Fiducia e sfiducia

GIULIANO GIUSTARINI

Perché volete voi escludere alcuna inquietudine, alcuna sofferenza, alcuna amarezza dalla vostra vita, poiché non sapete ancora che cosa tali stati stiano lavorando in voi?

Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta.

Mentre scrivo posso scorgere, dalla finestra alla mia destra, un albero fiorito, che si staglia meravigliosamente roseo contro lo sfondo verde di un prato.

In molte tradizioni, inclusa quella buddhista, la pratica viene spesso paragonata a una pianta. L’idea della pianta mi fa pensare a qualcosa di estremamente delicato, qualcosa che richiede una cura amorevole e paziente. Non mi intendo molto di piante, e non sono in grado di capire se una pianta è morta o ha semplicemente ritratto la linfa per affrontare l’inverno.

Sfiducia. In quest’ultimo anno, alcuni eventi hanno notevolmente rafforzato la mia tendenza a ruminare la sfiducia, ad alimentarla in modi sia sottili che grossolani, a soggiacere pressoché inerte sotto il suo potere. Sfiducia, o attaccamento, o entrambi. Le parole sfiorano appena la realtà. La consapevolezza la coglie, ma si guarda bene dal tradurla in parole, in immagini. Come diceva lo scrittore cristiano C. S. Lewis, "la realtà è iconoclasta". Per lunghi periodi ho cercato la consapevolezza, ho invocato quella fiducia nel Dharma che un tempo mi sembrava incrollabile, ma non ho avuto risposta. Dov’era la pace, dov’era l’apertura del cuore, dov’era, per usare il linguaggio del Buddha, la "comprensione e l’accettazione delle cose così come sono"? Riluttante, molto riluttante, ho iniziato a guardare la sfiducia, con rispetto per la sua forza soverchiante, senza aspettarmi che si dissolvesse sotto lo sguardo gentile della consapevolezza. A posteriori, questa scelta mi sembra un atto di fiducia, ma allora non riuscivo proprio a rallegrarmene, anzi, non mi sembrava proprio una scelta, ma l’unica cosa possibile, una reazione istintiva, come smettere di annaspare e iniziare a nuotare.

Sfiducia. Non mi sembrava sfiducia, e talvolta non mi sembra ancora adesso. La sfiducia, da quanto mi riesce di comprendere, si serve di un travestimento formidabile: i pensieri. Pensieri di sfiducia, ovviamente, e pensieri che alimentano sfiducia. Un circolo vizioso che a ogni giro di vite si rafforza. Corrado mi aveva avvertito: "Attento, sono fili di papañca (la proliferazione mentale), se continui a tirarli, uno dopo l’altro, non ne verrai mai a capo". Ma la sfiducia riusciva a riciclare tutto: suggerimenti, discorsi di Dharma, libri e frasi che un tempo accendevano il mio amore per la pratica. Anche le sedute di meditazione, di volta in volta, venivano sempre più risucchiate dalle sabbie mobili della sfiducia.

Il guaio è che la sfiducia inibisce l’osservazione della sfiducia. Trova modi originali e sofisticati per lasciare inutilizzato lo strumento della consapevolezza. Uno dei tanti è il farci credere che la consapevolezza riguardi gli altri, non noi. Noi non ce la meritiamo. La consapevolezza ci fa stare bene e "noi non ci meritiamo di stare bene": l’aspirazione al bene, proprio e di tutti gli esseri, rimane soffocata dalla nube oscura della sfiducia. Eppure è proprio l’aspirazione al bene, cioè la fiducia, che, attraverso vie perlopiù misteriose, irriga il deserto della sfiducia. È la fiducia che mette in dubbio la validità dei pensieri e ci permette di entrare in contatto con la sfiducia.

Identificato con i pensieri, non riuscivo, se non sporadicamente, a cogliere lo sfondo di sfiducia che li animava. Con questo non intendo dire che i pensieri siano necessariamente falsi, ma che forse il punto non è quello. Il punto è che se attribuiamo loro ‘consistenza’ non possiamo vedere la sfiducia e rimaniamo intrappolati nelle spire della proliferazione mentale. Nel mio caso, i pensieri dominavano la scena e l’idea stessa di sottoporli alla luce della consapevolezza mi appariva alquanto bizzarra.

