L'ITALIANO "CANTATO"
di Gianni Borgna
Ha notato una volta Tullio De Mauro che per la canzone italiana la rottura con la tradizione aulica e con l'armamentario letterario tradizionale si compie solo tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60: mezzo secolo dopo Gozzano. E' un'osservazione pertinente ma, come cercherò di mostrare, solo in parte esatta. Ad ogni modo, il calcolo che sta probabilmente dierto alla riaffermazione della canzone "all'italiana" negli anni '50 serve anche a spiegare la forte sottolineatura politica che assumerà, all'inizio degli anni '60, la "rivoluzione" della canzone d'autore. Che di "rivoluzione" si tratti - qui De Mauro ha pienamente ragione - non ci sono dubbi. La dimensione, anche linguistica, dei cantautori è la quotidianità. Nell'impianto formale delle loro canzoni domina la prima persona singolare. L'interlocutore, il tu, è il compagno o la compagna, qualche volta un oggetto o un luogo idealizzato, personalizzato nella memoria, come la Vecchia balera di Endrigo. Soltanto nelle canzoni di De André troviamo un impianto più mosso: il "noi" della Canzone del Maggio, l'improvvisa rottura del racconto-rievocazione tra terza e seconda persona con una lirica e drammatica intrusione dell'apostrofe in prima persona a Ninetta nella ballata di Piero, modulo che gioca in senso ironico nella ballata di Re Carlo.ni degli anni '30 e '40 o non rappresenta piuttosto una reazione salutare alla dilagante esterofilia?
La frase è di una estrema linearità sintattica, il ritmo nasce sempre con le parole, non prima e non dopo, le parole sono di largo accesso o, se auliche, sono sempre ironizzate. Si sente in tutto ciò anche la funzione svolta, sia pure sotterraneamente, dalla televisione.
In effetti, la documentazione di troncamenti abusati, di "cuor", di "amor", e, in omaggio all'ideologia dell'epoca, di "redentor", si spinge, come sempre De Mauro mette in rilievo, fino agli anni '60. Claudio Villa, in testa alle classifiche, canta: "Che cosa vuol dir / mi par di capir".
Si danno ancora, anzi "ancor" (Panzeri-Mascheroni), baci con "ardor" (Fusco-Testoni) che fanno "morir" (D'Arena-Testoni). E c'è ancora chi vuole acquistare "una nuvola in ciel / per festeggiare la luna di miel", anche se poi questo qualcuno, per una sorta di contraddizione in termini, è Umberto Bindi, uno dei padri della canzone d'autore.
Perfettamente in linea con la tradizione, del resto, è, lungo tutti gli anni '50, il Festival di Sanremo, cioè la manifestazione più importante per il mondo della musica leggera, e non solo nazionale. "Il mare urlava cupo quella sera / e il legno dell'incognita straniera / cercava aiuto in tutto quell'orrore" (...E la barca tornò sola, Ruccione-Fiorelli); "Tu mi giurasti eterno amore e fedeltà, / ed or mi sfuggi senza un'ombra di pietà" (Il torrente, Carmi-Lima); "Son tutte belle le mamme del mondo / quando un bambino si stringono al cor. / Son le
bellezze di un bene profondo, / fatto di sogni, rinunce ed amor" (Tutte le mamme, Bertini-Falcocchio): sono solo alcuni dei tanti esempi che si potrebbero fare.
Però è anche vero che canzoni italiane come le intende De Mauro (in rapporto stretto con il linguaggio della prosa, con l'italiano finalmente "vivo e vero") se ne trovano già nei primi decenni di questo secolo: soprattutto a cavallo tra l'inizio e la fine del primo conflitto mondiale.
Cos'è infatti che accomuna canzoni del tipo Come pioveva e Cara piccina? Sicuramente l'elemento linguistico: un italiano finalmente depurato dagli arcaismi e dai moduli letterari, colloquiale, intriso di spirito quotidiano. In Come pioveva, ad esempio, come del resto in molti altri brani di Gill, la scelta di raccontare, di esporre un episodio svolgendolo compiutamente, è addirittura esplicita, programmatica, come anche la tecnica di inserire nei versi il dialogo, alla maniera dei crepuscolari. E poi c'è l'elemento squisitamente musicale. Queste canzoni sono le prime ad essere concepite con frasi melodiche più brevi, sono cioè le prime ad essere adatte alla danza. Di qui la loro spiccata originalità e la loro evidente modernità.
