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Anno 2 Numero 43 Mercoledì 29.01.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati

 

New Economy e Capitale Umano

 

di Roberto Panzarani


“Where is the wisdom we lost in knowledge? Where is the knowledge we lost in information?” T.S. Elliot


Sono migliaia i giovani che lavorano nella Rete. Una nuova “classe sociale” senza orari, spesso senza regole, senza interessi per contratti e sindacati. Cambiano continuamente, non vogliono fermarsi. Tutti con un sogno: diventare miliardari con un’idea. 
Al di là di visioni “mitologiche” c’è da dire che questi ragazzi fanno tremendamente sul serio: oggi cinque dei sei uomini più ricchi del mondo devono il loro benessere all’Information Technology (“Forbes”, 5-7-1999). Ciascuno di loro è partito dal nulla, senza una tradizione imprenditoriale alle spalle, per costruire in pochissimi anni colossi finanziari, capitalizzati in borsa per decine di miliardi di dollari, grazie ad un’idea vincente. Ma l’accelerazione dell’innovazione tecnologica, negli Stati Uniti, non ha solo favorito la crescita di settori individuali all’interno dei quali intelligenza e competenza sono ricompensati molto generosamente. Anche settori più tradizionali sono stati investiti dall’introduzione di nuovi strumenti tecnologici, che hanno messo in moto un gigantesco processo di deburocratizzazione e di snellimento delle imprese che, da una parte, ha ribaltato il principio di anzianità all’interno delle aziende, favorendo i dipendenti più abili di sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie per accrescere la loro produttività. Dall’altra ha avuto una serie di occasioni imprenditoriali per soggetti esterni, capaci di mettere a frutto la flessibilità consentita dalle piccole dimensioni per trasformarla in un’autentica capacità di innovazione. 
L’effetto complessivo è stato quello di un formidabile rimescolamento delle carte, rendite di posizioni consolidate abbattute in una notte, antiche sicurezze sbalzate via per sempre. Non sempre con risvolti felici talvolta con esiti brutali. Fatto sta che da questo rimescolamento si è sprigionata l’energia che ha permesso il più lungo periodo di espansione e di crescita mai registrata negli Stati Uniti in tempo di pace. 
Ma quali sono le caratteristiche principali della New Economy?
BLUR 
Come dicono Chris Meyer e Stan Davis in Blur (Davis, Meyer, 1999): “Velocità, Interconnessione e Immaterialità”, sono queste le tre dimensioni convergenti della nuova economia che stanno rivoluzionando i parametri di riferimento, gli aspetti e i confini di ogni business e di ogni organizzazione. 
La separazione netta tra prodotti e servizi, tra chi compra e chi vende, tra dipendenti e datori di lavoro, fornitori e distributori, alleati e concorrenti, tende ormai a diventare sempre più indistinta. La velocità del cambiamento è senza precedenti e nulla è più stabile, sia nel tempo sia nello spazio. Le conoscenze e l’informazione contano più del capitale fisico. Le transazioni lasciano il posto agli “scambi”. I mercati fisici assumono le stesse caratteristiche dei mercati finanziari. Per non essere sopraffatti dalla velocità del cambiamento e riuscire a valorizzare a proprio vantaggio le opportunità offerte da queste tendenze rivoluzionarie è necessaria una comprensione dinamica delle zone indistinte della nuova economia: Blur, appunto. 
La separazione tra prodotti e servizi è un residuo dell’economia classica, in pratica ciascuno di noi lavora e consuma allo stesso tempo, in un equilibrio dinamico più o meno sostenibile; la realtà è molto più complessa di una catena lineare e l’identità personale non può essere scissa dall’ “identità economica”. 
Nell’economia classica l’organizzazione è sempre stata l’intermediario tra lavoratore e mercato, mettendo insieme il lavoro dei diversi collaboratori e allocando il prodotto finale sul mercato. Questo ruolo non varierà in futuro, le organizzazioni continueranno a esistere per coordinare input e domanda aggregata, ma sarà l’individuo capace di interconnessione, con le sue competenze, l’ ”unità organizzativa” fondamentale, non l’azienda. L’individuo è la “maglia”, il nodo della rete.
Ed è a questo punto che l’individuo dovrà instaurare un nuovo rapporto con il mercato: il bene di scambio diviene la conoscenza, ossia tutto l’insieme di rapporti e di capitale immateriale che ciascuno ha accumulato nel corso della propria carriera. 
Il bagaglio di conoscenze individuali ha un valore che può essere condiviso ricavandone dei vantaggi: il sapere genera valore molto più della terra o del capitale. Quello che si sa conta molto più di quello che si ha. 
Le azioni di valore sono quasi tutte in mano ai singoli individui. Ciò che è importante a questo punto è imparare a gestire questo preziosissimo bene intangibile. 