Sfiducia. Come ho detto, è abile a celarsi dietro i pensieri. Nella mia esperienza, quando la consapevolezza riesce a penetrare la cortina di fumo della proliferazione mentale, mi si rivelano alcuni aspetti del mio rapporto con la sfiducia. In primo luogo, il rifiuto. La pratica mi ha donato momenti di apertura del cuore, e l’attaccamento a questi stati di benessere mi rende difficile annaffiare i momenti di contrazione, di sfiducia, con la consapevolezza gentile. Nel mio caso, il rifiuto della sfiducia, che appartiene al rifiuto verso tutto ciò che è spiacevole, prende la forma del rammarico: provo cioè avversione per quegli avvenimenti esterni che, a mio avviso, avrebbero alimentato la sfiducia. Questo rammarico non può che aumentare la sfiducia, a meno che sia investigato.

Sfiducia. La sensazione frequente di camminare con un macigno di mezzo quintale sulle spalle. Lì per lì lo sopporto, magari anche con il gusto piacevole della sfida. Poi il tempo passa, il macigno resta lì, e un po’ alla volta diventa insopportabile. La sfiducia aumenta. Stanchezza.

Grattando ancora più a fondo, mi è sembrato, e mi sembra tuttora, che la sfiducia non si rafforzi soltanto attraverso la proliferazione mentale e l’avversione, ma si serva anche dell’attaccamento alla fiducia stessa. In momenti di pratica intensiva, nei quali la consapevolezza veniva evocata con una certa costanza (momenti in cui, tra l’altro, la sfiducia si presentava acuta e dolorosa), mi è capitato di osservare con relativa nitidezza la mia dipendenza dalla sfiducia. Mi è apparso piuttosto palpabile il mio desiderio di sfiducia, la scelta continua ed estenuante di navigare per le acque torbide della sfiducia. Questa scelta è presente anche quando la sfiducia non si lascia riconoscere (come avviene invece quando è più acuta), ma si limita a uno strisciante senso di insoddisfazione.

Ajahn Munindo, uno dei primi discepoli di Ajahn Chah e ora abate del monastero buddhista Ratanagiri, in Scozia, fa notare che i momenti di malessere profondo sono indice di una contrazione del cuore, sono cioè una sorta di campanello d’allarme che ci esorta a prenderci cura della mente-cuore e ci richiama a una investigazione silenziosa.

Personalmente, i momenti in cui mi sono reso conto di quel ‘movimento’, di quella tendenza del cuore a seguire ciecamente la strada della sfiducia, sono stati momenti imbevuti di gioia, di gratitudine verso quel dolore che spesso avevo trovato insopportabile e, soprattutto, assoluto. Questa gioia e questa gratitudine che scaturivano dalla comprensione dei meccanismi della sfiducia alimentavano, a loro volta, la fiducia. Fiducia che la sfiducia non è la realtà ultima, non è la Verità.

Fiducia. Forse basterebbe dire che la fiducia emerge osservando la sfiducia. Nella mia esperienza posso dire che è vero, ma difficile, tremendamente difficile. È difficile vedere la sfiducia nuda, non rivestirla con gli orpelli della proliferazione e del rammarico. In parole povere, mi è difficile non essere identificato con la sfiducia.

Per osservare la sfiducia, dunque, ho cercato di utilizzare alcuni strumenti che mi aiutavano a disidentificarmi. Conscio che l’osservazione della sfiducia poggia comunque su una certa fiducia, ho cercato dei modi per evocare la fiducia. Quello con cui mi trovo meglio è la presa dei rifugi. È qualcosa che mi riporta alla mia aspirazione più profonda e, alla luce di questa aspirazione, la sfiducia mi appare una distrazione da osservare. Mi sembra molto utile recitare la presa dei rifugi sia nei momenti di massima sfiducia, sia nei momenti di apertura. Nell’uno e nell’altro caso ho l’impressione di poter indirizzare il contenuto dell’esperienza, piacevole o spiacevole, verso ciò che Corrado giustamente chiama "quello che conta".

