libro, niente, ero veramente immersa nella mia pratica con grande serietà – dopo quattro mesi mi sorprendo a leggere l’etichetta sulla scatola del tè: Lipton! Capite quanto è forte l’abitudine? Ero stata tanto tempo senza leggere nulla. Conoscevo benissimo quell’etichetta gialla, ma lo stesso potevo vedere l’intensità, l’urgenza, il bisogno di avere qualcosa da afferrare.

Abbiamo un mucchio di concetti, di idee, abbiamo il concetto di tempo, di proprietà, di nazione, di paese; sono punti d’appoggio per l’io e il mio. E qual è la funzione di questi concetti? Praticando, notiamo sempre di più che non rappresentano la realtà, e che il loro effetto è di creare un senso di separazione. Non si tratta di vederli come un problema, basta essere consapevoli che ci sono; perché quello che accade quando ci aggrappiamo a concetti del genere è che cerchiamo di controllare le cose. Vorremmo controllare la nostra vita, vorremmo che le cose andassero in un certo modo; ci creiamo delle idee fisse e poi ci accorgiamo che in effetti non riusciamo a controllare un granché. Se potessimo farlo il mondo si accorderebbe alle nostre idee e ai nostri desideri, ma non succede molto spesso. Perciò, nutriamo delle aspettative, ed è proprio qui che nasce la sofferenza; la sofferenza nasce perché vogliamo controllare quello che non si può controllare, e tuttavia crediamo di poter controllare la nostra mente, il nostro corpo, vogliamo rimanere in salute: quanti giorni pensate di poter restare sani, o quanto a lungo pensate di poter vivere? Non ne abbiamo idea. Ma fa paura, quindi pensiamo che controllando noi stessi e il mondo riusciremo ad aggrapparci a qualcosa. È proprio da qui che nasce l’attaccamento, la mente avida, la mente che desidera, la mente reattiva, il desiderio, oppure l’avversione. Vogliamo controllare quello che vorremmo e che non accade, e vogliamo anche controllare quello che non ci piace e che accade e non lo accettiamo. Dunque lo respingiamo, e così manteniamo il controllo.