Sfuma così anche la distinzione tra identità del lavoratore e identità dell’imprenditore: ognuno dovrà essere imprenditore di se stesso. Sarà l’individuo a dover capire l’andamento del mercato, e se le prospettive non sono favorevoli, ad acquisire nuove competenze. Questo implica flessibilità, mobilità e connessione. 
Se fino agli anni ’80 la maggior parte dei lavoratori trascorreva tutta, o quasi, la propria vita lavorativa all’interno della stessa azienda, con prospettive di carriera in senso verticale, oggi possiamo dire che in media l’aspettativa è quella di cambiare azienda almeno dieci volte nella vita, gestendo un percorso di carriera pianificato teso allo sviluppo continuo del proprio “capitale”. E’ ancora possibile parlare a questo punto in maniera distinta di lavoratori autonomi e di lavoratori dipendenti?
Un esempio particolarmente interessante di questo trend possiamo trovarlo nel mondo dello sport dove gli atleti hanno rivendicato il diritto di decidere del proprio destino: il diritto alla libera scelta. 
Il legame tra giocatore e squadra non è più di tipo assolutistico, è il giocatore stesso a dettare le condizioni. Lo stesso avviene nel mondo dello spettacolo. “Un tempo gli attori e le attrici avevano un rapporto contrattuale che lasciava loro un margine di controllo davvero minimo sul lavoro svolto. Il potere cominciò a passare di mano quando Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks e Mary Pickford si resero conto del loro valore sul mercato e costituirono la United Artists. Adesso che sono le star a dettare le condizioni, le società di produzione si occupano soprattutto di distribuzione, mentre le agenzie che rappresentano gli attori sono i soggetti più potenti del settore.” (Davis, Meyer, 1999, pag. 135). 
Il valore si sposta nelle mani del lavoratore.
Il capitale necessario per finanziare la propria crescita e quindi il proprio valore dovrà essere cercato sul mercato stesso, come le aziende, le persone si dovranno rivolgere ai mercati finanziari. Prendiamo ad esempio il caso della rockstar David Bowie che alcuni anni fa decise di quotarsi in borsa: “gli azionisti avrebbero percepito una quota dei suoi redditi futuri provenienti dai diritti d’autore su dischi e audiocassette e dalle royalties sugli incassi dei concerti dal vivo. L’intera emissione fu bruciata in un’ora, a fronte di versamenti per oltre cinquanta milioni di dollari.” (Davis, Meyer, 1999, pag. 130).
Quanti sarebbero disposti ad investire su di voi? 
Nel prossimo futuro assisteremo allo sviluppo di mercati finanziari in cui sarà possibile negoziare in titoli a contenuto personale. E’ già possibile trovare qualcosa di simile su internet, il Wall Street Sports, un “mercato virtuale” in cui è possibile scambiarsi le “azioni” di settecento atleti di baseball, di football, dell’hockey, di basket, del golf, ecc. Al momento dell’iscrizione al sito gli “azionisti” ricevono un milione di dollari in dotazione, e possono continuare a vendere o comprare fino ad esaurimento del capitale. 
In Italia lo scenario è molto diverso da quello Statunitense, il contesto è ancora dominato prevalentemente da un’economia basata su piccole e medie imprese, e l’attenzione è focalizzata sulla valorizzazione del bene materiale, piuttosto che sulle risorse intangibili. Siamo ancora agli inizi del cammino verso la creazione della società dell’Informazione, che potrà essere considerata tale “non perché non si scambiano più prodotti materiali, ma perché il valore dello scambio di informazioni, a cominciare dal contenuto stesso di informazioni nei prodotti scambiati, supera di gran lunga il valore dei prodotti stessi.” (Martelli, 1999). Tra le aziende italiane che hanno fatto del capitale intangibile il proprio core business, troviamo ad esempio Tiscali, Finmatica, Fineco Online, e Biscom, e più in generale il mondo delle telecomunicazioni. Ancora non è misurabile però come tutto questo possa essere collegato alla valorizzazione dello Human Capital.
Oggi anche alcune grandi aziende (Telecom Italia, Barilla, Rai, Fiat, Sviluppo Italia, Poste Italiane, Fendac Servizi, Isfol, Confartigianato, Merloni, ENI, Autostrade, ecc.) stanno reagendo a questi cambiamenti culturali; L’Ernst & Young Consultants - Business Innovation ha con loro e con altre aziende, lanciato in Italia il programma “Innovation Partnership” (collegato direttamente all’IP Program del Center for Business Innovation - Ernst & Young di Boston, diretto proprio da Chris Meyer) che si propone di guidare le aziende verso la nuova economia attraverso l’aggiornamento continuo sui temi più caldi del cambiamento in atto, come i nuovi modelli organizzativi e la valorizzazione delle risorse umane. 