Tutto ciò non è affatto casuale. Il periodo giolittiano e poi soprattutto la Grande Guerra favorirono straordinariamente il definitivo passaggio dall'italiano aulico e dai dialetti all'italiano popolare unitario (ricco di regionalismi e gergalismi ma non regionale). Di ciò, come è noto, ebbero più chiara consapevolezza i crepuscolari e, più di tutti, Gozzano. Il largo ricorso alla colloquialità si accompagna in lui alla coscienza dell'ormai avvenuto invecchiamento dell'armamenrario linguistico tradizionale della versificazione nazionale.
Tra le "buone cose di pessimo gusto" del salotto di Nonna Speranza c'è anche questo, ci sono gli "innamorati dispersi gementi il cor e l'augello", ci sono i "dolci bruttissimi versi" che val la pena rammentare: "Caro mio ben / credimi almeno, / senza di te / languisce il cor! / Il tuo fedel / sospira ognor / cessa crudel / tanto rigor!"
Del resto, nella mia Storia della canzone italiana (Laterza, Roma-Bari 1985) ho scritto che la prima canzone italiana può essere considerata Santa Lucia: "Sul mare luccica / l'astro d'argento...", un brano addirittura del 1848. E questo, anche se si tratta di un punto di riferimento più ideale che sostanziale, perchè la forma in cui è concepito non è più quella della melodia popolare o della romanza colta ma decisamente quella, appunto, della canzone, e poi perchè la lingua di cui si serve è l'italiano, un italiano ancora letterario ma già sufficientemente prossimo ai modi del parlato.
Insomma, riguardo alla tesi di De Mauro, sarei più propenso a credere che, sia sul piano musicale che sul piano linguistico, nella canzone italiana tra tradizione e rinnovamento c'è stata lotta, e questa lotta è durata, appunto, almeno cinquant'anni.
De Mauro, infatti, ha ancora ragione quando ci ricorda che Bixio e Cherubini nel 1921 non trovavano disdicevole esprimersi in versi tipo "qual seduzion ognun prova dell'alcova", o Rulli e Borella, nel 1922, parlare del tabarin come di una "beffa atroce all'uman dolor", per non dir di Warren, Zorro e Dubin che ancora nel 1932, nella Celeberrima Sciangai-Lill, scrivevano: "Occhi a mandorla che invan / tenti di tener lontan / se ti fissano un istante / il cor ti fan tremar". Però in quel decennio appaiono anche Spadaro e De Angelis, lo swing e il sincopato, il surrealismo di Mascheroni e quello, jazzistico per giunta, di Kramer. E immediatamente dopo Rabagliati, Natalino Otto, il Trio Lescano: l'equivalente, per intenderci, di quel che Vittorini e Pavese rappresentarono in quegli anni in campo letterario per gruppi di giovani e di intellettuali assetati di novità. E questa, tra l'altro, è anche una chiara dimostrazione di come, in realtà, i nessi tra storia generale e storia del costume e dell'arte non siamo poi così meccanici come si potrebbe pensare. Gli anni di cui stiamo parlando sono infatti gli anni del fascismo; anzi, gli anni del "consenso", come oggi abitualmente si dice. Eppur le canzoni più significative di questo periodo col fascismo hanno davvero poco da spartire. Si
direbbe piuttosto che si tratti di canzoni, come solevano talvolta definirle gli stessi critici fascisti, "antifasciste". Si pensi, ed è solo un esempio, che proprio l'anno della nostra entrata in guerra, il 1940, è tutto un fiorire di Ba-ba baciami piccina, di Ti-pitin, di Tulipan: forse proprio per dimenticare.