Credo che in meditazione cominciamo a vedere quanta sofferenza aggiungiamo reagendo. E questa è la seconda comprensione intuitiva. Perché quando c’è attaccamento c’è un punto di riferimento. E ogni punto di riferimento ci porta a un vicolo cieco e crea un senso di separazione, ci porta a cercare fuori; nella mente sorge l’idea di volere qualcosa e di fare di tutto per averla. La otteniamo, la gustiamo, e ci procura soddisfazione, talvolta solo una soddisfazione brevissima. Poi, cosa succede? Si presenta qualcos’altro. È quella che in gergo meditativo chiamiamo la sindrome del "se solo avessi questo la vita sarebbe perfetta". ‘Se solo’. La mente del ‘se solo’. Se solo la seduta fosse di venticinque minuti anziché di quarantacinque, che meravigliosa seduta sarebbe! Ho un tipico esempio di questa tendenza, la storia si svolge in Birmania. L’idea che mi ero fatta era che la Birmania fosse il miglior posto del mondo per la pratica intensiva. A quei tempi era molto difficile ottenere un visto. Si poteva rimanere una settimana, o per un periodo di vacanza, ma ottenere un visto di un mese per meditare era difficile. Potete immaginare la mia trepidazione quando, dopo aver tanto atteso, ottenni un visto di due mesi. Presi l’aereo piena di aspettative sulla Birmania. Arrivai all’Associazione per la meditazione a Rangoon, e sfortunatamente in quel periodo facevano lavori di ristrutturazione; non potete immaginare il rumore che c’era: come essere a New York in pieno centro con almeno dieci grattacieli in costruzione. Terribile. E non è tutto. Mi fu mostrata la mia camera: era senza finestre. Mi portarono alla sala di meditazione e c’erano circa un centinaio di donne birmane che meditavano. Bello. Mi misi a sedere. Dopo cinque minuti, smisero di meditare e cominciarono a chiacchierare, lì nella sala di meditazione. Pensai: questo posto non fa al caso mio. Avevo atteso tanto quel momento e ora, cosa succedeva? La mia mente non poteva accettare la situazione. Eravamo tre praticanti occidentali, così chiedemmo un posto separato in cui sedere in meditazione per avere un po’ di pace: vada per i rumori del cantiere, ma le chiacchiere no, era troppo da sopportare. Ci venne data una stanza accanto a quella delle donne anziane, che vivevano lì come in una casa di riposo. Quindi cucinavano, chiacchieravano. Decidemmo di sedere in meditazione. Era la stagione delle piogge, quindi eravamo fornite di zanzariere. Ognuna aveva la sua. Eravamo in quattro, occidentali e donne – perché uomini e donne vivono in quartieri separati. Alla fine riuscii a trovare una certa pace mentale sotto la mia minuscola zanzariera, nella mia cameretta, con il rumore, ma con la mente un pochino più rilassata. Durò circa un giorno o due, finché fu offerto un posto nella nostra stessa stanza a una donna coreana, considerata dai birmani una straniera come noi. Lei non possedeva una zanzariera per cui non trovò di meglio che sedersi sotto la mia, accanto a me. Non me lo chiese, semplicemente si piazzò lì vicino a me. Dovevo esserle sembrata la più piccola, le altre erano americane perciò forse ero io la più minuta. Perciò, lei si trovò il suo spazio; per me fu l’ultima goccia. Era la situazione più pazzesca che potessi immaginare. Dov’era finito il mio sogno birmano? Era davvero il peggio che mi potesse capitare? Ma riuscii ad affrontare la situazione, perché sapevo che non c’era una situazione migliore di quella in cui mi trovavo. E fu un grande insegnamento: semplicemente arrendermi. Mi ci volle un bel po’ prima di riuscire a cedere. Ma mi insegnò molto. Non è sempre dalle situazioni migliori che si impara.

Quando abbiamo questa mente del ‘se solo’ – se quello che vorremmo non c’è, oppure se c’è qualcosa che non vogliamo – si viene a creare un vero problema; la vita viene posposta e noi non ci siamo più, perché siamo distratti. Le esperienze cambiano in continuazione. Ci abituiamo a una ed è già svanita; niente dura per sempre. È proprio questo che rivelò il Buddha, è una delle tre caratteristiche, quella dell’impermanenza, e l’impermanenza è il motivo per cui soffriamo, perché ci aggrappiamo a qualcosa e quella cosa se ne va; ne vogliamo un’altra e di nuovo quella svanisce. Ecco perché siamo così aggrovigliati. Stare qui seduti osservando questo processo nel contesto del respiro è molto utile, perché ci accorgiamo che pur volendo controllarlo il respiro cambia continuamente. E piano piano lasciamo andare questo continuo aggrapparci.

La meditazione vipassana è relazione con quello che accade. È il senso di completezza che nasce dal fatto che, quando lasciamo andare, siamo in contatto con noi stessi. Ci connettiamo con ciò che è e impariamo a non reagire. Impariamo a non trattenere quello che se ne è andato e impariamo a non respingere quello che non ci piace. E come ci riusciamo? Semplicemente riconoscendo che non c’è certezza e che l’incertezza va affrontata. Per quanto il mondo si sforzi di dimostrarci il contrario, per lo meno in Svizzera… ma forse non solo in Svizzera.