FUTURE WEALTH 
In Future wealth, un’altro bestseller degli stessi autori di Blur, appena uscito negli Stati Uniti (uscirà in Italia ad Ottobre) e il tanto atteso seguito del famoso libro di Davis Future Perfect, Davis e Meyer approfondiscono la tematica dello Human Capital nel futuro della New Economy. Davis e Meyer in questo nuovo libro ribadiscono che la creazione della ricchezza, nell’era dell’Informazione integrata, è affidata più ai mercati finanziari (la rilevazione, la negoziazione e la gestione dei rischi) che a quelli reali (produzione e consumo di beni); le aree di creazione della ricchezza si spostano dai redditi da lavoro (salari) ai redditi non da lavoro (investimenti); e queste stanno passando dalle istituzioni agli individui. 
Le comunicazioni sono ormai talmente ramificate che ognuno, da ogni parte del mondo, può commerciare in qualsiasi cosa. In questo nuovo scenario la forma più importante di capitale è divenuta il capitale umano: le persone devono essere considerate come un asset a tutti gli effetti.
Le regole sociali che governavano la ricchezza in un mondo un tempo fisicamente piuttosto stabile stanno vacillando.
Come questi trend si sveleranno assisteremo a tre enormi cambiamenti che influenzeranno la nostra economia e la nostra società. 
Primo, dovremo cominciare a considerare il rischio non più come minaccia (come nel mondo reale), ma come opportunità (come nel mondo finanziario).
Secondo, vedremo i mercati efficienti sviluppare in modo sistematicamente crescente una risorsa, come già accennato, troppo a lungo trascurata: il capitale umano. 
Terzo, la necessità di nuove forme di capitale sociale: dovremo sviluppare nuove reti sociali di sicurezza in modo che la società naturalmente sarà propensa ad assumere rischi sempre maggiori in vista di ricavi crescenti.
La combinazione di questi fattori cambierà per sempre il modo in cui si crea, si accumula, si controlla e si distribuisce la ricchezza, sia da parte degli individui che delle società. 
Davis e Meyer descrivono un mondo, in un futuro non troppo lontano, nel quale scambieremo tutti i beni di valore - inclusi il capitale umano, il talento, ed altre beni non tangibili - nei mercati efficienti. Le aziende dovranno investire direttamente sui loro dipendenti, ad esempio sempre più in formazione e sviluppo, e gestire le business unit come unità di rischio finanziario, il cui valore sarà comunque pari alla qualità del capitale umano interno. 
Gli individui dovranno invece investire sempre meno nel lavoro in sé, in termini di mansioni, quanto invece nel proprio capitale intellettuale. 
Man mano che la gente comune familiarizzerà maggiormente con gli investimenti, inizierà anche ad accettare rischi maggiori in vista di maggiori guadagni, capovolgendo il concetto di rischio da minaccia ad opportunità. La ricchezza futura non dipenderà esclusivamente dalla propensione al rischio, ma anche da reti sociali sempre più forti, disegnate per bilanciare nuove libertà individuali in pari proporzione.
La New Economy porterà ad ogni individuo nuove opportunità per ottenere vantaggi senza precedenti, nel modo di lavorare e guadagnare, di spendere e risparmiare, gestire le aziende, pianificare ipoteche, tasse, pensioni e quant’altro. Descrivendo sia le enormi opportunità che le potenziali conseguenze di questo nuovo mondo così eccitante, Davis e Meyer sottolineano i principi che aiuteranno ad accrescere il valore del capitale umano e delle aziende, e di conseguenza, il valore della società.
Per quanto riguarda l’Europa è bene comunque fare alcune riflessioni su come è considerato questo aspetto dello human capital.