E si pensi, ed è solo un esempio fra i tanti, ai cavalli di battaglia del Trio Lescano: Ma le gambe (Bracchi-D'Anzi 1938), nella quale si inneggia alla donna in tutta la sua fisicità, o La gelosia non è più di moda (già il titolo è piuttosto singolare: siamo nel 1939), di Schisa, Rastelli e Panzeri: "La gelosia non è più di moda / è una follia che non si usa più / devi aver il cuor contento, stile Novecento, / per goder la gioventù". Più o meno negli stessi termini si era gin espressa Ria Rosa in Preferisco il '900 (1937) di Fusco e Valente. E addirittura con le stesse parole Bracchi e D'Anzi avevano tratteggiato nel 1938 la Signorina grandi firme, appena uscita dalla matita di Boccasile e dalla prima pagina del settimanale di Pitigrilli (il simbolo della donna prosperosa, spigliata, allegra, l'antitesi della donna-crisi): "il tuo stile Novecento, / ha portato un turbamento, / in ogni cuor" (in questo caso sulla tronca si può persino sorvolare). Lo "stile Novecento" è fatto di sano pragmatismo. E' pratico, sobrio, antiretorico. Con il fascismo ha davvero poco a che fare. Ma anche, più in generale, con la tradizione.
E allora la mia tesi è che il successo che negli anni '50 la canzone "all'italiana" (fatta, come scrive Leydi, d'un "melodismo vecchio e di maniera", impostata su scelte di contenuto artificiose e monotone e su scelte verbali obsolete) torna a conoscere non è un prolungamento naturale del successo precedente, ma il frutto di una precisa scelta politica: quella di usare la canzone a fini di retroguardia, per allinearla alla concomitante restaurazione economica e politica.
E che la scelta cada sulla canzone non è casuale. In quegli anni (basti pensare alla polemica sul "culturame"), letteratura, teatro, cinema, intrisi di neorealismo, svolgono un ruolo di opposizione, un ruolo critico, e non sono
facilmente controllabili. La canzone lo è, o, almeno, lo è indubbiamente di più. Sia per la standardizzazione industriale che ne è alla base, sia perchè i suoi canali di promozione (quasi esclusivamente, in quegli anni, radiotelevisivi) sono in mano al Governo. In verità, anche in questo caso la situazione è un tantino più complessa. La canzone "all'italiana", come già negli anni '30, rispondeva anche a un autentico bisogno della sensibilità popolare. La vocalità tenorile, i ritmi precisi delle danze folcloriche, il suono brillante della fisarmonica erano uno spontaneo manifestarsi dell'anima popolare che nessun ordine dall'alto avrebbe potuto imporre in modo cosi perentorio. Claudio Villa, come prima di lui Carlo Buti, divenne perciò l'eroe dei giovani dei quartieri periferici delle grandi città o dei piccoli centri agricoli, di giovani che, per lo più digiuni di musica operistica, soddisfacevano cosi il loro istinto melodrammatico, attraverso un repertorio continuamente in bilico tra i ritrosi amori paesani e le rissose passioni rionali. Non è un caso che i "ragazzi di vita" dell'omonimo romanzo di Pasolini, o di quello successivo, Una vita violenta, intonino pressoché esclusivamente le canzoni di Villa, comprese quelle dei Festival di Sanremo. E non è nemmeno un caso che Pasolini, nel novembre del 1960, prenda clamorosamente le difese del "reuccio della canzone", in nome, gramscianamente, dell'arte nazionale e popolare.
Qui si aprirebbe, a sua volta, una questione alquanto complessa, che posso solo accennare: la canzone regionale che si riafferma prepotentemente all'indomani della seconda guerra mondiale (dalla Toscana al Friuli, dal Piemonte alla Liguria, dal Lazio alla Campania, dal Veneto all'Emiia) è un passo indietro rispetto alle audaci innovazioni degli anni '30 e '40 o non rappresenta piuttosto una reazione salutare alla dilagante esterofilia?
I modi e le locuzioni sono accentuatamente colloquiali. Eccone un piccolo catalogo. Endrigo: "potete anche gridare / fare quello che vi pare", "la pura verità", "pensa noi due a salutare"; Bindi: "con una stretta di mano, / da buoni amici sinceri, / ci salutiamo..."; Lauzi: "quando mamma mia per sempre se ne andò", "noi la si guardava", "era speciale come parlava di te"; Tenco: "Io sì che t'avrei fatto vivere..."; Paoli: "state tranquilli che siete voi / voi gli unici padroni / padroni del mondo". In questi versi si sentono echi dei maggiori lirici italiani del Novecento, da Saba fino al Montale di Satura.