Coltiviamo un’incredibile credenza nella sicurezza, mentre non abbiamo garanzie, lottiamo per trovarne una, ma non abbiamo garanzie, cerchiamo solo di proteggere noi stessi. Non vogliamo sentire la paura, non vogliamo sentire il dolore, perché fa male. Dunque, il processo meditativo consiste nell’usare la presenza mentale, perché è la presenza mentale che mette a fuoco e vede chiaramente quali sono le esperienze dirette e cosa sta veramente accadendo nel momento, la realtà del momento presente. La presenza mentale ha tre caratteristiche: il riconoscimento dell’oggetto, qualunque esso sia, l’accoglierlo e la non identificazione. E non occorre sforzarsi a essere presenti finché si è consapevoli, perché la consapevolezza ha di per sé questo potere. È una qualità particolare della coscienza. Significa che quando c’è presenza mentale, siamo totalmente svegli, non c’è attaccamento, non c’è afferrarsi. C’è sensibilità, c’è attenzione, e il potere di recidere tutte le forme di condizionamento, di limitazione. Questo quando la consapevolezza è completamente sviluppata, quando è presente totalmente, perché certe volte crediamo di essere consapevoli: "D’accordo, osservo il respiro, osservo il dolore…" Ma sto osservando pienamente? C’è completa accettazione? No, talvolta osserviamo ed è presente l’io. "Osservo questa cosa in modo che se ne vada", questo è il contratto che stipuliamo col dolore o con una sensazione. Questo non è essere totalmente nella presenza mentale, presenti, essendo pienamente lì con l’esperienza per quello che è. C’è avversione. "Ti osservo giusto per cinque minuti e se non sei sparito, ti butto fuori a calci". È respingere. Osservatelo, osservate la mente che si comporta così, osservate che accade.

Attraverso un lungo processo di presenza mentale siamo pienamente svegli in ogni momento. La consapevolezza trasforma la qualità della nostra vita. Ci libera dalla schiavitù, e la situazione di ritiro è l’ideale, perché è semplice, solo per questo. Come si può esercitare la presenza mentale o essere veramente consapevoli di ciò che accade, solo nella vita quotidiana? Penso che sarebbe molto difficile. Ma si può cominciare a farlo perché si è stati a un ritiro e sapete quanta forza ha, ne avete fatto diretta esperienza. Qui, non ci sono molte distrazioni. E si può fare buon uso del silenzio. E questo aiuta a spostarsi dalla mente pensante e distratta alla stabilità, all’attenzione, al vedere le cose in modo più aperto. C’è presenza mentale e concentrazione. La concentrazione è la stabilità, la saldezza della mente. Usiamo la presenza mentale che aiuta la concentrazione ed entrambe, insieme, ci procurano la libertà, il non attaccamento. La qualità che si rende indispensabile è ciò che definiamo ‘nuda attenzione’.

La nuda attenzione è la chiave, perché esplora e scopre la verità della nostra natura e la verità di chi siamo. E ne diventiamo personalmente consapevoli. Comprendere anziché pensare, anziché fermarsi al contenuto di ciò che ci accade. È piuttosto il processo del pensare, dell’ascoltare, del respirare, del mangiare ed è tutta un’altra cosa, perché non ci mettiamo di mezzo, non siamo più il punto di riferimento. Diventa un processo e allora c’è una relazione con la nostra vita. Nuda attenzione significa osservare le cose per come sono, per come sono veramente, senza scelta, senza discriminare, senza giudicare, né fare confronti se sia meglio o peggio, se vada bene o no. Ci permettiamo di essere lì, di essere presenti e di rilassarci con qualsiasi cosa si faccia avanti. E questo accade attraverso l’equilibrio della mente che riesce a sostenere le difficoltà, a reggere il non conosciuto, a stare dove c’è l’imprevedibile e vedere le cose come veramente sono, come effettivamente sono. Ma è necessaria la volontà, è l’unico sforzo che sia necessario fare, la volontà di lasciar andare il noto. Lasciar davvero andare e fare uno sforzo per entrare nei luoghi che ci spaventano. Voglio leggervi questa citazione da Ryokan, Maestro Zen e poeta:

In tutte le dieci direzioni dell’universo del Buddha, c’è una sola via. Quando vediamo chiaramente che non c’è differenza tra gli insegnamenti, cosa abbiamo da perdere? Cosa c’è da guadagnare? Se guadagniamo qualcosa, era presente fin dall’inizio. Se perdiamo qualcosa, è nascosta qui vicino.