LA FUGA DEI CERVELLI DALL’ EUROPA
La fuga dei cervelli ha assunto in Europa continentale dimensioni preoccupanti. Una recente indagine condotta dalla business school IMD ha rivelato che, mentre gli Stati Uniti sono il paese dal quale i lavoratori si spostano meno volentieri, i paesi europei sono considerati molto meno attraenti. La verità è che tutti gli stati europei oggi sono in trincea di fronte ad un paese, gli Stati Uniti, che catalizza sempre più energie intellettuali.
Secondo una ricerca della National Science Foundation i lavoratori stranieri attualmente impiegati negli Stati Uniti sono circa un terzo del totale. “Nel 1995 era straniero il 39% dei dottorandi in scienze naturali, il 50% di quelli in matematica e in informatica, il 58% di quelli in ingegneria. Tanto per farsi un’idea, i dottorandi in scienze naturali stranieri, in Germania, sono il 6,8%, quelli di ingegneria l’11,7%. L’unico paese europeo che presenta percentuali di ricercatori stranieri analoghe a quelle americane è la Gran Bretagna. Ma quello inglese, come sappiamo è un caso a parte. Più simile per certi aspetti, a quello americano che a quello continentale…
Gli Stati Uniti certo possono vantare una lunga tradizione di accoglienza di ricercatori provenienti da ogni parte del mondo. Durante il primo dopoguerra, il paese trasse grandi benefici dall’esodo di scienziati ebrei in fuga dal vecchio continente. Costoro diedero il più grande contributo alla storia della scienza e della fisica in particolare. Basti pensare a Einstein, Fermi, Weil…
L’apertura della comunità scientifica americana ha consentito la costituzione, fin da allora, di centri di eccellenza di livello mondiale, costruiti con il contributo di scienziati di tutte le nazionalità. Questa grande apertura ha consentito agli Stati Uniti di restare un polo di attrazione, anche quando la situazione si è stabilizzata nella maggior parte dei paesi europei.
Oggi gli europei più brillanti non si dirigono più verso l’America per sfuggire alle persecuzioni e alle dittature. Fuggono al contrario, da una realtà pacifica e tranquilla. Troppo tranquilla forse… “ (da Empoli, 2000). 
Secondo il mensile “Science”, gli stranieri sono sovrarappresentati tra i membri più illustri e retribuiti della comunità scientifica americana. Questo significa che oltre ad impiegare ricercatori scientifici stranieri, gli Stati Uniti offrono a questi anche la possibilità di accedere alle posizioni più elevate della gerarchia scientifica. In Europa, al contrario, la situazione che si prospetta alla maggior parte dei ricercatori è quella di anni di precariato, sottostimati e sottopagati, condannati alla frustrazione. 
Se osserviamo questa situazione e la confrontiamo con l’attrazione esercitata dagli Stati Uniti, in particolare verso i tecnici europei più “business oriented”, non c’è quindi da stupirsi se la bilancia che misura il flusso di know-how e di servizi tecnologici che entrano ed escono da un paese, è oggi in netto deficit nei principali paesi europei e in forte attivo negli Stati Uniti. Questo è solo uno degli indicatori che segnala il ritardo del sistema produttivo europeo rispetto a quello americano, nei settori ad alto contenuto tecnologico. 
“La fuga dei cervelli non è la sola spiegazione di questo ritardo. Ma ne rappresenta certamente una delle cause principali.” (da Empoli, 2000).
I contributi che verranno presentati di seguito in questo numero di Ingenium, sono focalizzati sulla gestione delle risorse umane e sulla conoscenza. 
Il nostro contributo ha voluto sottolineare come la gestione delle risorse umane sia già profondamente condizionata a priori dalla visione che un paese ha riguardo ai settori scientifici e riguardo alla ricerca, e dall’attenzione che investe sui suoi talenti nazionali. 
Data la situazione europea riteniamo che l’impegno che le aziende dovranno sostenere in tal senso nei prossimi anni, in particolar modo in Italia, avrà un valore sempre più strategico e determinante per il nostro futuro. 

Bibliografia
da Empoli G., La guerra del talento. Marsilio, Venezia, 2000.
Davis S., Meyer C., Blur. Ed. Olivares, Milano, 1999.
Davis S., Future Perfect. Perseus Press, Boston, 1997.
Davis S., Meyer C., Future Wealth. HBS Press, Boston, 2000.

 

 


Roberto Panzarani

da molti anni opera nella formazione in Italia. E’ stato tra l’altro responsabile della formazione in Alitalia, dove ha fondato l’Alitalia Business School. E’ stato presidente dell’Aif (Associazione italiana formatori). Attualmente è responsabile del settore Business Innovation presso la Cap Gemini Ernst & Young e lavora con il top management delle principali aziende italiane. È Presidente di Governance l’associazione italiana per promuovere la crescita delle conoscenze e delle competenze per l’esercizio delle responsabilità direzionali.

 

 

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