Quotidiane sono anche le situazioni descritte. Si parte sempre da fatti, da oggetti reali: un pullover, un sasso, un barattolo, un coniglio rosa, un cane di stoffa. Ma non ci si ferma lì. Come nell'ermetismo, l'oggetto diventa simbolo e acquista uno spessore metafisico. I sassi sono un modo per parlare dell'incomunicabilità, il rotolio di un barattolo per raccontare la fine di un amore. La balera è la metafora di una dolorosa educazione sentimentale; le deambulazioni serali, alla ricerca di "qualcuna come te", di un itinerario dell'anima, di un andare a ritroso verso il tempo felice, verso la giovinezza, di cui è possibile ripercorrere, come in uno specchio, come in una lastra fotografica, la memoria soltanto, l'immagine irripetibile definitivamente consegnata alla fissità del tempo.
Mi sono soffermato così a lungo sui cantautori per più di un motivo. In primo luogo, come ho cercato di dimostrare, per il valore anche linguistico della rivoluzione da essi apportata. Ma poi, soprattutto, perchè, con loro, si stabilisce (o, forse, sarebbe meglio dire, si ristabilisce) una rigida linea di divisione tra canzone d'arte e canzone di consumo, o canzonetta che dir si voglia. Una linea di divisione che, per i motivi che sappiamo, assumerà col tempo una marcata coloritura politica, soprattutto per l'intreccio, che a un certo punto diverrà inestricabile, tra canzone beat e di protesta e umori sessantotteschi.
Ma non sarà, nella storia della canzone italiana, l'ultima rivoluzione. Lucio Battisti andrà ancora oltre. Fino agli anni '60 la canzone era prevalentemente canzonetta. Con gli anni '60 alla canzonetta si affianca la canzone d'arte (o d'autore). Con Battisti (tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70) si opera una sintesi straordinaria tra queste due forme di canzone. Con Battisti e, naturalmente, con Mogol, il suo paroliere.
Nelle canzoni di Mogol-Battisti, irripetibile impasto di kitsch e di "sublime", l'ermetismo e "Grand Hotel", Montale e Liala si tengono splendidamente per mano. La poesia più alta, il messaggio più complesso vengono come ritradotti e portati al livello della massa. Ma l'impressione che se ne ricava non è tanto quella di una banalizzazione. L'operazione non procede dall'alto verso il basso.
E' più complessa, più sfaccettata. Di fronte a versi come "e guidare a fari spenti nella notte / per vedere se poi è cosi difficile morire" (da Emozioni) , o "all'uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri, / io cercavo soltanto il coraggio per imitarli" o ancora "l'infinito trova spazio dentro me, / ma il coraggio di vivere quello ancora non c'è (da I giardini di marzo), l'impressione che si ricava è quella di un pastiche miracolosamente riuscito tra quelle che Gramsci chiamava rispettivamente le "filosofie dei filosofi" e le "filosofie di massa".
Che la cosa non sia ininfluente lo dimostra il fatto che da allora a oggi questa sorta di canzone anfibia si è insediata stabilmente nel panorama della nostra musica leggera, a fianco della canzonetta e della canzone d'autore, fino ad assumere un peso egemonico, ancor più rilevante di queste ultime. Altrove ho mostrato, ad esempio, che le canzoni di Loredana Bertè sono altrettante traduzioni dei saggi di Agnès Heller. E che persino quelle all'apparenza più commerciali (un esempio per tutti, Viola Valentino) sono in realtà assai complesse e sofisticate (nel caso specifico parlerei di una sorta di post-femminismo).
Ancora una volta ci si domanda se tutto ciò sia indice di arretramento, di "riflusso" (con annessa spoliticizzazione) o non piuttosto, nonostante tutto, di un elevamento del gusto e della culture di massa. Ma, come la domanda, anche la risposta è inevitabilmente problematica e ambigua. E sta forse in questa ambiguità il lato più caratteristico della canzone italiana, oggi.