Anno 2 Numero 46 Mercoledì 19.02.03 ore 23.45

 

Direttore Responsabile Guido Donati
 

"RICORDATI DI ME": CON MUCCINO IL CINEMA ITALIANO SPECCHIO IMPIETOSO DELLA SOCIETÀ

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Titoli di testa. Una voce fuori campo, coadiuvata dall'occhio rivelatore della macchina da presa, presenta impietosamente, uno ad uno, i componenti della famiglia Ristuccia un minuto prima del quotidiano risveglio mattutino. Ed è subito "orrore". Papà Carlo e mamma Giulia: l'uno - interpretato da Fabrizio Bentivoglio in piena forma - funzionario frustrato di un'impresa finanziaria con velleità mai soddisfatte di scrittore, l'altra - di cui calza i panni in maniera esemplare Laura Morante che, a suo dire, ha considerato questa una delle prove più difficili della sua carriera - docente di scuola superiore con la passione del teatro strozzata dall'unione con Carlo. Entrambi sopravvivono insieme a un matrimonio-decesso dei loro sogni e ambizioni. Poi troviamo il primogenito Paolo (Gabriele Muccino, sempre in parte), tanto vicino anagraficamente alla maturità quanto lontano emotivamente e idealmente da essa, che si danna pur di trovare un senso alla sua esistenza. Infine, Valentina, l'esordiente Nicoletta Romanoff: dei quattro, la più tristemente lucida e determinata nel tentativo di realizzare, costi quel che costi, una carriera nello "star-system" televisivo. 
Questa, dunque, la famiglia Ristuccia? Non proprio, ci lascia intendere Gabriele Muccino, regista e sceneggiatore di "Ricordati di me", la sua terza fatica cinematografica. È solo un esempio di un tragico, non solo perché standardizzato, modus vivendi di una famiglia medio-borghese romana, che senza l'apporto di sofisticate modifiche potrebbe essere italiana, europea, americana, in definitiva, occidentale. 
Dopo aver gettato il suo occhio acuto e indagatore prima sul disadattamento della generazione degli adolescenti in "Come te nessuno mai", poi su quello dei trentenni con la sindrome di Peter Pan, ne "L'ultimo bacio", l'indagine di Muccino in questo film si rivolge, solo apparentemente, al microcosmo di una famiglia che non esiste più, in cui regna l'incomunicabilità e la mancanza di complicità, per renderla in realtà specchio di una società e di una cultura contemporanee prive di valori, di sostanza, nelle quali dominano indiscussi l'individualità, l'egocentrismo e il vuoto dei falsi miti. Un mondo dove il peccato più grosso è non essere nessuno, non suscitare attenzione, non essere degno di ricordo, sentirsi nulla. Ciascuno a modo suo necessita di conferme, di approvazione, del riconoscimento del proprio esistere da parte degli altri. E se Carlo lo esprime intessendo una relazione extraconiugale con la vecchia fiamma Alessia, (che ha le "forme" di Monica Bellucci), Giulia lo fa ricominciando a recitare, Paolo dedicandosi anima e corpo nell'organizzazione di un festino con gli amici e Valentina vendendosi al miglior offerente per fare la valletta. 
È la normalità, la prevedibilità, la scontatezza più aberrante a farsi soggetto unico di un film pienamente riuscito nell'intento di essere "banale e prevedibile" perché cantastorie di percorsi di vita altrettanto banali e prevedibili. La macchina da presa non si ferma mai. Abilissima nel rincorrere a velocità sostenuta i tristi obiettivi dei suoi personaggi, improvvisamente interrompe la sua corsa al cospetto di un letto d'ospedale, in cui Carlo, dopo una furibonda lite con la moglie, finisce a causa di un incidente. Tutto e tutti si fermano, riflettono, si riuniscono intorno all'inaspettata tragedia, come nelle migliori famiglie. Catarsi? Restaurazione di un nucleo affettivo forse mai composto ed esistito? La risposta è tutta negli ultimi fotogrammi della pellicola che si chiude sull'espressione del volto quanto mai esplicita e rivelatoria di uno strepitoso Fabrizio Bentivoglio. (sim.pan.\aise)

 

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