Il Dharma è un vero tesoro, perché, col tempo, ti accorgi che si prende cura di te, proprio come una madre si prende cura del suo bambino. Ma ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ci vuole buona volontà, ci vuole lo sforzo per venire qui e sedersi tranquilli e lasciar essere quello che deve essere. Allora nasce la forza per accettarci e l’auto accettazione ci rende liberi.

Inoltre, con la presenza mentale, quando riconosciamo un oggetto, abbiamo anche una scelta, possiamo notare che prima di fare qualcosa, c’è un’intenzione, quindi possiamo usare l’intenzione per vedere con esattezza. Ecco perché il pensiero è utile, per usare l’intenzione per sapere se quello che stiamo per fare è una buona azione, e l’intenzione nella mente è un’inclinazione che si affaccia forse anche prima che sia presente il pensiero. È un movimento di energia. E quando siamo veramente calmi, possiamo vederlo e sentirlo, possiamo lavorare con l’intenzione. Con l’auto accettazione c’è apertura, apriamo il cuore e invece di essere nella mente, siamo di più nel nostro cuore.

Un altro modo di lavorare è la metta. La metta ha un’intensissima capacità di equilibrare la mente, perché è anche una pratica di concentrazione; ripetendo le frasi, stabilizziamo la mente e sviluppiamo l’equanimità. Una mente stabile, possiede e irradia sentimenti di gentilezza amorevole, sviluppa l’accettazione di sé e l’accettazione degli altri.

Con questa pratica possiamo lasciar affiorare profondissime ferite e sofferenze risalenti all’infanzia o possiamo coltivarla nei periodi difficili, nella depressione, perché crea equanimità, equilibrio della mente. E dunque la paura non è affatto presente o non è intensa, perché l’equanimità è più forte della paura. Dunque ci è possibile osservare. E l’osservazione si traduce in una vera guarigione.

Vedere la nuda realtà dei fatti permette di essere capaci di stare con le immagini più incantevoli in modo equanime, senza attaccamento; semplicemente lì, totalmente presenti, gioendo della piacevole visione, ma senza aggrapparsi, senza trattenerla. Come quando guardiamo il tramonto, quando il sole se ne va, non vogliamo trattenerlo. Lo osserviamo e a un certo punto se ne è andato. Nasce anche l’equanimità per osservare le immagini più spiacevoli, perché è solo vedere, senza alcun attaccamento e nel vedere c’è solo il vedere, non c’è ne respingere ne afferrare. Non chiediamo niente di particolare. E nasce una profonda sensazione di autentica meraviglia, un’intensa sensazione di bellezza, di pienezza, di cuore, di essere, in cui ogni cosa che la vita ha creato ci tocca. Perché siamo unificati con noi stessi, ci percepiamo come un intero, non ci sentiamo separati. È questo l’amore incondizionato. Un amore che rallegra il cuore, qualunque sia la situazione.

Osservare la natura è un grandissimo insegnamento. La meraviglia della creazione rilassa con la sua semplicità. Cosa chiede un fiore? Ho avuto grandi insegnamenti osservando la natura. Qualcosa cresce più veloce, qualcos’altro un po’ più lentamente: competono l’un l’altro mentre crescono? No, è solo la natura così com’è che cresce. È l’innocenza della vita. E la nostra mente e il cuore possono essere aperti e accogliere la vastità di qualsiasi cosa si presenti, come i fenomeni che appaiono nel cielo azzurro e qualsiasi pensiero appaia è solo una formazione della mente, le nuvole nel cielo, ma noi sappiamo che al di là delle nuvole c’è il cielo azzurro. Ci sono le nuvole, nascondono l’azzurro, ma sappiamo che l’azzurro c’è e la mente rimane pura e gli impedimenti sono solo nuvole di passaggio.

Voglio concludere con una poesia di Ryokan:

La pioggia ha smesso di cadere.

Le nuvole sono state trasportate via,

è di nuovo limpido.

Se il tuo cuore è puro,

tutto nel tuo mondo è puro,

allora la luna e i fiori

ti faranno da guida lungo il sentiero.

TRADUZIONE DI CHANDRA CANDIANI