Quando la fiducia era ottenebrata da eccessiva proliferazione mentale, ho cercato di coltivare qualità strettamente correlate alla fiducia, come la metta e la pazienza. Nel primo caso, direi che sta diventando una sana abitudine aprire gli occhi al mattino e mandare metta a me stesso, a chi mi sta accanto, e via via a tutti gli esseri. Tra i diversi vantaggi, c’è quello di non dare modo a certe forme di malumore di serpeggiare nascoste nel corso della giornata.

La pazienza mi sembra un perno insostituibile nel lavoro con la sfiducia. In questo senso mi ha aiutato molto il sostegno e l’ispirazione degli insegnanti (Corrado per primo). In momenti di sfiducia acuta, intrisi di rabbia e depressione, ho trovato prezioso evocare l’immagine della pianta avvizzita, che pazientemente attende la fine dell’inverno per rifiorire. È un’immagine che tengo presente anche quando prendo rifugio nel sangha. Nel sangha, per il semplice fatto che pratichiamo, siamo testimoni l’un l’altro della possibilità di superare i momenti più bui, siamo concreti testimoni, in ultima analisi, delle Quattro Nobili Verità.

Quando riesco a rafforzare la pazienza, fiducia e consapevolezza fluiscono più liberamente. Grazie alla pazienza, resisto meglio alla tentazione di alimentare la sfiducia con le solite conclusioni sommarie, quelle conclusioni che mi escludono dalle cose buone, che mi reputano indegno della gioia e della pratica stessa.

Ajahn Chah era solito sottolineare l’importanza dell’osservare i fenomeni al loro sorgere. Quando inizio a scivolare nella sfiducia, mi accorgo che una parte di me ‘vuole’ la sfiducia, dipende da quella cosa ‘conosciuta’, ne trae un illusorio senso di sicurezza. Dato che questa dipendenza mi sembra decisamente paragonabile alla dipendenza dal fumo, in quei momenti iniziali, nei quali la consapevolezza riesce a cogliere cosa sta accadendo, talvolta mi ripeto frasi del tipo "No smoking, please".

Spesso preferisco ripetermi la frase "rimani fermo come un pezzo di legno", frase che traggo da un famoso verso di Santideva: "Quando sto per agire e vedo la mia mente macchiata da impurità, in un tale momento devo rimanere immobile, come un pezzo di legno" (Bodhicaryavatara, V, 34). È l’invito più chiaro che conosca a non alimentare la sfiducia e a non tentare di scacciarla. È un invito che in me desta ‘interesse’ per la sfiducia, che mi incoraggia a stare con essa gentilmente, pazientemente, per tutto il tempo necessario. Allora emerge anche la sensazione di essere ‘lavorato’, forgiato da questo incontro, a volte gioioso, ma più spesso sgradevole, doloroso, tra consapevolezza e sfiducia.

Quando la consapevolezza penetra la sfiducia, scopro una fiducia senza dubbio più autentica, più radicale, rispetto a quella che posso sperimentare senza confrontarmi con la sfiducia. È un po’ come la differenza tra un cielo sereno prima e dopo un temporale. Dopo il temporale, il cielo è più nitido, c’è meno tensione nell’aria, la luce regala nuove sfumature al paesaggio. Alcune volte, però, non scopro nulla: non c’è premio, non c’è sollievo. C’è però un’altra lezione, non meno preziosa: l’importanza di lavorare con la sfiducia per spingersi alle frontiere della propria pratica di Dharma. Lì si assapora la sconfitta, l’impotenza, ma anche qualcosa che forse ha a che fare con la saggezza, con l’umiltà.

Fiducia. Sto scrivendo queste ultime note sul treno, seduto accanto al finestrino. Tra i binari spuntano papaveri e margherite, più in là un gabbiano passa veloce. La fiducia può essere (o forse ‘deve’ essere?) spoglia di aspettative, una ricompensa in sé. Fiducia nella pratica, nel sentiero, senza chiedere al sentiero una destinazione. Una tale fiducia, mi sembra, è l’altra faccia della consapevolezza silenziosa, non giudicante, affettuosa.

Sembra che non sia possibile liberarci dal cappio della sofferenza se non siamo disposti a imparare da essa.

Rodney Smith, Lessons from the Dying.